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1 Questa nuova edizione, ampliata e aggiornata con i risultati degli studi recenti, è dedicata a Filippo Boschi, nostro caro maestro. Lucia Bigozzi, Elena Falaschi e Filippo Boschi LESSICO E ORTOGRAFIA Percorsi di prevenzione e recupero delle difficoltà e dei disturbi di apprendimento di lettura e scrittura Finalità del trattamento «La coscienza si riflette nella parola come il sole in una piccola goccia d’acqua. La parola sta alla coscienza come un piccolo mondo ad uno grande, come una cellula vivente ad un organismo, come un atomo al cosmo» (Vygotskij, 1934). Questo trattamento favorisce la prevenzione e il recupero delle difficoltà e dei disturbi di apprendimento di lettura e scrittura ottenute attraverso la stimolazione dei processi di costruzione del lessico e senza noiosi ed inutili esercizi di ortografia. L’approfondimento teorico e le sperimentazioni effettuate dal gruppo di ricerca del Dipartimento di Psicologia dell’Università di Firenze hanno permesso di elaborare un metodo di apprendimento della lingua strutturato in modo tale da permettere la stimolazione dei processi fondamentali costitutivi del più ampio sviluppo cognitivo- linguistico. Questo programma è rivolto agli alunni della scuola primaria (la fase ottimale di readiness per massimizzare il successo degli interventi inizia dalla III elementare) e agli alunni della scuola secondaria di primo grado con difficoltà di apprendimento della lettura e dell’ortografia. Attraverso studi scientifici pubblicati (cita) abbiamo ottenuto prove empiriche di efficacia del trattamento Lessico e ortografia su a) competenza lessicale; b) correttezza ortografica – nel dettato nelle produzioni narrative spontanee c) rapidità, correttezza, comprensione in lettura d) fluidità verbale e) motivazione alla lettura e all’espressione linguistica Gli effetti statisticamente significativi sono stati ottenuti sia su popolazione normale che su bambini e ragazzi disortagrafici e dislessici.

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Questa nuova edizione, ampliata e aggiornata con i risultati degli studi recenti, è dedicata a Filippo Boschi, nostro caro maestro.

Lucia Bigozzi, Elena Falaschi e Filippo Boschi

LESSICO E ORTOGRAFIA Percorsi di prevenzione e recupero delle difficoltà

e dei disturbi di apprendimento di lettura e scrittura Finalità del trattamento

«La coscienza si riflette nella parola come il sole in una piccola goccia d’acqua. La parola sta alla coscienza come un piccolo mondo ad uno grande, come una cellula vivente ad un organismo, come un atomo al cosmo» (Vygotskij, 1934).

Questo trattamento favorisce la prevenzione e il recupero delle difficoltà e dei

disturbi di apprendimento di lettura e scrittura ottenute attraverso la stimolazione dei processi di costruzione del lessico e senza noiosi ed inutili esercizi di ortografia. L’approfondimento teorico e le sperimentazioni effettuate dal gruppo di ricerca del Dipartimento di Psicologia dell’Università di Firenze hanno permesso di elaborare un metodo di apprendimento della lingua strutturato in modo tale da permettere la stimolazione dei processi fondamentali costitutivi del più ampio sviluppo cognitivo-linguistico.

Questo programma è rivolto agli alunni della scuola primaria (la fase ottimale di readiness per massimizzare il successo degli interventi inizia dalla III elementare) e agli alunni della scuola secondaria di primo grado con difficoltà di apprendimento della lettura e dell’ortografia.

Attraverso studi scientifici pubblicati (cita) abbiamo ottenuto prove empiriche di efficacia del trattamento Lessico e ortografia su

a) competenza lessicale;

b) correttezza ortografica

– nel dettato – nelle produzioni narrative spontanee

c) rapidità, correttezza, comprensione in lettura

d) fluidità verbale

e) motivazione alla lettura e all’espressione linguistica

Gli effetti statisticamente significativi sono stati ottenuti sia su popolazione normale che su bambini e ragazzi disortagrafici e dislessici.

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Il trattamento può essere efficacemente proposto sia collettivamente che singolarmente o il ragazzo può gestirlo autonomamente con il cd.

Rilevanza

La correttezza ortografica è un traguardo che viene considerato indispensabile per il proseguimento degli studi in fase molto precoce.

Una consistente incapacità nell’automatizzare le regole ortografiche, pur essendo un problema molto settoriale, risulta assai “invalidante” nel percorso scolastico; infatti gli errori ortografici costituiscono un serio problema per i bambini che non riescono a scrivere correttamente. La cattiva ortografia è stigmatizzante per chi ne è “affetto”, soprattutto nel passaggio dalla scuola elementare alla scuola media. I professori si pongono delle aspettative nei confronti degli allievi che arrivano in prima media e tra le competenze che si aspettano di trovare acquisite c’è proprio l’ortografia, considerata la soglia minima di apprendimento della scrittura. Fare molti errori ortografici si presta ad essere considerato dall’insegnante negativamente in modo pervasivo su gran parte del rendimento scolastico, dando luogo ad un effetto alone nella valutazione. Normalmente il fare errori ortografici è anche un motivo di rimprovero sia a scuola che a casa e finisce spesso per incidere sulla motivazione e sull’immagine di sé (Palladino et al., 2000).

Purtroppo spesso educatori, insegnanti e genitori pensano di aiutare i ragazzi proponendo esercizi ortografici; tuttavia tale pratica non sorte risultati soddisfacenti proprio perché durante l’esercizio mirato il ragazzo è concentrato sull’ortografia e riesce a non fare errori, mentre durante la scrittura spontanea, quando le risorse attentive sono giustamente orientate al contenuto della scrittura, allora si ripresentano gli errori. In generale chi fa errori ortografici dopo la terza elementare , con i metodi tradizionalmente utilizzati, “se li porta dietro” fino all’età adulta.

In alcuni casi la deficienza nell’automatizzazione delle regole ortografiche è inquadrabile come disturbo specifico di apprendimento dell’ortografia o disortografia.

La disortografia (Tressoldi 2002) è un disturbo specifico della scrittura dato da una significativa compromissione della automatizzazione delle regole ortografiche di trasformazione dei suoni in segni connessi a formare parole; questo disturbo dà luogo ad una minore correttezza ortografica rispetto ai coetanei con pari opportunità educative e pari caratteristiche cognitive (Tressoldi 1991). Nel disturbo specifico di apprendimento dell’ortografia gli aspetti ortografici (compitazione e spelling) sono centrali e non sono coinvolte, se non indirettamente, le componenti di ideazione e programmazione dei contenuti scritti (Vio e Gruppo di lavoro AIRIPA, 2005).

I trattamenti riabilitativi non si differenziano molto da quello che un buon insegnante mette in atto comunemente nella pratica scolastica (Cornoldi 2007), anche in questo caso spesso l’unico strumento adottato è quello di far fare esercizi più o meno ludici, ma pur sempre ortografici, con molto sforzo, dato che gli esercizi costituiscono spesso una “tortura” insopportabile. Sappiamo che i bambini con disturbi specifici di apprendimento si avvantaggiano assai limitatamente di un semplice aumento di esercizio della prestazione deficitaria: i bambini che presentano una quantità di errori ortografici che alle prove oggettive risulta essere a due deviazioni standard dalla media o più, difficilmente ridurranno il disturbo in modo significativo ed in tempi sufficientemente veloci con un semplice aumento del lavoro che già svolgono a scuola (Tressoldi, Vio 1996).appena esposti questo programma risponde ad esige

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Presupposti teorici del programma

Il trattamento che proponiamo ottiene una significativa diminuzione degli errori ortografici senza che vi siano esercizi ortografici. La diminuzione degli errori, ottenuta attraverso il trattamento lessicale, è dovuta ad una migliore efficienza della via lessicale del “modello a due vie” elaborato da Coltheart e collaboratori (1993; 2001), riportato in figura 1.

Figura 1: Stadi di elaborazione della parola “zebra” secondo il modello a due

vie (tratto da Cubelli, 2002).

Tale maggiore efficienza è responsabile anche dell’aumentata velocità in

lettura riscontrata nei ragazzi dislessici trattati. Il modello teorizza l’esistenza di due vie o processi alla base delle abilità

di riconoscimento e produzione della parola scritta. La via fonologica o sublessicale, detta anche via indiretta, in cui il riconoscimento della parola, che ne permette la lettura, avviene attraverso tre operazioni conseguenti: la sua scomposizione o segmentazione nelle singole parti costituenti o grafemi, l’associazione tra ciascun grafema e il fonema corrispondente, il riassemblaggio in forma fonologica della parola, con l’ inversione del processo (scomposizione in fonemi, corrispondenza fonema-grafema, riassemblaggio della forma grafemico ortografica della parola) nel caso in cui la parola debba

rappresentazione percettivazebra

rappresentazione ortografica<zebra>

procedure di conversionegrafema-fonema

<z> <e> <b> <r> <a>

/dz/ / ε/ /b/ /r/ /a/

lessico ortografico<zebra>

Źsistema semantico

lessico fonologico/’dzεεεεbra/

rappresentazionefonologica/’dzεεεεbra/

risposta

stimolo

zebra

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essere prodotta, cioè scritta. La seconda via, detta lessicale o semantica oppure via diretta , coinvolge invece le informazione contenute nella memoria a lungo termine; in questo caso infatti la parola viene riconosciuta in quanto già presente nel lessico mentale e resa disponibile nella sua forma ortografica (la parola come è scritta), fonologica (la parola come suona) e nel suo valore semantico (la rappresentazione o il significato cui la parola rimanda). La via sublessicale viene privilegiata per la lettura o scrittura di parole sconosciute o non-parole e viene utilizzata nella lingua italiana nei primi anni di scuola: il bambino legge la parola lettera per lettera o sillaba per sillaba e poi fonde i suoni producendo l’intera parola, Generalmente nei primissimi stadi di apprendimento della lettura il bambino pronuncia ad alta voce ogni suono, spesso seguendolo con il dito e poi pronuncia la parola intera accedendo alla memoria semantica, cioè associando ad essa anche il significato. I lettori esperti utilizzano quasi esclusivamente la via diretta di lettura e scrittura, secondo la quale le parole vengono riconosciute, non decodificate durante la lettura e vengono automaticamente riprodotte e non codificate lettera per lettera durante il processo di scrittura.

Il modello a due vie sottolinea dunque la coesistenza di tre componenti alla base dei processi di acquisizione e padroneggiamento delle abilità di lettura e scrittura: una componente fonologica, una componente ortografica e una componente lessicale, tra loro evolutivamente connesse (Frith, 1985; Pinto, Bigozzi, Accorti, Vezzani 2008). Le parole sono immagazzinate nella nostra memoria semantica con il loro significato, la loro forma ortografica, l’immagine mentale che evocano, le parole vicine nel campo semantico ecc…Nelle fasi iniziali della scolarizzazione predomina infatti il meccanismo di conversione grafema-fonema, mentre dopo gli 8 anni si consolida il lessico visivo ortografico e fonologico e il bambino diventa un lettore (e uno scrittore) sempre più esperto e capace, via via che nuove parole arricchiscono il suo magazzino lessicale-semantico, a livello di codifica-decodifica ortografica e a livello rappresentazionale (Mazzotta, Barca, Marcolini, Stella e Burani, 2005; Pinto, 2003). Lettori e scrittori abili vengono perciò contraddistinti da livelli elevati di utilizzo e efficacia della via semantica, che permette l’automatizzazione dei processi e l’elaborazione centrale e profonda della parola, con un intervento minimo dei processi di tipo sub-lessicale, in cui sono attive soprattutto modalità periferiche e superficiali di elaborazione e costruzione della parola (Booth, Perfetti e MacWhinney, 1999; Usai e Bozzo, 1997).

Sono stati individuati e descritti vari livelli di conoscenza di una parola. E’ possibile conoscere uno solo dei molti significati di un termine (sapere che “forza” significa energia ma non conoscere questo termine applicato al vettore). Conoscere almeno un significato di un termine, ma non avere abbastanza familiarità con esso da usarlo (sapere cosa vuol dire “caos” ma non saper formulare una frase che lo contenga). Avere una conoscenza parziale e non specifica di una parola (sapere che “guerrigliero” indica soldato ma non sapere che tipo di soldato). Conoscere un significato ma non sapere che esiste una parola che lo esprime (conoscere il concetti di nascondersi dietro qualcosa per la paura ma non conoscere il termine “acquattarsi”) La parola completamente conosciuta, è conosciuta profondamente, sia nei suoi molteplici significati che nella forma esteriore o ortografica, questo impedisce

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di scriverla scorrettamente. Quando noi vediamo una parola scritta la riconosciamo e la leggiamo ma se contiene un errore, lo notiamo proprio perché non corrisponde alla “forma conosciuta”. Proprio perché ci sembra “storpia” la parola “mama” scritta con una sola emme noi non commettiamo quest’errore. Nel corso dello sviluppo, via, via, tutte le parole diventano parole note e gli errori sono sempre meno frequenti. Se incontriamo, cosa che accade raramente, una parola nuova, non recepiamo con altrettanta facilità la presenza di un eventuale errore, proprio perché la conosciamo meno e dobbiamo ricorrere alla corrispondenza suono-segno (via indiretta) per controllarne la correttezza.

La competenza lessicale occupa, dunque, un ruolo centrale nei processi di apprendimento dell’ortografia, importanza che solo questo programma ha messo in evidenza ed efficacemente sfruttato. Nei bambini sottoposti al trattamento si ottiene infatti un aumento delle parole conosciute, parole di cui viene immagazzinata la forma ortografica.

Rifiutiamo un modello di apprendimento dell’ortografia che avvenga per associazione di stimoli, ma proponiamo un apprendimento che avvenga potenziando il processo responsabile del prodotto atteso. Non è facile superare gli errori cercando di memorizzare regole ortografiche, riempiendo pagine di parole con le doppie o con l’acca, abbiamo dimostrato con i nostri studi che è possibile raggiungere soddisfacenti livelli di correttezza ortografica ì potenziando l’efficienza della via diretta o semantico lessicale, attraverso un programma di arricchimento del lessico.

L'arricchimento del lessico è stato frequentemente considerato un processo naturale che ha inizio con le prime parole e che si protrae per tutta l'età adulta. Tale concezione comporta che la maggior parte dei vocaboli che impariamo derivi da un apprendimento di carattere incidentale. Anche in ambito scolastico si è frequentemente operato come se fosse sufficiente un arricchimento del vocabolario che si realizza attraverso le normali attività didattiche, prima fra tutte la lettura.

Tuttavia da tempo la ricerca teorica e la ricerca educativa stanno mostrando che non è sufficiente affidare l'apprendimento del lessico alle sporadiche, anche se numerose, occasioni offerte dalla prassi didattica e dall'attività di lettura, di ascolto e di conversazione. Se l'arricchimento del vocabolario viene lasciato alle opportunità casuali, gli alunni dotati di buone capacità intellettive e circondati da positivi e frequenti opportunità ambientali potranno trarre vantaggio anche da un'attività didattica priva di stimolazioni specifiche. Ma altrettanto non può dirsi per gli alunni che sono svantaggiati per condizioni sociali e personali. I metodi di insegnamento tradizionalmente adottati per l'arricchimento del lessico, lasciano "troppe cose implicite e si affidano troppo all'impegno e alla creatività di docenti e allievi particolarmente dotati, per essere adatti ad un sistema di istruzione di massa" (Resnick, 1990).

Si rende quindi necessario considerare gli aspetti qualitativi dello sviluppo della capacità di definizione lessicale nel fanciullo e nel ragazzo, conoscere le tappe evolutive di tale processo, in modo da agevolare il percorso del soggetto, accompagnandolo con stimolazioni adeguate al suo livello di sviluppo. L'analisi delle regole che l'alunno segue per definire le parole ci aiuta a scegliere modalità didattiche che tengano conto delle teorie elaborate dalla mente del ragazzo, teorie che divengono con il tempo sempre più simili a

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quelle dell'adulto. L’attività di potenziamento della competenza lessicale non può avvenire

attraverso l’insegnamento di parole specifiche da “ricordare”. Alcuni insegnanti fanno tenere agli alunni una rubrica delle parole nuove di cui memorizzare il significato, tuttavia tale pratica non può portare sostanziali miglioramenti, qualunque sia il numero di parole che l’insegnante riesce a far apprendere all’allievo non sarà mai in alcun modo paragonabile alla quantità di parole che l’allievo ha necessità di conoscere.

Il modello su cui si fondano le stimolazioni riportate nelle schede si basa sui processi con permette di specificare e di gradualizzare gli interventi in un’ottica evolutiva, mediante un analitico e articolato riferimento alle tappe e alle crisi di sviluppo che caratterizzano l’apprendimento delle parole.

Alla fine degli anni cinquanta con la nascita della psicolinguistica evolutiva si è aperta una strada che ha un condotto a cambiamenti significativi nello studio del linguaggio rispetto ai modelli precedentemente elaborati nell'ambito della linguistica, da un lato o e della psicologia, dall'altro (Boschi, 1977). Si abbandona così un'ottica esclusivamente descrittiva che vede la lingua come sistema autonomo e che rinuncia allo studio sistematico delle significato (Bloomfield, 1933), per una concezione secondo la quale la competenza linguista si costruisce e si organizza nell'individuo non indipendentemente dalle altre capacità cognitive e secondo la quale lo studio della genesi di tali competenze può essere rilevante per la costruzione di un modello generale.

Grazie ad alcune ricerche sull'evoluzione del lessico interessate a mettere in luce gli aspetti quantitativi, sappiamo che l'aumento di parole conosciute progredisce con un ritmo vertiginoso; durante gli anni di scuola l’incremento nell’apprendimento di vocabolario si aggira sulle 3.000 parole l’anno (Nagy e Herman, 1978) per giungere ad un massimo di 100.000 parole conosciute al termine dell’istruzione universitaria (Sternberg, 1987).

Riflettendo, in base a questi dati, sulla straordinarietà del ritmo con il quale i bambini sono capaci di imparare parole e relativi significati, si pone la questione del che cosa si intenda per “conoscenza” del significato di una parola ed anche di come si possa definire tale conoscenza.

Si focalizza così l’attenzione sugli aspetti qualitativi dell’apprendimento del lessico. Molti autori sono concordi nell’affermare che non sempre conoscere una parola equivale a conoscerne tutti i significati e che quindi ci sono vari livelli di conoscenza di una stessa parola (Curtis, 1987). E’ importante studiare non solo quante parole si apprendono ma anche in che modo, a quale livello, queste parole sono conosciute.

Questa seconda ottica di studio, interessata agli aspetti qualitativi dell'acquisizione del lessico, pur offrendo un panorama maggiormente articolato ha trovato negli studi a carattere quantitativo lo stimolo necessario al proprio sviluppo (Boschi, Aprile, Scibetta, 1991). Scoprire il rapporto esistente tra l'enorme quantità di parole apprese ed il breve tempo nel quale questo accade ha puntato gli studiosi a scartare l'ipotesi di un apprendimento per associazione. Nello spostare l'attenzione sulla prospettiva qualitativa, l'interesse si focalizza sugli aspetti processuali e cioè sui processi attraverso i quali si costruiscono nell'individuo i significati delle parole in un sistema linguistico che non può essere il risultato di una addizione di parole conosciute. Durkin, Crowter e Shire (1986) sostengono chiaramente questa concezione, secondo la

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quale i processi di sviluppo del vocabolario non sono solamente aggiuntivi, ma comprendono la costruzione, l'organizzazione, l'arricchimento di strutture e il perfezionamento dei significati di una singola parola.

L’apprendimento delle parole e dei significati di queste avviene attraverso la scoperta e la guida di regole. Sono state individuate delle regolarità processuali con le quali l'individuo impara nuovi significati organizzandoli l'insieme delle proprie conoscenze. A questo proposito possiamo indicare alcuni filoni di ricerca che hanno posto in luce come il bambino strutturi i concetti, apprenda nomi e si rappresenti il significato.

Una regola è quella di formare categorie in base ad attributi percettivi (Clark, 1973). Il bambino individua alcuni aspetti: forma, dimensione, consistenza, colore, odore, ecc. che sono presenti negli oggetti e in base a questi raggruppa in categorie. L'attribuzione di una parola ad un oggetto diviene sempre più adeguata e sono sempre più rari nel corso dello sviluppo con i casi di iperestensione, come avviene quando i bambini chiamano " bau " qualsiasi animale a quattro zampe, o di ipoestesione come accade quando i bambini chiamano "casa" solo la propria abitazione.

E’ stato anche messo in luce come alcuni attributi definiscano la categoria (“attributi definienti”), mentre altri attributi siano comunemente posseduti dagli esemplari della categoria pur non costituendo funzione definiente (“attributi caratteristici”). Consideriamo ad esempio la categoria “uccelli”. Gli attributi definienti sono, tra gli altri: deporre le uova, avere sangue caldo, avere due ali, due zampe, il becco. Gli attributi definienti devono sempre essere tutti posseduti da un esemplare affinché possa rientrare nella relativa categoria: tutti gli uccelli sono ovipari, hanno sangue caldo, due ali, il becco, due zampe. Gli attributi caratteristici possono o meno essere presenti: i pinguini non volano, gli struzzi non si posano sugli alberi, ecc. (Job, Rumiati, 1984). Chiaramente l’identificazione, che avviene attraverso il confronto tra gli attributi presenti in memoria per le varie categorie e gli attributi posseduti dall’esemplare particolare potrà essere più o meno difficoltosa. Molte volte i tratti caratteristici ma non definienti (il volare), sono percettivamente molto più evidenti dei tratti definienti (il deporre le uova). Il giudizio di appartenenza categoriale sarà tanto più semplice nel caso in cui si definisca il pettirosso come uccello piuttosto che la gallina. Importante ci pare la considerazione secondo la quale concetti e categorie pur essendo strettamente legati non sono identificabili (Job, 1979), la categorizzazione è un processo che conduce alla formazione dei concetti e dei significati, ma non si identifica con essi.

Un approccio diverso è costituito dagli studi che provano come il bambino definisca i concetti lessicali in base alla scoperta di somiglianze funzionali tra gli oggetti (Nelson, 1974). Il nucleo della rappresentazione concettuale sarebbe formato dalle funzioni dell’oggetto, dalle caratteristiche dinamiche, dalle azioni che su di esso si possono compiere: la saponetta serve per lavarsi, sguscia di mano, se cade non si rompe, si può sciogliere, fa la schiuma, ecc.

In questo caso il fanciullo tende a strutturare il significato delle parole riferendosi agli schemi d’azione: la mela per mangiare, la palla per giocare, il letto per dormire, ecc. Il bambino accede al significato grazie al contesto globale nel quale matura le proprie esperienze e attraverso la scoperta di alcune invarianti (le proprietà dinamico-funzionali) che restano stabili nei vari eventi o contesti, integrata dalla individuazione degli attributi percettivi (Benelli, 1989).

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I due aspetti, funzionale e percettivo, sono tuttavia interagenti nella strutturazione dei significati, in quanto alcune volte la proprietà funzionale deve essere inferita a partire dalle proprietà percettive; alcuni oggetti, cioè, presentano particolari caratteristiche che sono indicative della funzione (Benelli, 1989; Job, Rumiati, 1984).

Altre modalità psicologiche attraverso le quali i bambini imparano il significato delle parole sono maggiormente legate ad aspetti linguistico formali: la sinonimia e l’antonimia. La sinonimia è definita, nell’accezione più comune, come quel fenomeno per cui parole di forme diverse hanno lo stesso significato. Ma oltre a parole che hanno un identico significato (sinonimi assoluti, esatti o totali) esistono anche parole che hanno significati simili (sinonimi parziali o approssimativi). I sinonimi del primo tipo sono assai rari poiché presuppongono significati rigorosamente definibili, ad esempio sono sinonimi di questo tipo “automezzo” e “autoveicolo”; la grande maggioranza dei sinonimi sono del secondo tipo, ad esempio “faccia” e “volto” che hanno un significato simile, ma non uguale, in relazione al contesto nel quale si presentano: si dice “il volto della Madonna” e non “la faccia della Madonna”, così come si dice “lavarsi la faccia” e non “lavarsi il volto”. Un criterio con cui si può definire operativamente un sinonimo è la possibilità di sostituzione della parola con il sinonimo nella frase senza alterarne il significato, altra accezione è quella per la quale sinonimi sono due termini che hanno lo stesso riferimento (Herrmann, 1978).

La regola da scoprire, in questo caso, è che due parole sono sostituibili l’una all’altra. Nel caso degli antonimi si tratta di parole che sostituite l’una all’altra, invertono il significato. Tra queste due modalità sinonimia-antonimia esiste un rapporto evidente, infatti si possono distinguere i sinonimi facendo riferimento ai loro antonimi: “declinare” e “rifiutare” possono essere sinonimi quando l’opposto è “accettare”, ma non lo sono se l’opposto di “declinare” è “sorgere”.

Secondo ulteriori classificazioni proposte dai linguisti sono stati distinti i termini contrari: negando un termine non si ammette implicitamente in modo necessario l’altro, ma assumendo uno si nega necessariamente l’altro, es. “lungo-corto”; complementari: negando l’uno si ammette necessariamente l’altro, es. “vero-falso”; reciproci: indicano una relazione comune vista da ottiche opposte, es. “marito-moglie”.

Powell (1986) parla di antonimi scalari e antonimi polari, intendendo con i primi quegli antonimi i quali prevedono una scala di gradazioni della quale essi costituiscono gli estremi opposti (caldissimo, caldo, tiepido, fresco, freddo) e che consentono comparazioni (più caldo). Questi corrispondono ai contrari nella classificazione tradizionale. Con i secondi si intendono quegli antonimi che non prevedono gradazione né termini intermedi e che corrispondono ai complementari e ai reciproci nella classificazione tradizionale. La polarità fissa i confini e la scolarità l’escursione di significato.

Secondo questo Autore si osserva una generale tendenza dell’uomo a vivere cercando gli opposti nell’esperienza, a pensare per contrari; il significato di una parola è reso accessibile anche individuando cosa non è.

Il bambino scopre gradualmente i significati delle parole grazie al fatto che queste non compaiono isolate ma inserite in un contesto. Il contesto, sia esperienziale che linguistico, è determinante e necessario per la costruzione

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delle regole che governano l’uso del linguaggio. Il contesto risulta indispensabile non solo per inferire il significato di parole sconosciute, ma anche per cogliere il significato più adeguato di una parola tra i molti possibili. Il bambino deve quindi diventare capace di selezionare tra tanti significati di un solo termine quello che si intende in quel determinato contesto. Risulta chiaro che si richiede al bambino non solo di sapere il significato della parola ma di saper ragionare in un compito assai complesso.

L’incremento del sistema semantico richiede la capacità di comprendere le relazioni tra le parole e non il significato delle parole isolatamente (Palermo, Molfese, 1972).

Esistono due casi nei quali il bambino deve risolvere l’ambiguità di una parola ricorrendo al contesto: l’omonimia e la polisemia. L’omonimia è il fenomeno per il quale una stessa orma possiede molti significati completamente scissi l’uno dall’altro, senza relazioni semantiche tra loro, ad esempio “fiera” che significa sia “belva” che “mercato”.

La polisemia è il fenomeno per cui molte parole di uso quotidiano possiedono molti significati diversi che hanno un’origine comune, ma che si specificano in base al contesto, ad esempio “grande” che può significare “voluminoso” ma anche “importante” o “imponente”.

Asch e Nerlove (1960) hanno compiuto uno studio sulla capacità, che i bambini sviluppano, di comprendere e utilizzare alcune parole polisemiche come “duro”, “brillante”, “dolce”, ecc., dette parole “a doppia funzione” poiché sono parole che si possono intendere dal punto di vista fisico, se riferite ad oggetti, ma che hanno anche un significato psicologico, se riferite a persone. Dallo studio emerge che fino a 7-8 anni i bambini utilizzano le parole a doppia funzione solamente in senso fisico concreto ma rifiutano la possibilità di utilizzare queste parole anche per caratteristiche di ordine psicologico. Dopo questa età si presenta l’uso e la comprensione dei termini a doppia funzione ma non si riesce a formulare una relazione tra i due significati; a 9-10 anni si ha una capacità di comprensione e di uso dei termini a doppia funzione uguale a quella di un adulto e si inizia ad essere capaci di affermare che esiste una relazione tra i due termini; a 12 anni circa si ha il riconoscimento della doppia funzione di questi termini.

Evidentemente i bambini, in un primo momento, rimangono legati all’idea che non sia possibile che una parola indichi più significati, come se il nome appartenesse alla cosa stessa. Solo successivamente si può chiedere ai soggetti di risolvere l’ambiguità delle polisemie attraverso l’uso del contesto.

Dallo studio di Asch e Nerlove, come da quello di Durkin e altri 1986, risulta che i bambini imparano i vari significati di un termine separatamente e prima nella forma basic la quale ha spesso riferimento ad una situazione concreta. In questa fase dello sviluppo i soggetti hanno ancora sostanziali difficoltà nel comprendere usi non basic di un termine e non sono capaci di utilizzare in modo adeguato il contesto per comprendere il giusto significato della parola polisemica.

Si tratta di riuscire a comprendere il valore convenzionale della lingua, distinguere la realtà referenziale dalle parole, riuscire a considerare un dato (la parola) da diversi punti di vista, avere del significato un’idea relativa e non assoluta, riuscire a vedere il significato della singola parola in relazione al contesto, avere flessibilità, non fissità. Tutte queste capacità non possono

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comparire prima dei 7-8 anni, periodo operatorio di Piaget e raggiungono un pieno sviluppo a 12-13 anni, periodo delle operazioni formali.

Fino all’età di otto anni circa, la parola e la realtà sono sempre la stessa cosa, la parola è trasparente, il bambino non riesce a vederne l’identità come sequenza di fonemi (Brandi, Cordin, 1986), non può quindi in alcun modo considerare la parola in sé, riflettere su di essa e sulle relazioni con le altre parole. In seguito il bambino sarà capace di comprendere che ad una parola corrisponde più di un referente, la parola assume una propria identità e il soggetto domina due dimensioni cognitive, quella della lingua e quella della realtà referenziale, inizia ad avere capacità di tipo metacognitivo delle quali solo più tardi avrà piena consapevolezza (Brandi, Cordin, 1986).

Nel cammino che il bambino compie per scoprire e costruire l’organizzazione del campo semantico egli elabora alcune regole non ancora adeguate, ma che non possono essere riduttivamente considerate errori, sono piuttosto tentativi necessari che andranno a confluire nella costruzione delle regole definitive ed appropriate. Queste modalità definitorie meno evolute costituiscono delle componenti facilitatici per l’acquisizione del lessico, ma il loro destino è quello di decrescere gradualmente al crescere complementare di modalità più evolute. Queste possono divenire fattore disturbante permanendo oltre i tempi normali di sviluppo (Boschi, Aprile, Scibetta, 1991).

Fra le modalità definitorie meno evolute, un precedimento molto diffuso e presente dai 4 ai 7 anni è la tautologia, cioè la tendenza ad utilizzare nella definizione la medesima parola che deve essere definita, come ad esempio “bassa è una cosa bassa”, oppure anche “bassa significa bassa”.

La tautologia è considerata una categoria semantica da Arcaini (1982) come l’iponimia, la sinonimia, l’antonimia; secondo Brandi e Cordin (1986) quando la tautologia diviene predicativa, cioè quando la parola da definire compare nella definizione insieme ad una predicazione che stimola associazioni, facilita l’organizzazione del campo semantico della parola, ad esempio “paura è quando uno ti fa i dispetti o che magari è più grande di te e te hai paura”. Aprile (1990) sulla base di ricerche sperimentali, dimostra la tautologia, sia predicativa che non predicativa, costituisce un fattore psicologico rilevante nella costruzione del lessico nella mente del fanciullo e possiede la medesima legittimità epistemologica delle altre aree cognitivo-linguistiche.

Un’altra strategia definitoria dello stesso tipo è quella di attribuire alle parole il significato evocato dalla forma grafica o dal suono delle parole stesse. Ad esempio un bambino di otto anni a cui è richiesto il significato di “riva”, in un item a scelta multipla tra “rivo”, “spiaggia”, “costa” e “sponda”, sceglie “rivo” e motiva la scelta dicendo che anche se finisce con “o” si riferisce alla stessa cosa.

Anche gli effetti dovuti alla vicinanza di due parole nel testo, spesso divengono una regola alla quale i bambini si affidano per definire il significato delle parole, lasciandosi guidare da criteri percettivi di concatenazione. Così nel te sto “il corvo vide una brocca”, “vide”, secondo un bambino di otto anni, definisce anche “brocca”, infatti egli dice “vide significa brocca perché vide una brocca”.

La ricerca ha messo in evidenza come siano appresi prima e con maggior facilità i significati concreti di una parola piuttosto che quelli astratti, i quali

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iniziano a comparire con maggior frequenza dopo i 6-7 ani. Una bambina di terza elementare, dopo aver letto che Napoleone era un

“grande” generale di bassa statura, dice che era molto alto, rimanendo quindi legata ad un’immagine visiva del significato della parola “grande” e mostrandosi incapace di vedere oltre all’aspetto fisico del termine anche quello psicologico. La bambina a rimane ancorata al significato immaginativo a tal punto da non registrare l’informazione seguente e cioè che Napoleone era di bassa statura, affermazione discordante con la prima che avrebbe potuto indurla a cercare un altro significato per la parola “grande”, possibilità che la bambina sembra non considerare affatto.

Ancora, il fanciullo può affidarsi ad una regola piuttosto semplice e diffusa: scegliere della parola il significato usato più frequentemente, il “significato dominante”.

Dopo aver letto un brano nel quale si parlava di Napoleone, che essendo basso non riusciva a prendere un libro posto in alto su uno scaffale, una bambina di otto anni decide che “posto” si riferisce ad un nascondiglio (le altre possibilità di risposta erano: un’occupazione, una carica, una collocazione). La piccola dice che sceglie “nascondiglio” perché il libro era nascosto, visto che Napoleone non riusciva a prenderlo; scarta “occupazione” perché Napoleone era basso e non occupava molto posto; “carica” non va bene perché non stava facendo la guerra a qualcuno e “collocazione” no, perché non stava mangiando (fare colazione).

E’ curioso vedere come, dall’analisi di ciò che la bambina dice, troviamo oltre alla scelta guidata dalla frequenza d’uso di “posto” come “nascondiglio”, nonché di “carica” intesa come “guerra”, anche una tendenza a seguire vincoli grafo-fonemici (“colazione” per “collocazione”) ed una tendenza ad attribuire alle parole il valore più legato all’immagine concreta (“occupazione” come “occupare tanto posto”).

Prove empiriche di efficacia

Il nostro trattamento si basa oltre che su solidi riferimenti teorici anche

sull’evidenza sperimentale circa la sua efficacia. Efficacia sulla competenza lessicale Il trattamento didattico, svolto in conformità con il modello tassonomico

da noi adottato, porta i soggetti trattati a migliorare le proprie prestazioni che risultano significativamente più elevate nella competenza lessicale, rispetto a soggetti non trattati. (Bigozzi L., Biggeri A., Boschi F. 1997) In particolare vediamo che la differenza nelle prestazioni tra i bambini del gruppo sperimentale e quelli del gruppo di controllo è maggiore nel caso della competenza di definizione lessicale in situazione di contesto frasale saliente. Ciò significa che il trattamento didattico efficace soprattutto nel caso di definizione di parole polisemiche.

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I soggetti con punteggi iniziali più bassi hanno ottenuto alla fine dell’esperimento un aumento dei punteggi maggiore di quello ottenuto dai soggetti con punteggio iniziale più alto.

Per quanto riguarda la capacità di comprendere i significati in relazione al contesto, i bambini di 8-9 anni non sembrano in grado di utilizzare efficacemente gli stimoli implicitamente offerti loro dalla didattica di routine, si dimostrano invece sensibili al nostro trattamento che rende esplicite tali relazioni e che sembra dunque efficace soprattutto per migliorare la competenza lessicale in situazione di vincolo contestuale saliente.

Tali dati appaiono particolarmente interessanti in quanto sottolineano l’importanza formativa della proposta didattica da noi avanzata, poiché questa appare stimolare le funzioni più complesse della competenza lessicale.

Abbiamo tenuto conto anche della variabile “maestro”, intendendo con questo il tipo di interazione educativa che, indipendentemente da metodi e programmi, ogni insegnante instaura nella propria classe. Il disegno dell’esperimento prevedeva infatti che circa la metà dei soggetti del gruppo sperimentale e circa la metà dei soggetti del gruppo di controllo avessero lo stesso insegnante: abbiamo potuto verificare che il miglioramento è effettivamente dovuto al programma e non alla particolare capacità didattica dell’insegnante.

Questo ultimo aspetto è stato confermato dall’efficacia che lessico e ortografia dimostra di ottenere in situazioni e contesti quanto mai diversi e non controllati; la sua efficacia è ormai confermata non solo dai ripetuti studi di laboratorio ma anche dalla sua utilizzazione in contesti scolastici vari. Da molte parti d’Italia ci arrivano apprezzamenti sull’efficacia del metodo, rassicurandoci sulla sua validità ecologica.

Efficacia sulla lettura Per quanto riguarda la lettura, il programma migliora significativamente

la comprensione, la correttezza e la rapidità. (Bigozzi e Biggeri, 2000). La comprensione in lettura è stata facilitata da una didattica volta ad

aumentare la capacità dei bambini nel comprendere i significati delle parole. Si consideri che il trattamento potenzia la capacità di comprendere sinonimi, antonimi, termini sovra e sottordinati e funzionali e che queste capacità sono esercitate tenendo conto della salienza o meno del contesto, quindi con un elevato aumento della capacità di risolvere i termini polisemici in base al testo. Risulta quindi facilmente interpretabile questo dato relativo alla miglior comprensione in lettura dei bambini sottoposti a trattamento anche alla luce del fatto che nella lingua italiana molte parole sono polisemiche.

Per quanto riguarda la correttezza e la velocità , il miglioramento ottenuto dai bambini sottoposti al trattamento sul lessico è interpretabile in base al già citato Modello a due Vie. Nei bambini sottoposti al nostro trattamento didattico si ha infatti un aumento delle parole conosciute, parole di cui si è già immagazzinata la “forma ortografica”.

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Efficacia sulla correttezza ortografica Dai risultati relativi agli errori ortografici (Bigozzi e Biggeri,

2000).emerge che il trattamento è molto efficace per la riduzione degli errori, sia nel dettato che nella scrittura spontanea. Abbiamo anche verificato che non ci sono differenze nell’efficacia del trattamento sui vari tipi di errore, ma il trattamento si dimostra ugualmente efficace su ogni tipo di errore (fonologico, non-fonologico, altro). Abbiamo poi evidenziato che il trattamento ha un effetto diretto su tutti gli errori ed un effetto indiretto, cioè dovuto non al trattamento in sé ma all’incremento della competenza lessicale, per la scrittura sotto dettatura di frasi.

Il trattamento ha una maggiore efficacia sulla correttezza ortografica per soggetti che commettono un maggior numero di errori prima del trattamento. E’ molto importante questo dato poiché dimostra che il trattamento è utile proprio per quei soggetti che mediamente danno delle prestazioni notevolmente inferiori alla media. Abbiamo visto nei risultati che la diminuzione degli errori nel dettato di frasi è di un errore in meno ogni 66 parole se riguarda i bambini che come competenza ortografica media iniziale si situano a -1deviazione standard dalla media di errori ortografici e aumenta a 1 errore in meno ogni 18 parole per i bambini che si collocano a +1deviazione standard dalla media. Questo fatto ci indica che questo trattamento, pur essendo efficace per tutti i soggetti del nostro esperimento, migliora di più le prestazioni dei soggetti che ne hanno più bisogno, diminuendo la forbice delle diversità.

Il trattamento ha un effetto che abbiamo chiamato “diretto”, sugli errori ; ovvero il trattamento agisce direttamente grazie alla presenza nell’attività didattica prevista, di alcuni esercizi riguardanti sezionamenti e riordinamenti di parole con suffissi, ricerca di radici, riflessione sull’ortografia di legami tra parole.

E’ stato altresì evidenziato un effetto sull’ortografia che abbiamo chiamato “indiretto” in quanto dovuto al miglioramento della competenza lessicale; tale effetto è quantificabile in 1 errore ortografico in meno ogni 54 parole scritte e va ad aggiungersi all’effetto diretto.

Ci sembrano molto interessanti i risultati relativi all’esistenza di un effetto indiretto del trattamento sulla correttezza ortografica. Come abbiamo già esposto diffusamente nella prima parte di questa introduzione, il fatto che l’ortografia migliori lavorando sulla competenza lessicale va letto, tenendo conto della distinzione proposta dal modello a due vie (Coltheart et al., 1993; 2001), come effetto del trattamento didattico sul potenziamento della via semantico-lessicale o diretta di lettura e di scrittura; quindi strettamente connesso ad una migliore efficienza del “buffer grafemico” o magazzino grafemico, il quale ha il compito di ritenere temporaneamente le rappresentazioni ortografiche prima che queste vengano convertite in lingua scritta (Miceli, 1992).

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Una rappresentazione schematica delle relazioni principali tra le variabili considerate è riportata in figura 2 Fig. 2: Analisi multivariata tramite modelli grafici. Nei rettangoli sono riportate

le variabili studiate. Le frecce indicano una relazione di causalità. Si noti che il trattamento agisce su tutti i tre tipi di errore e che esiste un effetto indiretto del trattamento sugli errori nel dettato di frasi, che passa attraverso l’incremento della competenza lessicale (frecce più marcate). Tratto da Bigozzi e Biggeri (2000).

Nello schema si noti che le frecce esprimono una relazione di causalità:

possiamo vedere che il trattamento sta in rapporto causale con la competenza lessicale e questa, a sua volta, sta in un rapporto causale con gli errori nel dettato di frasi.

Efficacia sull’ortografia nei disortografici

E’ stata valutata l’efficacia del trattamento anche su bambini e ragazzi su

cui sia stato diagnosticato un DSA dell’ortografia, caratterizzato principalmente dalla difficoltà a compitare e trascrivere correttamente le parole (Bigozzi, de Bernart, Falaschi, 2007, Bigozzi 2003).

Il trattamento è risultato efficace poiché agisce a livello profondo sui processi coinvolti nel compito di scrittura e non soltanto superficialmente sulla performance.

I bambini con diagnosi di disortografia sottoposti a trattamento migliorano le loro prestazioni in modo significativo.

A titolo esemplificativo riportiamo una figura che mostra una pagina scritta da uno dei bambini prima e dopo il trattamento, per i risultati statistici degli studi si rimando ai lavori citati.

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Figura 3- Esempio di testo prodotto da Giorgio prima e dopo il trattamento.

L’aumento delle parole conosciute, parole che i soggetti disortografici

sottoposti al trattamento hanno immagazzinato nelle loro triplice componente, fonologica, semantica e, conseguentemente anche ortografica, ha infatti reso disponibile, nel momento in cui veniva affrontato il compito di scrittura, un numero maggiore di informazioni circa la forma ortograficamente corretta con cui tali parole devono essere codificate, sostenendo dunque proprio quel processo di coordinazione tra indizi ortografici, fonologici e semantici che è alla base della stesura della parola scritta e che risulta problematico nelle persone con disturbo specifico di apprendimento dell’ortografia (Nagy et al., 2003).

I ragazzi trattati, dopo il trattamento, conoscono più parole e questa conoscenza è una conoscenza più completa: ne conoscono il significato, la forma ed i legami di significato e di forma con le altre parole ed è proprio questa conoscenza che permette loro di avere immediatamente reperibili le rappresentazioni ortografiche delle parole e di riprodurle correttamente sul foglio.

L’efficacia del trattamento è stata sperimentalmente dimostrata sia su bambini che su ragazzi con diagnosi di disturbo specifico di apprendimento dell’ortografia (età da 8 a 16 anni)

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Questo risultato ci pare molto importante poiché un trattamento che funziona sulle persone “normali” non è detto che abbia un effetto significativo anche sui bambini e ragazzi con disturbo specifico di apprendimento. Si pensi che l’esercizio ortografico o la lettura, che per i bambini normali hanno un effetto sulla prestazione, sono poco utili per i bambini con disturbo specifico dell’apprendimento dell’ortografia.

Infine dobbiamo anche sottolineare la persistenza nel tempo degli effetti positivi di potenziamento lessicale sulla correttezza ortografica, come provato dai risultati di un follow-up effettuato a dodici mesi di distanza; risultato questo che supporta ulteriormente la maggiore necessità di interventi “profondi”, che promuovano l’acquisizione di abilità attraverso l’elaborazione e la costruzione di significati piuttosto che con la semplice memorizzazione.

Efficacia sulla lettura nei dislessici Abbiamo valutato l’efficacia del trattamento sulla lettura nei bambini e

ragazzi con disturbo specifico di apprendimento della lettura. Anche in questo studio, come nel precedente abbiamo potuto mettere in

luce un effetto significativo del trattamento lessicale sulla lettura, nelle sue componenti di velocità, correttezza e comprensione (Pazzagli, 2008).

Come è noto, i dislessici italiani manifestano il disturbo peculiarmente attraverso una marcata lentezza nella lettura. Il trattamento agendo sul potenziamento della via lessicale, rende più facile e spedito il riconoscimento della parole con il diretto accesso semantico.

Istruzioni per l’uso: descrizione delle schede

Il presente trattamento prevede 3 tipologie di intervento: a) interventi e percorsi didattici rivolti al superamento delle «tendenze

assimilative» nelle modalità di definizione lessicale (che vengono attentamente considerate e non trascurate come semplici errori nella definizione delle parole);

b) interventi rivolti allo sviluppo di una competenza lessicale corrispondente alle «tendenze accomodative», cioè a criteri linguistici consensuali, intesi come categorizzazioni, funzionalizzazioni, sinonimie, antonimie;

c) stimolazioni riferibili alle afferenze contestuali sia esterne che interne alla frase, che favoriscono lo sviluppo di competenze basate su processi di elaborazione più profonda di tipo cognitivo-linguistico (Boschi, Aprile e Scibetta, 1992).

Gli interventi sono strutturati sottoforma di schede: 1. Schede per il superamento delle tendenze assimilative 2. Schede per l’arricchimento del vocabolario

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3. Schede per l’arricchimento delle capacità di contestualizzazione Ogni singola sezione è articolata in tre tipologie di schede:

1. Schede di esercizio: sono le schede che costituiscono l’intervento e che danno luogo al progresso nelle varie competenze descritte ampiamente nel programma.

2. Schede metacognitive di verifica: sono schede che consentono di verificare se l’alunno ha acquisito le competenze che sono state incrementate con le schede di esercizio. In queste schede è presente una componente metacognitiva in quanto si richiede al soggetto di esplicitare il significato della prestazione che viene fornita, cioè di dare prova di avere consapevolezza del processo che viene messo in atto per risolvere correttamente l’esercizio.

3. Schede metacognitive di autocorrezione: sono schede che presentano alcuni esercizi seguiti dalla soluzione. Anche queste schede fanno leva su competenze di tipo metacognitivo, in quanto al soggetto è richiesto di dire se pensa di avere imparato qualcosa dagli esercizi che ha svolto e quanto pensa di avere imparato, attraverso una domanda seguita da risposte a scelta multipla, per cui l’alunno dovrà solamente apporre una crocetta. Subito dopo gli si richiede di svolgere cinque esercizi relativi alla sezione su cui si è lavorato. Al termine dello svolgimento viene invitato a controllare la correttezza dell’esecuzione. In base al risultato ottenuto, posto in relazione con il livello di competenza che egli ha inizialmente stimato di possedere, si offre una misura della consapevolezza circa la sua competenza in quello specifico dominio.

Schede per il superamento delle tendenze assimilative

Scopo di questa sezione è quello di aiutare l’alunno nel superamento delle modalità definitorie proprie della fanciullezza («tendenze assimilative»). Nei primi anni della scuola primaria assistiamo a un graduale, ma rapido, abbandono di questi meccanismi generatori di parole e all’affermarsi di un modo di organizzazione lessemica sempre più simile a quello degli adulti. Il criterio sul quale si basa questa fase dell’azione didattica da noi proposta è quello di utilizzare costruttivamente quei processi definitori che comunemente vengono considerati errori e che sono invece progressive tappe nel processo di crescita della competenza lessicale.

Si tratta di un intervento che, invece di ignorare, tende piuttosto a «giocare» con le modalità infantili di definizione lessemica. Usando il criterio della «prescrizione del sintomo» vengono favoriti anche i processi di consapevolezza metacognitiva concernenti le caratteristiche di queste maniere ancora improprie, ma non completamente prive di senso, nei primi tentativi del bambino di trovare delle regole nella definizione delle parole.

Percorso didattico

Le schede proposte in questa sezione sono state costruite secondo i criteri

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sinteticamente riportati nella tassonomia elaborata da Bigozzi et al. (1992), che qui esplicitiamo più diffusamente (figura 4).

Figura 4 Tendenze assimilative. Tassonomia per l’attività didattica. Tratto da Bigozzi et al. (1992).

Nel condurre l’attività didattica l’insegnante potrà proficuamente prevedere dei momenti di spiegazione e di lavoro collettivo seguendo questi suggerimenti:

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1. Per il superamento della tautologia, cioè il superamento della tendenza a definire una parola ripetendo il termine da definire, è bene programmare un lavoro didattico che preveda la ripetizione gestuale o grafica del termine da definire. Si può proporre di definire la parola «lattante» mimando o disegnando un lattante. In questo modo l’alunno riprodurrà graficamente o esprimerà mimicamente i caratteri essenziali che definiscono il termine «lattante»: essere piccolo, piangere, succhiare il dito, ecc. Si passerà poi a ripetizioni semplici della parola e a ripetizioni con espansione, come ad esempio «giocare» significa «giocare alle bambole»; in seguito, queste espansioni diventeranno predicazioni nelle quali è inserita la parola, come ad esempio: «disobbedire è quando la mia mamma mi dice di non scoppiare i petardi e io lo faccio lo stesso» (forma personale), oppure «stanchezza è quando uno ha lavorato tanto ed è stanco» (forma impersonale, più evoluta).

2. Superamento del vincolo grafo-fonemico, cioè superamento della tendenza ad attribuire un significato basandosi sulla «forma» (visiva-uditiva) delle parole, per cui a parole di forma simile vengono fatti corrispondere simili significati. Inizialmente si lavorerà su parole per le quali il criterio della priorità grafica risulta valido come metodo per inferire il vero significato delle parole, come ad esempio nel caso degli alterati, derivati, termini con suffissi (es. acqua, acquazzone, ecc.). In un secondo momento si proporranno parole per le quali il criterio dell’assonanza risulta fuorviante, come ad esempio «gazzella» e «gazzetta», oppure «concordanza» definita da un’alunna di otto anni: «danza con la corda».

3. Superamento degli effetti consecutivi, cioè della tendenza ad essere influenzati dagli effetti dovuti alla vicinanza di due parole nella stringa frasale. Ad esempio, in un testo che dice «Allo zoo abbiamo visto tanti animali» il bambino è portato a collegare il significato della parola «zoo» con la parola «animali» e in questo caso la tendenza è funzionale alla determinazione del significato della parola «zoo»; per cui alla richiesta di definire «animali» risponde «zoo». In altri casi i bambini, affidandosi a questa regola, possono essere fuorviati, come nel caso di un bambino che leggendo la frase «Sulla riva del fiume il corvo vide una brocca», alla domanda «cosa significa: vide?» risponde «una brocca».

4. Superamento della tendenza a definire una parola affidandosi all’immagine evocata. Questa tendenza è operante per i significati di parole che indicano oggetti concreti e percettivamente evidenti come «mela», ma non lo è per i significati astratti come «orgoglio» e infine diventa fuorviante per quei significati per i quali il legame con un’immagine costituisce motivo di errore, come «grande» nel senso di «celebre» e non di «grosso». L’insegnante proporrà esercizi che passino gradualmente dai primi agli ultimi tipi di parole.

5. Superamento della tendenza ad attivare il significato dominante o più frequente nell’uso delle parole. Il trattamento inizia con esercizi nei quali è corretta la scelta del significato più usuale, come ad esempio «pianta» intesa come «organismo vegetale», per arrivare a esercizi nei quali si richiede il significato secondario, come «pianta» nel senso di «carta topografica».

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Per rivolgerci agli alunni con una terminologia più adeguata abbiamo indicato le Tautologie come Ripetizioni, i Vincoli grafo-fonemici come Assonanze, gli Effetti consecutivi come Successioni, i Valori di immagine come Immagini, il Significato dominante/Frequenza d’uso come Uso più frequente.

Materiale:

1. Schede di esercizio numerate secondo la scansione della tassonomia riportata nella figura 4

2. Schede metacognitive di verifica, nelle quali l’alunno dovrà fornire la prestazione corretta, ma anche dare prova di avere capito il processo che sta mettendo in atto.

3. Schede metacognitive di autocorrezione, nelle quali l’alunno dovrà predire il livello della prestazione, eseguire il compito e valutare se il livello raggiunto corrisponde al livello effettivo della prestazione.

Schede per lo sviluppo dei processi accomodativi

ARRICCHIMENTO DEL VOCABOLARIO

Obiettivo di questa sezione è quello di promuovere nell’alunno l’acquisizione

di quattro fondamentali processi di espansione del lessico: categorizzazione, funzionalizzazione, sinonimia, antonimia. Per la costruzione delle schede di questi quattro nuclei ci siamo riferiti alla scansione riportata nella relativa tassonomia (figura 5).

Figura 5: Tendenze accomodative. Tassonomia per l’attività didattica. Tratto da Bigozzi et al. (1992).

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Definire le parole includendole in categorie è da considerarsi un processo tra i

più precoci e rilevanti per l’organizzazione delle conoscenze e delle esperienze. Il trattamento accompagnerà gli alunni nel percorso volto a definire le parole organizzandole gerarchicamente in categorie, con raggruppamenti di grado superiore (categorie sovraordinate: «i cani sono animali») e con raggruppamenti di grado inferiore (categorie sottordinate: «il dalmata è un cane»). Il bambino si affiderà soprattutto ad aspetti di tipo percettivo per dare giudizi di appartenenza categoriale.

Gli alunni saranno anche stimolati a definire le parole in base alle caratteristiche dinamico-funzionali degli oggetti, saranno pertanto invitati a individuare sulla base delle proprie esperienze le funzioni degli oggetti e le azioni che su di essi o con essi si possono compiere. Si farà notare ai

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bambini che le proprietà dinamico-funzionali sono stabili nei vari eventi o contesti: ad esempio, una mela oltre ad essere un frutto (appartenenza categoriale) e oltre ad essere rossa o verde o gialla (caratteristica percettiva), si mangia, si può cuocere, si sbuccia, si taglia, se ne può estrarre il succo, ecc. (caratteristiche dinamico-funzionali). Sarà anche opportuno integrare queste due forme di definizione stimolando in modo congiunto la capacità di funzionalizzazione e di categorizzazione, proponendo agli alunni cioè di formare categorie in base alla funzione degli oggetti.

Le altre due modalità di definizione delle parole, oggetto della stimolazione didattica, sono la sinonimia e l’antonimia. A tale riguardo occorre tenere presente che gli alunni riescono molto precocemente a trovare i contrari delle parole, soprattutto degli aggettivi, mentre secondo alcuni autori mostrano maggiori difficoltà nell’individuare i sinonimi.

Percorso didattico

Le schede proposte in questa sezione sono state costruite secondo i criteri sinteticamente riportati nella tassonomia indicata nella figura ‘’’’ che qui esplicitiamo più diffusamente. Nel condurre l’attività didattica l’insegnante potrà proficuamente prevedere dei momenti di spiegazione e di lavoro collettivo con l’aiuto dei seguenti suggerimenti.

1. Classificare parole che siano facilmente categorizzabili in base a evidenti attributi percettivi, ad es. il cane è peloso, ha quattro zampe, ha la coda, ecc.; i barboncini, i dalmata, i bassotti sono pelosi, hanno quattro zampe, hanno la coda, ecc. e sono «cani» (categoria sottordinata rispetto ad «animali»). In seguito si passerà a termini sovraordinati come, appunto, «animali» o «esseri viventi» o «mammiferi». Il bambino dovrà essere aiutato a integrare le conoscenze precedenti con questa nuova capacità di astrazione, e sarà quindi capace di dire che il cane è un animale a quattro zampe, con la coda, che è peloso, ecc. Solo in questa fase sarà chiarita l’appartenenza alla categoria sovraordinata, integrata con la specificazione di alcune caratteristiche che consentono una chiara identificazione del soggetto tra gli altri elementi della stessa categoria.

2. Riconoscere le funzioni di alcuni oggetti, le caratteristiche dinamiche e le azioni che con essi o su di essi si possono compiere. È importante iniziare a stimolare negli alunni la rilevazione delle caratteristiche dinamico-funzionali degli oggetti: ad esempio, si chiederà quali usi o quali azioni si possono compiere con degli oggetti quotidiani come la forchetta, l’automobile, la carta. In seguito si passerà a stimolare le caratteristiche dinamico-funzionali delle categorie e a stimolare in modo congiunto la capacità di categorizzazione e di funzionalizzazione, proponendo agli alunni di formare categorie in base agli attributi funzionali o dinamici degli oggetti: ad esempio, l’insieme di tutte le cose che servono per apparecchiare la tavola.

3. Individuare gli antonimi di parole familiari, intese nel loro significato dominante, cioè quello più immediatamente disponibile. Si inizia con stimolazioni che prevedono antonimi polari (cioè parole contrarie che non hanno gradazioni intermedie di significato), come ad esempio: «vivo» e «morto», «vero» e «falso», «femmina» e «maschio». In un secondo momento si richiederanno gli antonimi scalari (cioè quelli che prevedono

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una serie di gradi intermedi), come ad esempio: «caldo», «tiepido», «fresco», «freddo». Attraverso i passaggi graduali indicati dalla tassonomia relativa si potranno richiedere antonimi di parole poco familiari, con il contrario di «sofisticato», di «trascurabile» o di «prezioso» e anche i contrari di parole nel loro significato secondario, come ad esempio il contrario di «freddo» nel senso di «scostante».

4. Il trattamento aiuta i bambini a individuare i sinonimi delle parole seguendo, come per gli antonimi, il criterio della familiarità e della dominanza di significato. Sarà più facile trovare il sinonimo di parole di uso familiare come «contento», piuttosto che di parole dal significato non frequente come «collaudo» invece di «prova». Inoltre è consigliabile far notare agli alunni che è possibile chiamare in due modi lo stesso oggetto, ad esempio «gatto» e «micio», «carne» e «ciccia». Così incominceranno a intuire il concetto di «registro», ovvero le diverse utilizzazioni che il parlante compie in rapporto ai livelli di lingua esistenti nell’uso sociale. Solo più tardi è opportuno introdurre il criterio, più corretto linguisticamente ma più complesso psicologicamente, della sinonimia come sostituibilità delle parole in relazione ai contesti frasali. Ad esempio, «allegro» può essere sostituito con «contento» in un testo nel quale si riferisce all’umore, e con «vivace» in un testo in cui si riferisce a un colore. I sinonimi costituiscono, secondo alcuni autori, la forma di definizione più complessa e pertanto dovrà essere stimolata con particolare attenzione.

Materiale: 1. Schede di esercizio numerate secondo la scansione della tassonomia riportata

nella figura 5. 2. Schede metacognitive di verifica, nelle quali l’alunno dovrà esprimere la

prestazione corretta, ma anche dare prova di avere capito il processo che sta mettendo in atto.

3. Schede metacognitive di autocorrezione, nelle quali l’alunno dovrà predire il livello della prestazione, eseguire il compito e valutare se il livello raggiunto corrisponde al livello effettivo della prestazione.

ARRICCHIMENTO DELLE CAPACITÀ DI CONTESTUALIZZAZIONE

Scopo di questa sezione è quello di migliorare qualitativamente il patrimonio lessicale degli alunni, attraverso la conoscenza delle regole che collegano le parole in rapporti reciproci. Per questo si stimoleranno i bambini a utilizzare il contesto oltre che per comprendere il significato di parole nuove, anche e soprattutto per comprendere i diversi significati di una stessa parola. Si tratterà quindi di apprendere nuovi significati di parole già conosciute seguendo la tassonomia riportata nella figura 6.

Figura 6: Contestualizzazione. Tassonomia per l’attività didattica. Tratto da Bigozzi et al. (1992).

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La maggior parte delle parole della nostra lingua è polisemica, cioè

acquista significato nella frase in base al ruolo che svolge nella frase stessa. È molto importante che i bambini siano consapevoli di questa caratteristica della lingua italiana, per cui non basta avvertirli spiegando loro che le parole hanno più di un significato, ma bisogna esercitarli e stimolarli nella comprensione e nella produzione attiva di tale competenza se si desidera ottenere un effettivo miglioramento della lettura e della scrittura.

La capacità di comprendere una parola isolatamente e la capacità di comprendere il particolare significato che quella parola assume nella frase in cui è inserita implica due capacità distinte, che vanno ambedue intenzionalmente stimolate con l’azione didattica. Il bambino, pur avendo davanti un solo oggetto — la parola — deve sviluppare la capacità di spostare l’attenzione da un campo semantico all’altro e di considerare contemporaneamente più caratteristiche di un solo elemento. La scuola deve favorire questo delicato processo di organizzazione del vocabolario che difficilmente l’alunno è in grado di conquistare da solo.

Percorso didattico

Le schede proposte in questa sezione sono state costruite secondo i criteri

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sinteticamente riportati nella tassonomia indicata dalla figura 6 che qui descriviamo più diffusamente.

Nel condurre l’attività didattica l’insegnante potrà prevedere dei momenti di spiegazione e di lavoro collettivo con l’aiuto dei seguenti suggerimenti.

1. Il trattamento inizia con le omonimie, ritenute di più facile acquisizione da parte del bambino, in quanto i significati di due parole omonime non hanno relazione tra loro. Essendo parole omografe e omofone, come «stagno» — che può significare sia piccolo lago, sia metallo malleabile —, ma non avendo affinità di significato, dal punto di vista semantico sono considerate come due parole distinte.

2. Si propongono termini polisemici con pochi significati, per passare poi a termini con molti significati relati tra loro. Esempio del primo tipo è la parola «buca», che significa sia «cassetta delle lettere» sia «cavità nel terreno»; esempio del secondo tipo è la parola «campo», che presenta più sfumature di significato.

3. Considerare che alcune parole polisemiche hanno un significato concreto di accesso precoce e un significato psicologico o astratto il cui accesso è più tardo. Ad esempio, «brillante», che può essere inteso nel senso di gioiello o di aggettivo riferito a una persona.

4. Il trattamento gradualizza nel tempo il valore evocativo del contesto. Un testo, infatti, può essere più o meno evocativo, cioè può indicare in modo più o meno esplicito il significato del termine da selezionare, e tale differenza è data dagli elementi informativi presenti. «Trovai una ragazza molto carina» può significare sia che la ragazza era molto gradevole fisicamente, sia che era molto gentile e cortese. In questo caso il testo non è evocativo e occorre ricercare ulteriori elementi informativi. Invece nella frase «Nella bottega dell’orefice la ragazza ammirò alcune gemme» il contesto è sufficientemente informativo per disambiguare il termine polisemico «gemme».

5. Richiedere prima il significato dominante delle parole polisemiche. Sono dominanti quei significati che vengono in mente per primi leggendo la parola priva di contesto e che spesso corrispondono al significato usato più frequentemente. Molte volte si rende necessario stimolare l’accesso ai significati secondari anche in quei bambini che possiedono un buon numero di vocaboli ma nel loro significato dominante.

Il contesto può essere congruente, incongruente o neutro rispetto al significato che la parola intende attivare e il significato richiesto può essere dominante o secondario. Dall’intreccio di queste variabili abbiamo individuato scansioni di schede didattiche sempre più complesse.

Prima si possono proporre contesti che evocano il significato dominante e si può richiedere di indicare solo quel significato, come «Ho visto Mario alla stazione con un grosso fagotto sotto il braccio»: in questo caso difficilmente il bambino penserà a «fagotto» come strumento musicale (significato secondario) e più facilmente attiverà il significato dominante di «grosso involucro».

Se il contesto evoca il significato secondario sarà possibile richiedere con successo di attivare sia il significato dominante che quello secondario. Data la frase «Le creste dei monti erano innevate», si potrà chiedere al bambino quale altro significato ha la parola «creste» oltre a quello contenuto nella frase.

Se il contesto è neutro sarà più favorito l’accesso al significato dominante. Data la frase «È dolce», al bambino verrà più facilmente in mente la proprietà

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organolettica e non la caratteristica psicologica. Se il contesto non aiuta a evocare il significato secondario sarà più difficile farlo emergere.

Se il contesto evoca il significato dominante, la richiesta di selezionare tutti i possibili significati di quella parola avrà risposta solo dopo un attento lavoro di riflessione e di esercizio.

6. Il trattamento utilizza il contesto anche per le parole sconosciute, questo può essere utile per facilitare i processi inferenziali, cioè la capacità di inferire, dai dati presenti, un dato mancante. La parola sconosciuta è come un vuoto nel testo: utilizzare gli indizi dati per scoprire il significato di quella parola facilita la comprensione del testo poiché costringe il lettore a prestare attenzione al significato di tutte le altre parole e al significato del testo nella sua globalità nel tentativo di ricostruire la parte mancante.

7. Si chiede di familiarizzare, infine, con la metafora, partendo da situazioni concrete e conosciute. I bambini riescono a produrre metafore molto precocemente quando si tratta, ad esempio, di dare soprannomi ai loro compagni: «lumaca» chi finisce i compiti per ultimo, «ciccio-bomba» quello grasso, «stecchino» quello magro, ecc. Con l’età i bambini riescono a evolversi verso forme più raffinate di metafora.1

Materiale: 1. Schede di esercizio numerate secondo la scansione della tassonomia

riportata nella figura 6. 2. Schede metacognitive di verifica, nelle quali l’alunno dovrà fornire la

prestazione corretta, ma anche dare prova di avere capito il processo che sta mettendo in atto.

3. Schede metacognitive di autocorrezione, nelle quali l’alunno dovrà predire il livello della prestazione, eseguire il compito e valutare se il livello raggiunto corrisponde al livello effettivo della prestazione.

Istruzioni per l’uso: indicazioni metodologiche per gli insegnanti

Per una corretta e consapevole somministrazione delle schede si

raccomanda innanzitutto la lettura attenta della presentazione al programma. Le schede sono ordinate secondo una difficoltà crescente: la prima sezione

(superamento delle grammatiche infantili), pertanto, deve precedere la seconda (arricchimento del vocabolario) e questa deve precedere la terza (arricchimento delle capacità di contestualizzazione). Per ogni sezione è opportuno iniziare sempre con l’esecuzione delle schede di esercizio. Tali schede sono da somministrare secondo la numerazione progressiva riportata sulla destra della pagina in alto, mentre sulla sinistra è riportato il punto corrispondente nella tassonomia, per ciascuno dei quali sono presenti più schede. Può verificarsi che per alcuni bambini le schede iniziali, della prima sezione, siano troppo semplici. Ad esempio, è probabile che per un alunno di quinta elementare gli esercizi sulla tautologia sembrino superflui; tuttavia si suggerisce di eseguire ugualmente la scheda poiché l’efficacia è nel percorso che viene a costruirsi piuttosto che nella quantità di schede fatte.

Lessico e ortografia può essere utilizzato proficuamente sia collettivamente che individualmente, sia con l’intervento di un adulto che

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autonomamente, sia da bambini (a partire dai sette, otto anni) che da ragazzi con difficoltà in lettura e scrittura o nella competenza lessicale ed infine sia da alunni con sviluppo tipico che atipico.

Le schede di esercizio possono essere svolte autonomamente dai singoli alunni, ma l’insegnante può altresì utilizzarle come canovaccio su cui far lavorare l’intera classe e su cui, volendo, costruire altre schede analoghe. Riteniamo però importante mantenere la scansione da noi proposta: cioè l’ordine di presentazione del materiale, quindi, deve rimanere invariato.

Gli effetti del trattamento sono massimizzati se questo viene utilizzato a classe intera, in classe terza e quarta per un’ora la settimana con discussioni collettive e lavoro di gruppo. In questa ottica, ogni scheda di esercizio contiene un input di riflessione “Per riflettere insieme”. All’interno di questo spazio vengono forniti alcuni suggerimenti metodologici valorizzando da un lato la dimensione sociale dell’apprendimento, attraverso il lavoro di gruppo, le discussioni collettive, il confronto, la mediazione didattica, la ludicità, dall’altro la dimensione della “riflessività”, promuovendo la consapevolezza nell’uso di certe strategie e sussidi didattici e il monitoraggio dei propri processi di apprendimento.

Le schede metacognitive di verifica sono state strutturate in modo tale da essere svolte autonomamente da ogni alunno, ma si prestano particolarmente bene anche per costituire una traccia di spiegazione per tutta la classe.

Le schede autocorrettive sono da svolgersi singolarmente. È molto importante che agli alunni venga spiegata la finalità di tali schede, facendo loro capire che devono stimare con sincerità il proprio livello di competenza. Non sono rari i casi di alunni che si sottostimano perché credono che sia una forma di presunzione ritenersi troppo «bravi», o che si sovrastimano perché tendono a indicare non quello che sanno ma quello che vorrebbero sapere. È necessario che l’insegnante spieghi che in queste schede il compito è quello di dire proprio quello che si pensa di sapere, perché è più «bravo» quello che più si avvicina alla verità.

È molto importante, come in tutti i compiti di verifica, ostacolare la comunicazione tra compagni durante lo svolgimento delle prove, altrimenti il lavoro è vanificato.

Se si desidera mettere in atto una didattica individualizzata per ogni alunno della classe in base al suo livello di sviluppo lessicale ed utilizzare diversamente il trattamento, si raccomanda la somministrazione delle Prove Analitiche di Vocabolario di Boschi Aprile e Scibetta (1991), che permettono di individuare chiaramente e con sicurezza il livello di sviluppo attuale dell’alunno e quindi consentono di partire dal quel punto per progredire in avanti. Se invece si desidera calibrare l’intervento sulle specifiche necessità di un singolo per interventi di sostegno o per interventi abilitativi in caso di disturbo specifico di apprendimento, si raccomanda la somministrazione del trattamento almeno due ore la settimana per un tempo di circa un anno, tempo necessario a svolgere interamente il percorso.

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Fig. 1 Stadi di elaborazione della parola “zebra” secondo il modello a due vie (tratto da Cubelli, 2002). Fig. 2 Analisi multivariata tramite modelli grafici. Fig. 3 Esempio di testo prodotto da Giorgio prima e dopo il trattamento.

Fig. 4 Tendenze assimilative. Tassonomia per l’attività didattica. Tratto da Bigozzi et

al. (1992).

Fig. 5 Tendenze accomodative. Tassonomia per l’attività didattica. Tratto da Bigozzi et al. (1992).

Fig. 6 Contestualizzazione. Tassonomia per l’attività didattica. Adattamento tratto da

Bigozzi et al. (1992).

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