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1 LEZIONE 4 L’età della Controriforma e il Seicento. LA RIFORMA ARTISTICA NELL’ITALIA DI FINE CINQUECENTO. Gli ultimi decenni del Cinquecento segnano la crisi definitiva dei valori della cultura e dell’arte rinascimentale, le cui prime avvisaglie erano già visibili nelle opere di uno dei maestri di cui si è argomentato la volta scorsa, ovvero quelle di Sebastiano Vini. Il clima spirituale determinato dalla riforma luterana aveva infatti generato tensioni religiose e morali, che la Chiesa di Roma tentò di arginare e controllare promuovendo un programma di rinnovamento. Il Concilio di Trento, svoltosi a più riprese tra il 1545 e il 1563 per affermare e contrastare gli errori di fede dei protestanti e insieme promuovere una riforma della disciplina ecclesiastica, elaborò direttive precise anche per gli artisti. In primo luogo vennero additati e censurati tutti gli eccessi e i virtuosismi del periodo manierista, cercando di indirizzare le arti verso un fine educativo in senso cattolico e verso la riedificazione, il restauro e l’abbellimento degli edifici ecclesiastici. La Controriforma dimostrò così di avere lucida consapevolezza del potere delle immagini, strumenti di propaganda e di convincimento. Nel mese di dicembre del 1563, infatti, durante la XXV sessione del concilio tridentino, venne dibattuto il problema delle immagini sacre, per respingere l’accusa di idolatria che i protestanti rivolgevano ai cattolici. Il decreto conciliare ribadì la legittimità del culto tributato alle immagini sacre, ma sancì anche il loro carattere strumentale, affermando che le opere d’arte dovevano soprattutto servire all’educazione e al coinvolgimento emotivo e spirituale del fedele. All’autorità ecclesiastica spettava, di conseguenza, la guida e il controllo della produzione artistica relativamente al problema dei contenuti e della forma: le opere d’arte non potevano apparire contaminate da falsi dogmi, cioè da teorie protestanti o ereticali, ma dovevano essere sottoposte a un processo di chiarezza e semplificazione che rendesse i contenuti immediatamente riconoscibili e comprensibili. Due scritti, i Dialoghi degli errori de’ pittori (1564) dell’ecclesiastico fabrianese Giovanni Andrea Gilio e il Discorso intorno alle immagini sacre e profane (1582) del cardinale bolognese Gabriele Paleotti espongono i principi elaborati sulle immagini

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LEZIONE 4

L’età della Controriforma e il Seicento.

LA RIFORMA ARTISTICA NELL’ITALIA DI FINE CINQUECENTO.

Gli ultimi decenni del Cinquecento segnano la crisi definitiva dei valori della cultura

e dell’arte rinascimentale, le cui prime avvisaglie erano già visibili nelle opere di uno

dei maestri di cui si è argomentato la volta scorsa, ovvero quelle di Sebastiano Vini.

Il clima spirituale determinato dalla riforma luterana aveva infatti generato tensioni

religiose e morali, che la Chiesa di Roma tentò di arginare e controllare promuovendo

un programma di rinnovamento. Il Concilio di Trento, svoltosi a più riprese tra il 1545 e

il 1563 per affermare e contrastare gli errori di fede dei protestanti e insieme

promuovere una riforma della disciplina ecclesiastica, elaborò direttive precise anche

per gli artisti. In primo luogo vennero additati e censurati tutti gli eccessi e i virtuosismi

del periodo manierista, cercando di indirizzare le arti verso un fine educativo in senso

cattolico e verso la riedificazione, il restauro e l’abbellimento degli edifici ecclesiastici.

La Controriforma dimostrò così di avere lucida consapevolezza del potere delle

immagini, strumenti di propaganda e di convincimento.

Nel mese di dicembre del 1563, infatti, durante la XXV sessione del concilio

tridentino, venne dibattuto il problema delle immagini sacre, per respingere l’accusa di

idolatria che i protestanti rivolgevano ai cattolici. Il decreto conciliare ribadì la

legittimità del culto tributato alle immagini sacre, ma sancì anche il loro carattere

strumentale, affermando che le opere d’arte dovevano soprattutto servire all’educazione

e al coinvolgimento emotivo e spirituale del fedele. All’autorità ecclesiastica spettava,

di conseguenza, la guida e il controllo della produzione artistica relativamente al

problema dei contenuti e della forma: le opere d’arte non potevano apparire contaminate

da falsi dogmi, cioè da teorie protestanti o ereticali, ma dovevano essere sottoposte a un

processo di chiarezza e semplificazione che rendesse i contenuti immediatamente

riconoscibili e comprensibili.

Due scritti, i Dialoghi degli errori de’ pittori (1564) dell’ecclesiastico fabrianese

Giovanni Andrea Gilio e il Discorso intorno alle immagini sacre e profane (1582) del

cardinale bolognese Gabriele Paleotti espongono i principi elaborati sulle immagini

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sacre durante il concilio tridentino. Queste opere richiamavano gli artisti all’ortodossia

religiosa, alla conformità alle fonti – le Sacre Scritture – e alla convenienza e decoro.

Venivano invece bandite l’ispirazione al mondo classico e la rappresentazione del corpo

umano nudo, cioè due degli elementi su cui si fondava la cultura figurativa del

Rinascimento.

Dal 1560 circa fino alla fine del secolo, pertanto, Roma fu il centro di elaborazione

dei nuovi modelli figurativi della Controriforma. Nella città papale si definì un nuovo

modello di edificio sacro, agibile e funzionale: la chiesa, liberata dalla stratificazione di

cappelle, altari e monumenti privati, doveva condurre l’attenzione dei fedeli fino

all’altare maggiore, dove si celebra l’eucaristia. L’ordine dei gesuiti, fondato nel 1540

da Ignazio di Loyola, contribuì in maniera determinante alla definizione di una pittura

controriformata. Il santo spagnolo ribadì negli Esercizi spirituali il valore didattico ed

edificante delle immagini sacre, in quanto oggetto di meditazione. La Chiesa dette inizio

a un processo di epurazione dell’immenso patrimonio iconografico della tradizione

cristiana, bandendo i soggetti che si prestavano a interpretazioni profane o che potevano

dar adito a pensieri troppo liberi, se non lascivi. Vennero privilegiati i temi adatti alla

meditazione e alla penitenza, come i momenti più drammatici della passione di Cristo e

gli episodi più edificanti di virtù cristiane. L’obiettivo era la promozione di un ritorno

agli ideali di semplicità della Chiesa primitiva. Contro l’intellettualismo, le bizzarrie e

le licenze della maniera, gli artisti ricercarono l’estrema chiarezza e la verosimiglianza,

semplificando i modelli dei grandi maestri. Massimi rappresentanti di questa tendenza

furono alcuni artisti romani di adozione, come Scipione Pulzone, Federico Barocci e

Federico Zuccari, che risolsero la crisi del manierismo recuperando e selezionando gli

schemi del passato, interpretandoli in modo personalissimo (FIG. 1, 2 e 3). Ne vediamo

brevemente qualche esempio, per comprendere meglio quali fossero gli esiti ottenuti dai

singoli artisti nei confronti dei mutamenti religiosi di cui abbiamo sopra accennato.

Scipione Pulzone, allontanatosi dalla natia Gaeta in giovane età, risentì a Roma di

influssi molteplici, elaborando uno stile eclettico, come se fosse “senza tempo” – come

lo ha definito il critico Federico Zeri –, che ben corrisponde alla regolata mescolanza

indicata dalle teorie di Andrea Gilio. In seguito alla collaborazione con Giuseppe

Valeriano, il linguaggio dell’artista mosse verso un più astratto razionalismo. Famoso

soprattutto come ritrattista, Pulzone eseguì anche quadri devozionali attenendosi

strettamente al programma ideologico della compagnia del Gesù. Nella Sacra Famiglia

con san Giovannino e sant’Anna della Galleria Borghese recupera i modelli del

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classicismo e di Raffaello in particolare, traducendo il soggetto in una dimensione

domestica e familiare, capace di commuovere il fedele che la guarda (FIG. 1).

La pittura di Federico Barocci appare libera da ogni schematismo dogmatico e

lontana da qualunque conformismo devozionale ed esprime quell’autentica volontà di

rinnovamento che aveva caratterizzato i tentativi della riforma cattolica. Rifacendosi,

oltre che a Raffaello – a Correggio, il pittore conquista un tono di domestica confidenza

con i personaggi della storia sacra e una peculiare tavolozza, fatta di colori evanescenti

e cangianti. Dopo un esordio romano – la decorazione del casino di Pio IV eseguita tra

il 1561 e il 1563 – Federico lasciò Roma e rientrò ad Urbino nel 1565, per immergersi

nella realtà della provincia che offriva spazio alla sua inquieta creatività pittorica. Di

questo periodo è la Deposizione per la cappella di San Bernardino nel duomo di Perugia

(FIG. 4), caratterizzata da un forte empito drammatico e dall’accensione cromatica che

recupera la grande tradizione coloristica del secolo, soprattutto emiliana e veneta. Di

alcuni anni successiva è la grande Madonna del popolo degli Uffizi (FIG. 5).

Tipici esponenti del complesso ambito culturale romano di fine XVI secolo sono

Taddeo e Federico Zuccari, che operarono nel campo della nuova pittura devozionale ed

eseguirono cicli decorativi profani. Nella sala Regia in Vaticano o nel ciclo per la

residenza Farnese a Caprarola, i fratelli Zuccari dettero la migliore prova del loro gusto

sontuosamente decorativo e accademico, che diffusero in tutta Europa (FIG. 6). A

Firenze Federico completò, tra il 1575 e il 1579, la decorazione della cupola di Santa

Maria del Fiore che Vasari aveva lasciato incompiuta (FIG. 7).

I PRIMI SEGNALI DI CAMBIAMENTO IN TOSCANA.

Non è però un caso che la pittura degli Zuccari abbia trovato una grande eco nella

Toscana granducale. Lentamente ma inesorabilmente, infatti, anche a Firenze e in

Toscana il linguaggio manierista, sostenuto e avallato dalla corte di Cosimo I, andava

modificandosi ed evolvendosi alla luce delle nuove esigenze storiche e dei suoi

interpreti. Queste modifiche dovettero comunque convivere – almeno per alcuni decenni

– con il permanere di forme espressive dominanti, che erano il frutto della lezione

impartita ormai da anni dal Vasari e dalla sua scuola, rappresentata in maniera

significativa dalla straordinaria Deposizione del corpo di Cristo di un artista ben ancora

all’universo vasariano e michelangiolesco: Giovan Battista Naldini (FIG. 8)1. Sebbene

1 Il Naldini nasce a Firenze nel 1537 circa e vi muore nel 1591.

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siano evidenti molte variazioni, il quadro parrebbe il modello preparatorio per un’opera

ancora più grande, come quella dipinta nel 1572 per l’altare di Santa Maria Novella a

Firenze. Il concitato svilupparsi delle forme d’ispirazione salviatesca in quest’opera

sente già il profumo della nuova ventata di semplicità e naturalezza che ne ha smussato

le esasperazioni e gli eccessi formali in un clima di sentito dolore, di maggiore umanità.

Ne sono complici l’accentuazione drammatica del timbro chiaroscurale e le morbide

gamme cromatiche, delicate e sfumate, che sembrano accennare a un simbolismo dei

colori, contribuendo a creare un tono maggiormente partecipato.

Il panorama dunque stava cambiando e il gusto eccentrico, elegante e raffinato degli

artefici dello Studiolo di Francesco I in Palazzo Vecchio, attivi fra il 1570 e il 1572,

lasciava il posto a una più aperta visione della vita e delle cose, a un sentire via via più

umano e sincero, meno distante dalle emozioni interiori. Inoltre l’adeguamento del

linguaggio artistico agli ideali tridentini di convenienza e verosimiglianza poteva

ricollegarsi e basarsi sugli esempi recenti – e mai dimenticati – di inizio secolo: il

classicismo devoto di Fra’ Bartolomeo e il patetismo affidabile di Andrea del Sarto. In

questo senso, vera e propria “palestra” per gli artisti riformati fiorentini fu il ciclo di

affreschi con le Storie di san Filippo Benizzi, eseguiti da Andrea nel chiostrino dei Voti

dell’Annunziata, che indicava come si potesse fare arte sacra in forme semplici, ma

connotate dalla verità degli affetti e dalla nobiltà delle ambientazioni (FIG. 9).

La svolta in questa direzione avviene soprattutto grazie alla personalità di Santi di

Tito2, principale innovatore toscano del lessico degli ultimi decenni del Cinquecento.

Nativo della provincia aretina, dopo un soggiorno romano durato dal 1548 al 1564, si

stabilì a Firenze, divenendo il protagonista di una riforma pittorica che ambiva a un

duplice obiettivo: la profonda revisione della cultura manieristica e l’adesione agli ideali

e ai programmi del rinnovamento religioso contro riformato. Per ottenere tali obiettivi,

Santi si rivolse agli esempi dei già ricordati maestri di inizio Cinquecento, che

attraverso la correttezza del disegno filtravano i dati del reale. Per riportare alla

memoria la sensibile attenzione e la spontaneità semplice e quotidiana del suo

esprimersi, dobbiamo guardare queste quattro tavolette dove si narrano le sette opere di

misericordia, eseguite dal pittore nel 1579 per l’Arciconfraternita omonima di Firenze:

Dare da bere agli assetati, Vestire gli ignudi, Alloggiare i pellegrini e Visitare i

carcerati (FIG. 10-13). Oltre al caratteristico stile “colloquiale”, delicato e vivo nei toni

di una narrazione che acquista un sapore naturale e spontaneo, Santi di Tito introduce

2 Nato a San Sepolcro, in provincia di Arezzo nel 1536 e morto a Firenze nel 1603.

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un senso della religiosità più partecipe e vicina al fedele, frutto del proprio sentito

legame con le confraternite laicali cittadine, al punto che colui che riceve il conforto

delle opere di misericordia è Cristo in persona. Questi elementi si affermano pienamente

anche nelle opere mature dell’artista, come la grande pala con la Visione di san

Tommaso della chiesa di San Marco a Firenze, dove l’evento miracoloso si realizza in

condizioni di perfetta naturalezza (FIG. 14). Evidente è anche il recupero arcaizzante di

strutture prospettiche e modi compositivi neoquattrocenteschi, come nella Cena in

Emmaus di Santa Croce e nell’Entrata di Gesù a Gerusalemme, in cui la veridicità

dell’intento catechistico si esprime con chiarezza e grande politezza delle forme (FIG.

15 e 16).

Assieme a Santi di Tito, altri giovani artisti come Bernardino Poccetti, Jacopo da

Empoli, Agostino Ciampelli e Andrea Commodi partecipano al cambiamento, in un

clima in cui l’avvento controriformistico non rende certo congeniale la personale

autonomia di espressione; benché l’essere chiamati ad importanti imprese pontificie, o

comunque ecclesiastiche, rappresenti un’occasione di grande prestigio. Ciò permetteva

di affacciarsi sulla scena artistica, ma significava pur sempre essere al servizio di una

rigida politica delle immagini. Per questo motivo dobbiamo cercare di capire lo sforzo

che dovevano effettuare i talenti più originali per aggirare le rigide norme di una

rappresentazione iconografica per lo più limitante, e intuire quegli accenni di originalità

che le personalità più indipendenti riescono talvolta a far emergere, assumendo una

valenza fondamentale per la svolta artistica che avverrà a breve.

Fra esse spiccano alcuni artisti, quali Alessandro Allori, Ludovico Cigoli e Jacopo

Ligozzi – quest’ultimo nostro trait d’union con l’importante tela di Pietrabuona in

Valleriana –.

L’arrivo a Firenze del giovane Jacopo Ligozzi fu di certo di grande stimolo

nell’orientare la scelta delle politiche figurative verso una visione più naturalistica, ma

anche i comuni interessi verso Venezia dei contemporanei Cigoli e Passignano aprirono

la strada ad un’importante strategia della luce e del colore, che dette i suoi frutti

soprattutto verso la metà del secolo XVII. Del veronese Ligozzi, dovette colpire la vena

poetica, la serenità espressiva, la predisposizione al naturale, che sfocia nella scientifica

minuta attenzione per i dettagli, che l’artista doveva avere già ben saldi. Jacopo nasce a

Verona nel 1547, ma svolge gran parte della propria attività a Firenze dove, a parte

brevi viaggi nella città natale, a Mantova e a Roma, rimane fino alla morte – avvenuta

nel 1627). Egli risulta immatricolato a Firenze nel 1578 all’Accademia di San Luca, ma

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il suo arrivo in città risale all’anno precedente ed è legato alla sua straordinaria pratica

di disegnatore di naturalia, di riproduttore di aspetti rari, scientifici e curiosi, che

esegue per il granduca Francesco I e per il naturalista bolognese Ulisse Aldovrandi

(FIG. 17). Nella serie dei Pesci e in quella dei Volatili e insetti abbinati a piante

emergono una strenua aderenza al vero e una curiosità lucida e appassionata per

l’analisi del mondo visibile, che sembrano anticipare il clima scientifico che, con

Galileo Galilei, aprì l’Europa al metodo della ricerca sperimentale. Proprio a questa

esperienza di miniatore si può ricollegare la ricerca dei particolari, l’attenzione per i

dettagli, che vengono scrupolosamente indagati e riprodotti per gli aspetti curiosi, anche

nei temi d’arte sacra, tanto che spesso possono essere riconoscibili anche ascendenze

con la pittura nordica, che egli ebbe modo di studiare nella sua natia Verona. È il caso

del San Girolamo penitente, a lui recentemente attribuito, descritto in un momento di

meditazione, con un libro aperto tra le mani, di fronte ad un semplice crocifisso ligneo

conficcato nella pietra. il santo è, come di consueto, seminudo, coperto solo dal

mantello fermato alla vita da un nastro (FIG. 18). Al suo fianco la tipica fiera

ammansita ricorda il miracolo del leone addomesticato a cui il santo aveva tolto una

spina dalla zampa. Il volto di san Girolamo è teso e segnato da un netto chiaroscuro, gli

occhi sono concentrati sul crocifisso con uno sguardo profondo, mentre il corpo è ben

definito nella sua possente muscolatura. L’ambiente è spoglio, un’abitazione diroccata

che si apre verso un paesaggio che si perde in lontananza. Pochi oggetti adornano la

scena: in primo piano due elementi, come memento mori, cioè il teschio della

meditazione, rivolto verso lo spettatore con un’espressione quasi di scherno, e la

clessidra da cui inesorabile scende un filo di sabbia. Alle spalle del santo una piccola

immagine devozionale della sacra famiglia, pochi libri appoggiati su una mensola

retrostante culminanti con una mela e una boccetta di vetro colma a metà. La minuta

indagine verso il dato reale coinvolge tutta nella scena raffigurata: i cunei di legno che

servono ad incastrare la croce nella pietra, il ramoscello flessibile che lega il braccio di

quest’ultima alla corteccia che lo contiene e addirittura la riproduzione delle annotazioni

a margine del testo del codice.

Il San Girolamo è un tema con il quale il pittore si cimenta diverse volte all’interno

della sua attività pittorica, modificando sempre la composizione, in una continua ricerca

sperimentale. Ligozzi adegua a sviluppa il soggetto ma imposta il dipinto sempre in

modo semplice e chiaro, mostrando particolare attenzione verso la costruzione dello

spazio pittorico, regolato da una rigorosa prospettiva e ricercando un attento

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bilanciamento dei volumi della composizione. Interessante e doveroso è il confronto

con le altre due tele con il medesimo tema: il San Girolamo penitente di Casa Vasari ad

Arezzo e il San Girolamo sorretto da un angelo del convento di San Giovannino degli

Scolopi a Firenze, datato 1593 (FIG. 19-20). L’episodio del santo, così come

tramandatoci dalla Legenda Aurea di Jacopo da Varagine, viene ogni volta reinventato.

Nella prima tela poc’anzi discussa si predilige l’interpretazione del santo come dottore

della chiesa e uomo di lettere; per questo viene rappresentato con l’evidente

anacronismo degli occhiali da utilizzare per leggere i testi sacri. Nella tela di Arezzo si

descrive invece il momento della mortificazione, in cui il santo inginocchiato si

percuote il petto con una pietra, e rivolge lo sguardo al crocifisso. La situazione è

differente, ma gran parte dell’allestimento scenico e prospettico mostra evidenti affinità:

simili sono infatti i brani di natura morta che circondano la figura, il teschio, la clessidra

e l’immagine devozionale che ricompare in questi dipinti. Si tratta della semplice

stampa acquerellata e stropicciata, tipica reliquia di pellegrini e viandanti, che si ritrova

anche nell’altra tela appena ricordata del San Girolamo sorretto da un angelo. In questo

caso la scena è decisamente più complessa e articolata, ma gli elementi dello sfondo

sono ancora simili ed è ugualmente riconoscibile la mano del Ligozzi: il nitido taglio

delle pietre del suolo, la disposizione dei libri sulle mensole in equilibrio precario, la

medesima boccetta di vetro in una ricercata impostazione prospettica, lo stesso

crocifisso su cui uguale è la ricaduta della luce che crea un’ombra sulla schiena del

Cristo.

Anche continuando il confronto con dipinti di differente soggetto, restano evidenti i

rimandi al pittore: la stessa pietra con profonde spaccature si ritrova nella Pietà con il

Tempo e la Morte – in collezione Drury Lowe –, la struttura del corpo del san Girolamo

richiama le figure della pala con la Trinità e i santi Agostino, Pietro, Luigi re di Francia

e Antonio abate – eseguita per la chiesa di Sant’Eufemia di Verona – in cui si possono

verificare raffronti nel possente chiaroscuro, nella caratterizzazione della fisionomia dei

volti e nell’accuratezza nella descrizione delle barbe fluenti e incanutite (FIG. 21).

Al medesimo artista va inoltre ascritta questa affascinante e nobile figura di San

Paolo, monumentale e solida, con le gambe ben piantate sul basamento in pietra appena

accennato e immersa nella penombra, con due raggi di luce alle sue spalle che sembrano

quasi suggerire la croce di un sant’Andrea, nella quale appare ancora viva la

suggestione della pittura veneta, dal caldo impasto cromatico agli splendidi riflessi di

gusto tintorettiano (FIG. 22). È un venetismo forte e vigoroso, che non manca di

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mostrare ricordi manieristi dell’Italia centrale e che va fatto risalire ad un periodo

successivo. Ma ciò che più colpisce, al di là della forte e monumentale presenza della

figura, appoggiata sul piede sinistro avanzato sulla lastra che ci appare in primo piano, è

la somiglianza che si evince nella stesura secca dei panneggi e nei giochi delle pieghe

che ricadono pesanti. Vi si respira una fisicità tutt’altro che apparente, ma nell’insieme

il santo incarna una profonda ricerca psicologica che Ligozzi crea ripercorrendo la storia

della ritrattistica del Rinascimento, ispirandosi a quella interiorizzazione d’animo e di

sentimenti, di forza e di carattere che è alla base dell’intensità trasmessa da questo

personaggio.

Per certi versi il San Paolo si collega alle opere del pittore appartenenti alla sua

maturità, come nella Madonna col Bambino e san Francesco di Palazzo Pitti, firmato e

datato 1621 (FIG. 23). Il naturalismo delle figure e la severità di certi volti si avvicinano

al primo dipinto menzionato, che risulta essere cronologicamente più prossimo ad una

fase del San Francesco in preghiera davanti al crocifisso (FIG. 24). Punti di contatto e

tangenze che leggiamo anche in quest’altro sorprendente quadro di soggetto similare,

conservato nella chiesa romana di San Giovanni dei Fiorentini (FIG. 25). La visione

lunare e surreale nella quale è ambientato l’episodio mistico e assolutamente fantastica,

poetica e insieme fiabesca, con un insieme di componenti nordiche che rispecchiano gli

interessi e le ricerche che Jacopo attua nel campo dello studio della natura, attento e

preciso, descrittivo e minuto, come nell’analitica indagine del sottobosco in primo

piano, con rovi e fronde, con il tronco spezzato e con il libro aperto sul teschio.

Affascinante poi appare la soluzione dei raggi luminosi che trapassano le nubi e i rami,

che rimanda il pensiero a Elsheimer o al giovane Rubens mentre nello sfondo collinare

colpito dalla luce fredda ricorrono modelli più comuni ai fiamminghi in Italia, come

Paul Brill.

Infine, con semplicità e verosimiglianza figurativa e con uso di strumenti atti al

coinvolgimento emotivo e alla suggestione fantastica dell’osservatore il Ligozzi dipinge

ad affresco alcune lunette con Storie di san Francesco del chiostro di Ognissanti e il

Martirio di san Lorenzo a Santa Croce a Firenze (FIG. 26 e 27). Vedremo più avanti

come il suo Cristo Bambino Redentore di Pietrabuona debba essere riconosciuto come

una delle opere più innovative del panorama artistico della Svizzera pesciatina.

Alessandro Allori, che dopo la morte di Vasari si dimostrò essere il principale

protagonista della cultura pittorica fiorentina, appare più di altri come baluardo della

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tradizione artistica locale, legato alla pittura del Bronzino, suo maestro. Sviluppò,

pertanto, nelle opere a soggetto sacro – quali il Cristo e l’adultera di Santo Spirito e

l’Annunciazione per le monache di Montedomini, oggi all’Accademia – un linguaggio

chiaro e al tempo stesso prezioso, che risponde pienamente alle esigenze di immediata

comprensibilità e al misticismo dell’ultimo quarto del secolo (FIG. 28 e 29). Questo

aspetto domestico e devoto divenne stereotipo nelle opere della sua produzione tarda,

con il ripetersi di tavole gremite di personaggi e ricche di suppellettili.

Con Jacopo Chimenti, conosciuto come l’Empoli, diviene particolarmente chiaro

quanto sia stato fondamentale l’innesto del colorismo veneto nella pittura toscana, in

particolare nella perduta pala dell’Assunta raffigurante gli Apostoli attorno al sepolcro,

eseguita entro il primo decennio del nuovo secolo per la chiesa fiorentina di San

Michele Visdomini (FIG. 30). Dai singoli dettagli si evince bene quanto anche lui sia

rimasto colpito dall’impasto pittorico denso, reso cromaticamente vivace da game di

colore vivo. La parte mancante della tela doveva corrispondere all’immagine

dell’Assunta del Seminario Arcivescovile di Firenze o, forse ancora di più, a quella

nella chiesa dei Santi Michele e Lorenzo di Montevettolini e della pala con la Vergine in

gloria nella chiesa di Santa Margherita a Cortona (FIG. 31 e 32).

Nel 1559 cade la data di nascita di due artisti fondamentali per il rinnovo della

cultura figurativa fiorentina, Domenico Cresti detto il Passignano3 e Ludovico Cardi

detto il Cigoli4, accomunati anche dal soprannome del rispettivo luogo d’origine. Se per

il Cresti, la giovanile lezione manierista – sostenuta dall’apprendistato presso Federico

Zuccari, che era giunto a Firenze nel 1575 per ultimare la decorazione ad affresco della

cupola di Santa Maria del Fiore lasciata incompiuta l’anno precedente per la morte di

Giorgio Vasari – viene ammorbidita e sfumata dal soggiorno veneziano, la passione per

il colore dei veneti è innata per il Cardi, che ne apprezza le valenze anche attraverso

Correggio e le opere del Barocci. Passignano gode naturalmente della sua manifesta

sicurezza di derivazione zuccaresca, che si esprime in termini di monumentale presenza

dei corpi e di un equilibrio scenico compositivo, ambientato sempre più con chiaroscuri

avvolgenti. Di sicura mano del Cresti è questo interessate foglio di Studi per Tobia che

rende la vista al padre e per un’Adorazione dei Magi, che sul retro ci mostra anche il

progetto assai veloce, a carboncino, per una cappella, con la veduta frontale e quella

laterale di profilo (FIG. 33 e 34). Un segno scorrevole, continuo e fluente, estremamente

veloce e nel contempo vibrante, caratterizza questo disegno ricco di molte idee 3 Nato a Passignano, in provincia di Firenze nel 1559 e morto a Firenze nel 1638. 4 Nato a Cigoli, in provincia di Pisa, nel 1559 e morto a Roma nel 1613.

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progettuali. Si tratta per lo più di schizzi a sola penna, riquadrati, per avere già l’idea

della sua realizzazione. Per il Tobia che rende la vista al padre abbiamo uno studio più

grande al centro, e un altro sulla destra in basso, più contrastato perché realizzato con

l’acquerello, mentre immediatamente sopra quest’ultima scena, quasi a sormontare, la

figura schizzata di Tobia che si protende. Nella parte superiore del foglio altre soluzioni

velocemente schizzate: la prima idea per un’Adorazione dei Magi e altre due più piccole

di non semplice decifrazione, forse per lo stesso Tobia. Il disegno si confronta

facilmente con gli esemplari nella medesima tecnica, alcuni dei quali riferibili

all’impresa su ardesia in Palazzo Vecchio realizzata dal Passignano nel 1597, in seguito

alle due grandi scene dipinte dal Ligozzi, interessante per i disegni preparatori che di

essa conosciamo, entrambi a penna e inchiostro bruno, con la Cerimonia d’investitura –

oggi a Chicago – e quello agli Uffizi che raffigura la Cerimonia di un matrimonio

principesco, insieme agli altri due sempre agli Uffizi che con essi si relazionano,

raffiguranti gli studi per l’Ultimo commiato fra i santi Pietro e Paolo. Corrispondono le

teste a forma ovoidale e la tendenza alla semplificazione delle forme dei corpi,

all’improvvisazione e alla modifica sopra la modifica. Assai convincente è anche il

confronto con il disegno di San Pietro guarisce lo storpio, per la folle vivacità del segno

a penna assai fluente, con in più l’acquarello rispetto al nostro, preparatorio per la pala

già in San Pier Maggiore e oggi a Lucca (FIG. 36). L’energia e la velocità sono aspetti

che accomunano il segno del Passignano con la grafica a penna del Cigoli, benché

questo ultimo sia più secco e tagliente rispetto all’insistenza curvilinea nervosa del

Cresti. Li accomuna anche l’abitudine a schizzare sul medesimo foglio più scenette e

studi completi di quadri anche di soggetti differenti, come vediamo in vari esempi di

disegni conservati al Louvre, nel foglio con la Madonna del Rosario. All’idea che gli

artisti si formassero ancora sugli studi dal vero, che nel caso del Passignano è per altro

già nota grazie allo Studio di scheletro girato verso sinistra conservata al Louvre,

abbiamo una conferma nel ritrovamento di questo Studio di anatomia maschile che è

stato attribuito al Cresti (FIG. 37). Il segno ondulato e sinuoso appare il medesimo che

abbiamo rilevato nell’altro foglio, poiché essenziale nel tratto ed interessante per la

definizione ovoidale che l’artista crea nella ricostruzione delle proporzioni del busto.

Ludovico Cardi detto il Cigoli, è certo il più dotato in termini di creatività e di

originalità, legato com’è mentalmente ai ghiribizzi manieristi, anche rudolfine,

sapientemente aggiornate sul versante lagunare, con l’impasto cromatico tizianesco, sui

recuperi correggeschi e sul dialogante accordo con Barocci. Nelle sue opere si colgono

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le principali caratteristiche di novità e di autonomia che lo fanno uno dei più originali

innovatori della pittura fiorentina. Avversario delle ultime fazioni del manierismo

toscano, il Cigoli sa aggiornare le fonti del suo stile, sugli artisti che hanno rinnovato la

pittura di fine secolo, da un lato Annibale e Ludovico Carracci e dall’altro Federico

Barocci, per vedere le opere del quale compie viaggi ad Arezzo e a Perugia. Allievo

dell’Allori e del Buontalenti, inizia a lavorare come architetto di apparati scenici e

organizzatore di feste alla corte medicea. Grazie alle sue doti di pittore, oltre che di

scenografo e prospettico, è ammirato e protetto dei Medici. E proprio i saldi rapporti

intessuti con la corte dovettero favorire il suo impegno. La fierezza che incarna il

Ritratto di Giovanni de’ Medici, giovane condottiero impettito davanti alle tende del

proprio accampamento, rispecchia ancora pienamente lo spirito dell’uomo del

Rinascimento (FIG. 38). Cigoli lo dipinge nel 1596, come indica la scritta in basso a

sinistra. Il personaggio effigiato, conosciuto come don Giovanni, figlio di Cosimo I e di

Eleonora degli Albizi, nasce nel 1567 e, come il suo famoso antenato del quale porta il

nome, fa carriera militare al servizio di Filippo II di Spagna e di Alessandro Farnese

nelle Fiandre, fino ad essere nominato, nel 1595, generale dell’artiglieria imperiale di

Rodolfo II d’Asburgo contro i Turchi. Oltre a essere stato un condottiero, come ci viene

tramandato da questa immagine che lo immortala nella carica di generale da poco

conseguita, don Giovanni è stato un importante ingegnere e architetto. Con una stesura

pittorica densa e corposa, cromaticamente vivace, il dipinto rivela quella suggestione

veneta cara ai pittori fiorentini di quegli anni, in questo caso arricchita di riflessi dorati

sui tessuti delle maniche e sulle tende, creati con screziature e colpi rapidi del pennello

fin sull’elsa, sulle bordure e sui finimenti. Nella robusta severità del fiero aspetto e per

certi brani di solido neovenetismo, il Cigoli qui si accosta ai modi dell’amico

Passignano, limitando l’originalità al brano con i soldati che appaiono nel fondo fra le

tende e nei ciuffi mossi dei capelli ondulati del generale.

Al Cigoli è stata giustamente ricondotta questa sensuale e, per i tempi, anche

provocatoria immagine di Venere con l’amorino che mostra gli attributi di Marte (FIG.

39). La Venere è nuda, distesa su un tappeto di morbido velluto rivestito dal candido

lenzuolo col bordo ricamato e presenta le sembianze di un ritratto. Il volto, che è

indagato con minuzia di dettagli, richiama la raffinatezza di certe tipologie della corte

medicea e, sebbene riguardi probabilmente l’immagine di una cortigiana, per la qualità e

l’importanza della committenza, potrebbe anche trattarsi di un’opera legata alla corte

medicea. Elegante nell’acconciatura, con i capelli raccolti dietro la nuca e un velo che le

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scende sulle spalle, la donna, forse una bella dama cara al committente per il tono

licenzioso con il quale si esibisce, è agghindata con orecchini, un bracciale in oro

tempestato di pietre preziose e un semplice velo trasparente che le scivola sulle gambe.

Lo sguardo intenso della dama fissa l’osservatore mentre viene distratta dall’amorino

alato che le mostra la corazza dell’amato accanto all’elmo e allo scudo. Le mani, assai

simili nella fattura a quelle del Ritratto suddetto, si appoggiano l’una elegantemente sul

velluto e l’altra a tenere il velo sulle gambe. L’opera risale alla prima maturità del

pittore, per la freschezza esecutiva suggellata dalle raffinatezze di talune scelte

cromatiche, realizzate con un colore pregnante e ricco di increspature, proprio perché

steso velocemente, con grande maestria e non esente da pentimenti. Alle tonalità

brillanti delle lumeggia ture si affiancano più delicati accordi dorati o la finezza in

chiave fiamminga del paesaggio, a un passo dai modi allora ben noti di Paul Brill.

La presenza del Cigoli a Roma, nel 1604, è legata al prestigioso incarico per la

basilica di San Pietro, dove esegue la lavagna con San Pietro che guarisce uno storpio

(FIG. 40). Negli anni successivi alterna ancora alcuni soggiorni fiorentini fino al

definitivo stabilirsi nell’Urbe nel 1609. Risale al successivo soggiorno romano l’Ecce

Homo del 1607 che monsignor Massimi vuole accompagnare a quello che già

possedeva del Caravaggio (FIG. 41). La conquistata fama fa sì che il pittore si

trasferisca in città, lavorando per il cardinale Scipione Borghese e per papa Paolo V. Tra

le opere di questi ultimi anni si ricordano la celebre tela raffigurante la Castità di

Giuseppe, del 1610, per il cardinale Borghese, l’affresco con l’Immacolata Concezione,

apostoli e cori di angeli nella cupola della cappella Paolina in Santa Maria Maggiore, e

gli affreschi con la Favola di Psiche nella loggia del sunnominato cardinale al

Quirinale, tra il 1611 e il 1613 (FIG. 42).

Alla maturità del Cigoli appartengono questo splendido Studio del volto di un frate

francescano, con il capo leggermente reclinato, caratterizzato da una profonda e

sensibile ricerca psicologica, dall’intenso e riflessivo sguardo rivolto all’osservatore,

venato di sottile malinconia che ci colpisce per la sincera espressione dei sentimenti,

l’insolita solidità e il vigore del personaggio (FIG. 43). L’inedito dipinto si pone in

relazione con altre due opere verosimilmente appartenute alla medesima serie, tutte

dipinte su un foglio di carta dalla simili dimensioni, raffiguranti degli Studi di teste di

frati, una con l’iscrizione sul recto in antico e l’altra emersa a Parigi, sul mercato

antiquario (FIG. 44-45). In entrambe si legge la medesima ricerca, forse più spigliata nel

primo, con il viso inquadrato frontalmente, velocemente abbozzato e vitale

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nell’incarnato, rispetto alla sensibilità introspettiva che anima l’indagine del volto del

secondo frate, più in sintonia con la profonda sensibilità di quello con il volto reclinato,

che precorre certi modi espressivi riconducibili alla tipologia ispirata dal Rosselli. Gli

studi di teste si confrontano molto bene anche con il viso della Maddalena di San

Miniato, particolarmente sensuale e databile verso il 1610 (FIG. 46).

ALCUNI EPOSIDI ISOLATI TRA SIENA, LUCCA E LA PROVINCIA FIORENTINA.

Anche nelle città della provincia toscana è in atto un fermento nuovo, che vive in

parallelo al manifestarsi delle soluzioni finora espresse dalla cultura figurativa. Se

durante la seconda metà del Cinquecento il panorama artistico senese verrà dominato

dall’elegante formula manierista rivestita dalla delicata sensualità del barocchismo di

artisti come Ventura Salimbeni e Francesco Vanni, in piena coerenza con le loro scelte

lessicali si esprime anche il più anziano Alessandro Casolani che è protagonista della

scena pittorica locale. A lui spetta questa deliziosa Sacra Famiglia con l’angelo custode

che è come una vera e propria adorazione del Bambino, interamente concentrata attorno

ai protagonisti in un dialogo di gesti semplici e sinceri, di affetti e di emozioni

spontanee (FIG. 47). Raffigura l’ideale consegna del Bambino all’angelo custode;

un’immagine rara, di serena e calda intimità, ove gli accordi cromatici, sebbene in

sintonia con le gamme dei contemporanei Salimbeni e Vanni, appaiono più accesi e

vivi, con una caratterizzazione meno simbolica e più concreta, che bene si intende anche

nella vena pittorica carica di colore denso e corposo, estremamente vivace nella

pennellata di ricordo veneto. Basta osservare la sensibile velocità con cui realizza lo

scorcio in alto a destra, con l’annuncio dell’angelo, i tocchi della vegetazione qua e là

nel fondale di ruderi, o la grazia delicata della screziatura nei toni pastello delle ali

dell’angelo custode. Una sinfonia di accordi delicati e intensi, trasparenti e pieni che

rende questa tela un piccolo capolavoro di sensibilità, un’intima pausa di riflessione e

preghiera.

La competizione tra i grandi artisti fiorentini si sposta, nel frattempo, anche a Lucca,

dove costoro si fronteggiano in varie sedi. Nel percorso del Passignano va ricordato il

legame che lo ha impegnato in questa città, attraverso le pale d’altare nel duomo di San

Martino, nella prima cappella a destra la Natività del 1594 e nella quarta dallo stesso

lato la Crocifissione del 1598, ma anche il San Pietro risana lo storpio che, insieme alla

Consegna delle chiavi a Pietro di Federico Zuccari, del 1593, si trovava nella chiesa

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lucchese di San Pier Maggiore, oltre al San Giacinto risuscita un fanciullo annegato in

San Romano e al Noli me Tangere in San Francesco. Ma anche Ligozzi, sempre per il

duomo, realizza la Visitazione del 1596 (FIG. 48), sul secondo altare a sinistra, quando

già due anni prima, nel 1594, era venuto a Lucca a decorare con affreschi l’oratorio

della confraternita del Nome di Gesù, oggi perduto, con quella solenne Circoncisione

(FIG. 49), esposta ora in sacrestia del duomo che, insieme all’Adorazione del nome di

Gesù e al Battesimo di Gesù, le facevano da laterali nella cappella. I due artisti si

conoscono e si studiano; le loro opere rispecchiano questi legami di libero scambio e di

comune suggestione. E Cigoli dipinge una Adorazione dei Magi, già in Sant’Agostino e

ora al Museo di Villa Guinigi di Lucca, replica di quella di San Pier Maggiore a Firenze

(FIG. 50). Tali influenze dovettero essere stimolanti per i rari artisti locali di un certo

valore tra i quali riteniamo meriti attenzione il seguente pittore.

In questo Martirio di santa Agnese, il pittore lucchese Paolo Guidotti coniuga

l’elegante lezione senese di Salimbeni e Vanni, che si esplica nelle tonalità chiare e

fredde e in certe increspature dei profili aguzzi e delle vesti, alle novità in senso

naturalistico e monumentale proposte dal Ligozzi, per esempio nella Visitazione in

duomo a Lucca (FIG. 51). Il risultato è una immagine aspra e un poco tagliente, una

visione cruda, in primo piano, ravvicinata ed essenziale nel suo realismo. Tutti gli

elementi simbolici necessari sono concentrati sul patibolo del palcoscenico di una città

che ha la funzione di fondale, tutto chiuso e serrato. Le fisionomie dei volti si

confrontano infatti con quelle dipinte nella pala della Vergine che porge il Bambino a

sant’Agnese da Montepulciano nella chiesa di San Romano a Lucca, con quella di Santa

Zita che disseta un pellegrino (FIG. 52), nella guardaroba della chiesa di San Frediano,

e con alcune espressioni nell’Allegoria della Libertà lucchese del 1611, un’opera di

committenza pubblica dipinta al suo ritorno in patria dopo il soggiorno romano (FIG.

53). È proprio a Roma che il pittore aveva potuto approfondire le ricerche in direzione

naturalistica. Il legame di dipendenza dal Ligozzi non si limita alle opere lucchesi:

numerosi sono i richiami del veronese, ad esempio, nel dipinto del Martirio di san

Lorenzo, datato 1611 e dipinto per Santa Croce a Firenze. Non solo, anche l’elmo del

soldato di spalle ai suoi piedi pare la citazione più appropriata tratta dal maestro

veronese. Si comprende quindi il suo sviluppo in direzione naturalistica ma senza

abbandonare i ricordi manieristi, individuabili nel Mosè fa scaturire l’acqua dalla

roccia (FIG. 54), nella tribuna del duomo di Pisa, e nell’Ultima cena della pieve di

Santa Maria Assunta a Fabbrica di Peccioli (FIG. 55), dove il pittore cerca nuovamente

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la fusione degli elementi ligozziani con le prime istanze lucchesi, sulla ricerca del lume,

sulle ombre e a favore di un naturalismo inquieto, di rude e greve spontaneità, che

certamente doveva colpire giovani artisti come Paolini, che presso di lui forse mosse i

primi passi nell’arte della pittura.

Significativo per la cultura figurativa toscana è pure il forzato soggiorno lucchese di

Giovan Battista Paggi, fuggito dalla sua città natale Genova a causa dell’omicidio

compiuto per legittima difesa, dopo l’aggressione subita da parte di un nobile in seguito

alla lite nata per il mancato pagamento di un dipinto. Da qui la fuga verso sud, prima d

Aulla e poi a Pisa, ospitato dalla principessa di piombino che lo introduce nella corte di

Francesco I. Del lungo soggiorno fiorentino basta segnalare quello straordinario

capolavoro che è la Trasfigurazione in San Marco a Firenze che, oltre a condensare le

più moderne conoscenze figurative, cigolesche, del Barocci e veneziane, crea

un’atmosfera di tale mistica trascendenza da segnare indiscutibilmente lo spirito di

molti fiorentini (FIG. 56).

A quegli anni e, comunque, per una probabile committenza fiorentina, va segnalato

questo interessante disegno per una Sacra famiglia con san Giovannino, che si

confronta con altri realizzati nella medesima tecnica, tra cui quello datato 1592 sulla

pietra in basso, raffigurante il Ritratto della signora Testini con i propri figli (FIG. 57 e

58). L’aspetto particolarmente interessante, oltre a quello artistico e documentario,

riguarda il fatto che si tratta di disegni eseguiti dal pittore per conservare il ricordo

dell’esecuzione, un vero e proprio archivio, una memoria, dal momento che entrambi

recano la scritta in calce che indica il committente dell’opera. Anche stilisticamente i

disegni hanno poco il sapore dello schizzo preparatorio e dello studio, quanto piuttosto

della ripresa e del ricordo di un’opera.

CONTRORIFORMA E NARRAZIONE. IL TENTATIVO DI UN NUOVO LINGUAGGIO.

Il linguaggio artistico rimaneva, però, fortemente condizionato dalle pressioni di una

esigente regola che imponeva una didattica controriformistica con idee e scelte ben

chiare. La prevalente committenza religiosa richiedeva una lettura immediata del testo

pittorico da parte dell’osservatore e una lezione impartita dalle immagini; di

conseguenza anche la narrazione delle tematiche sacre pagava il prezzo di quella rigidità

di schemi che non poteva che frenare la fantasia di molti artisti.

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La conferma delle vigenti e ancora diffuse norme che regolavano l’utilizzo delle

immagini ci viene offerta dalla significativa ed esplicita testimonianza riguardante il

programma iconografico per la decorazione ad affresco del chiostro dell’Annunziata di

Firenze. A questa evidente situazione l’artista poteva sopperire con una narrazione

discorsiva, che tenesse conto delle storie e degli episodi raccontati, permettendo una più

complessa e articolata messa in scena dei programmi iconografici. È così che nascono le

opere più interessanti tra lo scadere del Cinquecento e i primi decenni del secolo

successivo, quelle che mettono alla prova l’artista nella scelta fra la rigorosa narrazione

imposta dai canoni e il tentativo, in qualche maniera singolare, di esprimere il proprio

sentire. Vanno anche ricordate le molte committenze private che cominciavano a

richiedere soggetti non soltanto sacri, ma anche mitologici, storici e profani,

permettendo all’artista quello sfogo verso creazioni più libere e originali che lasciavano

spazio ad una maggiore autonomia.

In questo contesto merita un discorso a parte lo stile di Francesco Curradi, forse

l’esponente più rappresentativo e prolifico della pittura devozionale fiorentina della

prima metà del Seicento, il principale rappresentante del linguaggio religioso di questi

decenni, colui che ha saputo interpretare con uno stile sempre efficace e riconoscibile

per l’immediata lettura delle composizioni, la dolcezza degli sguardi e la morbidezza

del chiaroscuro, toccando i sentimenti più intimi del credente. Alla giovanile

formazione presso la bottega del Naldini, il Curradi aggiunge una precoce

emancipazione verso le moderne tendenze, già visibile nella Purificazione della

Vergine del 1589 in San Niccolò Oltrarno a Firenze, tra le sue prime opere certe, ben

prima della sua immatricolazione, avvenuta nel 1590 presso l’Accademia del Disegno. I

suoi primi lavori autonomi sono eseguiti per Volterra: la Madonna col Bambino e santi

per la chiesa di San Lino e la Nascita della Vergine nella cappella Collaini in cattedrale

riflettono il nuovo spirito e la freschezza della pittura riformata di Santi di Tito e di

Ligozzi (FIG. 59). In seguito l’artista esegue le opere per Sant’Angelo a Legnaia, la

Crocifissione e la Vergine e santi del 1602, nelle quali si evidenzia l’influenza di Cigoli

e dei suoi seguaci, mentre la pacatezza delle espressioni è ispirata dal Passignano.

Curradi trova la propria dimensione come pittore di opere devozionali, seguendo i

principi dettati dalla Controriforma, e per questo viene apprezzato dai gesuiti e dai

vallombrosani, conquistando una vasta clientela grazie a quel suo stile narrativo

delicato, semplice e nobilitante, per il quale è innegabile che egli condensi e rivisiti tutte

insieme le suggestioni subite da Jacopo da Empoli. Con il primo artista le somiglianze

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appaiono maggiormente evidenti, in una vera e propria riproposizione sia di fisionomie

– che vanno dai visi degli angeli a quelli dei cherubini – sia di composizioni, come

nell’esempio del grazioso e giovanile rame che ripropone la pala dell’Empoli con

l’Assunta che appare agli apostoli (FIG. 60). Il raggiungimento della maturità artistica

avviene entro i primi vent’anni del Seicento, periodo in cui si vanno delineando le

caratteristiche del suo stile pittorico e dove l’artista predispone, attraverso la ripetizione

di schemi e di modelli consolidati, quell’estesa creazione di immagini chiare e

comprensibili che lo rendono facilmente riconoscibile.

La frequentazione della personalità più venerata dell’ambiente religioso fiorentino,

colei che diviene santa Maria Maddalena de’ Pazzi, fa sì che Curradi sia riconosciuto

come il suo ritrattista ufficiale; sono numerose le effigi che di lei esegue, contribuendo

non poco alla diffusione della sua immagine. Nel 1607 al pittore viene anche

commissionato di ritrarre le sue vesti mortali e questo dipinto, insieme all’album degli

ottantasette disegni con episodi della sua vita, stabilisce un vero programma

iconografico per le successive immagini che rappresentano la santa. Interessante nel

contesto cronologico di questi anni appare inoltre l’Assunzione della Vergine e santi,

proveniente da Anghiari, e la deliziosa fanciulla che personifica l’Allegoria della

Sapienza (FIG. 61 e 62).

Fra il 1616 e il 1617 l’artista è impegnato con i più noti pittori fiorentini a lui

contemporanei nella decorazione della Casa Buonarroti, dove dipinge una tela con la

Fama che innalza Michelangelo sopra agli altri pittori. A partire da questi anni Curradi

realizza sia la Predica di san Francesco Saverio agli indiani per la chiesa fiorentina di

San Giovannino degli Scolopi, sia l’elegante Narciso alla fonte di Palazzo Pitti, e

l’Erminia fra i pastori commissionate dal cardinale Carlo de’ Medici e destinate al

Casino di San Marco. A una fase successiva risalgono le sette lunette su tela con le

Storie di Maria Maddalena per la cappella restaurata della villa di Poggio Imperiale e

una bella versione della Rebecca al pozzo (FIG. 63). L’episodio della deliziosa fanciulla

che disseta Eliezer, inviato da Abramo per trovare una sposa al figlio Isacco, è

inquadrato in primo piano. Il tema sembra dunque celare, forse motivato dal

committente della tela, una sottile allusione al matrimonio. Il volto di Rebecca rimanda

a uno dei dipinti più affascinanti del Curradi, i Progenitori con Adamo ed Eva in

compagnia dei loro figli, databile agli anni venti del Seicento (FIG. 64).

Importante è anche questa Risurrezione di Cristo dalla complessa architettura

compositiva (FIG. 65). Alla ieratica immagine di Cristo redentore, in piena luce, fanno

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riscontro nel fondo i soldati addormentati e le pie donne recatesi al sepolcro; per il

soldato in primo piano, Curradi utilizza fedelmente il cartone che ha usato alcuni anni

prima per la medesima figura dipinta nella Decapitazione di san Paolo, conservata nella

cappella di San Paolo o degli Inghirami nella cattedrale di Volterra.

Nel 1633, dopo aver lavorato a Roma, il pittore ottiene il cavalierato dell’Ordine di

Cristo, e la sua notorietà si estende oltre i confini della Toscana; esegue opere per

Assisi, Napoli e Bergamo dove, nella chiesa di San Pancrazio, dipinge una Immacolata

Concezione e santi, e i due laterali raffiguranti l’Annunciazione.

Alla maturità del pittore appartiene quest’inedita tela con Mosè salvato dalle acque,

caratterizzata dalle inconfondibili delicate e dolci immagini dei suoi volti femminili

(FIG. 66). Il loro chiaroscuro morbido e sfumato delinea visi sereni e devoti che

ricorrono facilmente nelle sue opere, come vediamo nel caso del Bagno di Susanna già

alla Royal Academy di Woolwich o della Santa Caterina d’Alessandria a mezzo busto

del Museo civico di Montepulciano (FIG. 67).

Si ricordano inoltre alcune pale d’altare sparse nel contado che presentano affinità

con le tele presentate: a Pontremoli, in Lunigiana, a Pietrasanta, a Livorno, a Greve in

Chianti. A Firenze nella chiesa di San Frediano in Cestello, nel transetto, vi è la sua

Madonna in gloria e santi (FIG. 68).

Nella fase avanzata della sua attività non si verificano rilevanti mutamenti di stile, se

si esclude una semplificazione delle composizioni e un generale intorbidamento dei

toni. La maggiore scioltezza pittorica non fa perdere al Curradi la capacità di dipingere

immagini monumentali e di forte caratterizzazione espressiva come vediamo in alcuni

apostoli dell’Ultima cena nel duomo di San Martino a Pietrasanta (FIG. 69). Tra le

opere più tarde ricordiamo una Incoronazione della Vergine del 1646 per il romitorio

delle Celle del Paradiso di Vallombrosa e altri dipinti raffiguranti santi appartenenti

all’ordine realizzati per lo stesso ambiente nel 1648. All’anno seguente risale la Predica

del Battista per la cappella Rondoni in Santa Trinita a Firenze.

L’altro protagonista del nuovo secolo, anch’egli particolarmente dedito alla

produzione religiosa e la cui bottega diviene presto un notevole punto di riferimento e di

prestigio proprio per la capacità narrativa del suo maestro è Matteo Rosselli. Lasciato

erede universale alla morte di Gregorio Pagani, il Rosselli torna a Firenze dopo

l’importante soggiorno romano del 1605, vedendosi lanciato in significative

commissioni medicee. In occasione delle nozze di Cosimo II con Maria Maddalena

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d’Austria nel 1608 i Medici gli chiedono alcune pitture di archi trionfali e, due anni

dopo, i chiaroscuri commemorativi per la morte di Enrico IV e alcuni cartoni per arazzi.

Il suo stile delicato e raccolto, composto e posato, piace molto alla committenza

ecclesiastica e la sua vasta produzione si estende sull’intero territorio toscano, come nel

caso del ciclo pittorico per la tribuna del duomo di Pisa, eseguito prima del 1623, o

della particolarmente significativa presenza nel duomo di Pietrasanta. La due pale

d’altare, la Risurrezione di Cristo del 1647, sul primo altare a destra, e la Madonna del

Rosario, sull’altare del transetto sinistro, sono infatti sinonimo della divulgazione di

immagini narranti, chiare e di semplice lettura, che la sua bottega produce per più di due

decenni (FIG. 70 e 71). In particolare quest’ultima si distingue per la vena briosa e

vivace con cui Rosselli dimostra la propria spigliata bravura nel brano che incorona

simbolicamente la scena di rose canine intrecciate ai quindici medaglioni a monocromo

con gli episodi della Via Crucis. Sembra invece differenziarsi dal suo repertorio la

figura della giovane devota in abito turchese a braccia incrociate, che incarna una

maggiore sensibilità espressiva e una più moderna scioltezza naturalistica di stampo

cortonesco. Dobbiamo mettere in relazione quest’ultima figura con l’enfatica gestualità

rosselliana presente in diverse opere fiorentine: nella tela di San Domenico che risana il

nipote del cardinale di Fossanova caduto da cavallo in Santa Maria degli Angiolini –

del 1627 – (FIG. 72), nella mano dell’angelo nella Santa Cristina assistita in carcere

nella cappella della Natività in San Michele e Gaetano, nella figura che indica in primo

piano nell’affresco di Innocenzo IV che assegna suo nipote a protettore dell’ordine, nel

chiostro della Santissima Annunziata.

In contrapposizione alle vaste commissioni pubbliche che lo vedono imporsi da

protagonista per almeno il primo quarto di secolo, vogliamo segnalare questa intima

Adorazione del Bambino con l’annuncio ai pastori nello sfondo (FIG. 73). Vi si

raffigura la sacra famiglia ove il Bambino, appena nato, ancora nella mangiatoia, rivesta

già il suo ruolo di Messia, si fa uomo e annuncia, con il sostegno della luce divina, la

parola del Signore ai genitori. Il pittore sembra creare un parallelo fra i due annunci,

entrambi illuminati dai bagliori in un’ambientazione notturna particolarmente

suggestiva.

Un altro interessante esempio riconducibile all’artista è rappresentato dalla vasta tela

con la Cacciata di Adamo ed Eva dal Paradiso, da porsi in relazione con un disegno a

carboncino e sanguigna (FIG. 74). Per il raffinato livello grafico esso sembra costituire

un ricordo dei protagonisti del dipinto e per la morbidezza dei paesaggi di piano e la

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finitezza pare quasi un’anticipazione dei modi di un altro artista della prima metà del

Seicento, Ottavio Vannini – che vedremo tra poco –.

LA NUOVA GENERAZIONE A CONFRONTO TRA CLASSICISMO E STRAVAGANZA.

Tra i più importanti collaboratori ed allievi degli artisti del primo Seicento – non

esclusa la bottega stessa del Rosselli – emergono due nomi: Giovanni Bilivert e

Ottavio Vannini, nati entrambi nel 1585, le due facce della medesima cultura

figurativa, i due opposti che convivranno, tentando talvolta di incontrarsi, fino a morire

nello stesso anno, il 1644, tracciando da un lato l’impronta stravagante e originale,

dall’altro la tradizione ancorata al disegno, alla purezza e ad un certo rigore formale.

Con Bilivert iniziano ad essere espressi i primi sintomi di apertura ai valori di libertà

e di autonomia artistica, trovando nuove formule espressive, permettendo un lento

cambiamento nella cultura di allora. Forse la pressione che derivava dalle regole

iconografiche imposte si stava verosimilmente allentando e si aprivano comunque

ulteriori orizzonti tematici in una committenza che non era più strettamente religiosa.

Come fosse frizzante lo spirito del Bilivert è sotto i nostri occhi come lo era a quelli del

suo maestro Cigoli, a cui dovette piacere da subito visto che lo portò con sé a Roma.

Questo è tanto più vero se sfogliamo i suoi studi preparatori, dove la lezione cigolesca è

resa più snervata e sciolta e dove il tratto diviene ancor più frenetico. Un esempio della

sensibilità creativa è questo foglio con Angelica e Ruggiero, prima idea per il soggetto

conosciuto nella tela in deposito a Palazzo Pitti, eseguita per il cardinale Carlo de’

Medici per la Villa della Petraia verso il 1624, e nell’altra versione della Cassa di

Risparmio di Prato (FIG. 75 e 76).

Sul versante opposto, l’altra personalità, certamente sottovalutata nel panorama

artistico toscano, è Ottavio Vannini. La rigorosa monumentalità, che è stata definita di

classicismo neocinquecentesco, risale all’alunnato presso il Passignano e allo studio

delle opere romane di Michelangelo e di Raffaello. La sua dimestichezza con gli artisti

del Rinascimento e le sue qualità erano già ben note ai contemporanei, tanto che i

Medici si rivolsero a lui quando, negli anni venti, gli commissionarono le copie delle

opere di Perugino e di Andrea del Sarto da loro acquistate. Proprio queste caratteristiche

di vigorosa ed insieme elegante e solenne sostenutezza formale ci possono aiutare a

riconoscere la sua mano in questo Sacrificio di Isacco (FIG. 77). La tela è la nuova

versione del fortunato tema vanniniano, tra le migliori rispetto agli esemplari già noti di

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Bari, dell’antiquario Giovanni Pratesi di Firenze e del Musée Henry di Cherbourg, per i

quali è stato individuato un disegno preparatorio a matita rossa al Gabinetto dei Disegni

e delle Stampe degli Uffizi (FIG. 78). Soggetto amato dal pittore, esprime la

discendenza dal Fontebuoni e dal Passignano, suoi maestri, e si intuiscono i rapporti di

stile intessuti con Cesare Dandini, in particolare negli splendidi e squillanti cromatismi

delle vesti. Tra i confronti più incalzanti, all’interno del raro percorso dell’artista

fiorentino, ricordiamo quello con la Rebecca al pozzo del Kunsthistorisches Museum di

Vienna (FIG. 79), che appare assai significativo per i molti rimandi stilistici e formali

con il San Luca in ottagono al Museo dell’Ospedale degli Innocenti di Firenze e con la

tela di Anania che restituisce la vista a san Paolo, che presenta una precoce suggestione

derivata da Lorenzo Lippi. La monumentale visione del soggetto testimonia da un lato

l’avvenuta maturazione e dall’altro la conquistata abilità del pittore alla visione “in

grande”, ormai abituato ad intervenire nelle importanti imprese decorative fiorentine,

come documentano gli affreschi nelle lunette della villa di Poggio Imperiale e del

Casino Mediceo.

Del pittore è interessante anche una piccola Sacra famiglia d’intonazione

devozionale, dai caratteristici colori vanniniani, che si inserisce nel contesto del suo

percorso in una datazione entro il terzo decennio (FIG. 80). L’intima modulazione di

prezioso stampo rinascimentale non esclude al pittore di esprimersi con quella tipica

vigoria passignanesca che si legge nella figura di san Giuseppe, nel suo ampio gesto e

nel volto espressivo che assomiglia a quello dell’Abramo appena visto, come

l’amorevole viso della Vergine ricalca il profilo dell’angelo o dello stesso Isacco, in un

repertorio di immagini che sapeva assecondare le esigenze psicologiche e umane. Trova

confronti anche con alcuni dettagli nelle opere più mature, dipinte per la cappella Del

Rosso nella chiesa dei Santi Michele e Gaetano a Firenze: il volto barbuto di Giuseppe è

simile a quelli nelle tele con la Vocazione di Pietro e Andrea e a quella del Battista che

indica Gesù a sant’Andrea (FIG. 81 e 82).

Va restituita inoltre alla maturità del Vannini questa interessante tela che raffigura

una donna assorta nei suoi pensieri e con le vesti lacerate che sostiene il volto con il

braccio appoggiato su un libro, probabile Allegoria della Penitenza (FIG. 83). La donna

deve essere confrontata in special modo con Giaele uccide Sisara del Seminario

Maggiore di Firenze (FIG. 84) e con le figure femminili dell’Allegoria della Prudenza,

nella sala degli Argenti di Palazzo Pitti, nel viso dallo sguardo intenso e severo, nei

contrasti tonali e nelle identiche pieghe dei panneggi.

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Tra gli allievi del Rosselli, Jacopo Vignali entra assai giovane in bottega, come era

spesso prassi a quel tempo, distinguendosi dal maestro per una pennellata più fremente

e vivace; più nervoso e squillante è il colore, più naturalistiche le espressioni dei volti.

A lui deve essere ricondotto questo piccolo modello per una pala che raffigura la

Madonna col Bambino entro un coro di angeli che appare ai santi Giovanni

evangelista, Domenico, suor Domenica dal Paradiso, Francesco e Giuseppe (FIG. 85).

Il giovane Jacopo era in relazione con il convento della Crocetta, ubicato a Firenze tra le

attuali via Capponi e via Laura, e fondato da suor Domenica. Quest’ultima è raffigurata

al centro della tela senza nimbo in quanto non canonizzata, riconoscibile per la piccola

croce rossa posta sul manto nero che distingueva la sua veste da quella delle

domenicane. Il bozzetto preparatorio risale probabilmente a questo momento iniziale del

pittore, durante gli anni della peste agli inizi del terzo decennio, quando la religiosa era

vista come taumaturga. L’esecuzione si lega alle relazioni da lui intessute con il

convento delle monache; presenta tutte le caratteristiche di spigliata freschezza e di

fragrante spontaneità tipiche della sua attività giovanile, come si può vedere dal

confronto con la pala firmata e datata con la Vergine e santi che esegue nel 1616 per il

Santuario della Madonna del Sasso presso Santa Brigida a Firenze.

Una figura di San Lorenzo, nonostante la pesante vernice ingiallita che ne offusca la

lettura, si dimostra una interessante aggiunta al percorso del sensibile pittore fiorentino

(FIG. 86). Il santo non manca infatti di essere osservato in un atteggiamento di

melanconica riflessione, di delicato e sereno ripiegamento e la testa risalta dall’ampio e

decorato volume della dalmatica, in un vibrante balenare della luce che lo rende vicino

al sentire narrato nelle mistiche visioni di Zurbaran. Uno studio del volto simile a quelli

esaminati a proposito del Cigoli, nel quale si esprime lo spirito del Vignali, in quella

testa di capelli arruffati e nell’attento interpretare le modulazioni dell’epidermide che è

la caratteristica della sua distinzione dal maestro Rosselli e che lo avvicina al San

Silvestro papa che battezza l’imperatore Costantino della Galleria Palatina di Firenze e

ad alcune figure presenti nella Circoncisione del duomo di Pontremoli (FIG. 87 ). Un

analogo interesse alla monumentale costruzione dell’immagine, abbastanza insolita nel

suo percorso, dimostra questo assorto San Girolamo in preghiera, la cui profondità

espressiva ispira particolare occasione di meditazione (FIG. 88). La tela presenta il

santo intensamente impegnato nella lettura, attorniato dai tipici simboli della sua

iconografia, realizzato con una stesura vibrante, in cui è possibile intravvedere molti

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pentimenti. Particolarmente vivace è la lacca dell’ampio manto rosso e intensa è la

caratterizzazione del viso, sapientemente modellato, incorniciato dalla folta, morbida e

vaporosa barba bianca. Accennati con semplicità, emergono dal fondale scuro altri

volumi e il cappello cardinalizio, mentre il realistico brano di natura morta a destra

mostra una indubbia qualità in questo genere, contraddistinta dalla resa pittorica della

cesta di paglia intrecciata, con il teschio inclinato, il calamaio, con il sottile colpo di

luce della piuma, e il dettaglio naturalistico delle rape bianche, unico alimento

dell’eremita.

Ricordando poi l’Ascensione di Cristo del duomo di Pietrasanta, databile alla

maturità del suo percorso, al medesimo periodo risale questa interessante opera di

misericordia raffigurante San Luigi di Francia che accoglie alla sua tavola tre poveri

(FIG. 89 e 90). L’episodio è assai chiaramente narrato nelle tela dove il Vignali si

mostra ancora capace di una verve pittorica che gli permette di inscenare con spirito e

sagacia il pranzo tra il santo francese, visto di profilo a capotavola, e i commensali dalle

folte capigliature sciolte, tra portate fumanti, brocche e bacili pieni di virgole e svolazzi.

Luigi IX appare sulla sinistra raffigurato con la corona e il nimbo, riccamente abbigliato

con il manto reale, mentre distribuisce il pranzo a tre poveri anziani seduti sugli

sgabelli, che il pittore raffigura con sapiente carattere naturalistico. Sulla destra, nel

retro della stanza, due altri giovani servitori preparano le bevande da portare in tavola e

un grande bacile in primo piano aspetta di essere utilizzato per la lavanda dei piedi.

Un discorso a parte merita quest’affascinante immagine di giovane donna, un

Ritratto di fanciulla nota come la Bettona, esempio rappresentativo che illustra

l’importanza delle sensuali figure femminili nella pittura fiorentina del Seicento (FIG.

91). A Cesare Dandini va restituita la tela per questa sua intensa sensibilità emotiva,

caratteristica del pittore. Il volto, particolarmente bello ed elegante, rimanda infatti

all’istante al Ritratto della Bettona, famoso esemplare di immagine femminile

appartenuto alla quadreria del principe Lorenzo de’ Medici, nel quale Cesare esprime

tutta la sua raffinata qualità, già sperimentata da giovane nella realizzazione di quei

piccolissimi ritratti femminili in rame che lo fecero conoscere in quel modo di operare

(FIG. 92). Il volto della donna, nella sua raffinata bellezza, appare più intenso e

naturale, con quella lunga chioma che le scende con disinvoltura sul seno, leggermente

meno idealizzato rispetto al più noto esemplare fiorentino, più smaltato, quasi di

porcellana. Il profilo e le fattezze della spalla e del braccio, se confrontati a quelle del

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nostro dipinto, sembrano più allungati soprattutto nella parte in penombra, quando

invece la collana di perle, l’orecchino pendente e il nastro rosso tra i capelli

costituiscono una variante di maggiore eleganza. Dunque una intensità assai più

espressiva, più vera e sensibile, che fa pensare di essere di fronte alla prima redazione

eseguita direttamente sul modello: quasi un dipinto realizzato per sé, per la delicata e

morbida attenzione del Dandini nella resa epidermica e psicologica della dama. La vena

naturalistica del pittore si esprime anche nella sensualità della Giovane donna con la

fattucchiera, dove la fanciulla si esibisce mostrandosi con una camicetta bianca

plissettata, dal pizzo nero, con una libertà e una freschezza assai simile a quella della

nostra Bertona, caratteristiche che condivide con l’avvenente Armida nella tela Rinaldo

ferma Armida nel momento del tentativo di suicidio (FIG. 93 e 94).

Il tenore di queste opere di Cesare Dandini conferma i rapporti esistiti con Francesco

Furini, artista al quale va assegnata questa giovane e deliziosa fanciulla, nelle vesti della

Maddalena (FIG. 95). Si tratta di un vero ritratto del tipo di donna prediletto dal pittore

che ci appare dalla penombra mentre esibisce, con un raffinato cenno, sorretto dalle

sottili e lunghe dita, il piccolo vaso degli oli profumati in piena luce. Questo viso dai

toni liquidi e sfumati, che spunta dal fondo con le ciocche di capelli fluenti, intrecciati

dal nastro rosso, e dai delicati colpi di perle, ricorda il Ritratto di fanciulla dei depositi

delle Gallerie fiorentine, oltre alla Santa Lucia della Galleria Spada (FIG. 96). La

visione ravvicinata del soggetto, con l’inquadratura in primo piano del volto, rimanda

alla Santa Caterina d’Alessandria – in collezione privata –, che attira l’occhio

dell’osservatore sullo sguardo e sulla forma tornita del viso, come se volesse colpire

l’attenzione di chi osserva, con il gesto delicato della mano che accentua tutta la

preziosità della sua forma dai riflessi rosati. È un esempio della prima maturità del

Furini, quando il suo stile ben disegnato e contenuto dai nitidi contorni incomincia a

sfaldarsi, fondendosi nello sfumato e conquistandoci per la raffinatezza e l’eleganza

delle sue fattezze emotive e sognanti.

LA VIA LUCCHESE TRA BAGLIORI E NATURALISMO.

Sembra importante, a questo punto, accennare almeno alla grande fortuna che il

linguaggio di Caravaggio e dei suoi seguaci ebbe non soltanto a Roma, ma anche in

Toscana. In particolare gli artisti lucchesi si distinguono dai fiorentini per quella

peculiare scelta che orienta i loro interessi verso gli studi degli effetti creati dal

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chiaroscuro a lume di candela e per quello spirito caravaggesco che deriva dalla ricerca

del naturalismo. Ben si adatta a descrivere meglio la situazione artistica regnante nella

città e nel contado lucchese è questo quadro a forma ottagonale rappresentante Erodiade

e Salomè osservano la testa del Battista portata dal carnefice (FIG. 97). Se azzardata o

insolita sembra la scelta compositiva del suo artefice, altrettanto misteriosa ci appare

anche la sua identificazione. L’elevata qualità ne fa uno dei capolavori degli anni trenta

per l’intensità dell’ambientazione, il clima particolarmente crudo e insieme mistico nel

quale è vissuta la morte del Battista. La luce che si irradia dalla sua testa mozzata sul

piatto illumina le due donne, madre e figlia, che ci appaiono nel buio, l’una allungando

e tenendo il collo per prenderne le distanze con orrore, alzando il mento e guardando

con le palpebre socchiuse, l’altra sporgendosi come incuriosita e soddisfatta del risultato

ottenuto. Il dramma della morte compiuta e quel senso di spiritualità che la testa emana,

simboleggiati dal cromatismo color pastello nelle tinte arcobaleno che diffonde, è reso

ancora più misterioso e suggestivo dall’impaginazione in primo piano e dalla cupa

atmosfera, che permette di scorgere a mala pena sulla destra le inferiate della cella dove

il santo è rimasto rinchiuso. La vigorosità, la freschezza di una stesura pittorica rapida

ed essenziale, anche a larghe e veloci pennellate, e l’originalità inventiva ci fanno

pensare ad un’opera giovanile di un artista di talento fra quelli nati già nel nuovo secolo,

corrispondendo allo stile di molti – Giovanni da San Giovanni, Cecco Bravo, il

Volterrano, Lorenzo Lippi –, senza però essere fiorentino. Anzi, proprio a causa di quel

crudo naturalismo, steso con essenziale vigore e sommarietà, ci fa pensare che il pittore

sia un lucchese: Pietro Picchi. Va tuttavia rilevato come la resa pittorica della testa del

Battista, illuminata da colori cangianti e bagliori iridescenti, sembra discendere

direttamente dal cromatismo di Matteo Rosselli.

Ad un momento di qualche anno successivo, ancora però in sintonia con i modi

dell’Erodiade e Salomè, è questa speciale Maddalena a lume di candela (FIG. 98). Se

nella fisionomia è ancor più evidente l’ideale femminile di Pietro Ricchi, è nella stesura

pittorica dei lunghi capelli che le scendono sulle spalle, della veste bianca e dei colpi di

luce sul crocifisso, sul teschio e sul vaso degli oli che si rivela il legame che unisce le

due tele, attraverso una pennellata larga e sapiente, espressiva e sintetica. Il corpo

sensuale appare invece costruito su modelli più classici, in una interpretazione di certi

esempi fiorentini, come quelli del Vannini maturo, del Dandini e del Furini.

Il capitolo sull’altro grande pittore lucchese, Pietro Paolini, inizia con questo

Ritratto di un gentiluomo con il cappello a lume di lucerna, forse un letterato (FIG. 99).

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Il ritratto deve essere confrontata con il Giovane che dipinge al lume di una lucerna, per

quella poetica sensibilità materica, sottile e delicata (FIG. 100). Presentato in un angolo

del suo studio, davanti al tavolo sul quale espone, insieme alla lettera, gli strumenti

necessari per la scrittura quali il calamaio e la penna, egli è colto nell’atto di accendere

con la mano sinistra una lanterna e con la destra una candela dallo stoppino della

lucerna. Il gentiluomo ci osserva con sguardo fermo, deciso e bonario, con l’intento di

esprimere il desiderio di farsi conoscere per le sue capacità innovative, di far luce nel

campo dove detiene le conoscenze. La fioca luce si diffonde nella stanza, creando effetti

straordinari sui corpi ove si posa, sul viso dell’uomo, con quel tocco di realtà sottile

dato dal bagliore che colpisce la pupilla, sugli sbuffi della manica bianca, sull’ampio

mantello rosso che cade dalla spalla, sulla modellata Venere nello sfondo.

Ripercorrendo brevemente le prime e più salienti vicende della sua vita, assai scarsa

di notizie documentarie, abbiamo l’impressione di essere di fronte ad un inizio

particolarmente promettente. Sappiamo infatti che nel 1603 Pietro veniva battezzato

nella cattedrale di San Martino, da genitori membri del più antico lignaggio della città di

Lucca. Secondo i suoi più accreditati biografi, nel 1619, terminati gli studi di

grammatica, Pietro si trasferisce a Roma e viene posto sotto la tutela di Angelo

Caroselli. Dunque a sedici anni il Paolini viene introdotto in una delle botteghe più

promettenti e aggiornate del momento, in anni nei quali si viveva un senso di

sbandamento per il vuoto lasciato dai grandi artisti che avevano svoltato il secolo ma, al

contempo, pieno di aspettative per tutti i giovani emergenti che approdavano nell’Urbe

colmi di speranza ed entusiasmo. Annibale Carracci era morto nel 1609, Caravaggio

l’anno dopo, Borgianni nel 1616; Saraceni nel 1619 era partito per Venezia e

Gentileschi era in procinto di intraprendere i suoi viaggi, mentre siamo poco prima

dell’avvento di Pietro da Cortona. Oltre alle opere lasciate da costoro, non

dimentichiamo comunque i molti stranieri che il Paolini ebbe la possibilità di

frequentare, come Vouet, van Hontorst, Ter Brugghen o Ribera. Tornato a Lucca

probabilmente verso il 1627 per la morte del padre, intraprende un altro viaggio di

studio a Venezia, passando certo dalla Bologna di Reni e Cantarini, per tornare nella

città natale nel 1631. Forse più di tutti, però, egli ebbe modo di assorbire l’arte aspra e

tagliente di Paolo Guidotti, morto a Roma nel 1629: i suoi modi toccano lo stile del

Paolini soprattutto nella pala con il Martirio di sant’Andrea nella chiesa di San Michele

in Foro a Lucca e nella Madonna col Bambino e santi a Villa Guinigi (FIG. 101 e 102).

È inoltre altrettanto interessante parlare di questo suggestivo dipinto, una Adorazione

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dei pastori, nella quale le suggestioni di stile si intrecciano con i nomi degli artisti a lui

contemporanei (FIG. 103). In una ambientazione a lume di candela, dove le tenebre

sono rotte dal bagliore dorato che emana Gesù Bambino, da un alto, e dalla lanterna che

la fanciulla ravviva con uno stoppino sulla destra, Paolini sviluppa, come su un

bassorilievo antico, il proprio splendido repertorio d’immagini tra il naturale e il divino,

in una intima e raccolta dimostrazione di gesti sentiti e partecipati. La scioltezza

pittorica con cui Paolini narra lo sfondo è un ricordo desunto dal fare fuso e neoveneto

di Pier Francesco Mola, a conferma di una approfondita cultura figurativa, aggiornata

sulle più moderne soluzioni pittoriche.

RELIGIOSITÀ ED ARTE DELL’ETÀ MODERNA IN VALDINIEVOLE E IN VALLERIANA.

A seguito di questa ampia introduzione sul panorama artistico nella Toscana di età

moderna, possiamo cercare di comprendere le opere di quest’epoca presenti nell’area

pesciatina e nella Valleriana, avendo ben chiara la cornice generale che può averle

prodotte. A questo punto, perciò, non dovrebbe stupirci se la quasi totalità dei manufatti

artistici che presenteremo qui, sarà di carattere religioso, poiché abbiamo capito quali

siano stati i presupposti da cui può essere stata partita la richiesta da parte di una

committenza aggiornata ed esigente. Per quanto riguarda Pescia e la Svizzera pesciatina,

in particolare, dovremo sforzarci di immedesimarci nel clima di allora; un clima, da una

parte, denso di devozione, dall’altra teso a glorificare la magnificenza della Chiesa e di

tutti i suoi apparati, comprese le forme di aggregazione laicale, le confraternite. Per

farlo ci aiuteremo ancora una volta prendendo come punto di partenza una chiesa

pesciatina, San Francesco, vero tesoro d’arte custodito fortunatamente fino ad oggi.

Chi vi entrava, ai primi del Settecento, trovava molti arredi e immagini visibili

ancora tuttora; altri invece, forse in maggiore quantità rispetto ad oggi, si affollavano

davanti agli occhi dei fedeli. Nella prima cappella a sinistra, dei Cardini – di cui

abbiamo già parlato nella scorsa lezione – il devoto poteva inginocchiarsi davanti al

grande Crocifisso che era apparso stillare sangue il 13 ottobre 1599. Trovava poi, nel

transetto sinistro, il Martirio di santa Dorotea di Jacopo Ligozzi (FIG. 104), con il

Cristo morto dipinto ad affresco sotto la mensa dell’altare. Certamente nel transetto

destro poteva edificarsi alla vista del San Carlo Borromeo, ancor ivi collocato. Più

indietro, sull’altare di San Francesco, spostata dal fondo della chiesa in quel punto dove

prima era un organo cinquecentesco, si trovava la tavola con l’antica figura del santo

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circondato con scene dei miracoli, allora non immediatamente visibile ai fedeli, poiché

coperta da stoffe preziose e ricami, come avveniva per la maggior parte delle immagini

sacre per le quali si credeva che la santità crescesse quanto più venisse preclusa alla

vista. Il tabernacolo dell’altare maggiore era a sua volta circondato da un’allegoria delle

quattro Virtù con angeli. Il fedele, proseguendo la sua visita nella chiesa, non poteva

non essere attratto sulla destra, dalla grande raffigurazione cinquecentesca dei Diecimila

martiri crocifissi (FIG. 105). Sicuramente lo sguardo poteva indugiare sulla varietà

aneddotica della narrazione, dove nessun particolare forte o repulsivo lo induceva a

ritrarsi. In effetti i volti e le membra dei santi martiri sono distese, così come quelle dei

carnefici, non contratti dalla sofferenza o dall’impeto del dare il supplizio. L’atmosfera

in qualche modo è radiosa quanto il paesaggio, l’azione e i singoli particolari.

Quest’aurea di serenità non è affatto abituale nell’illustrazione di questo soggetto che al

contrario poteva prestarsi ad una rappresentazione molto cruda e dagli elementi

raccapriccianti: i corpi non crocifissi, ma – come autorizzava la leggenda – impalati sui

rami aguzzi degli alberi, le punte acuminate che grondano sangue, le positure contorte e

contratte dei martiri. Tale crudezza era molto più evidente nei dipinti di area tedesca,

terra d’elezione di questo culto, piuttosto che in Italia, dove alcune celebri raffigurazioni

appaiono prescindere dagli aspetti più efferati, come nel caso di Carpaccio (FIG. 106).

Nei dipinti italiani di tale soggetto, insomma, prevale una diffusa solarità nel paesaggio

di fondo, nella vista del monte Ararat, nel cielo e nell’empireo che lo sovrasta, nella

varietà dei verdi del prato e del bosco. Così avviene anche nel dipinto fiorentino del

Pontormo, dove il martirio dei crocifissi non è al centro della scena occupata piuttosto

da altri aspetti della leggenda, la conversione dei soldati e la miracolosa vittoria: scene

dunque di battaglia e di corpi nudi, di interessi michelangioleschi e forse di riferimenti

politici anti-imperiali e antimedicei (FIG. 107). Ben altrimenti crude – come abbiamo

detto – e anche più diffuse le immagini in area tedesca, terra di espansione del culto

(FIG. 108). Acacio, con i suoi compagni, era inserito fra i quattordici santi ausiliatori,

poi rimossi dal Concilio di Trento per contrastare gli eccessi di fideismo, poiché erano

molto noti nella devozione di area tedesca, come è dimostrabile pensando che il sovrano

della Sassonia Federico il Savio, nel 1508, aveva commissionato a Dürer un dipinto di

questo tema, per celebrare la sua raccolta di reliquie dei sunnominati santi (FIG. 109).

La presenza di una pala analoga anche a Pescia, può essere dovuta non tanto al fatto che

il suo committente – Antonio Buonvicini – fosse in contatto con il territorio tedesco né

tantomeno un protestante, quanto perché vi erano stati esempi illustri in Toscana e a

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Firenze di poco precedenti – come la tela di Alessandro Allori per Santo Spirito, del

1574 (FIG. 110) –, non di rado dipinti in connessione con la ricorrenza della peste.

Ed è proprio per invocazione contro questa malattia che quasi in tutta la Valdinievole

si sviluppa anche un altro culto: quello di san Rocco e san Sebastiano. Numerosi sono

gli esempi in questo senso, primo fra tutti il grande affresco conservato sopra l’altare

maggiore del santuario della Madonna della Fontenuova di Monsummano, luogo di

grande devozione e pellegrinaggio per tutto il secolo XVII (FIG. 111). Ma a noi più utili

per il discorso che abbiamo iniziato per l’area pesciatina e della Valleriana, saranno le

due tele seicentesche poste ai lati della già ricordata Madonna col Bambino di Aramo

(FIG. 112). Non erano infatti infrequenti queste immagini votive che andavano ad

integrare in senso più moderno la devozione verso la Vergine, come se si volesse

ottenere un rinnovato interesse religioso nei confronti di un’antica immagine, ormai non

sentita dai fedeli così vicina. Certo riferimenti immediatamente vicini al caso di Aramo

possono essere le grandi tele di inizio Cinquecento, in particolare quella del pittore

senese Sodoma, o quella sicuramente di Caravaggio studiata dai pittori fiorentini

recatisi a Roma già dal secondo decennio del XVII secolo (FIG. 113, 114 e 115). Pure i

Santi Rocco e Sebastiano di Medicina, di poco anteriori, devono essere letti in questo

senso, anche se siamo davanti ad una tela di peggior qualità pittorica, testimonio però di

una attività ben presente in loco degli artisti-artigiani pesciatini o lucchesi (FIG. 116).

Artisti che avevano il compito di soddisfare le continue richieste di opere da parte della

committenza autoctona, soprattutto delle compagnie religiose presenti in ciascun centro

urbano, o delle rispettive chiese.

Anche la fitta presenza del culto mariano, in sé meno indicativa o qualificante perché

certamente più radicata, assume nella montagna pesciatina una declinazione

maggiormente insistita sulla figura della Vergine nella sua funzione di protettrice. In

particolare dovremmo parlare di due tipologie di dipinti raffiguranti la Vergine: quelle

che discendono direttamente delle Sacre Conversazioni dei secoli precedenti e quelle

più specifiche legate alla richiesta di aiuto e protezione davanti al male. In quest’ultimo

caso andrà inserita la tela della Madonna in atto di scacciare il demonio, conservata

nella chiesa dei Santi Andrea e Lucia di Pontito (FIG. 117). Si segnala questa perché

ancora in buono stato di conservazione e perché parte di una serie di dipinti di analogo

soggetto, presenti in tutta la diocesi di Lucca e quindi collegabili alla presenza di questo

culto nei territori direttamente dipendenti da essa, anche dopo l’istituzione della

prepositura nullius di Pescia. Sicuramente di mano lucchese, quest’opera si avvicina

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molto alla tavola conservata nel castello lucchese di Montecarlo (FIG. 118), e si pone

come estrema propaggine di una venerazione mariana iniziata nel Trecento e che alla

fine del XVI secolo aveva trovato massima espressione nella celebre Madonna del

soccorso di Jacopo da Empoli (FIG. 119).

La seconda tipologia di tele raffiguranti la Vergine è bene esemplificata dalla

Madonna del Rosario e santi della chiesa parrocchiale del borgo di San Quirico (FIG.

120). L’opera è stata attribuita ad Ippolito Brunetti, artista attivo in Valdinievole per

almeno due decenni tra Cinquecento e Seicento. Originario di Firenze, e trasferitosi poi

a Pisa, il Brunetti fu molto operoso per la nobiltà valdinievolina, soprattutto di Pescia e

nei suoi centri limitrofi. Il suo stile, piuttosto ben riconoscibile, è duro; indugia nei

profili marcati dei volti e nella rigidezza dei gesti e dei panneggi. Elementi di un

linguaggio pittorico che ritroviamo anche in un’altra opera, sempre conservata nella

stessa chiesa, ma di soggetto diverso. Si tratta del Noli me tangere, con i santi Michele,

Lucia, Francesco d’Assisi e Caterina d’Alessandria (FIG. 121): un dipinto alquanto

singolare poiché esso risulta essere suddiviso pittoricamente in due registri orizzontali,

dove l’episodio evangelico è stato rappresentato nella parte superiore, mentre in basso

sono stati disposti i quattro santi. Il soggetto narra del momento in cui Cristo risorto,

avvolto in un lenzuolo bianco svolazzante, il vessillo in mano, irradiante una

straordinaria luce intorno a sé, appare alla Maddalena che, con i suoi capelli biondi e

sparsi, contempla inginocchiata l’apparizione sullo sfondo di un paesaggio. Dunque

Cristo è qui raffigurato “in figura di ortolano” – secondo quanto possiamo leggere

nell’Ansaldi5 –, cioè come giardiniere, seguendo un motivo iconografico ben conosciuto

derivato da un brano evangelico di Giovanni6. Certamente è una composizione in cui

sembrano venire incontro a un certo gusto dell’epoca l’ampio e cupo sfondo boscoso e

la figura di Gesù, così tipica nella foggia, con il suo rustico cappello a larga tesa: il volto

dai tratti caratterizzati, vigoroso nelle gambe con calzari artigianali e nel braccio che,

con la manica rimboccata, si appoggia sulla zappa. Questo Cristo “giardiniere” che esce

dall’ombra, senza recare i segni della passione, ha forse perso quei tratti di alta sacralità

che aveva in più antiche raffigurazioni della stessa scena, dove si trovavano facilmente

il nimbo dorato, le piaghe rosse, oppure il vessillo unitamente allo strumento agricolo.

Qui, il Brunetti ha operato il grande salto verso la modernità: ha saputo brillantemente

sintetizzare la grande tradizione cinquecentesca fiorentina – un esempio su tutti, il Noli

5 Ansaldi-Pellegrini, Descrizione delle sculture, pitture et architetture della città, e sobborghi di Pescia nella Toscana, Pisa 2001, p. 97. 6 Gv 20, 15.

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me tangere di Fra’ Bartolomeo (FIG. 122) – con l’attenzione verso i dettagli, desunta

dalla grande fortuna che pittori come Jacopo Ligozzi e Giovan Battista Paggi avevano

ottenuto non soltanto nei maggiori centri toscani, ma anche nella stessa Pescia.

Accuratissima, infatti, è la resa della preziosità dei gioielli indossati dal san Michele e

dalla santa Caterina del quadro di San Quirico, nonché la veridicità naturalistica della

veste serica della Maddalena; fattori che dimostrano un aggiornamento del Brunetti

anche nei confronti della moda del tempo. In tal senso debbono essere intesi pure i

piccoli oggetti di oreficeria qui rappresentati come attributi dei singoli santi, che ci

danno un’ulteriore indicazione cronologica vicina agli anni successivi alla riforma

cattolica, in particolare agli anni novanta del XVI e gli inizi del XVII secolo.

Nel filone di grande fortuna seicentesca vi è senza dubbio il tema che raffigura il

Gesù Bambino redentore, ora portatore di croce, ora addormentato sulla croce, ora con i

simboli della Passione, come nel caso della tela conservata nella chiesa dei Santi Matteo

e Colombano di Pietrabuona, attribuita a Jacopo Ligozzi (FIG. 123). Chiaramente

ispirato alla tradizione iconografica del putto con il teschio inteso come memento mori,

il fanciullo riassume su di sé l’allegoria della redenzione e della vittoria sul peccato e

sulla morte attraverso la risurrezione. Disposto frontalmente, indossa una ricca veste

rossa su cui scende uno scapolare recante i simboli della passione. Il capo leggermente

inclinato poggia sul dorso della mano in attitudine meditativa, la lontana immagine della

melancolia, mentre il gomito poggia su un teschio; nella mano sinistra, però, stringe il

grande vessillo crociato del Cristo risorto e sotto i piedi schiaccia il drago del demonio e

della morte. Tale soggetto aveva ampia circolazione all’epoca: lo ritroviamo trattato

anche in una rara acquaforte di Jacques Callot cui il nostro dipinto è molto prossimo in

quasi tutti i particolari (FIG. 124). L’attribuzione al Ligozzi è comunemente accettata

dalla critica non soltanto per la presenza dell’artista – come abbiamo già detto – a

Pescia e a Lucca durante gli ultimi anni del Cinquecento e i primi del Seicento, ma

soprattutto per la presenza di talune peculiarità tipiche del repertorio ligozziano, come il

vaso di fiori ed il teschio; elementi che segnano quella sua costante attenzione verso il

dato naturale.

Attribuibili invece al pennello di Alessandro Bardelli sono due tele, conservate

entrambi nella chiesa dei Santi Sisto e Martino a Vellano, di soggetto similare: una

Madonna col Bambino tra i santi Antonio abate, Rocco, Carlo Borromeo e Sebastiano,

e una Madonna col Bambino e santi (FIG. 125 e 126). Che queste siano opere

dell’artista, è facilmente riscontrabile da alcune tangenze stilistiche fra il nostro

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sant’Antonio abate e quello raffigurato entro una pala per la chiesa dedicata appunto

allo stesso santo a Pescia. La presenza di Alessandro Bardelli a Vellano è testimonianza,

oltre che dell’incredibile fortuna dei suoi dipinti in tutta la Valdinievole e nell’area

pesciatina, anche della ricerca stilistica e compositiva aggiornata sulle novità dell’arte

da parte della committenza, in questo caso fra le più ricche di tutta la montagna. Il

secondo esemplare, inoltre, essendo di qualità più elevata, ci porta a fare considerazioni

ulteriori; e cioè che a questa altezza cronologica i riferimenti artistici per il pittore

dovevano essere senza dubbio Francesco Curradi o Passignano, riletti ovviamente alla

luce della sua personalissima sensibilità, come lascia intravedere la figura del san

Girolamo posto in primo piano verso cui si rivolgono la Vergine e il Bambino (FIG.

127).

Che la chiesa vellanese fosse un importante centro, se non una sorta di piccolo

capoluogo per la Valleriana, è dimostrato dalla bellezza e dalla preziosità delle altre tele

presenti in tale edificio. Vicina al contesto pesciatino e al Bardelli è sicuramente un

Sant’Antonio da Padova, opera che spiega molto bene la personalità del suo autore,

Benedetto Orsi, nato a Pescia nel 1632 e qui morto nel 1684. Egli fu sicuramente

protagonista – ormai dimenticato – di quel filone della pittura barocca toscana che

venne iniziato da Pietro da Cortona e dai suoi allievi attivi nella zona compresa tra

Lucca e Pistoia. Il suo ruolo, forse connesso, come per molti altri pittori del suo tempo,

alla fortuna del Volterrano presso la corte medicea, risulta essere legato profondamente

alla chiesa di Santa Maria del Castellare di Pescia. Le radici cortonesche in Valdinievole

erano state certo rinsaldate dall’arrivo della pala del Volterrano, eseguita per la chiesa

della Santissima Annunziata nell’ottavo decennio del Seicento, alla cui cultura si allinea

la tela citata dell’Orsi. Di tale pala, assai grande e piuttosto articolata nella

composizione, resta una piccola variante, oggi nel conservatorio di San Michele a

Pescia (FIG. 128), cui si può aggiungere – data la sua importanza – anche una sua

Sant’Agata (FIG. 129).

Sempre a Vellano è conservata la Madonna del Rosario tra i santi Andrea, Giovanni

Battista, Domenico e Caterina da Siena, di Pompeo Caccini, pittore fino a qualche

anno fa poco conosciuto, anche se di personalità ben definita (FIG. 130). Nato a

Firenze, prima di trasferirsi a Roma per completare la propria formazione artistica,

aveva lavorato molto in Valdinievole e nelle cittadine limitrofe di Fucecchio e di

Pistoia, ottenendo commissioni che molto probabilmente hanno contribuito ad

accrescere la sua fama in loco, fino ad essere introdotto con tutti gli onori nella chiesa

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vellanese. Egli deve essere annoverato fra gli artisti toscani di provenienza fiorentina,

attivi nei primi decenni del Seicento, che proseguirono nella loro arte i fondamenti

primi della pittura granducale: la precisione nel disegno dei contorni, unita alla

strutturata pacatezza nell’impostazione compositiva. Nell’opera presa da noi in esame,

la forte somiglianza del sant’Andrea con la figura di san Pietro della Chiamata di san

Pietro della sacrestia della cattedrale di Pescia, opera da lui eseguita nel 1611, è molto

forte.

Significative tangenze con le novità apportate dagli artisti granducali possono essere

riscontrate anche in un’altra opera di grande interesse: il Sant’Antonio da Padova

conservato nella chiesa dei Santi Quirico e Giulitta di San Quirico (FIG. 131). Firmata e

datata 1666 da Annibale Niccolai, l’opera sembra riprodurre alcuni tratti mossi della

pittura matura di Francesco Furini, – di cui egli era allievo – soprattutto nel

sensibilissimo candore delle carni, donando loro però una pennellata più precisa e meno

vibrante. Traspare in pieno tuttavia la lezione del maestro, che affiancava all’uso del

naturale, il vasto bagaglio di studi dell’archeologia classica e la conoscenza della

scultura coeva di Gian Lorenzo Bernini. Derivano infatti dalla conoscenza dell’arte

romana barocca – ovviamente rivisitata secondo gli occhi del pittore – la scelta di

dipingere una luce inquieta, volta ad indagare, a intrattenere una bellezza sensuale e

delicata. E questo è visibile non tanto nella figura del santo, ma in quel bellissimo

angioletto nudo sulla sinistra, che ricorda da vicino l’amore per la morbidezza degli

incarnati, un approfondito studio disegnativo, una posa e una espressione molto pensata,

quasi teatrale. L’opera del Niccolai presenta inoltre tratti connotanti una propria

originalità e inventiva nella costruzione spaziale, piuttosto articolare e insolita,

soprattutto nel particolare della balaustra che sbuca dalla sinistra e divide la scena

attorno alla quale si dispongono gli angeli giocano con i fiori.

Chiudiamo questa lunga panoramica d’arte seicentesca con la meravigliosa

Assunzione della Vergine, eseguita da un eccellente pittore lucchese – di cui purtroppo

ignoriamo il nome – che ha riletto con grande capacità alcuni moduli della pittura

bolognese, in particolare quella di Annibale Carracci e di Guido Reni (FIG. 132). Gli

esemplari di mano lucchese non sono infatti completamente estranei alla cultura locale

in questo periodo, anzi si vanno a codificare soprattutto nei borghi afferenti alla

giurisdizione ecclesiastica della diocesi di Lucca, forse anche per motivi di rivalsa sulla

predominante Firenze. Questa tela risulta riproporre, nella posizione delle gambe,

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l’Assunta carraccesca – oggi a Roma, nella chiesa di Santa Maria del Popolo (FIG. 133)

–, dove permane l’identica modellazione dei panneggi intorno al ventre e al ginocchio

destro; modellazione tutta tesa ad esaltare il piede, messo ben in evidenza e in luce.

Derivano dagli esempi reniani, invece, la tipologia del volto della Madonna, con il suo

ovale perfetto, nonché la gestualità dell’angelo in basso a destra.

Reca tracce di ispirazione prese dalle opere di Annibale Carracci anche questa Sacra

famiglia, conservata nella chiesa dei Santi Matteo e Colombano di Pietrabuona, da

mettere in confronto con questo olio su rame oggi alla National Gallery di Londra (FIG.

134 e 135). Il dipinto costituisce una delle più belle e letterali rielaborazioni offerte

dagli artisti seicenteschi di un tema prettamente raffaellesco, quello della Madonna

della cesta, la cui copia più celebre è di mano del Correggio (FIG. 136). Tuttavia si

devono notare la pienezza di sensi con cui quel modello viene restituito, calandolo entro

una dimensione di affetti domestici e quotidiani. Interessanti sono anche gli scorci

paesaggistici rivelati nello sfondo: paesaggi caldi, sfumati di vapori estivi, che

testimoniano la alta qualità dell’invenzione paesistica di ogni singolo artista.