R. Caporali, Uguaglianza, Seicento

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1 Hobbes: l’uguaglianza naturale «La natura ha fatto gli uomini così uguali nelle facoltà del corpo e della mente che, benché talvolta si trovi un uomo palesemente più forte, nel fisico, o di mente più pronta di un altro, tuttavia, tutto sommato, la differenza tra uomo e uomo non è così considerevole al punto che un uomo possa da ciò rivendicare per sé un beneficio cui un altro non possa pretendere tanto quanto lui» (T. Hobbes, Leviatano (1651), a cura di A. Pacchi, Roma-Bari, Laterza, 1989, p. 99 (cap. XIII)).

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Hobbes: l’uguaglianza naturale

«La natura ha fatto gli uomini così uguali nelle facoltà del corpo e della mente che, benché talvolta si trovi un uomo palesemente più forte, nel fisico, o di mente più pronta di un altro, tuttavia, tutto sommato, la differenza tra uomo e uomo non è così considerevole al punto che un uomo possa da ciò rivendicare per sé un beneficio cui un altro non possa pretendere tanto quanto lui»

(T. Hobbes, Leviatano (1651), a cura di A. Pacchi, Roma-Bari, Laterza, 1989, p. 99 (cap. XIII)).

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Modernità: l’uguaglianza naturale

L’uguaglianza è:

1. Un’arma contro la tradizione organicistica.

2. Un presupposto argomentativo.

3. Un obiettivo da realizzare.

(Uguaglianza «politica»: nessuno, per natura, è titolato al dominio sugli altri)

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Hobbes: l’uguaglianza naturale

«Infatti, tale è la natura degli uomini che, per quanto questi possano riconoscere in molti altri maggiore perspicacia, eloquenza o erudizione, tuttavia difficilmente crederanno che vi siano molti uomini saggi come loro: infatti essi vedono la loro perspicacia da vicino, quella degli altri da lontano»

(Leviatano, XIII, p. 100)

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Hobbes: modernità come risposta a crisi (bibliografia)

P. Hazard, La crisi della coscienza europea (1961), a cura di P. Serini, Introduzione di G. Ricuperati, Torino, Utet, 2007;

E. Castrucci, Ordine convenzionale e pensiero decisionista, Milano, Giuffré, 1981;

L. K. Dupré, Passage to Modernity. An Essay in the Ermeneutics of Nature and Culture, New Haven-London, Yale University Press, 1993.

Sulla filosofia politica di Hobbes come risposta alla sfida drammatica rappresentata dalle guerre civili di religione, cfr. R. Koselleck, Critica illuministica e crisi della società borghese (1959), Bologna, il Mulino, 1972, pp. 25ss.; B. Willms, T. Hobbes. Das Reich des Leviathan, München-Zürich, Piper, 1987.

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Hobbes: l’uomo non è un animale sociale

«Non cerchiamo per natura dei soci, ma di trarre da essi onore e vantaggio: questi desideriamo in primo luogo, quelli solo secondariamente»

(De cive, I, 2, p. 80).

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Hobbes: l’uomo “incompiuto”: il «desiderio» (conatus)

«Un uomo, i cui desideri abbiano raggiunto un termine, non può vivere più di un altro in cui si siano fermate le sensazioni e l’immaginazione. La felicità è un continuo progresso del desiderio da un oggetto all’altro, dove il raggiungimento del primo non è altro che la via per il conseguimento del secondo»

(Leviatano, XI, p. 78).

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Hobbes: l’uomo “incompiuto”: il «desiderio» (conatus)

«Considero perciò al primo posto, come un’inclinazione generale di tutta l’umanità, un desiderio perpetuo e ininterrotto di acquistare un potere dopo l’altro che cessa soltanto con la morte»

(Leviatano, XI, p. 78)

L’uomo è fame futura famelicus

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Hobbes: l’uguaglianza e il conflitto

«Da questa uguaglianza di capacità nasce un’uguaglianza nella speranza di raggiungere i propri fini. Perciò, se due uomini desiderano la medesima cosa, di cui tuttavia non possono entrambi fruire, diventano nemici e, nel perseguire il loro scopo (che è principalmente la propria conservazione e talvolta solo il proprio piacere) cercano di distruggersi o di sottomettersi l’un l’altro»

(Leviatano, XIII, p. 100).

Homo homini lupusBellum omnium contra omnes

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Hobbes: l’uguaglianza e il conflitto: la «gloria»

Gloria (glory): «sentimento interno di compiacenza o trionfo della mente» che deriva «dall’immaginazione o concetto del nostro potere, superiore al potere di colui che contrasta con noi»

(Elementi di legge naturale e civile, Firenze, La Nuova Italia, IX, 1, p. 63).

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Hobbes: uguaglianza naturale = il sommo male

«In tali condizioni non vi è posto per l’operosità ingegnosa, essendone incerto il frutto: e di conseguenza, non vi è né coltivazione della terra, né navigazione, né uso dei prodotti che si possono importare via mare, né costruzioni adeguate, né strumenti per spostare e rimuovere le cose che richiedono molta forza, né conoscenza della superficie terrestre, né misurazione del tempo, né arti, né lettere, né società; e, ciò che è peggio, v’è il continuo timore di una morte violenta; e la vita dell’uomo è solitaria, misera, ostile, animalesca e breve»

(Leviatano, XIII, p. 102).

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Hobbes: il pactum

«Do autorizzazione e cedo il mio diritto di governare me stesso a quest’uomo, o a quest’assemblea di uomini, a questa condizione, che tu, nella stessa maniera, gli ceda il tuo diritto e ne autorizzi tutte le azioni»

(Leviatano, XVII, p. 143.).

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Locke: uguaglianza e stato di natura

«È anche uno stato di eguaglianza, in cui ogni potere e ogni giurisdizione è reciproca, nessuno avendone più di un altro, poiché non vi è nulla di più evidente di questo, che creature della stessa specie e dello stesso grado, nate, senza distinzione, agli stessi vantaggi della natura, e all’uso delle stesse facoltà, debbano anche essere eguali fra loro, senza subordinazione o soggezione»

(J. Locke, Secondo Trattato, in Id., Due trattati sul governo (1689), a cura di L. Pareyson, Torino, Utet, 1982/3, II, 4, p. 229).

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Locke: il pactum

«Lo stato di natura è governato dalla legge di natura, che obbliga tutti; e la ragione, ch’è poi questa legge, insegna a tutti gli uomini, purché vogliano consultarla, che, essendo tutti eguali e indipendenti, nessuno deve recar danno ad altri nella vita, nella salute, nella libertà o nei possessi»

Secondo Trattato, II, 4, p. 231).

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Locke: lo stato di natura non è necessariamente uno stato di guerra

«E qui abbiamo chiara la differenza fra lo stato di natura e lo stato di guerra, i quali, per quanto taluni li abbiano confusi, sono così distanti come lo sono fra loro uno stato di pace, benevolenza, assistenza e conservazione reciproca e uno stato di ostilità, malvagità, violenza e reciproca distruzione»

(Secondo Trattato, III, 19, p. 241).

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Locke: valore-lavoro

«A tutte quelle cose dunque che egli trae dallo stato in cui la natura le ha prodotte e lasciate, egli ha congiunto il proprio lavoro, e cioè unito qualcosa che gli è proprio, e con ciò se l’appropria. Togliendo quell’oggetto dalla condizione comune in cui la natura lo ha posto, vi ha aggiunto col suo lavoro qualcosa che esclude il comune diritto degli altri uomini»

(Secondo Trattato, V, 27, p. 249.

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Locke: valore-lavoro

«E non è strano, come forse può parere a prima vista, che la proprietà del lavoro riesca a superare la comunità della terra, perché è proprio il lavoro che pone in ogni cosa la differenza di valore; e si consideri quale differenza sussista fra un iugero di terra coltivata a tabacco o zucchero o seminata a frumento od orzo, e un iugero della stessa terra che giace in comune senz’agricoltura, e si vedrà che l’incremento del lavoro costituisce la parte maggiore del valore»

(Secondo Trattato, V, 40, pp. 257-258).

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Locke: uguaglianza naturale, diseguaglianza civile

«Questa partizione di beni nell’ineguaglianza di possessi privati, gli uomini l’hanno resa possibile fuori dai limiti della società e senza contratto, e soltanto mediante l’attribuzione di un valore all’oro e all’argento, e un tacito accordo sull’uso della moneta

(Secondo Trattato, V, 47, p. 262).

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Locke: uguaglianza naturale, diseguaglianza civile

«Perciò il fine maggiore e principale del fatto che gli uomini si uniscono in società politiche e si sottopongono a un governo è la conservazione della loro proprietà, al qual fine nello stato di natura mancano molte cose»

(Secondo Trattato, V, 124, p. 319)

Mancano: «una legge stabilita, fissa, conosciuta»;«un giudice conosciuto ed imparziale»; un «potere che appoggi e sostenga la sentenza allorché sia giusta, e le dia la dovuta esecuzione»

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Locke: il patto

«L’unico modo con cui uno si spoglia della sua libertà naturale e s’investe dei vincoli della società civile, consiste nell’accordarsi con altri uomini per congiungersi e riunirsi in una comunità, per vivere gli uni con gli altri con comodità, sicurezza e pace, nel sicuro possesso delle proprie proprietà, e con una garanzia maggiore contro chi non vi appartenga»

(Secondo Trattato, VIII, 95, p. 297)

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Spinoza (1632-1677): diritto e potenza

«Gentilissimo signore, riguardo alla politica, la differenza tra me e Hobbes, della quale mi chiedete, consiste in questo, che io continuo a mantenere integro il diritto naturale e affermo che al sommo potere in qualunque città non spetta sopra i sudditi un diritto maggiore dell’autorità che esso ha sui sudditi stessi, come sempre avviene nello stato naturale».

(B. Spinoza, Epistolario, trad. it. a cura di A. Droetto, Torino, Einaudi, 1974/2, p. 225: ep. 50, a Jelles).

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Spinoza (1632-1677): diritto e potenza

«Per diritto di natura intendo dunque le stesse leggi di natura, ovvero le regole secondo le quali tutte le cose accadono, e cioè la stessa potenza della natura; e per questo il diritto naturale di tutta la natura, e di conseguenza quello di ciascun individuo, si estende nella misura della sua potenza».

[B. Spinoza, Trattato politico (1677, postumo) II, 4, p. 37: trad. it. a cura di P. Cristofolini, Pisa, Ets, 2004/2].

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Spinoza (1632-1677): Dio, potenza, essenza

«La potenza di Dio è la sua stessa essenza. Infatti, dalla sola necessità dell’essenza di Dio segue che Dio è causa di sé e di tutte le cose. Dunque, la potenza di Dio, con la quale egli stesso e tutte le cose sono e agiscono, è la sua stessa essenza».

[B. Spinoza, Etica (1677, postumo), I, Prop. 34, Dimostrazione: trad. it. a cura di E. Giancotti, Roma, Editori Riuniti, 2002/5, p. 115].

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Spinoza (1632-1677): uomini e cose = «modi» di Dio-Natura-Sostanza

«Infatti, la perfezione delle cose deve essere valutata soltanto in base alla loro natura e potenza, né le cose sono più o meno perfette perché dilettano o offendono i sensi degli uomini, o perché giovano alla loro natura o l’avversano»

(Etica, I, Appendice, p. 122).

Ogni cosa e ogni uomo esiste in funzione di se stesso, e non di altro

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Spinoza (1632-1677): uguaglianza mente-corpo

«Onde avviene che l’ordine ossia la concatenazione delle cose è una, sia che la natura si concepisca sotto questo o sotto quell’attributo, e conseguentemente che l’ordine delle azioni e delle passioni del nostro Corpo è simultaneo per natura con l’ordine delle azioni e delle passioni della Mente»

(Etica, III, Prop. 2 (e scolio), p. 174).

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Spinoza (1632-1677): uguaglianza mente-corpo, passioni

«I filosofi pensano che gli affetti dai quali siamo combattuti siano dei vizi, e che gli uomini vi cadano per loro colpa. Per questo solitamente ne fanno argomento di riso, di compianto o di rampogna, e quelli che vogliono fare più mostra di santità lanciano maledizioni»

(Trattato politico, I,1, p. 27).

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Spinoza (1632-1677): monarchia

«[…] il più grande segreto del regime monarchico e il suo più grande interesse consiste nell’ingannare gli uomini e nell’ammantare speciosamente di religione la paura che li tiene sottomessi, al fine di indurli a combattere per la propria schiavitù come se combattessero per la salvezza, cosicché essi possano ritenere non ignobile, ma anzi sommamente onorevole sacrificare il proprio sangue e la propria vita per la vana gloria di un solo uomo […]»

(B. Spinoza, Trattato teologico-politico (1670), trad. it. con testo a fronte a cura di P. Totaro, Napoli, Bibliopolis, 2007, Prefazione, p. 9).

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Spinoza (1632-1677): democrazia

«In esso, infatti, nessuno trasferisce ad altri il proprio diritto naturale fino al punto da non dover più essere, consultato, ma ciascuno lo trasferisce alla maggioranza della società tutta, di cui egli è parte: in tal modo tutti restano (come, precedentemente, nello stato naturale) uguali»

(Trattato teologico-politico, XVI, p. 385).

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Spinoza (1632-1677): democrazia e moltitudine

«Queste cose che abbiamo scritto muoveranno forse al riso coloro i quali circoscrivono alla sola plebe i vizi che sono insiti in tutti i mortali, e secondo i quali il volgo non ha il senso della misura: lo ritengono pericoloso se non è tenuto in soggezione, dicono che la plebe o serve con umiltà o domina con superbia, che non conosce verità né giudizio, eccetera. Ma la natura è una sola e comune a tutti: ci fanno velo la potenza e l’educazione […] La superbia è propria dei dominanti: gli uomini insuperbiscono per essere stati eletti alla carica di un anno: figuriamoci i nobili, che pretendono onori per l’eternità»

(Trattato politico, VII, 27, p. 141)