Lettera al futuro · RICERCA Federico Bertolazzi; ... nari, ciascuno accentato sulla seconda e...

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Suplemento da Revista Comunità Italiana. Não pode ser vendido separadamente. ano VI - numero 48 Don Milani Lettera al futuro

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Don MilaniLettera al futuro

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Lena Jesus Ponte

Pousa a ave no mármore.Num leve tremor, a estátua

sente o que é ter vida.

Posa l´uccel sul marmo.In un lieve tremore, la statuaprova ciò che vuol dir vita.

Dicembre / 2007

Istituto Italiano di CulturaEditora Comunità

Rio de Janeiro - Brasil

[email protected]

Direttore dell’IICRubens Piovano

EditoreMarco Lucchesi

RedattoreAndréia Guerini

Anna Palma

GraficoAlberto Carvalho

CopertinaIllustrazione

COMITATO DI REDAZIONEAndrea Lombardi (UFRJ); Anna Palma; Annita Gullo (UFRJ); Arcangelo Carrera; Constança Hertz (UFRJ); Cristiana Cocco (UFF); Cristiane Magalhães; Doris Natia Cavallari (USP); Esman Dias (UFPE); Eugenia Maria Galeffi (UFBA); Fabio Andrade (UFPE); Fabrizio Fassio; Flora De Paoli Faria (UFRJ); Giuseppe Fusco; Giuzy D’Alconzo; Hilário Antonio Amaral (UNESP); Katia d’Errico; Livia Apa (Istituto Orientale di Napoli); Maria Lizete dos Santos (UFRJ); Maria Pace Chiavari (IIC-RJ); Mauricio Santana Dias (UFF); Mauro Porru (UFBA); Paola Micheli (Siena); Paolo Spedicato (UFES); Rubens Piovano; Sonia Cristina Reis (UFRJ); Wander Melo Miranda (UFMG); Débora Ramos (collaboratore); Adriana Neves (stagista); Andressa Abraão (stagista); Graciela da Silva (stagista); Luana Rosa (stagista); Paulo Ponteiro (stagista); Thalys Pontes (stagista)

COMITATO EDITORIALEAffonso Romano de Sant’Anna; Alberto Asor Rosa; Beatriz Resende; Dacia Maraini; Elsa Savino; Everardo Norões; Floriano Martins; Francesco Alberoni; Giacomo Marramao; Giovanni Meo Zilio; Giulia Lanciani; Leda Papaleo Ruffo; Luciana Stegagno Picchio; Maria Helena Kühner; Marina Colasanti; Pietro Petraglia; Rubens Piovano; Sergio Michele; Victor Mateus

GRuppO DI TRADuZIONI

Antonella Genna; NUPLITT - Núcleo de pesquisa em literatura e tradução da UFSC (Universidade Federal de Santa Catarina): Andréia Guerini, Cláudia Borges de Faveri, Marie-Hèlene C. Torres, Mauri Furlan, Walter Carlos Costa e Werner Heidermann.

RICERCA

Federico Bertolazzi; Nello Avella; Rino Caputo; Università Roma II “Tor Vergata”

ESEMpLARI ANTERIORI

Redazione e AmministrazioneRua Marquês de Caxias, 31Centro - Niterói - RJ - 24030-050Tel/Fax: (55+21) 2722-0181 / 2719-1468Mosaico italiano è aperto ai contributi e alle ricerche di studiosi ed esperti brasiliani, italiani e stranieri. I collaboratori esprimono, nella massima libertà, personali opinioni che non riflettono necessariamente il pensiero della direzione.

SI RINGRAZIANO

ABPI, ACIB, Imprensa Oficial do Estado do Rio de Janeiro, UFBA, UFF, UFRJ, IIC, USP.

STAMpATORE

Editora Comunità Ltda.

ISSN 1676-3220

Nato a Palermo il 18 novembre 1912 da genitori agrigentini, Edoardo Cacciatore si trasferisce con la famiglia a Roma nel 1917, dove, fino alla morte il 25 settembre 1996, vive in maniera

sempre appartata insieme alla moglie Vera Signorelli, anch’ella scrittrice, con la quale frequenta l’ambiente artistico e letterario romano e internazionale. Il trauma della morte del fratello nel 1928 contribuisce a indirizzare il suo interesse alla riflessione filosofica, pratica intellettuale costante nella sua vita che, unita indissolubilmente all’ingente attività poetica,

segna uno dei tratti distintivi fondamentali della sua produzione e, insieme, uno dei principali motivi della sua pressoché totale emarginazione dal panorama critico-letterario italiano.

L’enjambement nella poesia di Edoardo

Cacciatore: l’apertura della forma chiusa

Giovanni Zambito

Lungo tutta la parabola della sua esperienza poetica egli si è sempre mosso esclusiva-mente all’interno delle forme chiuse, rego-

late da sistemi di norme fisse, contribuendo al contempo ad allargarle, ampliandone gli oriz-zonti e le potenzialità. Il rispetto rigoroso dei canoni metrico-formali da parte sua è accom-pagnato da forme fluide che consistono in un inedito sistema strofico, metrico e rimico attra-verso il quale reinventa e rimodella tecniche scrittorie che si avvolgono in spirali di suoni, eco e ritmi, dando a quelle forme movimen-to e dinamismo, un aspetto rigenerato, nuovo nella sua esagerazione formale. Ma è soprat-tutto il loro significato teorico-poetico che è cambiato: lo scopo di un uso così insistito e inflessibile di forme regolate non è più tanto estetico, quanto funzionale al progetto globa-le della scrittura, ovvero una via pionieristica di conoscenza. Lo stesso Cacciatore afferma “Se ad ognuno è lecito incarnare l’espressione poetica nella forma arbitrariamente più predi-letta, tuttavia è giusto asserire la forma chiusa esser proprio quella che può procurare il mas-simo di apertura conoscitiva”. La forma chiusa allora, lungi dall’essere considerata una gab-bia restrittiva che impedisce la libera espansio-ne dell’Io lirico, appare al contrario una fertile trama di rapporti che gradualmente s’instau-

ra nel processo della scrittura; una costruzio-ne dove le rispondenze foniche, ritmiche e ri-miche stabiliscono una novità di legami che garantisce al testo “il massimo di apertura co-noscitiva”. La chiusura dunque risulta sempre funzionale e prodroma di un’apertura, giustifi-cata e anzi generata dai meccanismi artificio-si della forma chiusa, in modo che secondo Tommaso Ottonieri “ogni chiusura schiuda un margine ulteriore, da cui revertire il senso non appena lo si sia acquisito”.

Tra le raccolte poetiche di Cacciatore La puntura dell’assillo è quella sicuramente me-no articolata e complessa rispetto alle altre (La restituzione, Lo specchio e la trottola, Ma chi è qui il responsabile): un’unica forma fissa già esistente e ben collaudata si snoda in cinquan-tuno sonetti elisabettiani, composti di tre quar-tine a rima alternata e un distico finale a rima baciata, non più però di endecasillabi ma di dodecasillabi. Ogni verso è formato da due se-nari, ciascuno accentato sulla seconda e sulla quinta sillaba: i tempi forti in posizione fissa consente un rilievo particolare all’elemento ritmico al quale viene conferito un peso gno-mico eccezionale.

La frase disposta all’interno della struttura ritmica crea un divario programmatico tra me-tro e logica discorsiva e consegue l’obiettivo di

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una lettura straniante, orientando la fruizione a una consapevolezza della difficoltà e della non immediata univocità del segno linguisti-co.

Strumento retorico principale di tale stra-tegia scritturale è l’enjambement che con-sente lo scivolamento semantico di un ver-so nel successivo, con un senso derivante di apertura e fluidità: Cacciatore lo porta al più alto livello di efficacia, là dove il battere de-ciso del metro, a fine verso, lavora a contra-sto; da qui un effetto suggestivo e fertile sbi-lanciamento.

Ecco alcuni esempi:

Da L’energico impatto (VII): vv. 3-4

Di pianto fa subito riso e sussiste/ Assiduo

Da Il saliscendi ilare (VIII): vv. 1-2 e 8-9

Ne avverti il fruscio seppure non tendi/ L’udito a distanza

Da Il cibo croccante (IX): vv. 1-2

Nel buio è esitante splendore di lucciola/ sospesa a ramengo

Da Laboriosità dell’ozio (X): vv. 3-4

Si finge una tappa ma in pratica stasi/ È studio di chi tende agguati

Da Gran festa efferata (XIV): vv. 1-3

Per giuoco vistoso falò cosa grata/Pareva in principio ma poi era rogo/

Che i visi scartoccia…

Da Molteplicità dell’unico (XIX): vv. 3-5 e 7-11

Funziona da perno ed ecco è la gente/D’accordo nell’atto preciso di darti/Notizia che sei quell’uno tra i moltiOttieni e ridai agli altri una spinta/

Retrograda…

Da Costanza dell’agire (XXI): vv. 4-5

Ti àlteri e agisci altrimenti è la legge/ Dell’Essere…

Da Divieto di transito (XXIV): vv. 1-2

La targa d’avviso al pubblico dice/ Divieto di transito…

Da Intelletto (XXV): vv. 11-12

Sull’attimo subito innalzi una scala/ Armonica…

In questi, come in tanti altri casi, l’enjam-bement tende a farsi assidua cerniera tra i ver-si, coinvolgendone spesso più di due, forman-do una struttura serpentina. Nel sonetto XXXI, Febbribile è il senza, addirittura ogni verso s’inarca in quello seguente, attraverso lega-mi forti soggetto-verbo, sostantivo-attributo, sostantivo-complemento di specificazione. L’inarcatura è poi tanto più efficace quando il senso viene stravolto o modifica il suo segno nel passaggio di verso, provocando un vero terremoto nella lettura che deve prontamente deviare le proprie supposizioni interpretative.

Tale contatto stretto con i sussulti del me-tro porta a una straniante arbitrarietà della co-struzione del periodo, a quella che Marcello Carlino chiama “una pronunciata ‘inquietudi-ne’ semantica”, che è però anche garanzia del permanere nel verso, nonostante la martellan-te fissità degli accenti, di una notevole mobi-lità interna, che consente slittamenti, fratture, unioni foniche e semantiche, un fluire aspra-mente musicale delle parole del sonetto.

In questa maniera la griglia fissa della forma chiusa non è affatto una gabbia costrittiva ma di-venta fattore di apertura conoscitiva infinita. Le rime, dispositivi meccanici imprevedibili, trappo-le acustiche e visive, acquistano un enorme pote-re di cambiare volto alle parole, vitalizzando ciò che da solo era esangue e non comunicativo.

La forma chiusa come nel caso cacciatoria-no è in grado di provocare incontri della lin-gua inaspettati, contatti inediti ed insoliti tra le parole accrescendo e rimandando gli orizzonti immaginativi e conoscitivi del lettore, spiaz-zandoli e ampliandoli di continuo con la vio-lenza della sorpresa.

BibliografiaE. Cacciatore, Carichi pendenti, Lubrina, Bergamo, 1989E. Cacciatore, Itto Itto, Manni, Lecce, 1994E. Cacciatore, Tutte le poesie, Manni, Lecce, 2003F. Fusco, Estetica verso noesi in Edoardo Cacciatore, in “il verri”, n.42, 2002F. Fusco, Compositio illimitata e ricerca del Livre, in E. Cac-ciatore, Tutte le poesie, cit.T. Ottonieri, Ricordo di Edoardo Cacciatore, in “Poesia”, n. 102, 1997«Quaderni di critica» (a cura di), Edoardo Cacciatore: la ri-voluzione poetica del Novecento, Roma 1997: saggi sull’in-tera parabola letteraria di Cacciatore di C. Bello, F. Bettini, I. Capotondi, M. Carlino, R. Di Marco, G.R. Hocke, M. Lu-netta, L. Malerba, M. Manganelli, S.M. Martini, F. Muzzioli, G. Patrizi, M. Perriera

Lorenzo Carlo Domenico Milani Comparetti nasce a Firenze il 27 maggio 1923

in una famiglia ricca di cultu-ra oltre che di denaro. Quel “Comparetti” gli viene da un bisnonno paterno: Domenico, filologo tra i maggiori dell’Ot-tocento, senatore del regno in riconoscimento dei meri-ti scientifici, morto nel 1927 a 92 anni (Lorenzo ne aveva 4) senza discendenti maschi. Per rispettare le sue volontà i nipoti, figli dell’unica figlia, e i pronipoti, aggiunsero al pro-prio il cognome di Comparet-ti. Affettuoso è il ricordo che Lorenzo conservò del bisnon-no e proprio da questo gran-de studioso, appassionato del-la lingua e della parola, forse don Lorenzo ha acquisito la consapevolezza della grande potenzialità che la lingua ha nel cammino di riscatto dalla povertà e dall’emarginazione.

Ordinato sacerdote il 13 luglio del 1947, dopo un bre-vissimo incarico nella parroc-chia di Montespertoli, don Lorenzo Milani viene man-dato cappellano a San Dona-to di Calenzano, in aiuto del vecchio parroco. Qui sco-pre due realtà assolutamente nuove per lui, e inaspettate: la povertà, materiale e culturale; la mancata, o perduta, cristia-nizzazione. Si trova così a do-ver impostare e risolvere un problema cui gli studi teori-ci del seminario non l’hanno preparato: come fare concre-tamente il proprio mestiere di prete secolare, in coerenza

col Vangelo e con la propria scelta esistenziale e di fede. Dopo vari tentativi di approc-cio che presto gli si rivelano sbagliati, decide di impiantare in canonica una scuola serale aperta a tutti i giovani, senza discriminazioni politiche o partitiche purché di estrazio-ne popolare e operaia. Con questa scuola, di giorno in giorno più intensa, appassio-nata e appassionante, ma non soltanto con essa, in breve tempo si tira addosso prima la diffidenza poi l’aperta ostilità dei parrocchiani che contano, benpensanti moderati, demo-cristiani in testa; e di molti al-tri preti della zona.

Ha presto inizio così una campagna prima di opposi-zione sorda, poi di diffama-zione aperta che dopo sette anni, nel dicembre del 1954, culmina in una “promozio-ne”: la nomina a priore di Sant’Andrea di Barbiana, par-rocchia nel comune di Vic-chio del Mugello: un centina-

io d’anime in una manciata di case sparpagliate sulle pen-dici del monte Giovi, senza strada, senz’acqua, senza lu-ce. La curia, rimangiandosi la decisione di chiusura annun-ciata, decide di tenerla aperta per esiliarlo lassù.

Già a San Donato, Don Milani ha fatto una scelta di povertà austera, che a Barbi-na si radicalizza, fino al ri-fiuto di gestire il podere co-stituente il “beneficio” della parrocchia. Campa della sola “congrua”: il magro stipendio statale assegnato,col concor-dato del 1929, ai preti. Dalla famiglia, e dagli amici vecchi e nuovi, accetta soltanto, e all’occorrenza sollecita, aiu-ti per il lavoro della scuola e per la salute dei suoi ragazzi, spesso minata dalla miseria secolare e dalla denutrizione ancestrale della gente della montagna: la guerra è finita da una decina d’anni appe-na, il “miracolo economico” dell’Italia non arriva ancora

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in vetta all’Appennino. Gli servono libri, enciclopedie, atlanti e carte geografiche, di-schi e giradischi a molla o a pile, macchine per scrivere e calcolatrici, cancelleria, uten-sili. Ha bisogno, per i suoi ra-gazzi, di medicine, vitamine, ricostituenti, analisi ed esami medici, cure dentarie. Denari, ne chiede per i viaggi all’este-ro, quando d’estate manda i ragazzi, a turno, a imparare le lingue e la vita degli altri po-poli. Ma unicamente i denari per il biglietto meno costoso: a mantenersi devono provvede-re da soli, lavorando. La vita a Barbina scorre austera come in un monastero in cui il tem-po è prezioso e non deve es-sere sprecato, con l’obiettivo di dare strumenti intellettuali e linguistici ai senza voce del suo tempo. Tutto sarà scuola in questo angolo di Appenni-no, tutte le esperienze saran-

no dettate dal grande amore di don Milani per i suoi ragaz-zi, piccoli e disarmati, da ri-scattare ed emancipare.” Ho voluto più bene a voi che a Dio, ma ho speranza che lui non stia attento a queste sot-tigliezze e abbia scritto tutto al suo conto.…”, così diceva don Milani sul letto di morte, testimoniando il grande lega-me affettivo, da maestro ed educatore, che aveva con i suoi ragazzi. Nel 1958, in pri-mavera, esce Esperienze pa-storali, il suo primo e unico libro, del quale, a dicembre, il santo Uffizio ordina il ritiro dal commercio. Nel 1960 av-verte i primi sintomi del mor-bo di Hodgkin. Nel 1965 replica pubblica-mente agli insulti rivolti da un gruppo di cappellani militari agli obbiettori di coscienza, e si guadagna un rinvio a giudi-zio per vilipendio e apologia

di reato. Impossibilitato dalla malattia a presentarsi in tribu-nale, scrive la propria auto-difesa, resa pubblica alla pri-ma udienza del processo: è la Lettera ai giudici. Nonostan-te l’aggravarsi della malattia prepara “La lettera a una pro-fessoressa” che, come spiega Agostino Ammannati ‘non è un libro di pedagogia. E’ un libro civile: riguarda la civitas che deve migliorare’, in cui si analizzano, con una prosa incalzante, asciutta ed incisi-va i mali della scuola italiana: una rampogna agli intellettua-li al servizio di una sola clas-se, scritta collettivamente dai ragazzi della scuola di Bar-biana e che verrà pubblicata nel maggio del 1967.

a cura di Primetta BertolozziDirigente Scolastico

Istituto Comprensivo Massarosa 1

San Donato di Calenzano: la prima parrocchia

La posizione politica di Don Lorenzo Milani (1947-1967)

Antonino Bencivinni

A S. Donato don Milani dà inizio ad una attività che caratterizzò in modo no-

tevole la sua figura: la scuo-la popolare. Per capire come funzionasse la scuola popola-re di don Milani a S. Dona-to, occorre leggere le pagine di Esperienze pastorali. Don Milani avverte lo stato di ar-retratezza culturale dei suoi parrocchiani; egli vede come l’ignoranza sia la causa prima dei loro mali. I poveri non rie-scono a far valere i loro diritti perché mancano del linguag-gio occorrente per discutere da pari a pari con i borghesi. La loro ignoranza li ha chiusi

in una religiosità del tutto for-male, che rende impossibile, da parte del sacerdote, il dia-logo capace di penetrare nelle anime, di mirare ai valori es-senziali della dottrina di Cri-sto. È dovere del Sacerdote, secondo don Milani, aiutare i giovani ad uscire da questa ignoranza. Alla scuola vengo-no ammessi tutti i ragazzi che lo desiderino, indipendente-mente dal loro atteggiamen-to religioso o dalla loro fede politica. Nel volume Lettere alla mamma è riportata la mi-nuta di una lettera (forse mai spedita) al Cardinale Arcive-scovo, datata 29-4-53; in essa

don Milani difende il suo ope-rato da accuse che erano sta-te fatte nei suoi riguardi pres-so la Curia. A proposito della scuola popolare egli scrive: “La grandissima maggioranza dei giovani ha frequentato la nostra Scuola Popolare. Co-munisti e democristiani han seduto per sei anni sugli stessi banchi sotto l’influsso profon-do di un prete che non ha fat-to nulla per vincerli ma nep-pure per convincerli. Così è per molti caduto il muro della divisione, per quasi tutti l’ido-latria dei partiti e dei giorna-li, in tutti cresciuta la stima per l’oggettività inattaccabile

di quel prete. Mi si accusa di non avere in classe il Crocifis-so e che in classe non parlo mai ex professo di religione. Prima di trovarci a ridire biso-gnava esaminare con serenità gli scopi e i risultati. Il nume-ro dei giovani che frequenta-no i Sacramenti e il loro ve-nirci da sé senza organizza-zione né invito né occasione festiva o periodica, prova che l’influenza della scuola è sta-ta profondamente religiosa anche senza quel contorno esteriore” .

Si incomincia a intravede-re la natura del contrasto che stava sorgendo tra don Mila-ni da un lato e gran parte del mondo ecclesiastico fiorenti-no dall’altro: l’atteggiamen-to di fronte ai partiti politi-ci, e in particolare al Comu-nismo. In una lettera del 13 agosto 1949 egli parla di una vivace discussione con alcu-

ni confratelli del Vicariato sul problema del negare o meno i sacramenti, e in particolare il matrimonio, ai comunisti. Una più grave questione sor-se nel 1951. In quell’anno si tennero le elezioni ammini-strative a Calenzano; le istru-zioni dei vescovi della Re-gione toscana del 20 maggio 1951 (riportate parzialmente nella sopra menzionata minu-ta della lettera di don Milani al Cardinale Arcivescovo) sta-bilivano che “Gli elettori per grave obbligo di coscienza devono votare per quei can-didati o liste di candidati che sapranno difendere i diritti di Dio, della Chiesa, della Fami-glia Cristiana”. A Calenzano si presentarono due sole liste: una del PCI e PSI, l’altra degli altri partiti (presumibilmente, DC e partiti di centro). L’elet-tore, in base alla legge allora vigente per i comuni con me-

no di 10.000 abitanti, pote-va votare per una lista, oppu-re per singoli candidati scelti dalle varie liste. Don Milani sostenne pubblicamente che, poiché non tutti i candidati della lista contenente la DC davano a suo giudizio le ga-ranzie richieste dalle istruzio-ni dei Vescovi, l’elettore cat-tolico dovesse dare il voto ai singoli candidati (che offrisse-ro tali garanzie) e non a tutta la lista. Ma, secondo quanto risulta dalla suddetta minuta, il Cardinale mandò a chiama-re don Milani e gli ordinò di tacere. Don Milani, anche su consiglio della mamma, per non creare scandalo, partì per l’estero, e non partecipò alle votazioni.”

DON MILANI OTTO ANNI DOPO di GUIDO ZAPPA

Studium, n° 5, 1975, pagg. 697

A vent’anni dalla morte di don Lorenzo Milani, appare evidente il con-

trasto tra l’esaltazione che si fece di lui e della sua opera negli anni Sessanta e Settan-ta ed il quasi oblio degli anni Ottanta.

Soprattutto negli anni Set-tanta cattolici, comunisti, ex-traparlamentari di sinistra fa-cevano a gara nell’individua-re il “don Milani” che più fa-ceva comodo per farne uno dei “loro” ed utilizzarlo ai fi-ni della loro battaglia politica quotidiana. Alcune citazioni tratte da “Civiltà Cattolica”, da “Rinascita” e da “Scuo-

la documenti” potranno dare un’idea dei numerosi tenta-tivi di cattura ideologica cui fu sottoposta l’attività dell’au-tore di Esperienze pastorali e del “regista” di Lettera a una professoressa.

“Esperienze pastorali con-fonde le menti, esaspera gli spiriti, scalfisce la fiducia nel-la Chiesa e suggerisce propo-siti sconsigliati... Il cuore si restringe al pensiero che un sacerdote scriva con stile tan-to risentito ed incontrollato” (“Civiltà Cattolica” 1958).

”C’è nella figura e nell’opera di don Milani una carica umana e cristiana che

affascina... E’ stato un uomo che riesce oggi a scuotere sa-lutarmente il lettore e a farlo riflettere su un certo tipo di cristianesimo e su certi modi di essere cristiano” (“Civiltà Cattolica”, 1970).

“Il valore politico della sua lotta è la guerra contro la cultura borghese, la scelta dell’anticultura, la scelta de-gli sfruttati come compagni di strada, la necessità di cam-biare, l’analisi spietata della scuola e del suo classismo” (“Scuola documenti”, 1975).

“Sarebbe proprio assur-do cercar di deformare que-sto sacerdote, farne “uno dei

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nostri”. Non è marxista, si ca-pisce. Non gli interessa che i “poveri” non siano più “pove-ri”, gli interessa che si salvi-no” (“Rinascita”, 1970).

Queste diverse utilizza-zioni degli scritti e dell’ope-ra di don Milani sono state rese possibili soprattutto dal-la mancanza di studi che, più che ad esaltare la “correttez-za” di certe prese di posizio-ne del Priore di Barbiana, mi-rassero a dare una spiegazio-ne coerente delle reali o, più spesso presunte, contraddizio-ni individuate nella sua opera. Il mio vuole essere un contri-buto in direzione della com-prensione della posizione po-litica di don Milani, così come si evince dai suoi scritti.

Appoggio politico alla DC e valutazione positiva della CISLNonostante il riconoscimen-to delle gravi ingiustizie so-ciali e delle responsabilità del partito di maggioranza al go-verno, don Lorenzo accoglie l’indicazione della gerarchia di votare e far votare per la Democrazia Cristiana, ma nel tempo l’appoggio alla DC sa-rà sempre più critico.

Così nelle elezioni politiche del 18 aprile 1948, l’appoggio è totale. Scrive don Milani:

“Poi venne il 18 aprile. il prete aprì gli occhi sul mondo e vide profilarsi vicina la mi-naccia dei nemici di Dio. Al-lora gridò forte come la mam-ma in difesa dei suoi pulcini, se li chiamò intorno, li coprì colle sue ali. Anche il ricco ebbe paura, e aiutò il prete a salvare i suoi pulcini dai ne-mici di Dio. Così il grande male fu scongiurato e ognu-no poté riprendere a sogna-re cose belle, vittorie sugli al-tri mali. Ma fra tutti i sogni il più bello fu quello di Fanfani” (Milani 1950, p. 171).

Nelle elezioni successive don Milani comincia a fare delle distinzioni e ad appog-giare nella DC la componen-te più sensibile alle istanze sociali; il motivo lo esplici-ta chiaramente in una lettera del 1953 al Cardinale Arcive-scovo a spiegazione del suo comportamento nelle elezio-ni del 1951.:

“Mi son... convinto del grave stato di disagio in cui vive il mio popo-lo, delle ingiustizie sociali delle quali è vittima e del-la profondità del rancore che nutriva verso la clas-se dirigente, il governo e il clero. Ho allora sentito quanto questo rancore fosse insormontabile osta-colo alla sua evangelizza-zione e ho perciò deciso di dedicarmi a una preci-sa distinzione di respon-sabilità. Scindere cioè con esattezza a costo d’esser crudeli le responsabilità (fittizie o reali che siano) del governo dai purissi-mi principii del Vangelo e delle Encicliche sociali ” (LM pp. 82-83).

Don Milani, volendo di-mostrarne la validità contro il comunismo, scrive che con i

metodi da lui seguiti, ad esem-pio “obbligo di votare solo per i candidati democristiani e di cancellare gli alleati, anche a costo di indebolire la lista” e anche “continua denigrazione del Governo e della DC” (EP p 256), i comunisti a S. Donato, tra il 1946 e il 1951, perdono complessivamente il 23,3% dei voti, a differenza delle al-tre parrocchie (i cui parroci seguono ben altri metodi) in cui perdono negli stessi anni solo il 10,3% dei voti; d’altra parte la DC negli stessi anni a S. Donato registra un aumen-to del 43% di voti, nelle altre parrocchie invece ottiene un aumento soltanto del 16,7% (EP p. 257).

Il ragionamento di don Lo-renzo, che svolge - come si ri-corderà - la sua attività pasto-rale in una parrocchia opera-ia come quella di S. Donato, è dunque molto chiaro: il pre-te deve criticare gli sbagli del governo e della DC se vuo-le essere creduto dai poveri quando critica i comunisti; inoltre deve dare l’indicazio-ne di votare per la DC, sug-gerendo di assegnare la prefe-renza ai candidati più sensibi-li alle istanze sociali.

Scuola e Città, Roma, n° 2, 29 febbraio 1988, pagg. 52-57

Don Milani, prete esiliato dalla chiesa

Adriano Sofri

Vi segnalo uno dei capito-li più inediti di un nuovo libro di e su don Lorenzo

Milani, I care ancora, appena uscito per l’Editrice missiona-ria italiana a cura di Giorgio Pecorini (480 pagine, 35 mila lire). È un carteggio con mon-signor Loris Francesco Capo-villa, iniziato nel ’60 da una lettera di don Milani. Capovil-la era stato segretario partico-lare di Angelo Roncalli quan-do era ancora patriarca di Ve-nezia, poi lo aveva seguito a Roma quando, nel ‘58, diven-tò inopinatamente Papa. Fu la sua ombra per tutta la durata di quello sconvolgente pon-tificato, poi fu da vescovo a Chieti e Loreto e oggi è arci-vescovo e vive a Sotto il Mon-te Giovanni XXIlI, Bergamo, dedicandosi senza risparmio alla memoria del suo Papa e alla causa della sua santità.

Nella prima lettera don Milani gli domanda se il de-creto del Santo Uffizio del ‘58 che aveva ritirato dal commercio il suo libro Espe-rienze pastorali e ne aveva vietate le traduzioni non pos-sa considerarsi ormai supe-rato. Gli hanno chiesto una traduzione francese per le Editions du Seuil. Forse Ca-povilla potrebbe accennarne al Papa? Il tono di don Mila-ni è spiritoso. “Sono passati due anni da quando il mio libro era “esplosivo”, le co-se “ardite” che conteneva sono ormai patrimonio delle persone moderate”. Don Mi-lani ricorda di avere ricevu-

to in passato un opuscolo da Capovilla e gli dice: “Non so perché, ma ho idea che ella debba provar per me dell’af-fetto e del rispetto”. Monsi-gnor Loris risponde subito, in un tono affezionato ma cau-to: in sostanza esortando alla pazienza e alla discrezione. Passano altri due anni e nel maggio del ‘62 don Milani accompagna i suoi ragazzi a Roma, ad assistere a una se-duta parlamentare, a parteci-pare a un’udienza papale e a visitare i Musei Vaticani. È la visita ai Musei e alla ba-silica di San Pietro a suscita-re lo scandalo dei ragazzi e del loro padre, che lo mette senz’altro per iscritto.

“L’impressione favorevo-le, inutile dirlo, l’ha data il Papa. Per le cose dette e per la maniera di dirle. Sembra-va davvero un contadino o un vecchio parroco di monta-gna”. Per il resto, un disastro.

Prezzi dei biglietti esosi, im-piegati sprezzanti, “insensibi-li di fronte a ragazzi di mon-tagna, sensibili solo alle con-tesse tinte e ingioiellate”. Ec-co come finisce la lettera: “In Vaticano dei ragazzi di mon-tagna che vivono fra dure pri-vazioni contano meno di un oppressore in marsina e cilin-dro con moglie letteralmente coperta di gioielli e tinta che abbiamo visto distintamente a mezzo metro dal Papa. I miei ragazzi non sono abituati a vedere donne tinte. Nessuna delle loro mamme o sorelle si tinge. Non potrebbe il Pa-pa mettere dei lavandini agli ingressi del Vaticano e ricever solo figliole con la faccia la-vata? In tal caso può mettere anche il sapone a pagamen-to perché le mie bambine non ne avranno bisogno”.

Panorama, Roma, 5 aprile 2001, pag. 310

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L’esilio a barbiana, speduta parrocchia sui monti di Firenze

Da una lettera alla mam-ma del 14 luglio 1952 si comprende come

successivamente i contrasti tra don Milani e l’ambiente ecclesiastico circostante si fossero ulteriormente accen-tuati. E’ una delle lettere più notevoli per l’elevatezza dei concetti e dei sentimenti pro-fessati. “Ieri ho fatto una leti-cata che forse sarà decisiva. Con un canonico di Prato che era qui a predicare. Ho l’im-pressione che la mia carriera ecclesiastica stia precipitan-do. Ma te non cominciare a allarmarti, te devi preoccu-parti solo ch’io sia sereno e buono. E sereno sono... Ti ri-cordi come rispose Simone Weil al superiore che minac-ciava di destituirla? “Ho sem-pre considerato la destituzio-ne il naturale coronamento della mia carriera scolasti-ca””. Don Milani continua la lettera dicendo che egli sarà certamente allontanato da S. Donato alla morte del Proposto, e comunque pri-ma delle prossime elezioni (del 1953). “Comunque per me non c’è nessuna possibi-lità di restare qui. Sono de-cisissimo a non difendermi e a non lasciarmi difendere da amici... L’unica cosa che mi farebbe veramente male sa-rebbe che mi condannasse-ro dottrinalmente. Ma questo non dovrebbe poter avvenire

perché ho sempre guardato d’esser cristiano e cattolico e ho sempre chiesto di mo-rire in questa fede. E del re-sto mi ci sento ogni giorno più vicino tant’è vero che mi dedico tutto alla sua diffusio-ne e tutta la divergenza sta sul modo di diffusione... Io sono grato al Signore d’ogni minuto di più che mi lascia a S. Donato perché son tut-ti regalati. Te non ti dar pen-siero perché sai che mi son sempre trovato bene da per tutto. A andar male male mi potranno mettere maestro al Seminario Minore. E 6 mesi dopo mi leverebbero anche di lì e mi farebbero parroco in una chiesetta di montagna così saranno accontentati an-che i tuoi desideri medici. Mi dedicherò al catechismo e agli studi e avrei modo di raf-finare nella solitudine la mia spiritualità che ne ha urgente bisogno!”.

Don Milani poté rimanere a S. Donato sino al 1954, cioè sino alla morte del Proposto. Ma allora si verificò, sia pure in parte, ciò che aveva previ-sto. Non fu mandato al Semi-nario Minore, bensì diretta-mente parroco in montagna, a Barbiana. Così la descrive la mamma in una nota a piè di pagina: “A 7 chilometri da Vicchio nel Mugello. C’è una chiesa del Trecento, una ca-nonica e qualche casa sparsa

nei boschi. Mancava allora l’acqua, la corrente elettrica, la strada, il servizio postale. Per i primi anni le lettere ar-rivavano a Barbiana quando qualcuno le andava a pren-dere a Vicchio”.

Egli infatti si mise all’ope-ra a Barbiana con tutte le sue forze, e in breve la trasformò materialmente e moralmen-te. Aiutato da alcuni giovani di S. Donato e poi dai Bar-bianesi, riuscì a sistemare la strada di accesso a Barbiana in modo che vi giungessero le macchine. E tanti tanti al-tri miglioramenti seppe rea-lizzare, atti a diminuire l’iso-lamento del paese e a ren-derlo meno inospitale. Tut-to ciò si deduce dalle lettere degli anni seguenti, assieme con la descrizione dell’arre-tratezza della vita dei mon-tanari (in inverno, sotto la neve, la zona restava com-pletamente isolata), della lo-ro miseria ed anche un po’ della loro chiusura mentale e diffidenza, causate dall’ab-bandono in cui erano lascia-ti da parte dei pubblici pote-ri. Ma l’opera più bella fu la scuola popolare, che subito prese a realizzare e che ebbe un successo grandissimo.

A cura di Maria Coppolecchia

Ufficio Scolastico Provinciale di Prato

Le Stazioni di Lisbona

Thierry Perret

Cinemateca

La Bohème, de King Vidor. Un pianista eseguisce temi e varia-zioni alla scena del film senza voce; la protagonista infelice fa piangere con indifferenza sia in inglese che in portoghese uno spazio quasi vuoto, e tutto qui: il sacrificio di una sciagurata che fa credere che l´amore è sempre tragico, l´umore è il vir-tuosismo del realizzatore, il non congruo di questo film scelto a caso, adesso, qui; tutto ciò è pacifico ed emoziona, per delle ragioni che riguardano la solitudine e la soddisfazione di pen-sare che la grazia vi possa sorprendere in qualunque occasio-ne, nei luoghi e nei momenti di maggior disperazione.

Si fanno delle cose straordinarie in viaggio: si va al cine-ma, si entra in una libreria, si visita un supermercato. Tutto è possibile, tutto è pieno di intensità.

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Estrela

Una pastelaria, il piatto del giorno alle vecchie signore che, con tanta cerimonia, si danno il buongiorno. Dei turisti rumo-rosi con i suoi bambini: questa voce dei Francesi e i loro sbiadi-ti accenti. Il turista, da queste parti, è sovente francese.

Jardim da Estrela: conosco la stanchezza, il suo segno come uma vecchia parte di me che torna a casa amorevolmente, in cui as di essere bene accolta (poco spazio qui, io mi rannicc-chio per farle posto). Niente di quel che vedo, o sento, le risul-ta sconosciuto, essa prende tutto per sé, affamata, prima di far piazza pulita – lei.

Traduzione Manuel Jardim

Ponte 25 de abril

Sono alfine sul ponte dei terribili capogiri, ma niente vedo del vuoto, stasera in um traffico pieno, tornando dall´escursione al Capo Espichel, con José Gil. Il filosofo finisce il lavoro del suo libro, in cui si rivolge al “mal” portoghese: il rifiuto del passato, d´un Portogallo modellato per decenni dal fascismo, illuso dal mito della Rivoluzione del 74. Rifiuto del passato, e perciò del-la realtà, e le sue implicazioni: la non-responsabilità, l´assenza di iniziativa, e sicuramente d´engagement. Con José Gil, come con tanti altri, quel sentimento secondo il quali gli intellettuali portoghesi sono duri. Ecco un paese che ha un forte subconsciente. Il Portogallo, è la merda, dirà Daniel un giorno, a Parigi.

Bairro das colônias

Da Livia, una terrazza alta appollaiata e che s´affaccia su delle vie lontane, Mozambico, Capo Verde, Angola, per ricordare i lunghi tempi coloniali. Lunghi, perché la storia è qui del tutto aperta, un dolore nazionale.

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il traduttore italiano, Edoardo Bizzarri, si percepisce, prima di tutto, che esiste un’intensa alleanza fra autore e tradutto-re. In molte lettere, Guimarães Rosa parla del traduttore come di un co-autore, al punto di di-chiarare: “lei non è solo un traduttore. Siamo “soci”, que-sto sì, e l’invenzione e la crea-zione devono essere costanti.

Il 18 agosto 1963, quan-do Bizzarri comincia a “par-lare dei problemi, ignoranze e dubbi” che affronterà nella traduzione di Corpo de baile, dimostra di essere un tradut-tore di apparente buon senso, in cui molte volte opta per una traduzione che conservi ele-menti della lingua di partenza, ma preservi anche la lingua d’arrivo. Questa soluzione mi-sta, di conservarne una parte e tradurre il resto non è assoluta per l’autore mineiro. Inoltre, è lo stesso Guimarães Rosa che lo propone, e questo forse sia il contributo più fecondo per la teoria della traduzione, che una volta il traduttore lasci al-cune cose in originale, un’altra le traduca, un’altra faccia una traducadattamento. E consi-glia ancora al traduttore italia-no: “quanto più inventa a suo agio, più mi farà felice”.

In realtà, l’autore di Gran-de Sertão: Veredas sa che la sua prosa letteraria si caratte-rizza per quello che Antoine Berman chiamò in A tradução da letra ou o albergue do lon-gínquo come qualcosa capa-ce di “captare, condensare e mescolare tutto lo spazio po-lilinguistico di una comuni-tà. Essa mobilita ed attiva la totalità delle “lingue” coesi-stendo in una lingua. [...]Così, dal punto di vista della forma, questo cosmo linguistico che è la prosa, e in primo luogo il romanzo, si caratterizza per una certa informità, che risul-ta dall’enorme mistura delle lingue nell’opera. Essa è carat-teristica della grande prosa”.

Forse per questo, Gui-marães Rosa enfatizza la que-stione della libertà di inven-zione e creazione da parte del traduttore. Edoardo Biz-zarri segue i consigli dello scrittore mineiro, ma anche la sua propria intuizione di “dare il ritmo, la rima, il gusto delle approssimazioni inatte-se, il senso generale e giocoso dell’assurda ambizione uma-na, fuggendo forzatamente da una traduzione letterale”.

Nelle lettere fra l’autore e il traduttore italiano, si percepi-sce che Guimarães Rosa tende ad avere una posizione che io chiamerei, per mancanza di un termine più adatto, sensa-ta, visto che non è radicale nelle decisioni e comprende che, dovuto alla complessità del suo linguaggio letterario, a volte è più prudente analizza-re i problemi nella misura in cui sorgevano e prendere de-cisioni in ciascuno dei casi se-paratamente.

Perciò, in lettera del 25 novembre 1963, l’autore di Sagarana consiglia il tradut-tore italiano ad “accentuare di più, quello che trovi ne-cessario. Omettere ciò che, in una traduzione, si dimostri inutile escrescenza. Lasciare in un canto ciò che è intradu-cibile, o riassumere, depura-re, concentrare o ancora “Lei, come in tutte le restanti parti del libro, anzi, deve di prefe-renza prendersi libertà, senza sottomettersi con esattissimo rigore al corpo, alle parole del testo originale, [...] essen-do meno importante la stretta equivalenza”.

Come si sa, la questione della libertà e del ricreare nel-la traduzione, soprattutto po-etica, fu teorizzata da Jakob-son, Pound e i loro seguaci massimi in Brasile furono i fra-telli Campos. Anzi, il ricreare c’entra molto bene nelle ope-re di Guimarães Rosa, poiché sono testi “traboccanti di diffi-

coltà”, come li aveva ben de-finiti Haroldo de Campos.

In lettera del 04 dicembre 1963, Guimarães Rosa compa-ra l’atto di scrivere con quello del tradurre, poiché nello scri-vere un libro, l’autore dice:

io lo vado facendo come se lo stessi “traducendo”, da alcun alto originale, esistente in qualsivoglia posto, nel mondo astrale o nel “piano delle idee”, degli archetipi, per esem-pio. Non so mai se sto in-dovinando o sbagliando in questa “traduzione”. Così, quando mi “ri” - tra-ducono in un’altro idio-ma, non so mai neanche se, in casi di divergenza, non è stato il Traduttore colui che, in effetti, ci ha indovinato, ristabilendo la verità dell’ “originale idea-le”, che avevo travisato...

Nello esplicitare come aveva elaborato il suo lavoro, Guimarães Rosa colloca scrit-tore e traduttore sullo stesso piano di scrittura e creazione, ambedue in cerca di un’opera “ideale”, avvicinandosi a Ben-jamin quando parla della tra-duzione come Forma, ma an-che a Leopardi e Borges, per-ché per loro sia l’autore che il traduttore sono importanti, ambedue sono elementi fon-damentali in questo processo, così come lo è il lettore.

Per sapere che tradurre è compito duro, l’autore di Corpo de Baile risalta la sua preoccupazione di preserva-re non solo il contenuto, ma anche gli aspetti estetici de-gli originali, come già visto. Essendo così, il ricreare e la coproduzione sono elemen-ti chiave per far sopravvive-re l’opera letteraria di uno dei maggiori scrittori brasiliani di tutti i tempi in altre lingue.

Traduzione di Anna Palma

Guimarães Rosa e la traduzione

Andréia Guerini

Alfredo Bosi in História Concisa da Literatura de-scrive Guimarães Rosa

come un “artista-demiurgo”, che seppe abolire “inten-zionalmente le frontiere fra narrativa e lirica [...].Gran-de Sertão: Veredas e le altre novelle di Corpo de baile in-cludono e rivitalizzano risor-se dell’espressione poetica: cellule ritmiche, allitterazio-ni, onomatopee, rime interne, audacie morfologiche, ellissi, tagli e dislocamenti di sintas-si, vocabolario insolito, arcai-co o del tutto neologico, as-sociazioni rare, metamorfosi, anafore, metonimie, fusione di stili, coralità”. Per questa “rivoluzione”, Guimarães Ro-sa è considerato uno dei più grandi innovatori della lin-gua letteraria, potendo essere comparato con James Joyce o con Carlo Emilio Gadda.

La complessità del linguag-gio letterario rosiano, come non potrebbe essere altrimen-ti, è caratterizzata da un’ac-centuata attenzione estetica ed una delle preoccupazioni dell’autore mineiro era quella di far diventare quella lingua letteraria “adatta al mondo”.

Non è a caso che Gui-marães Rosa ebbe un succes-so immediato all’estero e alcu-ne delle principali case editri-ci in Francia, Germania, Italia, Spagna e USA si interessarono a pubblicare le sue opere.

Ma come tradurre queste opere, in cui i neologismi, la toponimia esotica di un uni-verso per metà sertanejo, per metà metafisico e molte volte di difficile comprensione per-

sino per il lettore brasiliano? Una delle strategie usa-

te dai suoi traduttori nel loro arduo compito è stata quella di consultare lo stesso auto-re per risolvere i loro dubbi. Com’è noto, Guimarães Rosa stabilì relazioni epistolari con vari dei suoi traduttori in va-rie lingue. In totale, ci sono 73 lettere tra lui e Curt Me-yer-Clason, traduttore al te-desco (dal 1958 al 1967), 129 lettere scambiate con Harriet de Onís, traduttrice all’in-glese (dal 1958 al 1966), 47 lettere scritte a e ricevuta da Jean-Jacques Villard, tradut-tore al francese (dal 1961 al 1967), 20 lettere tra lui e An-gel Crespo e Pilar G. Bedate, traduttori allo spagnolo (dal 1964 al 1967), 30 lettere tra lui e traduttori di diverse lin-gue per pubblicazioni isolate (dal dic/54 al 1967), 73 let-tere scambiate con Edoardo Bizzarri, traduttore all’italia-no dal 05/10/59 al 20/10/67).

L’insieme della corrispon-denza, che si trova nell’Istitu-to di Studi Brasiliani, raggiun-ge un totale di 372 documenti, molti dei quali contenenti alle-gati fino a 10 pagine con solu-zioni ai dubbi. Non ha esage-rato Paulo Rónai nel dire, nel 1971, che “il tempo perso con questa corrispondenza sarebbe stato sufficiente per scrivere un altro Corpo de Baile o un altro Grande Sertão: Veredas”.

L’esame di questa corri-spondenza mostra come lo scrittore si sia dedicato con accanimento al lavoro insie-me ai traduttori, chiarendo dubbi lessicali e sintattici che

questi gli presentavano, a vol-te nella forma di lunghi que-stionari e che l’italiano Edoar-do Bizzarri aveva sopranno-minato “procosti”.

In questa intensa corri-spondenza, Guimarães Rosa aiutò sistematicamente i suoi traduttori a comprendere me-glio espressioni, nomi, suoni e a decidere su alcune scelte, poiché l’autore brasiliano era un grande conoscitore di lin-gue straniere.

La lettura delle lettere fra lui e i traduttori mostra come lo scrittore non solo rispondeva con impressionante minuzia ai questionari che gli erano pre-sentati, ma dettagliava a volte spontaneamente significati oc-culti delle opere, svelando in esse quello che chiamava di suprassenso: ossia, il senso me-tafisico che intenzionalmente nascondeva dietro a una de-scrizione della natura o al no-me di un personaggio. Niente di meno che una spiegazione dell’essenza delle sue metafo-re, a loro volta essenza della sua poetica, secondo quanto osserva Fernando Viotti in “Le lettere di Guimarães Rosa: tra-duzione e progetto letterario”.

Ma c’era di più, Guimarães Rosa indicava cammini che credeva fossero i migliori per mimetizzare nelle lingue-tar-get gli effetti ottenuti dal testo in portoghese. È anche attra-verso i suggerimenti di proce-dimenti per un efficiente tradu-zione che possiamo estrarre il concetto di traduzione dell’au-tore di Primeiras estórias.

Se prendiamo come esem-pio le lettere scambiate con

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Ma, appunto, i docenti che la insegnano non risultano uffi-cialmente come brasilianisti – ancorché alcuni di loro lo siano a tutti gli effetti e, per giunta, di eccellente qualità (penso, tra gli altri, al mio col-lega e grande amico, Rober-to Vecchi) -, rientrando piut-tosto nella categoria storica ed onnicomprensiva dei lusi-tanisti, con la sola eccezione dell’Università La Sapienza di Roma, dove, invece, da anni ormai, è attiva una cattedra di Letteratura Brasiliana distinta da quella di Letteratura Por-toghese. Sarà, dunque, anche per le difficoltà oggettive nel dominare una materia di tale ampiezza che il mio rappor-to con la lusofonia si è fatto progressivamente sempre più selettivo, concentrandosi, ap-punto, su questa macro area luso-brasiliana, verso la qua-le convergono in modo pres-soché esclusivo – e, invero, senza troppi rimpianti - i miei modesti sforzi attuali. Del re-sto, nonostante l’Africa di espressione portoghese non figuri tra i miei interessi prin-cipali, non ho del tutto reciso quel tenue vincolo professio-nale che mi legava ad essa, se non altro in qualità di tradut-tore di Mia Couto, del qua-le apprezzo in particolare la creatività linguistica, affine, mutatis mutandis, a quella ro-siana.Come hai cominciato a tradurre?È successo per caso. Una mia collega del dottorato collabo-rava, come traduttrice dallo spagnolo, con una giovane casa editrice fiorentina - la Passigli, che adesso è diven-tata una delle più importanti nel panorama italiano (si trat-ta, per fare un esempio, della casa editrice che ha acquisito i diritti per pubblicare in Italia l’opera di Fernando Pessoa)

- e mi domandò se anch’io fossi interessato a partecipa-re ai progetti editoriali che vi si stavano elaborando, ovvia-mente, per quanto riguarda il settore delle traduzioni porto-ghesi. Io accettai con grande entusiasmo, ma non immagi-navo che, nella mia prima sfi-da da traduttore, avrei dovu-to misurarmi proprio con Fer-nando Pessoa, sebbene con i suoi scritti in prosa anziché con quelli poetici (il testo da tradurre era, infatti, A hora do diabo, un’ipotesi di raccon-to, in perfetto stile pessoano, ricostruita da Teresa Rita Lo-pes mettendo insieme fram-menti usciti dal famosissimo baule del poeta). Così, L’ora del diavolo è stata, nel 1998, la mia prima traduzione, se-guita, un anno più tardi, dalle Novelas policiárias, una serie di improbabili detective stori-es sempre a firma di Fernan-do Pessoa e sempre pubblica-te da Passigli.Com’è stato tradurre il raccon-to Meu Tio o Iauaretê di Gui-marães Rosa? E in cosa si as-somiglia o differisce dalle tra-duzioni precedenti di Rosa in italiano? È stato molto complicato. Quando, in quello stesso an-no, il 1999, la Guanda - una casa editrice italiana di antica tradizione, originaria di Par-ma sebbene ormai trasferitasi da decenni a Milano - mi pro-pose la traduzione di Meu tio o Iauaretê, io sapevo che sa-rebbe stato difficilissimo. An-cora non conoscevo quel rac-conto, ma la lettura emozio-nante di Grande Sertão: Vere-das mi aveva già fornito, oltre ad un immenso piacere, an-che una nitida coscienza del-le difficoltà che avrebbe com-portato una sua qualsiasi tra-sposizione in altre lingue. Mi sentivo confortato solamente

dalla dimensione ridotta del testo e quindi dalla speran-za che, rispetto al capola-voro rosiano, il numero del-le questioni spinose sollevate da Meu tio o Iauaretê potesse essere quantitativamente mi-nore. Invece, il processo di traduzione si è rivelato anco-ra più impegnativo di quanto mi aspettassi, soprattutto per-ché, all’inizio, io non riuscivo a trovare un registro linguisti-co più o meno equivalente al modo di parlare del cacciato-re di giaguari in procinto di trasformarsi in giaguaro. Tra tutti i problemi di traduzione che questo testo mette sul ta-volo, io credo che quello di una resa plausibile dell’orali-tà scomposta del narratore, i cui peculiari aspetti diastratici non rientrano nelle modalità di una qualsivoglia dialettiz-zazione nazionale, sia stato il problema più grande. Non era, insomma, la metamorfosi zoomorfica del caboclo a spa-ventarmi – anche perché for-tunatamente Guimarães Rosa ne permette la ricostruzione attraverso il progressivo ispes-

Intervista a Roberto Mulinacci

Andréia Guerini e Walter Costa

In una recente visita alla UFSC (Università Federale di Santa Catarina) per presentare una conferenza nella Post-Laurea in Studi della Traduzione, intitolata

“Metaletture. Claudio Magris lettore di Guimarães Rosa”, Roberto Mulinacci, professore di letteratura brasiliana e portoghese dell’Università di Bologna, ha

concesso la seguente intervista ad Andréia Guerini e Walter Costa.

Quando e come è sorto il tuo interesse per le letteratu-re in lingua portoghese?

Il mio interesse è sorto so-lo negli anni della Facoltà di Lettere a Firenze e per pura curiosità intellettuale. Ossia, non avevo nessuna ragione specifica che mi spingesse a studiare la lingua portoghe-se: non avevo fidanzate lu-sitane o brasiliane, non ero pazzo per la MBP (ragione più che sufficiente, oggi, per molti studenti dei nostri corsi, interessati soprattutto a deci-frare le parole delle canzoni di Caetano Veloso o Chico Buarque), non sognavo una vita ai tropici e ancor meno le spiagge dell’Algarve (una delle mete privilegiate dal tu-rismo di massa europeo). In quegli anni io ero studente di Letteratura tedesca e stavo per concludere la mia forma-zione accademica di germa-nista, quando ho scoperto la narrativa di Antonio Tabuc-chi, che mi ha subito affasci-nato molto anche per le sue profonde radici portoghesi, facendomi sprofondare nelle suggestioni passatiste di una sonnolenta Lisbona piena d’incanto. Ma tutto ciò era, purtroppo, un mondo che io conoscevo ancora troppo po-

co, a parte, chiaramente, quel bagaglio elementare di cono-scenze, non del tutto immu-ne purtroppo dagli stereotipi, che è appannaggio di tutte le persone di cultura, in Italia e altrove. È stato quindi per as-secondare un sincero deside-rio di saperne di più che ho cominciato a frequentare le lezioni di portoghese e que-sta lingua, insieme alla sua letteratura, mi ha pian piano conquistato al punto che, alla fine di quell’anno, ho deciso di abbandonare il tedesco per il portoghese. Con grande de-lusione dei miei genitori, che mi pagavano gli studi e te-mevano, quindi, che una ta-le scelta avrebbe potuto non solo pregiudicare i loro sacri-fici in prospettiva futura, ma anche aggravarli nell’imme-diato, con un prolungamen-to, perlomeno biennale, del mio percorso universitario: cosa che si è, in effetti, pun-tualmente verificata, benché forse, alla fin fine, col senno di poi, si possa dire che ne è valsa davvero la pena, so-prattutto per il fatto di avere avuto l’enorme privilegio di trasformare una passione in lavoro.Come distribuisci questo inte-resse tra le letterature del Por-

togallo, del Brasile e degli altri paesi di lingua portoghese?Il mio interesse per le lettera-ture di lingua portoghese si li-mita in realtà al Portogallo e al Brasile. Che è già così – os-sia, anche in questa veste “ri-dotta” - un campo di studio immenso e complesso, tanto è vero che situazioni analo-ghe in altri meridiani culturali sono affrontate con specializ-zazioni disciplinari assoluta-mente autonome. Basti pensa-re, ad es., a quel che succede con la letteratura spagnola e quella ispano-americana o, in ambito anglofono, con la let-teratura inglese e quella nor-damericana, le quali godono tutte di uno statuto individua-le riconosciuto. In Italia, inve-ce, la letteratura portoghese e quella brasiliana continuano ancora ad essere accorpate, a livello accademico, in un unico raggruppamento scien-tifico-disciplinare (si parla, infatti, di corsi di Letteratura Portoghese e Brasiliana, op-pure di Lingua e Traduzio-ne Portoghese e Brasiliana), ancorché la pratica didattica comporti evidentemente uno sdoppiamento dei percorsi, con insegnamenti di lettera-tura brasiliana sempre più fre-quenti negli atenei italiani.

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usando, appunto, in un’acce-zione tecnica quel neologi-smo semantico traducere che si sarebbe definitivamente imposto sulla schiera dei suoi svariati predecessori lessica-li? Se a queste pietre miliari della teoria della traduzione aggiungiamo anche il trattato cinquecentesco di Fausto da Longiano, nonché le riflessio-ni di Vincenzo Monti e Ugo Foscolo, o quelle di Giacomo Leopardi e Benedetto Croce – quest’ultimo, in particola-re, autore ormai canonizzato dalla critica congenere, a par-tire soprattutto dalla sua tesi dell’intraducibilità della paro-la poetica - avremo l’esatto quadro dell’importanza della traduttologia italiana. Com’è tradurre testi di gene-ri differenti come i romanzi di Guimarães Rosa, di Fernando Pessoa e di Mia Couto, da una parte, e la saggistica di Ruy Ca-stro, dall’altra?In realtà, nonostante la diver-sità degli ambiti culturali di ri-ferimento e la varietà dei testi tradotti, penso che sia stato un lavoro, nel complesso, prov-visto di una sua coerenza. Voglio dire: Fernando Pessoa, Guimarães Rosa e Mia Couto sono probabilmente i tre prin-cipali rappresentanti di creati-vità linguistica del mondo lu-sofono e soprattutto gli ultimi due, trattandosi di eccellenti manipolatori del linguaggio (si pensi per es. ai processi di neologia abbastanza simili a cui ricorrono frequentemente entrambi, dall’agglutinazione alla formazione parasintetica, ecc.), mi hanno causato non poche difficoltà di resa in ita-liano. Ma anche Pessoa, sia pure in forma meno smacca-ta, appartiene alla stessa fa-miglia di virtuosi della paro-la, come spiega, almeno in parte, il suo rapporto con il

portoghese, che il poeta do-vette di fatto rimparare dopo il rientro dal Sudafrica e che presenta continue contami-nazioni con la sua autentica lingua mentale, l’inglese. Per questo, oltre alle contorsioni di pensiero tipiche dello stile pessoano, il suo traduttore è chiamato a confrontarsi con le peculiarità di una lingua seconda, utilizzata non rara-mente con un certo compia-cimento snobistico della dif-ferenza (per es., l’aggettivo “policiário” invece del comu-ne “policial”). Da questo pun-to di vista, Ruy Castro appare linguisticamente meno pro-blematico, ma è soltanto per-ché la creatività del traduttore è sollecitata ad un diverso li-vello, che riguarda non tanto il piano della parole, quanto, piuttosto, quello della langue: per es., il registro colloquia-le del suo Carnaval no fogo si alimenta di un’espressivi-tà carioca che non è sempre agevole trasporre in contesti culturali altri, senza contare, poi, che non mancano nep-pure qui certe coniazioni les-sicali sul modello degli auto-ri citati sopra (mi ricordo, tra i vari esempi possibili, di un “empingunçado” per “bêba-do”, che sfrutta, appunto, il principio della derivazione creativa). Qual è il ruolo che la traduzione svolge e può svolgere nelle re-lazioni tra le letterature italia-na e brasiliana?Un ruolo fondamentale, so-prattutto per chi non ha ac-cesso linguistico agli origina-li, che è fra l’altro la situazio-ne in cui si trova la maggio-ranza dei lettori, non solo ita-liani. Per questo, io penso che la traduzione debba rendersi conto della grande respon-sabilità che essa ha nei con-fronti degli altri, una respon-

sabilità che, tuttavia, non de-ve circoscriversi al lettore, ma allargarsi fino a comprendere la relazione stessa con l’al-terità e l’inevitabile strania-mento prodotto dal testo fon-te. Una traduzione, insom-ma, che sfuggendo a qual-siasi tentazione etnocentrica - ossia, di riduzione dell’Altro alla misura dell’Io (per esem-pio, parlando dell’Italia e del Brasile, la riduzione della cultura brasiliana alla misura del folcloristico o dell’esoti-co) - possa dar corpo etica-mente all’estraneo, al diver-so, ospitandolo dentro di sé e non smussandone i tratti più marcati e differenziali in no-me di una pretesa leggibilità. Se la traduzione è capace di diventare una maniera di abi-tare la distanza tra le lingue, ovvero, un autentico non-luo-go dove la mia lingua e quella dell’Altro si incontrano con-taminandosi reciprocamente, allora credo che la traduzio-ne si possa trasformare in una frontiera che unisce, anziché in un confine che divide.

Traduzione di Anna Palma

simento di un ricco tessuto di interiezioni e monosillabi intercalari, il quale, alla fine del racconto, esplode in una serie di parole incompren-sibili - bensì il tono del mo-nologo, che doveva rendere l’idea di una varietà linguisti-ca anti-normativa, ma non di tipo regionale. Forse è questo che, insieme ad una forte tu-pinizzazione del linguaggio, caratterizza maggiormente la traduzione di Meu tio o Iau-aretê rispetto alle altre tradu-zioni rosiane pubblicate in Italia, creando, alla fine, un testo profondamente ibrido in tutti i sensi.Secondo te le letterature in lin-gua portoghese sono ben rap-presentate in italiano. Ci sono autori importanti che non sono stati mai tradotti o autori poco considerati in Brasile e in Por-togallo che sono valorizzati di più in Italia? Sì, penso che, tutto sommato, ci sia stato negli ultimi anni un grande impulso, in Italia, alla traduzione di testi in lin-gua portoghese, non solo lu-sitani e brasiliani, ma anche africani. Direi che gli autori più importanti sono, in linea di massima, quasi tutti pre-senti in questo ideale canone italiano delle letterature luso-fone, ma certamente ne avrò dimenticato qualcuno (del re-sto, il gioco del “chi c’è e chi manca” nelle varie liste lette-rarie, antologiche o meno, è sempre, come si sa, un eser-cizio che suscita polemiche e revisioni). Chiaro che potrei citare opere fondamentali del pensiero luso-brasiliano che ancora non hanno trovato cit-tadinanza nella “repubblica delle lettere” del mio paese, oppure opere già esaurite e che dovrebbero essere nuo-vamente ripubblicate, senza contare gli autori che figura-

no in questo panorama solo in forma ridotta, attraverso ar-bitrari processi di antologiz-zazione. Sulla base di ciò che mi viene in mente adesso, pe-rò, ritengo che i lettori italia-ni possano avere materiale sufficiente per un approccio preliminare a questo univer-so “esotico”, materiale, cioè, in grado finalmente di offrirne anche una visione più artico-lata e complessa, sottraendo-lo al rischio del facile esoti-smo. Così, sebbene sovrastati dalla presenza sempre più in-vadente di Paulo Coelho, che gode - per me, in modo in-comprensibile - di un succes-so enorme tra il pubblico di massa italiano, sono fortuna-tamente disponibili sul mer-cato anche dei validi “antido-ti” brasiliani al “coelhismo”, da Paulo Prado a Sergio Buar-que de Hollanda, da Antônio Callado a Carlos Drummond de Andrade, da Rubem Fon-seca a João Ubaldo Ribeiro (oltre, naturalmente, ai “clas-sici” della biblioteca brasilia-na d’Italia: l’intramontabile Jorge Amado, ambasciatore per antonomasia del Brasile nel mondo, ma anche Ma-chado de Assis e, appunto, Guimarães Rosa.).Qual è l’impatto che hanno avu-to le traduzioni dal portoghese nel sistema letterario italiano?Questa è veramente una do-manda difficile, a cui non saprei rispondere. Ossia, il successo delle letterature in lingua portoghese in Italia è molto recente, forse troppo, per poter valutare gli effetti di questa ricezione sul polisi-stema letterario nazionale. Ef-fettivamente, oltre alle pole-miche circostanziali sul tipo di edizione adottata o sulla qualità delle singole traduzio-ni, polemiche che di tanto in tanto travalicano il consueto

ambito specialistico per con-fluire in giornali e riviste di più ampia diffusione, penso che l’impatto sia abbastanza limitato. Pessoa e Saramago, tanto per fare un esempio, so-no senza dubbio autori co-nosciuti dal pubblico italiano più colto, ma quando si passa dalla semplice constatazione della fortuna critica ad una relazione fruitiva del lettore-autore con i loro testi, al pun-to, supponiamo, di stimola-re un processo di imitazione creativa, le cose si complica-no. Forse questo potrebbe co-stituire un argomento di rifles-sione molto stimolante per fu-ture ricerche nell’ambito del-la teoria della traduzione.Qual è stato, secondo te, il con-tributo dell’Italia in teoria e cri-tica della traduzione? Credo che l’Italia abbia da-to un contributo notevole al-la traduttologia, fin da tempi remoti. Vorrei solo ricordare il Libellus de optimo gene-re oratorum, nel quale Mar-co Tullio Cicerone (nativo di Arpino, nel Lazio), già nel 46 a.C., raccomandava al buon oratore di non tradurre “ver-bum pro verbo”, ma di ba-dare piuttosto all’efficacia espressiva, introducendo, co-sì, una distinzione che avreb-be fatto fortuna in questo ambito di studio: quella fra il “senso” e la “lettera”, che continua ancora oggi a divi-dere i traduttori. E poi come non citare quel Leonardo Bru-ni, umanista mio concittadino (era di Arezzo, come me), che non si limita – nel suo De in-terpretatione recta, all’incirca del 1420 - a delineare i capi-saldi metodologici del tradur-re, sottolineando, ad es., l’im-portanza della fedeltà al testo, ma, in una lettera ormai ce-lebre del 1400, conia perfino il cosiddetto nomen actionis,

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Serata Letteraria - UFRJDante

(...)Lasciate ogne speranza, voi ch’entrate”.(...) (...)Amor condusse noi ad una morte: Caina attende chi a vita ci spense». Queste parole da lor ci fuor porte. (...) (...)E caddi come corpo morto cade.(...) (...)Vergine Madre, figlia del tuo figlio, umile e alta più che creatura, (...)

Tasso

(...)Amico, hai vinto: io ti perdon... perdona tu ancora, al corpo no, chenulla pave, a l’alma sì; deh! per lei prega, e dona battesmo a me ch’ogni mia colpa lave. - In queste voci languiderisuona un so che di flebile e soave ch’al cor gli scende ed ogni sdegno ammorza, e gli occhi a lagrimar gli invoglia e sforza. (...)

9, luglio 2007 11:00 ore

PostoGiardino della

Facoltà di Lettere

Scheda Tecnica

Regia: Thalys Pontes

Sceneggiatura:Andressa Abraão

Arte grafica: Luana Rosa

Fotografia: Thiago Belinato

Costumi: Vanessa Ferreira

Suoni:

ChitarraAlineVarela,Glênia, CampanelloLuana RosaMensageiro dos VentosVanessaPilãoRodrigo Torres, Thalys Pontes

Attori:

PresentazioneCristina Márcia

Dante 1 – Thalys PontesDante 2 – Luana RosaDante 3 – Andressa AbraãoDante 4 – Aline Varela

Petrarca 1 – Ângela RibeiroPetrarca 2 – Glênia Petrarca 3 – Vanessa FerreiraPetrarca 4 – Olívia Maia

Ariosto 1 – Rodrigo TorresAriosto 2 – Milena Vargas

Tasso 1 – Milena Moraes

Ariosto

(...)” Qui riman l´elmo, e là riman lo scudo,lontan gli arnesi, e più lontan l´usbergo:l´arme sue tutte, in somma vi concludo,avean pel bosco differente albergo.“(...)

(...)Non son, non sono io quel che paio in viso: quel ch’era Orlando è morto ed è sotterra; la sua donna ingratissima l’ha ucciso: sì, mancando di fé, gli ha fatto guerra.(...)

Petrarca

(...)”Voi ch’ascoltate in rime sparse il suonodi quei sospiri ond’io nudriva ‘i core...“(...)(...)”Però, turbata nel primiero assalto,non ebbe tanto né vigor né spazio....“(...)(...)Era ’l giorno ch’al sol si scoloraro per la pietà del suo Fattore i rai,(...) (...)Quel ch’infinita provvidenza, ed arte mostrò nel suo mirabil magistero (...)

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Recentemente, nell’Uni-versità Federale di Rio de Janeiro (UFRJ) è stata

realizzata una serata letteraria in lingua italiana proposta dal professor Marco Lucchesi. La congiunzione tra letteratura, lingua ed espressione corpo-rale ha presentato agli alunni una faccia nuova dell’attività accademica - leggera, interat-tiva e capace di arricchire - at-tingendo diversi piani, quello educativo e quello umano.

Questo articolo mostre-rà tappe e partecipazioni di questo movimento artistico letterario, sottolineandone le caratteristiche che eviden-ziano l’importanza di attività preoccupate della formazio-ne dell’alunno in differenti prismi.

La conoscenza teorica del-la lingua italiana, discussa in classe, è stata la grande base per l’ampliamento della crea-tività degli alunni. E la propo-sta della serata ha incentivato sensibili percezioni delle ope-re di Dante, Petrarca, Ariosto e Tasso.

Alcune responsabilità so-no state attribuite agli inte-granti della serata. L’attività aveva, per esempio, un diret-tore, una sceneggiatrice, un interlocutore ed una figuri-nista. In questo modo tutti vi hanno partecipato attivamen-te, preoccupati affinché la se-rata fosse un movimento real-mente artistico e letterario.

Il processo con cui è sta-ta modellata la serata è stato idealizzato dagli alunni - di-verse idee e proposte - essen-do questo un grande stage nel campo dell’integrazione, del-

la convivenza e della perce-zione. La serata ha messo in risalto certe abilità nell’ambi-to della poesia, delle arti sce-niche, della direzione, della redazione che fino a quel mo-mento erano sconosciute.

La realizzazione del pro-getto, nuovo per la classe di italiano, è stata la scintilla che ha acceso rinnovati inte-ressi verso la Facoltà di Lette-re della UFRJ. Tutto ciò è si-gnificato ricerca e scoperta di diverse capacità - che vanno oltre il curriculum del corso di laurea - grazie allo stimolo del professor Lucchesi.

Per la presentazione del-la serata, tutti gli alunni han-no memorizzato parti di de-terminate opere, tra le quali, La Divina Commedia di Dan-te Alighieri, Il Canzoniere di Petrarca, Orlando Impazzito di Ludovico Ariosto e Geru-salemme Liberata di Torqua-to Tasso. E, nel recitarle, ogni alunno ha dato un’intonazio-ne adeguata a trasporre il sen-so appropriato del testo.

La serata è stata divisa in quattro atti: il primo compren-deva la recitazione di fram-menti dei canti Porta dell’In-ferno e Amore proibito di Pa-olo e Francesca dell’Inferno e Vergine Maria del Paradiso, tutti di Dante Alighieri; il se-condo includeva sezioni di quattro poesie de Il canzonie-re di Petrarca; il terzo, Orlan-do Impazzito (canto XXIII), di Ariosto; ed il quarto, La morte di Clorinda, di Tasso.

Ad ogni cambiamento di atto, marcato dal passaggio di cartelli, c’è stato il pronuncia-mento della presentatrice, ci-

tando le caratteristiche degli autori e delle opere; e l’uso di un simbolo (libro), indicava il dono della parola.

Inoltre alcuni strumenti - chitarre, campane tubola-ri, campanello e pestello - e piccoli espressioni corporali, hanno denotato il sentimento proposto nel testo e marcato la sequenza delle opere.

Invece lo scenario scel-to per la realizzazione della serata è stato un bel giardi-no della facoltà. La presen-za costante degli integranti e la proposta di una serata in quel luogo apparentemente dimenticato sembrava aver-gli ridato la vita, visto che, il giorno della serata, l’inizia-tiva ha ricevuto in regalo un gradevole clima autunnale.

Ogni elemento propo-sto, dalla scelta delle opere a quella dello scenario, è stato di fondamentale importanza per comporre l’atmosfera del-la serata.

A partire da questo insie-me di elementi è stato possi-bile verificare un esempio di attività che proponeva, innan-zitutto, un approfondimento degli studi letterari.

Quindi è nata l’aspettati-va di avere, con più frequen-za nelle istituzioni destina-te all’insegnamento, eserci-zi interdisciplinari in cui gli alunni possano applicare gli aspetti teorici assimilati. In questo modo, gli incentivi ad attività innovatrici potrebbe-ro stimolare diverse abilità creative.

Traduzione di Anna Palma

Serata LetterariaAndressa Abraão Costa & Cristina Márcia Monteiro de Lima Corrêa

Aldilà della baia

Sebastião Barbosa

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Sebastião BarbosaSebastião Barbosa

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La maldicenza colpisce di più le persone generose

La maldicenza è dovun-

que attorno a noi. Ma si

presenta in forme diverse,

più o meno cattiva e più o meno

pericolosa.

La modalità più semplice è

quella del pettegolezzo, una

forma di sapere sulle relazioni

umane nascoste, non ufficiali,

uno scavare nei sentimenti de-

gli altri, nelle loro relazioni ero-

tiche riservate. Un sapere es-

senzialmente femminile, per-

ché sono le donne che studiano

l’animo umano, l’amore, l’odio,

l’erotismo, e ne parlano quoti-

dianamente fra loro. E nel pet-

tegolezzo può esserci l’infor-

mazione maligna, che diventa

un’arma nelle mani di chi ha ri-

sentimenti e rancori.

Esiste poi la maldicenza de-

gli uffici, di tutti gli uffici, dagli

ospedali all’università, che

nasce da rivalità, invidie, ingiu-

stizie.

Diverse volte, non appena

chiamato a dirigere una nuova

istituzione è venuto qualcuno a

darmi informazioni — riservate,

riservatissime si intende — un

semplice «si dice», su tizio, ca-

io, le loro storie sessuali, i lo-

ro errori, gli imbrogli che hanno

fatto. E a spiegarmi perché que-

sto ha fatto carriera e l’altro no.

Pettegolezzi maligni per liberar-

si di avversari, per farsi strada.

Ma che contengono qualche ve-

Francesco Alberoni rità per cui alcuni cattivi dirigenti

li incoraggiano.

La terza forma di maldicenza

è quella «del lamento ». C’è gente

che, quando ritiene di essere ingiu-

stamente trattata da qualcuno, l’ac-

cusa di essere un delinquente, un

farabutto e gli attribuisce ogni tipo

di malefatte. Salvo poi, non appe-

na costui l’aiuta, dirvi invece che

è bravo, intelligente, onestissimo. È

un veleno che gira molto nei corri-

doi del potere e della politica.

Poi c’è la maldicenza che na-

sce dall’invidia e che colpisce chi

sta in alto, chi ha potere. Meno

quelli che hanno posizioni con-

solidate, i duri, i violenti che in-

cutono paura e che si vendicano.

Molto di più le persone aperte e

generose, che fanno tutto bene e

sono amate dalla gente. Perché

l’invidia si rivolge sempre ai mi-

gliori, non ai peggiori. È il loro

valore che odia.

Da ultimo abbiamo la calun-

nia intenzionale, la menzogna

scagliata per distruggere il credito

di chi è salito in alto e prenderne

il posto. La calunnia che prepara

e giustifica la congiura, come nel

caso di Cesare accusato di voler

diventare re. O contro il generale

Dalla Chiesa accusato di metter-

si troppo in vista. Un metodo che

viene sempre adoperato contro

chi ha creato qualcosa di grande

ma ha, come difesa, solo il suo

valore e la sua rettitudine.

Miscellanea

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sOlU

ZiOn

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llan

ea

Curiosità: Le donne dell’antico Egitto, per avere unprofu-mo persistente e che durasse a lungo, portavano sul capo particolari coni di cera, che erano profumati con estratti di erbe e dopo venir accesi si fondevano sulle parrucche indossate dalle donne, emanando un dolce profumo.

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