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L’etnoscienza

Negli anni Sessanta i fautori dell’antropologia cognitiva fecero proprio l’interesse di Whorf per la relazione tra la scienza occidentale contemporanea e le visioni del mondo indigeno che essi studiavano.

Essi chiamarono il loro campo «etnoscienza», un termine spesso sovrapponibile ad «antropologia cognitiva».

L’«etnoscienza», più che una prospettiva teorica designa una specializzazione e precisamente l’interesse specializzato per i sistemi indigeni di conoscenza come l’etnobotanica, l’etnozoologia, l’etnomedicina e così via

Alcuni di loro hanno persino esaminato la scienza occidentale stessa in quanto tradizione culturale

Un approccio che riconosce l’esistenza della verità nella scienza, ma allo stesso tempo riconosce l’incidenza di determinanti sociali e culturali nella costruzione culturale della malattia, è la prospettiva prevalente nell’antropologia medica

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Charles Frake

Il principale proponente dell’etnoscienza nel suo senso più ampio, Charles Frake, ha esplorato sia gli aspetti esoterici sia quelli mondani nei suoi lavori sui sistemi ecologici, l’interpretazione della malattia, i concetti del diritto, su come entrare in una casa e come chiedere da bere tra i subanum, gli yakan e altre culture delle Filippine

Come mostrano questi esempi, l’etnoscienza di Frake tiene conto dell’azione sociale oltre che delle categorie statiche del discorso etnoscientifico. Entrano in gioco strategie e decision-making.

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Approcci interpretativi e postmodernisti

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L’antropologia britannica dopo la morte di Radclif-Brown

Dopo la morte di Radcliffe-Brown, nel 1955, l’antropologia britannica prese quattro strade differenti: Alcuni lungo la direzione di ricerca di Radcliffe-Brown (p. es.

Goody) Altri, come Firth, giunsero a mettere l’accento sull’azione individuale

piuttosto che sulla struttura sociale, una linea di pensiero che si sviluppò in teorie come l’approccio processuale e il transazionalismo (cfr. cap. 6).

Infine, un buon numero finì col seguire Evans-Pritchard nel suo rifiuto della concezione che l’antropologia fosse una scienza, in favore di un approccio interpretativo che collocava saldamente l’antropologia nell’ambito delle scienze umane.

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L’antropologia statunitense degli anni ‘70 Negli Stati Uniti, all’inizio degli anni ‘70, Clifford Geertz

iniziò a proporre la sua versione dell’interpretativismo: l’antropologia interpretativista di geertz cambiò analogia

linguistica che caratterizzava l’antropologia cognitivista (etnoscienza, etnometodologia, ecc.) dominante negli anni ‘60: le culture non erano più grammatiche metaforiche da decifrare e

registrare erano linguaggi da tradurre in termini comprensibili ai membri di altre

culture o, più frequentemente, a quelli della cultura dell’antropologo

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La situazione in Francia

In Francia, al di fuori dell’antropologia, lo strutturalismo era sotto assedio come l’ultimo bastione del modernismo.

Filosofi e critici letterari, sostengono che il mondo aveva subito una rivoluzione silenziosa, spostandosi oltre il modernismo, caratterizzato da una organizzazione gerarchica della conoscenza, verso una fase postmoderna dove non c’è spazio per nessun tipo di teoria generale

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Le tappe della “rinascita”

Queste concezioni si diffusero nell’antropologia, resa più ricettiva anche da sviluppi interni alla disciplina, tra la fine degli anni Settanta e l’inizio degli anni Ottanta: In questo quadro, l’interpretativismo già presente sulla scena, svolse

una funzione fondamentale Nello stesso periodo l’antropologia femminista si sviluppò e mise

ulteriormente in discussione i modelli androcentrici e riflessività divenne un sinonimo di metodo etnografico

Questo percorso culminò con la pubblicazione di Scrivere le culture [Clifford e Marcus 1986], un evento che, agli occhi di alcuni, rappresenterebbe una sorta di rinascita della disciplina

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L’interpretativismo

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Evans-Pritchard : verso una concezione dell’antropologia come scienza storica

Allievo di C.G. Seligman e di Bronislaw Malinowski alla London School of Economics, partecipò a sei importanti spedizioni in Sudan e nell’Africa orientale britannica, in particolare tra gli Azande, i Nuer, gli Annuak, gli Shilluk e i Luo

Benchè abbia praticato la sua antropologia all’interno del quadro teorico di Radcliffe-Brown, rifiutò la concezione di Radcliffe-Brown dell’antropologia come «scienza naturale» pronunciandosi : per una concezione dell’antropologia come disciplina umanistica per una concezione dell’oggetto dell’antropologia come la totalità dei sistemi

morali e simbolici, che secondo lui sono diversi da qualunque sistema si possa trovare in natura

Secondo Evans-Pritchard il fallimento dell’antropologia sociale dall’Illuminismo in poi è consistito nel modellarla sulle scienze naturali, e suggerisce che è meglio considerarla una scienza storica o, più in generale, come un settore delle scienze umane

Questo segna la differenza fondamentale tra la concezione di Evans-Pritchard e la corrente maggioritaria della tradizione inglese

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Dalla struttura al significato: l’antropologia come «traduzione di culture»

Specialmente nei suoi ultimi anni, Evans-Pritchard sviluppò l’idea che l’antropologia fosse una «traduzione di culture», e

questo divenne uno slogan nelle opere di molti suoi allievi Questo comporta mettere al centro del lavoro antroplogico la

nozione di significato: ciò che gli antropologi fanno è avvicinarsi il più possibile alla

mentalità collettiva della popolazione studiata, per poi «tradurre» le idee estranee che vi trovano in idee equivalenti all’interno della loro cultura.

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Il dilemma del traduttore

Tradurre una cultura, certamente, non e la stessa cosa che tradurre una lingua, tuttavia, le difficoltà di traduzione hanno precise analogie in etnografia: se traduciamo le idee zande o nuer in modo troppo letterale, nessuno

che non sia nuer o zande le capirà se le traduciamo troppo liberamente, non riusciremo a cogliere

l’essenza del pensiero Nuer o Zande

L’antropologia, secondo questo punto di vista, è sempre prigioniera del dilemma del traduttore

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Clifford Geertz e l’affermazione dell’interpretativismo nell’antropologia statunitense

Come sostiene Barnard, anche se Evans-Pritchard indicò la strada che conduce all’interpretativismo, giustificare l’etichetta di «ismo» per il suo approccio è comunque un po’ più difficile di quanto non sia per Clifford Geertz: se l’antropologia di Evans-Pritchard era, come nessun’altra, una

reazione contro il progetto struttural-funzionalista, quella di Geertz rappresenta un passo avanti nella comprensione dei piccoli particolari della cultura come fini a loro stessi.

Geertz, ora a Princeton, si è formato a Harvard e ha insegnato a Berkeley e a Chicago e ha svolto ricerche sul campo a Giava, Bali e in Marocco

Nelle sue opere etnografiche ha toccato vari temi utilizzando approcci diversi e, a differenza di Evans-Pritchard, non rifiuta il «metodo comparativo» come impossibile

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Interpretazione di culture e il concetto di “descrizione densa”

Il nucleo della antropologia interpretativista è contenuto nel saggio introduttivo al suo volume Interpretazione di culture, concluso e pubblicato nel 1973, l’anno della morte di Evans-Pritchard.

In questo saggio Geertz riassume il suo approccio definendolo una «descrizione densa»: In questa prospettiva l’antropologia consiste nell’esaminare gli strati

incorporati in una particolare cultura e nello svelarli attraverso livelli di descrizione

Questo processo si differenzia da quelli che caratterizzano l’antropologia cognivista né si occupa necessariamente di

comparazioni su larga scala.

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Alcune nozioni centrali dell’antropologia di Geertz

Si pronuncia: per una concezione della cultura come «testo agito» per una concezione dell’antropologia come comprensione del «locale» in stretto

rapporto con il «globale» per l’enfasi sui minimi dettagli, persino per gli aspetti meno importanti della cultura per la cultura come sistema simbolico, un sistema tuttavia all’interno del quale ha luogo

l’azione sociale e si produce il potere politico Gerrtz decostruisce nozioni antropologiche comuni come «cultura», «visione del

mondo», «consuetudine», «diritto consuetudinario», con una freschezza stilistica che è praticamente insuperata, e l’effetto della sua acuta e competente demolizione della presunzione dell’antropologia e delle sue tendenze positiviste è stato profondo.

Le sue raccolte di saggi sono probabilmente lette tanto fuori della disciplina che tra gli antropologi, e agli occhi di molti, bene o male, sono rappresentativi dell’antropologia nel suo complesso.

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Opere e vite e il contributo di Geertz alla riflessione postmodernista

Nel testo Opere e vite pubblicato nel 1988, egli esamina gli scritti di Evans-Pritchard, Malinowski, Lévi-Strauss e Benedict e, attraverso l’analisi delle immagini e delle metafore usate dagli autori da lui scelti, Geertz cerca di dimostrare che l’antropologia è semplicemente «un modo di scrivere»

Questa è una grande sfida, di stampo postmodernista, nei confronti della disciplina, una sfida che è comune presente nelle opere di autori francesi e americani apparse nel corso degli ultimi venti anni

Al giorno d’oggi Geertz resta uno degli esponenti più influenti dell’antropologia, sia dentro sia fuori la disciplina.

Il suo interpretativismo ha indubbiamente tracciato il sentiero su cui muove l’antropologia postmoderna, benché alcuni sostengano che egli non sia solo un precursore, ma parte del movimento

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Il postmodernismo e l’antropologia postmoderna

Riflessività

Orientalismo

Globalizzazione

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Caratteristche generali del postmodernismo

Critica alle forme della comprensione “moderna”

Rifiuto di teorie generali in antropologia Rifiuto di una concezione dell’etnografia

come descrizione “completa” di una cultura

Critica del concetto di autorità etnografica

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Riflessività e riflessivismo

La riflessività ha costituito una grande parte del nascente progetto postmodernista in antropologia a partire dagli anni Settanta

Il tema della riflessività, d’altra parte si riconnette direttamente al tema della comparazione: Benchè nella pratica degli antropologi si possano individuare diverse

forme e livelli di comparazione, è evidente che l’antropologia stessa nella misura in cui tende ad identificarsi sempre più con la pratica etnografica, può essere intesa come una forma di comparazione fra il se e “l’altro” e implica gradi diversi di riflessività

All’estremo di questa tensione verso la riflessività possiamo poi trovare persino una concezione dell’etnografia come riflessione sul sé e sulla propria cultura, ovvero la riflessione sul “sé” come etnografia

I precedenti storici che testimoniano la costante presenza di questa tensione alla riflessività possono essere considerati i diari di Malinowski e Tristi tropici di Levi-Strauss

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Riflessività e antropologia femminista

La riflessività ha forti legami con l’antropologia femminista che, negli ultimi vent’anni ha visto uno spostamento dall’approccio tipico degli «studi di genere» a uno che sottolinea la posizione della donna come etnografa oltre che come informatrice od oggetto di studio.

Anche se questo spostamento dal “genere” all’antropologa stessa come soggetto e oggetto del discorso antropologico, comporta il rischio di perdere «l’Altro» a causa dell’accento posto sul «Sé», esso tuttavia quando correttamente inteso costituisce una una prospettiva teorica (riflessivismo) dotata di grande rilevanza.

Un’ulteriore tendenza si riscontra negli studi dove la ricercatrice, partendo dalle proprie esperienze, si fa portavoce di una più ampia comunità di oppressi, o cerca di dare «voce» agli oppressi attraverso se stessa.

L’idea di fondo è che c’è qualcosa in comune tra i gruppi «subalterni» o subordinati, sia la subalternità sulla base del genere, della classe, dell’appartenenza etnica, o della storia dell’ingiustizia coloniale.

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L’antropologia come oggetto dell’antropologia

C’è ancora un altro tipo di riflessività, quella cioè che prende in esame non un Sé individuale, bensì uno collettivo: l’antropologia nel suo complesso, o almeno un gruppo di antropologi che condivide un interesse comune o un area geografica in cui fa ricerca.

Un esempio può essere il tipo di studio che esamina questo Sé collettivo in relazione non con i singoli informatori, ma con una cultura, costituita sia da eventi reali che dalle immagini di questa cultura descritte dall’etnografia.

Un buon esempio è costituito dallo studio di Alcida Ramos [1992] sull’etnografia degli yanomani: Ramos osserva che gli antropologi che hanno lavorato in Brasile tra gli yanomami li hanno

presentati in vari modi: fieri, carichi di erotismo, intellettuali, o semplicemente esotici. Sotto certi aspetti e in certe situazioni, gli yanomami sono tutte queste cose, ma l’immaginario che si è costruito attorno a loro è potente.

Ramos nota che la pubblicità dei media ha esagerato a tal punto le descrizioni etnografiche che alcuni etnografi, in particolare Napoleon Chagnon, sono stati spinti a rallentare l’uscita di nuovi libri e la ristampa dei vecchi volumi che avevano alimentato quella fiamma.

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Orientalismo e occidentalismo

Edward Said e il concetto di orientalismo Il discorso dell’occidente sull’oriente come

strumento di dominio Il concetto di “oriente” come strumento

per definire se stesso come “occidente”

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James Carrier e il concetto di occidentalismo

Le rappresentazioni semplificate dell’occidente da parte dei cosiddetti popoli “orientali”

Le rappresentazioni semplificate della propria società degli antropologi

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Le nostre rappresentazioni dell’alterità: prima e al di là dell’antropologia

Anche noi abbiamo, e abbiamo avuto, le nostre antropologie cui storicamente hanno corrisposto altrettante rappresentazioni dell’alterità:

l’incontro con l’alterità e la scrittura dell’alterità non sono operazioni esclusive dell’etnografia ,

Prima della nascita di etnografia, etnologia e antropologia, in Europa si era da tempo costruito un vero e proprio sapere, organizzato e coerente, prodotto in relazione alle due diverse strategie di conquista (quella politico-economica e quella religiosa) messe in atto dalla civiltà occidentale nei confronti delle altre popolazioni e civiltà incontrate e scoperte attraverso il viaggio;

E anche dopo la nascita dell’etnografia, diverse sono state le modalità secondo cui noi abbiamo rappresentato gli altri, trasformati in un libro o esposti in un museo, attraverso un linguaggio, sulla base del confronto, con intendimenti diversi, non solo e non sempre quello conoscitivo proprio dell’antropologia

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Le nostre rappresentazioni dell’alterità: la nascita dell’antropologia

Con il consolidarsi dell’antropologia, l’“ideale” teorico e metodologico divenne:

lo studio di piccole comunità relativamente isolate, categorizzabili come tante “culture”

rappresentabili attraverso la monografia etnografica, sulla base del concetto di cultura inteso, come scrive Clifford Geertz, come il «modo-di-vita-di-un-popolo».

Comunità, nazioni, civiltà, popolazioni (e in seguito anche regioni e gruppi etnici, classi e categorie sociali, per esempio “i giovani”), tutti dovevano avere una cultura: il compito dell’antropologo era, “andare là e poi tornare qui a raccontarci che cultura era”.

Sotto un certo profilo anche questa concezione dell’antropologia è espressione dell’azione della “ragione tassonomìca” che caratterizza il rapporto che l’Occidente ha impostato con le altre società sin dal XVIII secolo (Kilani, 1997), e che costituisce il comune denominatore di tutte le modalità di rappresentazione — e quindi, di categonizzazione e classificazione — dell’alterità.

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Le nostre rappresentazioni dell’alterità: gli anni “70 e la crisi della rappresentazione

A partire, all’incirca, dagli anni sessanta-settanta sono cambiati il mondo e le culture

è cambiato anche il modo di intendere il mondo e le culture

è cambiata l’antropologia

sono cambiati i paesi e i popoli che l’antropologia studia

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L’Occidente ha avviato nuove modalità di organizzare il rapporto con le altre società, che prevedono per esempio:

l’inserimento in un circuito turistico molto redditizio delle popolazioni esotiche (e dei luoghi e delle tradizioni)

la trasformazione dell’altro in un identico qualora questi si rechi presso una società occidentale

L’oggetto antropologico si è delocalizzato e il mondo si è globalizzato. Parallelamente al processo di delocalizzazione dell’oggetto

antropologico, che produce uomini categorizzati come immigrati e clandestini, e al processo di globalizzazione, che produce uomini d’affari e turisti le modalità del confronto con l’alterità sono di molto cambiate, e così le maniere di rappresentarla

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L’antropologia ha iniziato a esaminare queste dinamiche, che non possono non influenzare pesantemente anche il contesto antropologico

sia quello teorico, in riferimento alla nozione di “cultura”, che si è rivelata non più adeguata all’analisi di processi complessi, come l’ibridazione culturale

sia quello empirico, il cosiddetto “campo”, che non è più il luogo “puro” dove incontrare i nativi originari, ma un’eventuale “tappa” di un itinerario decisamente più articolato e “contaminato”

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La crisi della rappresentazione e la riflessione metodologica

Queste sono solo alcune delle domande che si sono affollate nella riflessione degli antropologi in questi ultimi quindici anni:

Come si è costituito storicamente il sapere antropologico? Attraverso quali processi l’antropologia ha definito il linguaggio, le metafore e i

concetti attraverso le quali ha “costruito” storicamente la rappresentazione dell’altro?

Come si è venuta definendo e articolando la relazione fra ricerca sul campo ed elaborazione teorica? Fra le diverse teorie antropologiche e la pratica etnografica?

Che tipo di operazione è quella di tradurre una cultura nel linguaggio di un’altra? Quali effetti di distorsione ideologica della realtà possono essere addebitati alla

rappresentazione dell’alterità costruita in 50 anni di pratica etnografica? Patirò da quest’ultimo punto per portare il discorso sui problemi che si

pongono a livello teorico.

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La crisi della rappresentazione e la riflessione teorica

L’osservazione partecipante, specificamente, implica che: le ricerche siano concentrate su singole popolazioni i risultati siano esposti attraverso un apposito modello, la monografia

etnognafica (un testo con particolari caratteristiche lmguistico-narrative), dando vita a una serie di saggi corposi e articolati che espongono dati omogenei su una cultura (utili per poi essere comparati).

Il paradigma funzionalista, e la cultura vista come un sistema funzionale, favorisce: la costruzione dell’immagine delle popolazioni come culture distinte, la rappresentazione di un’umanità frazionata in popoli, etnie, culture.

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Questi presupposti hanno esercitato un’influenza notevolissima sulle procedure di comparazione che sono alla base del discorso antropologico.

Benché gli antropologi non abbiano quasi mai sostenuto l’esistenza di discontinuità radicali fra le diverse culture, quest’idea della discontinuità , sembra essere: il risultato implicito e derivato dalla comparazione

antropologica stessa, che ha contribuito ad affermare e confermare la tendenza a reificare concetti come etnia e cultura.

l’effetto di quel processo tassonomico, al quale ha partecipato anche l’antropologia, e che è alla base del rapporto impostato da un certo momento in poi dall’Occidente con tutti gli altri popoli.

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Un processo che ha portato:

all’immagine di un mondo frazionato in etnie, popoli e culture distinte e ben delimitate.

all’idea delle frontiere semantiche fra culture come linee di separazione naturali e permanenti,

alla etnicizzazione degli altri (sia esterni sia interni alla propria società); secondo una logica di differenziazione-inferionizzazione.

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Frutti impuri e logiche meticce

Jean-Loup Amselle, nel libro “Logiche meticce”, ha esposto quelli che, a suo giudizio, sono gli effetti perversi di questo lavoro sistematico di costruzione di oggetti come le società, le culture e le etnie.

Secondo Amselle, tutta l’enorme attività intrapresa dagli antropologi allo scopo di selezionare dati e produrre tipologie atte a rendere conto della differenza socioculturale, sarebbe in qualche modo contaminata dal «peccato discontinuista» che crea le differenze laddove esistono solo delle continuità e delle sfumature.

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Questa ragione etnologica sarebbe responsabile delle grandi rotture e dicotomie che la

riflessione etnologica occidentale ha postulato tra un “noi” e gli “altri”.

ha costituito uno strumento di dominio, e non solo intellettuale, consentendo di controllare scientificamente l’altro e, al contempo, di dominarlo politicamente.

Secondo Amselle dovremmo sostituire a questa ragione etnologica una “logica meticcia”, che non faccia della distinzione il punto di partenza della riflessione sulla

differenza ma che, al contrario, contnibuisca ad affermare una prospettiva che parte

dall’indistinzione e dal sincretismo.

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Ciò equivale ad affermare che una nozione di cultura: come oggetto dotato di visibilità, una sorta di massa che si impone agli individui

determinandone azioni, pensieri e credenze ricostruibile nelle sue parti costituenti e rappresentabile come

un modello, una totalità è fonte di fraintendimenti teorici e di guai politici, è un “imbarazzo” dal quale l’antropologia, da quando ne è

consapevole, cerca con difficoltà di togliersi Le “culture”, viceversa, non sono “frutti puri”, ma sono mescolate,

contaminate l’una con l’altra, degli ibridi, insomma, che possono essere in qualche aspetto —mai nell’insieme — compresi solo partendo da una prospettiva che adotti una «logica meticcia».

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La cultura come costruzione sociale

Il risultato di questo travaglio critico è costituito dall’affermarsi un’idea di cultura: come relazione e costruzione sociale, come mezzo tramite il quale

gli uomini interagiscono” Opposta a quella di “sistema” ”originario”, ”essenziale”,

”immutabile”, ma un ”insieme di processi” mutevoli, dinamici, instabili, come l’identità.