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Ripensare l'anima

6.1. L'anima

Di fronte alla naturalizzazione completa dell'uomo - apre­scindere dalla valutazione sull'intento e sul percorso che qui ha condotto - alla fine una domanda diventa ineludibile: l'a­nima che fine fa? Anche la risposta appare ineludibile: intesa come elemento immateriale separato, l'anima non è un'ipotesi sostenibile in questa prospettiva. Già solo una conclusione di questo tipo potrebbe essere sufficiente per abbandona­re l'intento generale e considerarlo non compatibile con la dogmatica cristiana. Con le parole della Congregazione per la Dottrina della Fede si potrebbe dire:

La chiesa afferma la sopravvivenza e la sussistenza, dopo la mor­te, di un elemento spirituale, il quale è dotato di coscienza e di volontà, in modo tale che l'«io umano» sussista, pur mancando nel frattempo del complemento del suo corpo. Per designare un tale elemento, la chiesa adopera la parola «anima», consacrata dall'uso della Sacra Scrittura e della tradizione. Senza ignorare che questo termine assume nella Bibbia diversi significati, essa ritiene tuttavia che non esista alcuna seria ragione per respin-

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gerla e considera, inoltre, che è assolutamente indispensabile uno strumento verbale per sostenere la fede dei cristiani. La chiesa esclude ogni forma di pensiero o di espressione, che renderebbe assurdi o inintelligibili la sua preghiera i suoi riti funebri, il suo culto dei morti, realtà che costituis~ono, nella loro sostanza, altrettanti luoghi teologici1•

Il brano citato ha il pregio di mostrare un aspetto impor­tante del modo con cui si usano i concetti in teologia: non si affermano mai per se stessi, ma sempre come strumenti verbali per sostenere la concreta vita di fede dei cristiani, con la sua preghiera, i suoi riti ecc. I concetti devono essere intesi come strumenti, funzionali ad una vita di fede che li precede e li de­termina. Pertanto le affermazioni teologiche non possono mai accontentarsi di essere formulate, ma devono verificare che la funzione loro assegnata nel «sostenere la fede dei cristiani» sia garantita. I teologi della liberazione ricorderebbero a questo proposito che la teologia è atto secondo, cioè che l'atto primo è la fede, la concretezza dell'atto credente. Non saremo giudicati sui concetti ma sulla vita: chi possiede i concetti corretti ma non li fa diventare vita è - per tutta la tradizione cristiana - in una posizione di gran lunga peggiore di chi invece, pur avendo dei concetti imprecisi, è in grado di seguire, servire ed amare il Cristo nella concretezza dei suoi giorni. Qualcosa del genere ricordava anche san Tommaso quando affermava:

Ora, l'atto del credente non si ferma all'enunciato, ma va alla realtà: infatti formiamo gli enunciati solo per avere la conoscen­za delle cose, sia nella scienza, che nella fede2•

I CONGREGAZIONE PER LA DOTTRINA DELLA FEDE, Lettera su alcune questio­ni concernenti l'escatologia Recentiores episcoporum Synodi (17.05.1979), in Enchiridion Vaticanum 6, EDB, Bologna 1980, 1538-1540.

2 «Ergo obiectum fidei non est enuntiabile, sed res. [ ... ] Actus autem

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r Con questo non si vuole dire che le parole non siano im­

portanti ma solo che lo sono come segni e strumenti del Re­gno: per annunciarlo e favorirne l'avvento. Per annunciarlo devono evidentemente essere comprensibili, per favorirne l'avvento devono essere efficaci.

Ricordare questa dimensione funzionale delle parole e dei concetti teologici dovrebbe anche evidenziare che sono sem­pre inseriti in impianti concettuali, in sistemi di pensiero che ne garantiscono l'intelligibilità. Questo è molto importante per quanto riguarda il concetto di anima in quanto l'ipotesi che sto indagando riguarda esattamente un mutamento di quadro generale, di panorama culturale, nel quale si corre il rischio di non riuscire più a far funzionare tale concetto.

Per chi vuole provare a confrontarsi con un panorama cul­turale mutato, la sfida che si impone è la seguente: verificare se le parole di ieri garantiscono oggi lo stesso servizio alla fede che prima riuscivano a svolgere. Se questo non dovesse più accadere, si dovrà decidere se mantenere le stesse parole apportando i necessari cambiamenti affinché siano ancora efficaci, oppure utilizzare parole diverse per garantire le stes­se funzioni. Due sono invece le vie che non possono essere percorse responsabilmente da un teologo, ovvero quella di fissarsi sulle parole ignorando il significato nuovo che hanno assunto nel panorama mutato, e quella di adeguarsi al nuovo panorama assumendone acriticamente linguaggio e concetti, senza preoccuparsi se questo rende «assurdi» i gesti e la vita della fede.

Per il concetto di anima si potrà decidere di mantenerlo immutato, ma in questo caso si dovrà prendere sul serio il

credentis non terminatur ad enuntiabile, sed ad rem: non enim formamus enuntiabilia nisi ut per ea de rebus cognitionem habeamus, sicut in scientia, ita et in fide» (TOMMASO D'AQUINO, Summa Theologiae, II-II, q. 1, a. 2).

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fatto che oggi è la stessa azione pastorale a farne sempre meno uso. Questo dipende dal fatto che esso sembra non riuscire a garantire le funzioni che tradizionalmente svolgeva. In questo caso sarà necessario un lavoro profondo per capire dove il meccanismo si è inceppato e provvedere a introdurre i cor­rettivi necessari. Si potrà invece decidere di utilizzare altri concetti, con la preoccupazione di salvare non il concetto in sé, ma le funzioni che questo svolgeva. Anche in questo caso è necessario un profondo lavoro per individuare i vantaggi e gli svantaggi di tale cambiamento.

In entrambi i casi alcuni passaggi sono cruciali: evidenziare i malfunzionamenti del concetto di partenza; avere un'idea quanto più possibile precisa dei contorni e della direzione del panorama culturale al quale ci si rivolge; individuare le funzioni che il concetto svolgeva per poterle riattivare nel modo più efficace possibile. A queste condizioni la scelta fra il mantenimento o l'abbandono del concetto diventa meno ideologica ed assume il suo autentico significato teologico, quello di essere al servizio della fede e del suo annuncio.

La storia dell'anima

Per mostrare cosa intendo quando sostengo che in un quadro mutato si rischia di usare le stesse parole con un significato diverso, invito a fare un esperimento. Basta pro­vare a chiedere ad un gruppo medio di credenti di spiegare dove stanno l'anima e il corpo umani prima, durante e dopo la vita, per avere delle sorprese. Durante la vita terrena di solito non ci sono dubbi: corpo e anima stanno insieme e sono entrambi importanti per Dio e per noi. Questa idea è un risultato abbastanza solido della teologia cristiana fin dagli inizi. Se però ci avventuriamo nel prima e nel dopo, le cose non funzionano più tanto bene.

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Dove stava l'anima - poniamo la mia - prima di essere as­sociata al mio corpo? La risposta giusta, dogmaticamente par­lando, è: da nessuna parte. L'anima infatti è, per la dottrina cristiana, creata immediatamente da Dio al momento del con­cepimento. Tuttavia è opinione abba~ta~za comune_ fr_a i c:i­stiani che l'anima, prima di stare con 11 m10 corpo, sua m D10, cioè preesista in qualche modo. Nei casi più con~usi si arriv~ a sostenere che era un angioletto, come talvolta s1 racconta a1 bambini. Questa, dogmaticamente parlando, è un'eresia.

Un'idea simile rischia di crearsi anche sul dopo. Che fine fa il mio corpo dopo la morte? La risposta giusta è: attende la risurrezione. Tuttavia non è infrequente trovarsi di fronte a cristiani che, almeno in Occidente, tendono a trascurare completamente il dato dogmatico della risurrezione della carne. L'espressione «questo mio corpo vedrà il Salvatore» che a tutti è capitato di cantare a qualche funerale, è spesso intesa in modo talmente analogico da risultare vuota. Chi sopravvive e conoscerà Dio è l'anima, non il corpo. A questo stato di cose si ribellava già Tertulliano, nel III secolo.

La carne è il cardine della salvezza [caro cardo salutis]. Infatti se l'anima diventa tutta di Dio è la carne che glielo rende pos­sibile! La carne viene battezzata, perché l'anima venga monda­ta; la carne viene unta, perché l'anima sia consacrata; la carne viene segnata della croce, perché l'anima ne sia difesa; la carne viene coperta dall'imposizione delle mani, perché l'anima sia illuminata dallo Spirito; la carne si nutre del corpo e del sangue di Cristo, perché l'anima si sazi di Dio. Non saranno separate perciò nella ricompensa, dato che sono state unite nelle opere3

«Caro cardo salutis» è un'espressione che tutti conosciamo, eppure troppo spesso si trascura che la carne di cui si parla

3 TERTULLIANO, De resurrectione, 8, Morcelliana, Brescia 2004.

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non è qui quella di Cristo ma la nostra, la mia. «Questo mio corpo» appunto.

Questo rapporto sproporzionato fra l'anima e il corpo, che rischia di essere il quadro teologico in cui molti cristiani vi­vono, non può essere liquidato come un dettaglio - in fondo cosa importano, nel concreto, le opinioni che riguardano la preesistenza delle anime e il destino di un corpo morto? Da queste opinioni deriva invece tutta una serie di atteggiamenti concreti, un modo di vivere la fede in cui l'unità dell'uomo il suo destino intero e concreto, perdono di consistenza. No~ è nemmeno frutto di una qualche presunta ignoranza contem­poranea sui dati della fede. La difficoltà non sta in un difetto di conoscenza ma in un difetto di funzionalità del costrutto teorico: in altri tempi, infatti, i concetti di anima e corpo svol­gevano la loro funzione in diverso modo e non inducevano in questo genere di errori. Se tutto questo è vero, non sarà tempo sprecato cercare di capire quali sono i meccanismi funzionali che oggi si sono inceppati.

6.2. Le funzioni sistemiche dell'anima

Vorrei perciò provare a prendere in esame tre funzioni fondamentali che il concetto di anima ha svolto nell'insieme della teologia cristiana. La prima funzione è quella di chia­rire il luogo dell'uomo all'interno della creazione, l'idea che egli «occupa un posto unico»4 rispetto a tutto il resto - cose, animali, piante, stelle. Chiamo questa funzione cosmologico­antropologica. La seconda intende invece chiarire in quale

4 Catechismo della Chiesa Cattolica (1992), n. 355.

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rapporto stia l'uomo rispetto a Dio, in che modo sia pos­sibile la «comunione con Dio»5

• Chiamo questa seconda funzione antropo-teologica. Infine la terza, quella escatolo­gica, che è la più evidente: il concetto di anima si utilizza massicciamente quando si deve dare conto di cosa ci attenda dopo la morte.

Si tratta di tre funzioni principali, che non esauriscono la ricchezza del concetto, e tuttavia ne coprono una parte importante. Lo stesso metodo che qui utilizzo per compren­derne la funzionalità, potrà essere applicato ad eventuali altre funzioni che si ritengano essenziali al concetto, come - a tito­lo di esempio - quella etica, che qui non affronterò.

Funzione cosmologico-antropologica

Dire che l'uomo è dotato di anima spirituale significa col­locarlo all'interno della realtà, chiarire dove sta e in che re­lazione sta con il resto della realtà creata e non: Dio, angeli, animali, cose. Tre aspetti in particolare devono - o dovrebbe­ro - risaltare: il posto speciale che l'uomo occupa nella creazio­ne, il suo essere parte della creazione, e il suo essere unitario.

Vediamo il primo aspetto a partire dall'affermazione di Gaudium et spes:

Unità di anima e di corpo, l'uomo sintetizza in sé, per la stes­sa sua condizione corporale, gli elementi del mondo materiale, così che questi attraverso di lui toccano il loro vertice e prendo­no voce per lodare in libertà il Creatore. Non è lecito dunque disprezzare la vita corporale dell'uomo. Al contrario, questi è

5 Catechismo della Chiesa Cattollca ( 1992), n. 367.

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tenuto a considerare buono e degno di onore il proprio corpo, appunto perché creato da Dio e destinato alla risurrezione nel­l'ultimo giorno. [ .. .] L'uomo, in verità, non sbaglia a riconoscersi superiore alle cose corporali e a considerarsi più che soltanto una particella della natura o un elemento anonimo della città umana6•

L'uomo occupa - secondo la concezione cristiana - un posto specialissimo fra tutto il resto, animali e cose. Emerge chiaramente dai racconti biblici della creazione ed è impli­cito nell'affermazione che il l6gos eterno di Dio si è fatto uomo, persona umana, non angelo, sequoia o delfino. Angeli, sequoie e delfini contemplano l'incarnazione del Figlio e, lasciando forse da parte gli angeli, possiamo dire che l'intera creazione «attende con impazienza la rivelazione dei figli di Dio» (Rm 8,19), in quanto è attraverso questi figli, uomini e donne, che la creazione prende voce per lodare Dio. C'è un aspetto profondamente spirituale in tutto questo. Non si tratta tanto di decidere chi è il più forte; piuttosto si tratta di annunciare agli uomini che non sono perduti, «anonime particelle», ma che sono oggetto della cura personale del Creatore e insieme indicare loro la responsabilità che hanno non solo per se stessi o per i propri simili ma per ogni cosa, animale o fiore. Lo scopo, infatti, di questa istanza cosmolo­gica sta nell'istanza che segue, quella che ricorda la relazione fra l'uomo e Dio. Se qualcuno chiede se l'uomo sia superiore agli animali, la tradizione cristiana può rispondere: «sì, in quanto è dotato di anima spirituale». La funzione è chiara e ben svolta.

6 CONCILIO VATICANO Il, Costituzione pastorale sulla chiesa nel mondo contemporaneo Gaudium et spes (7.12.1965), n. 14, in Enchiridion Vatica­num l, EDB, Bologna 1981, 1363-1364.

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Un secondo aspetto lo individuiamo a partire dal sinodo di Toledo, dell'anno 400, che nella sua brevità è lapidario:

Crediamo poi la risurrezione della carne dell'uomo. Affermia­mo che l'anima dell'uomo poi non è sostanza divina o parte di Dio, ma creata per volontà divina, non caduta7

L'uomo è certo superiore a tutte le cose, alla "natura", ma è pur sempre una creatura. Anche la sua anima è realtà creata. Non è una scintilla divina che si è stufata, raffreddata o ha peccato e per questo è caduta nel mondo materiale. Non si dice questo soltanto per tenere l'uomo al suo posto, ma anche per sottolineare che non è dal peccato o da un errore che noi proveniamo. Non siamo dei fenomeni tumorali staccatisi dal­la perfezione di Dio; siamo voluti, pensati, desiderati. Questo aspetto della funzione cosmologico-antropologica il concetto di anima lo svolge bene solo a certe condizioni. Troviamo nel concilio Lateranense IV:

Fin dal principio del tempo, [Dio] creò dal nulla l'uno e l'altro ordine di creature, quello spirituale e quello materiale, cioè gli angeli e il mondo terrestre; e poi l'uomo, quasi partecipe del­l'uno e dell'altro, composto di anima e di corpo8

Angeli, diavoli e anima sono immateriali ma sono comun­que creature, non sono divini. Quindi il concetto di anima funziona solo a patto di precisare che non si deve spiritualiz­zare l'anima fino al punto di renderla divina. Non si tratta di un rischio di poco conto; basti pensare che alcuni dei primi

7 I SINODO DI TOLEDO, Symbolum Toletanum I (400), DH 190. 8 CONCILIO LATERANENSE IV, Definizione contro gli albigesi e i catari

(1215), DH 800.

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Padri- Giustino, Taziano, Ireneo e Tertulliano9 - erano con­trari all'idea dell'immortalità dell'anima. Il motivo era sem­plice. Confrontandosi con il pensiero greco e in particolare con lo gnosticismo, che sosteneva la presenza di una parte divina nell'uomo, ritenevano importante ricordare che è Dio la fonte dell'immortalità, non una qualche virtù propria del­l'uomo. Coloro che esaltano troppo la superiorità dell'anima e dello spirito su tutto il resto corrono infatti un duplice rischio, secondo questi Padri: non riconoscere il dono di salvezza che viene da Dio - anche per la nostra anima - e disprezzare tutto ciò che è materiale, i suoi diritti e le sue esigenze. Da qui il disinteresse per i poveri, per i malati, per tutta la concretezza della vita dell'uomo nella sua interezza e del suo mondo.

Il terzo aspetto riguarda l'unità dell'uomo. Il grande teo­rico di questa integralità della persona umana è Ireneo di Lione:

Dio sarà glorificato nella sua creatura, conformata e modellata sul proprio Figlio, poiché per le mani del Padre - che sono il Figlio e lo Spirito - l'uomo nella sua interezza, e non in una sua parte sola, diventa simile a Dio. L'anima e lo Spirito costituisco­no una parte dell'uomo, e non tutto l'uomo; l'uomo perfetto infatti risulta dalla compenetrazione e dall'unione dell'anima, che accoglie lo Spirito del Padre, con la carne, creata anch'essa ad immagine di Dio [ ... ]. La carne strutturata, da sola, non è l'uomo completo, ma solo il corpo dell'uomo, cioè una parte dell'uomo. Ma neppure l'anima da sola costituisce tutto l'uo­mo: è l'anima dell'uomo, cioè una sua parte. E neppure lo Spi­rito è l'uomo: si tratta appunto dello Spirito, non di tutto l'uo-

9 C/ G. CANOBBIO, Il destino dell'anima. Elementi per una teologia, Mor­celliana, Brescia 2009, 89.

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mo. Solo la fusione, l'unione e l'integrazione di questi elementi costituisce l'uomo perfetto10

In questo testo ci sono diversi aspetti dogmatici che, con il senno di poi, richiederebbero delle precisazioni: l'immagine del Figlio e dello Spirito come "mani" del Padre non è molto felice; c'è inoltre un certo rischio di confondere lo spirito del­l'uomo con lo Spirito Santo. Tuttavia l'intento è chiaro. Affer­ma che tutto intero l'uomo è di Dio e tutto intero è salvato da Cristo, a prescindere dalle distinzioni interne che si propon­gono. Ancora una volta il nemico di Ireneo è lo gnosticismo che non prevedeva una salvezza del corpo, ma semmai una salvezza dal corpo. Dio non ha voluto degli spiriti puri che si sarebbero poi contaminati con la carne, decadendo nel mon­do terreno. Questa è la visione gnostica rispetto alla quale il cristianesimo non può avere dubbi: Dio ha voluto tutto l'uomo, positivo in ogni sua parte. Allo stesso modo tutto l'uomo ha peccato e tutto l'uomo è salvato dall'incarnazione di Cristo. Non è infatti solo il corpo ad aver problemi con il peccato ma anche la sua anima, la sua libertà. Lo ricorda il concilio di Grange nel 529 ma lo ricordava già Gesù: «Dal di dentro infatti, cioè dal cuore degli uomini, escono i propositi di male» (Mc 7 ,21). Nel bene e nel male, nel peccato e nella grazia, nella difficoltà e nella redenzione è coinvolto tutto l'uomo, sia ora che nell'eternità. Anche per questo aspetto il concetto di anima funziona solo a certe condizioni. Se si parte da una visione divisa e gerarchica dell'uomo, in cui l'anima è separata e superiore, bisognerà prestare continua attenzione a non sfasciare l'unità dell'uomo. Per inciso questa

10 IRENEO DI LIONE, Adversus Haereses, V, 6 [trad. it., Contro le eresie e altri scritti, Jaca Book, Milano 1979, 419-420].

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è oggi la difficoltà e la preoccupazione che qualsiasi manuale di antropologia teologica fa propria.

A questo punto possiamo tentare un primo bilancio della funzione cosmologico-antropologica del concetto di anima. Se ben chiarito, funziona. Parla di un uomo superiore alla creazione e che ne è anche parte, e parla di un uomo uni­to. Per certi versi però funziona talmente bene da risultare problematico. La superiorità dell'uomo rischia di essere sot­tolineata a tal punto da rendere irrilevante o poco degno di attenzione tutto ciò che anima non è: il corpo, la concretezza della vita, la natura e gli animali. La critica che oggi il cristia­nesimo deve portare rispetto alla questione ecologica non è infatti senza fondamento: abbiamo reso l'anima così nobile e la materia così trascurabile che sembra possibile fare delle cose, e degli animali in particolare, tutto quello che ci pare. Quasi dimenticandoci che, almeno per certe teologie della natura, anche gli animali hanno un'anima: non un'anima in­tellettiva o spirituale, ma certamente un'anima vegetativa e sensitiva. Non si tratta di una questione astrusa ma di ricor­dare che l'umanità potrà anche avere un rapporto speciale con Dio, ma non è l'unico rapporto esistente. Anche il resto della creazione ha una sua relazione con Dio, una sua dignità e suoi diritti.

Proviamo viceversa a vedere quale attenzione ricevono questi stessi aspetti in un'antropologia che non usi il concet­to di anima ma si muova in prospettiva materiale-sistemica.

In una prospettiva antropologica materiale-sistemica l'uo­mo è solo materia, strutturata in un determinato e preciso si­stema complesso, con caratteristiche funzionali ben definite. Tuttavia è solo materia. In questo senso la sua appartenenza alla creazione è evidente. L'uomo non è Dio, come non lo sono tutte le cose e la natura, con le quali ha una profonda

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-vicinanza, una provenienza comune. La positività dell'essere umano qui non si gioca in primo luogo sul tavolo della posi­tività dell'anima, dell'intelligenza o della libertà. Il tavolo è quello della positività della materia, della creazione, prima e attraverso le possibili distinzioni sistemiche. In questa pro­spettiva gli esseri umani, gli animali e le cose stanno insieme di fronte a Dio, uniti nella provenienza, nella benedizione e

nel destino. Anche le esigenze di affermare l'unità dell'uomo trovano in

questa prospettiva una risposta adeguata. Un uomo di terra è un uomo unitario, materialmente unito. La sfida della sua po­sitività sarà di nuovo la sfida di una creazione integralmente benedetta, positiva fin dalla sua origine materiale.

Più delicata è la questione riguardante la superiorità del­l'uomo. In una prospettiva materiale-sistemica questa non è scontata. Non c'è nessun principio spirituale a garantire lo stacco fra animali e uomini. Tuttavia il quadro concettuale proposto non è soltanto materiale ma anche sistemico. Ciò che definisce ambiti, funzioni e realtà, qui, sono il grado e la specificità della complessità sistemica. La dignità superiore dell'uomo non deve perciò essere cercata in "qualcosa" di diverso, ma in una diversa complessità e nelle funzioni che questa complessità permette. Quella che Edelman chiama coscienza di ordine superiore, e che è propria dell'uomo, pur con accenni e possibilità anche in alcuni animali, dice che l'uomo è diverso dal resto della creazione, un po' come gli esseri viventi sono diversi dalla materia inorganica. Come in quel caso, però, non si tratta di una differenza sostanziale ma strutturale, sistemica. È sufficiente una superiorità di questo tipo? Proprio qui sta il punto. A me sembra di sì e tuttavia capisco chi lo ritiene troppo poco. In ogni caso mi pare che sia abbastanza chiaro che entrambe le prospettive antropo­logiche - quella classica e quella materiale-sistemica - pos­sono essere annunciate al nostro mondo e svolgere la loro

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funzione solo prestando attenzione ai problemi concettuali che creano.

Funzione antropo-teologica

Le tre funzioni che sto qui analizzando sono tutte impor­tanti per il cristianesimo, ma non tutte allo stesso modo. Que­sta seconda, che risponde all'esigenza di affermare la possibi­lità e la forma della relazione fra Dio e l'uomo, è senza dubbio la più importante. Il Cristo non è venuto per annunciare il ruolo dell'uomo nel cosmo e nemmeno, direi, per annun­ciare in primo luogo la vita dopo la morte. È venuto invece ad annunciare la relazione fra Dio e l'uomo, a prescindere dalla parola che si voglia usare per esprimerla: redenzione, riconciliazione, alleanza, elezione, divinizzazione, giustifica­zione, liberazione11

• Sono tutti nomi per una stessa realtà, pur con varie sfumature: la nuova relazione con Dio Padre, nello Spirito di Cristo. Il concetto di anima serve in modo determinante a gestire tale rapporto fra Dio e l'uomo. Ci sono due aspetti fondamentali cui deve rispondere questa istanza.

Il primo è quello di affermare, in Dio, l'unicità e la dignità di ogni persona umana. Per il cristianesimo la dignità della persona non dipende da cosa ha fatto o pensato o da chi è, cioè non dipende dalle sue relazioni con il mondo delle cose o degli uomini. La dignità della persona dipende, prima di qualunque altra relazione, dalla relazione che Dio ha con lei. Da qui, per esempio, deriva il rispetto che i cristiani devono ad ogni vita umana: la prima relazione di una vita umana non è la relazione con gli altri, né con la madre e nemmeno con

11 C/ B. SESBOOÉ, Gesù Cristo l'unico mediatore. Saggio sulla redenzione e la salvezza - 1, Edizioni Paoline, Cinisello B. 1991.

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se stessa, ma quella che Dio ha con la persona stessa. Questo in qualche modo la rende into~ca~ile_, sen:ipre prec~duta da una relazione fondamentale e mehmmabile. Che sia buona

0 cattiva, utile o inutile, comoda o scomoda, pericolosa o innocua, io devo ricordare che questa vita è qualcuno che Dio ama e vuole, prima dell'opinione o della relazione che posso averne io. In line_a di pri~cip~o,_ anc~e se non sempr? nella applicazione pratica, per 11 cnst1anes1mo la persona e intoccabile (Gen 4,15), "sacra", consacrata dalla relazione preveniente che Dio ha con lei. Questa idea è espressa affer­mando la creazione immediata dell'anima nel corpo da parte di Dio: «la fede cattolica ci obbliga a ritenere che le anime

d. d D. 12 sono create imme iatamente a 10» . II secondo aspetto riguarda il fatto che il rapporto con Dio

non è solo preveniente e unilaterale. La relazione con Dio, essendo una relazione fra persone, prevede una dimensione di reciprocità: l'uomo è coinvolto e deve e può rispondere. Non si tratta tanto di elencare i compiti ma di riconoscere una possibilità. Di fronte a Dio l'uomo non deve solo essere passivo, subire, sia pure una benedizione. L'uomo pu_ò i~ter~­gire, rispondere, dire il suo nome e donare la propria vita m risposta al Dio che dona la sua vita per lui. Per affermare que­sta reciprocità la tradizione biblica e teologica usa il concetto di «immagine di Dio». L'uomo è specchio di Dio, gli sta di fronte, è persona come lui è persona. Possiamo leggere molto semplicemente e molto chiaramente questo nel Catechismo:

Di tutte le creature visibili, soltanto l'uomo è «capace di cono­scere e di amare il proprio Creatore» ( GS 12); «è la sola creatura che Dio abbia voluto per se stessa» (GS 12); soltanto l'uomo è chiamato a condividere, nella conoscenza e nell'amore, la vita

12 Pio XII, Lettera enciclica Humani generis (1950), n. 4.

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di Dio. A questo fine è stato creato ed è questa la ragione fon­damentale della sua dignità. E_ssendo ad im~agine di Dio, l'individuo umano ha 1~ dignità d~ persona; ~on _e soltanto qualche cosa, ma qualcuno. E capace ?1 conosc~rs1, d1 possedersi, di liberamente donarsi e di entrare m comumon~ con altre persone; è chiamato, per grazia, ad una alleanza con il suo Creatore, a dargli una risposta di fede e di amore che nessun altro può dare in sua sostituzione13.

Per svolgere questa funzione cruciale il concetto di anima è utile. Si salvaguarda la relazione preveniente con Dio tramite 1~ c_n;azio~e diretta dell'anima e si salvaguarda la responso­nahta dell uomo attraverso un'interiorità nella quale l'uomo ascolta la voce di Dio e gli risponde.

~i _s?no diverse obiezioni minori che si possono sollevare all utilizzo del concetto di anima per questa funzione. Ci si può per esempio domandare quando di preciso l'anima sia creata da Dio. Ci sono varie possibilità di intendere male la cosa, pe~ esempio ipotizzando delle anime preesistenti. Oppure chiedendosi se l'anima sia creata al momento del concepimento o più tardi. Anche qui non si tratta di una sempl_ice ~strusità, ma del segnale di un problema. Chiun­~ue d~ noi sa_be1;1-e_che se per anima intendiamo intelligenza, hberta, relaz1om, rn sostanza tutto ciò che ci rende umani questo non sta semplicemente dentro un embrione già bell~ e fatto. Q~alcosa ~i simile ci interroga di fronte ai casi - oggi sempre p1u urgenti grazie ai positivi progressi scientifici - di s~ati _vegetativi o di malattie neurodegenerative gravi. Come s1 sviluppa, e come "muore", l'anima dell'uomo? Come si raccorda questo con la relazione preveniente di Dio?

Una seconda obiezione potrebbe riguardare l'associazione fin troppo facile fra immagine di Dio e anima. Si può sempli-

13 Catechismo della Chiesa Cattolica (1992), nn. 356-357.

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ficare dicendo che l'uomo è immagine di Dio in quanto ha l'anima. In realtà però le cose non stanno così nemmeno per il Catechismo: «la persona umana, creata a immagine di Dio, è un essere insieme corporeo e spirituale». Pertanto la risposta più corretta è che tutto l'uomo è immagine di Dio, pur con la difficoltà di spiegare cosa significhi questo per il corpo. Tuttavia l'opinione più diffusa è che sia l'anima soltanto ad essere immagine, e che «il corpo dell'uomo partecipa alla dignità di "immagine di Dio"»14

.

Queste sono comunque, a mio avviso, obiezioni minori; vi è però un'obiezione dicisiva che vorrei far valere di fronte a questo utilizzo funzionale del concetto di anima. Ed è un' o­biezione cristologica. La mia domanda suona più o meno così: «Dio entra in relazione con le persone o con le anime?». Questa domanda può essere subito riformulata in senso cri­stologico: «Il Verbo si è fatto persona, si è fatto carne, o si è fatto anima? Come stanno le cose?». Questa domanda ha ricevuto nei secoli vari tentativi di risposta, molti dei quali insufficienti o sbagliati, ma il senso generale del sentire cri­stiano è che Dio in Cristo si è fatto persona umana completa: corpo anima e spirito ... e qualunque altra cosa, escluso il peccato, si ritenga che componga un essere umano. In base al periodo storico gli accenti possono cambiare ma il contenuto resta lo stesso:

Diciamo piuttosto che il Verbo, unendo a se stesso ipostatica­mente una carne animata da un'anima razionale, si fece uomo in modo ineffabile e incomprensibile e si è chiamato figlio del­l'uomo15.

14 Catechismo della Chiesa Cattolica (1992), n. 364. 15 CONCILIO DI EFESO, 2° lettera di Cirillo di Alessandria a Nestorio (431),

DH250.

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[L'unigenito figlio di Dio] è divenuto vero uomo: cioè l'umano corpo passibile e l'anima intellettiva, che informa veramente il corpo per sé ed essenzialmente16

Il rischio è che il concetto di anima venga usato per co­stituire una "regione intermedia" fra l'altezza di Dio e la bassezza della carne, in cui possa avvenire l'incontro fra Dio e l'uomo senza che, in questo, Dio debba abbassarsi trop­po. Si tratta di un rischio teologico grave, tanto per la com­prensione di Dio, quanto per la comprensione dell'uomo di fronte a Dio. Induce infatti l'idea che Dio tema di sporcarsi nel contatto con la terra, o non ne sia interessato. Di con­seguenza la concretezza della carne e della storia non può essere toccata dalla presenza di un Dio che avrebbe a che fare più che altro con le anime. Questo rischia di rendere astratto e inefficace proprio il centro del messaggio cristiano: «il Verbo si è fatto carne» (Gv 1,14). Tale rischio è intrinse­co nell'utilizzo funzionale del concetto di anima per questa istanza, tuttavia oggi esso espone ad un pericolo maggiore. Nel passato infatti, in quello che Taylor chiama il mondo "incantato" 17

, vi era un gran numero di situazioni concrete in cui si riteneva che Dio intervenisse, andando a toccare la concretezza della storia umana: piogge, terremoti, malattie, raccolti, fertilità, politica. Dio, almeno nel sentire comune, era colui che sceglieva i governanti, mandava la pioggia, gua­riva dalle malattie. Questo oggi, nella società occidentale, non è più percepito così. Non mi interessa qui analizzare come si possa fare a far riscoprire la presenza di Dio in poli­tica, medicina e zootecnia quanto piuttosto notare che l'ef­fetto di questo cambiamento è che l'anima dell'uomo rimane

16 CONCILIO DI VrENNE, Costituzione Fidei catholicae (1312), DH 900. 17 Cf C. TAYLOR, L'età secolare, Feltrinelli, Milano 2009, 42.

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l'ultimo baluardo di presenza di Dio. E rim~ne a patto_ d~ on voler spiegare di preciso cosa sia; infatti quando c1 s1

n ddentra a descrivere aspetti psicologici, morali, neuropato­iogici, affettivi, la presenza di_ Dio diven:a via_ via ~iù ~ncer:a: Il rischio è pertanto che, a differenza dr altn penod1 stonc~

di altri contesti, nel nostro mondo l'uso del concetto dr :nima in funzione antropo-teologica annunci un Dio divers~ da quello cristiano, che si disinteress~ di tutto ~ranne che dr un qualche cosa di interiore e indefinito - un Dr~ ~he non ?a a che fare direttamente con la carne, ma che puo intervenire soltanto in una parte della realtà, quella meno compromessa con la terra. .

Anche qualora non si volesse assumere la pr?spett~~a ma-teriale-sistemica che propongo, vale la pena ch1eders1 m_che modo sia possibile evitare questo grave rischio cristolowco.-

Ma vediamo cosa accade se rinunciamo al concetto dr ani­ma per svolgere questa funzione. Nella prospetti_va material~­sistemica l'uomo non è garantito nella sua relazione con D10 in modo ontologico, come avviene con l'anima, ma lo è solo in modo relazionale. Questo rende facile affermare la respon­sorialità dell'uomo di fronte al suo Dio: la terra, la carne, sono chiamate a mettersi in cammino verso il Signore che _viene: Senza questo doppio cammino concreto n_essu1:~ relaz1o~e s1 dà a priori. Più difficile è mostrare la re_laz10nal1ta prevenien­te di Dio con l'uomo. Si può trovare 11 modo per mostrare come Dio voglia e incontri l'uomo prima di 9ualunqu~ altro incontro e tuttavia non si avrà più l'assicurazione relaz10nale data dall'elemento ontologico costituito dall'anima. In que­sta prospettiva la relazione non è fondata ontologica1;11ente ma interpersonalmente. Bisognerà pertanto mostrare m che modo la cura divina per le creature previene la consapevo-lezza e la risposta umana. . . , .,

Una via potrebbe essere quella che in parte c1 s1 ~ gra mostrata: sottolineare la cura di Dio non tanto per le anime,

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ma per la concretezza della realtà, anche quella non anco­ra consapevole, anche quella non più consapevole. In altre parole si tratterebbe di recuperare in modo forte il legame fra la teologia della creazione - natura, animali, terra - e l'antropologia teologica, in un movimento inverso rispetto a quello proposto dal concetto di anima. Per riconoscere la dignità dell'uomo non sottolineo la sua differenza rispetto al resto della creazione, quanto piuttosto la sua appartenenza ad una creazione che è integralmente oggetto della cura di Dio.

Una seconda via potrebbe essere invece quella propria­mente relazionale: la dignità del singolo, e la relazione indis­solubile che Dio ha con lui, è preservata e affidata alla storia, alle relazioni concrete e in particolare alla comunità ecclesia­le. La linea è quella di Mt 25 ,31-46: «Tutto quello che (non) avete fatto a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, (non) l'avete fatto a me». La dignità dei piccoli è voluta da Dio ma affidata alla concretezza delle relazioni, nel bene - «l'avete fatto» - e nel male - «non l'avete fatto». È troppo poco? Forse, ma avrebbe il vantaggio di ricordare che la grazia, da quella primordiale legata all'esistenza stessa della persona, a quella sacramentale, non è qualcosa che possa essere affer­mato in astratto e per ciò stesso valere. Ciò che è annunciato deve camminare, farsi storia, farsi carne - non per altro viene annunciato.

Il vantaggio e la provocazione maggiore di un'impostazio­ne materiale-sistemica si ha però proprio in cristologia. È qui infatti che si afferma che nel cristianesimo non si dà rapporto con Dio se non nella concretezza dell'incarnazione. Lo stesso rapporto con Dio nello Spirito non è qualcosa di astratto o di­sincarnato che avviene al di fuori della concretezza della sto­ria. Questo ha degli aspetti più evidenti: non c'è cristianesimo senza impegno per i poveri, senza la concretezza materiale dei sacramenti - olio, acqua, pane - o senza la concretezza spesso

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rtante della comunità ecclesiale. Ma questo vale anche per ~li aspetti meno evidenti legati all'interiorità dell'uomo: an-he lì non c'è altra salvezza che nella concretezza della car?e

~Cristo.E una prospettiva materiale-sistemica potreb?~ am~ tare a ricordarlo. Anche negli aspetti più mistici, più spmtual~

d 1 cristianesimo non si ha mai a che fare con qualcosa d1 e " . . astratto, spersonalizzante, disincarnato, o p~ra~ent,e spm~ tuale". La vita mistica del cristiano è concret1s~1~a: e fat~a ~1 pensieri, immaginazione, affetti, volontà, de~1s1on1 _e az1on1. E quando se ne vuole parlare o la si vuole v~vere, s1 devono accettare le regole dell'incarnazione, fatta d1 parole umane, pensieri umani, immagini umane. .

In altre parole, la sfida che qui si pone è quella d1 una cristologia che non usi "spazi intermedi" per aggirar~ lo_ scan~ dalo di un Dio che si compromette con la terra. «D10 mfatu ha tanto amato il mondo da dare il Figlio unigenito» ( Cv 3 16). Proprio perché ha amato il mondo - questo mondo, n~n un mondo di anime o spiriti immateriali - ha mandato il Figlio «perché il mondo sia salvato per mezzo di l~i» ~ Cv 3,17). Capire e annunciare in che modo la salve:z~ d1 Cn~to raggiunga «ogni carne» nella sua concretezza e il co~p1to di qualunque antropologia teologica ~:is~iana,,a prescmdere dallo strumentario concettuale che util1zz1. Sara anche quello che cercherò di chiarire meglio nei prossimi capitoli.

Funzione escatologica

L'ultima funzione che prendo in esame è anche la più spi-nosa. Con le parole del concilio Lateranense V:

Condanniamo e riproviamo tutti quelli che affer_ma?o eh~ ~'a­nima intellettiva è mortale o che è unica per tutti gli uomm1, o quelli che avanzano dei dubbi a questo proposito: essa infatti,

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non solo è veramente, per sé ed essenzialmente la forma del corpo umano, [ ... ]ma è anche immortale[ ... ]18•

Tuttavia è anche la funzione rispetto alla quale da almeno ~inquant' anni la teologia, anche cattolica, ha cominciato ad mterrogarsi per capire se il lessico tradizionale funzioni o in che mo~o potrebbe funzionare meglio19. Il primo errore di prospettiva da sfatare lo si comprende se si prova a rispon­dere ~ q~esta _domanda: «pe~ché per i cristiani è importante che 1 amma sia immortale? E un motivo diverso da quello che pote.:7a a~ere un greco - ?oniamo Socrate?». La rispo­sta non _e cos_1 banale come s1 potrebbe pensare. In prima b~ttuta 1~fatt1 ve_rrebbe da rispondere che il senso è quello d1 garantire la vita eterna, l'eterna relazione con Dio che s~a premio o condanna. Tuttavia questa, mi sembra, è una risposta sbagliata. L'escatologia cristiana non annuncia che avremo la vita eterna perché abbiamo un'anima immortale ma perché «con lui [Cristo] sepolti nel battesimo con lui siete anche risorti mediante la fede nella potenza di Dio che ~o ~a risuscitato dai morti» (Col 2,12), «se infatti siamo,stati mtlmamente uniti a lui a somiglianza della sua morte lo sa­remo anche a somiglianza della sua risurrezione» (R:n 6,5).

:: CONCILIO LATERANENSE V, Bolla Apostolici regiminis ( 1513 ), DH 1440. _Cf O. CuLLMANN, Immortalità dell'anima o risurrezione dei morti? La

testimonianza del Nuovo Testamento, Paideia, Brescia 1986; G. GRESHA­KE: Au/erste~ung der Toten. Ein Beitrag zur gegenwiirtigen theologischen Diskusszon uber die Zukun/t der Geschichte, Ludgerus, Essen 1969; G. GRESHAKE - G. LOHFINK, Naherwartung-Au/erstehung- Unsterblichkeit. U~tersuchungen zur christlicher Eschatologie, Herder, Freiburg _ Base! _ W1en 1975; G. G1u:SHAKE, Vita -più/orte della morte, Queriniana, Brescia 2009; J. RATZINGER, Escatologia, morte e vita eterna Cittadella Editrice Assisi_ 1979

2; COMMISSIONE TEOLOGICA lNTERNAZION~LE, Alcune question;.

attuali di escatologia (1992).

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Per i greci l'anima immortale è garanzia di immortalità; per i cristiani l'unica garanzia sta nella potenza dell'amore di Dio manifestato in Cristo.

A che cosa serve allora un'anima immortale per l' escatolo­gia cristiana? La risposta che mi pare più corretta è che essa garantisce l'identità della persona umana fra la vita storica e la vita eterna in Dio. Questo problema è particolarmente acuto se si accentua la dottrina dello "stato intermedio" ovvero se ci si pone il problema di come faccia l'anima a godere della presenza di Dio anche in quel "tempo" che intercorre fra la morte individuale e il momento della risurrezione finale, in cui ciascuno si ricongiungerà con il suo corpo - trasfigurato, ma pur sempre il suo. È lo stato in cui si trovano, per esem­pio, i morti della Divina Commedia: sono anime in attesa della risurrezione. Non è un caso infatti che il dibattito sullo stato intermedio e quello sull'utilità del concetto di anima in escatologia siano andati di pari passo.

Per provare a mettere ordine in tale questione può esse­re utile riflettere sul senso ultimo dell'annuncio escatologi­co cristiano: annunciare una relazione con Dio che - grazie all'amore di Dio - è più forte anche della morte. Questo abbiamo visto in Cristo e questo attendiamo per ciascuno di noi. Quando però si vuole rendere in parole questa attesa - non tanto con lo scopo di almanaccare sul futuro, quanto piuttosto di vivere adeguatamente il presente - ci rendiamo conto che ci sono almeno due modi con cui questa speranza viene espressa. Uno parla di immortalità dell'anima, l'altro di morte e risurrezione. Che siano due immagini è partico­larmente chiaro per il fatto che sono in parte incompatibili. Vorrei poi, per complicare ulteriormente le cose, provare ad accostare un'ulteriore immagine, quella di vita eterna, che è un altro modo ancora di intendere l'escatologico cristiano. Se vediamo in ognuna di queste immagini escatologiche un annuncio di salvezza, una buona notizia che dà forma a tutta

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1~ nostra vit~, passata, presente e futura, possiamo anche ca­pire come ciascuna annunci un aspetto diverso e importante della salvezza di Cristo20•

In ,~uesta let~~ra so,teri_olog,ica delle immagini escatologi­c~e 1 z'!'mortalzta dell anima e una buona notizia: dice che ?10 m1 amerà sempre._Non una persona collettiva, l'umanità, m ~enerale, ma proprio me, con il mio nome e la mia storia. Pu? non esser~ chiaro cosa succederà dopo la morte, se ci sara un temi:o ~ntermedio in cui il mio corpo marcisce sotto terra o brue1a m una pira in attesa della risurrezione della ca_rne, ma in ogni caso il mio nome, la mia identità profonda - m una_ parol~ la mia anima - non conoscerà fine. Io come centro d1 relazione personale non andrò perduto mai. Rischia naturalmente di finire in ombra il fatto che questo non di­pende da ~e ma dall'amore di Dio: è Dio che non mi perde, non sono 10 che non mi perdo.

. ,se la prima imm~~ine - immortalità dell'anima- è quella pm usa~a nell~,trad121one teologica, la seconda è invece più eva~gehca ~ p1u_ frequente nella liturgia. Se la prima immagi­?e ~loca sm_tom della continuità, la seconda accentua invece 1, c~1aroscu~1. Questa seconda è l'immagine della risurrezione. E 1 ~nnu~c10 della straordinarietà dell'intervento di Dio su o~m realt~, anche qu~lla più irresolubile - la morte appunto. Dio compie un gesto matteso quando tutti ormai sono tornati a casa e han?o pensato: è finita. No, non è finita, Dio ha una paro~a ulteriore. In questo modo si legge quanto è accaduto a C~1sto, _morto e risorto - «voi ... lo avete ucciso ... Dio lo ha risuscitato» Ut 2,23-24) - con un contrasto in cui tanto più_ scuri sono i toni della morte, tanto più luminosi sono i tom della risurrezione. In questa prospettiva si mette in ri-

2° Cf A. NITROLA, Trattato di escatologia, II: Pensare la venuta del Signore San Paolo, Cinisello B. 2010, 291-336; 471-504. '

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salto la serietà della morte - e del giudizio - per far risaltare la potenza della grazia di Dio che dona la vita e il perdono. Una prospettiva come questa tende a pensare la morte come totale, non solo del corpo ma della persona intera, e quindi ad avere problemi a pensare uno stato intermedio in cui le anime se ne stanno in attesa senza il loro corpo.

La terza immagine - la vita eterna -, meno efficace per vari motivi, serve a risolvere un errore di prospettiva cui en­trambe le precedenti potrebbero indurre: quello di pensare che l'aspetto importante di quello che Dio ha in mente per noi stia nel futuro. In pratica per avere davvero una relazio­ne con Dio bisognerebbe essere morti. Non è un errore di prospettiva di poco conto; se non risolto, trasforma il Dio vivente in un Dio dei morti (Mc 12,27). Dire che Dio ci dà la vita eterna significa offrire l'immagine di un Dio che viene a noi come vita, piena, ricca, divina, eterna, già qui, in ogni istante: «Questa è la vita eterna: che conoscano te, l'unico vero Dio, e colui che hai mandato, Gesù Cristo» ( Gv 17 ,3) . Non a caso è un'immagine molto usata da Giovanni la cui prospettiva teologica tende ad insistere molto sulla realizza­zione presente del Regno e della gloria. L'escatologia cristiana può essere narrata non solo come "noi che andiamo da Dio, a casa sua" ma anche, e forse più correttamente, come "Dio che viene ad abitare in mezzo a noi".

Quello che abbiamo veduto con i nostri occhi, quello che con­templammo e che le nostre mani toccarono del Verbo della vita - la vita infatti si manifestò, noi l'abbiamo veduta e di ciò diamo testimonianza e vi annunciamo la vita eterna, che era presso il Padre e che si manifestò a noi -, quello che abbiamo veduto e udito, noi lo annunciamo anche a voi, perché anche voi siate in comunione con noi (1 Gv 1,1-3).

Tre immagini dunque e tre aspetti dell'escatologico cri­stiano da mettere in luce. Sono prospettive che, se prese

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come descrizioni di cosa accade tecnicamente all'uomo con !a mort_e,_non sono compatibili in ogni aspetto. In realtà sono 1mmagin1 la cui funzione non è quella di descrivere il destino dell' an~ma ma di annunciare Dio: un Dio che non perde mai la relazione con la concretezza individuale del soggetto (ani­ma immortale), allo stesso tempo un Dio che veramente vince la m?~t~,, i~ cui amore non solo dimentica, ma ricrea, apre poss1bil1ta insperate per tutti coloro che credono di non avere n_ulla da offrire (risurrezione), e ancora un Dio il cui dono di vita non è per i morti, ma è pienamente già qui (vita eterna).

Cosa accade al concetto di anima e al suo abbandono ri­spe~to a queste tre immagini? Se lo si utilizza, ci si troverà ?vvia?1ente bene con la prima, immortalità dell'anima, che e tagliata sul concetto stesso. Con la risurrezione ci sono al­~uni pro~lemi al punto che di per sé ciò che risorge è solo d corp~, in quanto l'anima non ne ha bisogno - e in questo se:1so ~1 tend~ a ~erdere la forza della gratuità del dono di D10. L m~magine, infine, della vita eterna potrebbe non avere p~obl_em1, se non che, associata ad un uso forte del concetto d1 anima, tende a interpretare questa vita eterna come un fatto fu~uro o_molto interiore, quasi mai come qualcosa che tocca gli occhi e le mani.

In prospettiva materiale-sistemica, invece funziona mol­to meglio l'immagine della risurrezione: un ~omo unito vive e m~ore, tut~o i?tero, e tutto intero dipende dalla grazia e dall amore d1 D10. Dopo la morte non c'è futuro se non c'è l' ~~or_e di Dio che ridà vita ai morti. In questo modo diventa pm chiaro ~he la vit~ eterna è - oggi e domani e sempre - vita per tutt~ 1 _uon:io_ e d suo mondo. Se Dio non è in grado di dare oggi vita a1 viventi concreti, meno che mai la darà doma­~i a! mort~. L_a morte è una cosa seria, esposta al nulla, e solo 1 az10:1e d1 D10 apre lo spazio per sperare. Propriamente qui non s1 spera nella propria anima immortale ma nel Dio viven-

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-te. È evidente che la prospettiva materiale-sistemica si trova invece in grave difficoltà con l'immagine dell'immortalità del­l'anima. Due sono a mio avviso i problemi centrali, non en­trambi risolvibili. Il più difficile riguarda lo stato intermedio: fra la morte e la risurrezione non ci può essere uno stato in cui le anime sopravvivono ai corpi. Per questo chi adotta questa prospettiva tende ad eliminare lo stato intermedio e a far coincidere - in Dio - la morte del singolo con la risurrezione finale. Il secondo problema è ancora più centrale, ma lascia più spazio di manovra. Si può formulare così: chi garantisce che io sia io anche dopo la morte, ovvero che il mio io inte­grale sia lo stesso che oggi vive e ama e spera? Non c'è infatti nessun sostrato sostanziale - l'anima - a garantire la conti­nuità. La risposta non è semplicemente «Dio», ma «l'amore di Dio». Intendo dire che, perché questa prospettiva sia ade­guata all'annuncio cristiano, si deve avere un concetto di re­lazione sufficientemente forte da essere garanzia dell'identità anche nella morte totale dell'uomo. Per fare questo non basta insistere sull'amore; bisogna fare dell'amore-relazione il nodo metafisico che regge la costruzione della persona e della sua identità, tanto nell'uomo quanto in Dio. Questa almeno mi pare una direzione che vale la pena percorrere e che non è stata forse ancora percorsa con la radicalità teologica e siste­matica che servirebbe.

6.3. Corpo, anima e spirito

Soggettività individuale

Il tentativo di analizzare le funzioni sistemiche del con­cetto di anima e vedere cosa accade se si usa una prospettiva

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materiale-sistemica invece della prospettiva tradizionale, è appunto un tentativo. Forse non funziona. Forse non basta. Ci sono però alcuni risultati che ritengo importanti a prescin­dere dal giudizio che si esprime sul risultato. In primo luogo un guadagno di metodo: anche sui concetti teologici si può lavorare per scomposizione funzionale, con meno enfasi sulla precisione della definizione e più attenzione al ruolo che il concetto svolge complessivamente nel sistema di pensiero teologico ed esistenziale nel quale è usato. In secondo luogo mi pare che da questa analisi emerga un appello forte: va trovato il modo affinché, in antropologia, in cristologia ed in escatologia il rapporto con Dio, o meglio il rapporto fra Dio e la sua creazione, non ricorra all'anima come scorciatoia. Una scorciatoia che non permette di confrontarsi con lo scandalo della carne: la carne dell'uomo, la carne di Cristo e ogni carne chiamata alla gloria presente ed eterna21

A questo punto vorrei provare a mostrare quali possibilità e quali rischi si incontrano qualora si decidesse di provare a percorrere la strada di una naturalizzazione dell'anima. Si tratta di salvare le funzioni del concetto di anima in un pa­norama che non permette di farlo con un elemento ontolo­gicamente differente, l'anima appunto. Propongo pertanto di vedere l'anima come un livello di complessità sistemica e funzionale della materia. Le funzioni psichiche superiori, e con esse molto di ciò che ci sta a cuore della nostra interiorità, non sparisce - o non deve necessariamente sparire. Può esse­re ripensato in un contesto culturale e scientifico diverso. Gli affetti, l'intelligenza e la libertà dell'uomo possono sussistere anche in una prospettiva materiale e monista. Certo non allo stesso modo, non in maniera identica ad una prospettiva che

21 C/ J. MoLTMANN, Dio nella creazione. Dottrina ecologica della creazione, Queriniana, Brescia 20073

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rta dal doppio elemento corpo-anima. È quanto ho cercato r mostrare nei capitoli dedicati alla co~cienza. L~ ~ifferenza fra uomini e animali, e fra animali e piante non e m nessun

odo annullata e nemmeno affermata soltanto come eviden­m fenomenologica. Può essere invece giustificata, a partire : dati fenomenologici, attraverso l' an_alisi delle ,possi~ilità sistemiche e funzionali che una determmata realta possiede.

Vale però la pena, a questo punto, pr?vare a f~re_un ?asso ltre e cercare di capire in che modo 1 concetti d1 amma e o . . .

spirito possono essere reinterpretati m questa prospettiva.

Antropologie bipartite o tripartite

Il Dio della pace vi santifichi interamente, e tutta la vostra per­sona, spirito, anima e corpo, si conservi irreprensibile per la venuta del Signore nostro Gesù Cristo ( 1 Ts 5 ,23).

Se dovessimo chiedere ad un cristiano a caso di esplicitare quale è la differenza fra anima e spirito, c~edo potremmo in­contrare delle sorprese. Forse invece non mcontreremo alcu­na sorpresa nel senso che non saprebbe r!spondere. Ri~s~en­doci il discorso potrebbe cadere sulla differenza fra 1 amma dell'~omo e lo Spirito Santo oppure - che è talvolta la scelta dello stesso Magistero - sull'anima spirituale22

• In questo caso l'intento è proprio quello di distinguere l'anima dell'uomo da quella di animali e piante. L'intent? può e~sere buono 1;;1a la sensazione generale è fumosa. Nell uomo c1 sarebbe un non so che" di immateriale e prezioso, che non si sa bene cosa sia.

22 C/ CONCILIO VATICANO II, Costituzione pastoral~ sulla chiesa nel mon­do contemporaneo Gaudium et spes (1965), n. 14, m Enchmdton Vattca­num l, cit., 1364; Catechismo della Chiesa Cattolica (1992), nn. 364-367.

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Ancora più perelessità si troveranno insistendo per capire cosa "fa" l'anima. E ciò che ci fa pensare, o amare, o scegliere, o vivere, o respirare? Di solito l'idea del succitato cristiano a caso è ancora meno concreta. L'anima è destinata a cose spi­rituali, talvolta morali o superiori - senza che si capisca mai bene di cosa si tratti. Se guardiamo invece all'uso che si faceva dell'anima nella teologia patristica e medioevale, le cose non erano affatto così fumose. In quel caso l'anima è vita, intel­letto, libertà, autocoscienza23

, ha quindi funzioni specifiche, non marca semplicemente una dimensione indefinita.

Le cose sono complesse anche nel periodo patristico e me­dioevale se cerchiamo di distinguere con precisione anima e spirito. Ho riportato sopra il testo di Ireneo in cui la distin­zione fra spirito e Spirito Santo sembrava tanto chiara in teo­ria quanto incerta nella pratica. In breve potremmo dire che l'antropologia tripartita - corpo, anima e spirito - accennata nella prima lettera ai Tessalonicesi è spesso citata, ma si incon­trano difficoltà a definirla e farla funzionare concretamente: si tende così a scivolare verso un'antropologia bipartita - corpo e anima-spirituale. Può essere pertanto utile vedere se, nella prospettiva materiale-sistemica con cui propongo di confron­tarsi, non si possano individuare questi tre livelli con una pre­cisione sufficiente da renderli efficaci. Provo ad esprimere in poche affermazioni come si potrebbe impostare la questione.

Corpo, anima e spirito sono aspetti di tutto l'uomo, inte­ro, aspetti della persona umana, che deve «conservarsi irre­prensibile per la venuta del Signore» (1 Ts 5,23). Verrebbe da aggiungere: se qualcuno individua altri aspetti non c'è

23 Cf A. VACCARO, Perché rinunziare all'anima? La questione dell'anima nella filosofia della mente e nella teologia, EDB, Bologna 2001, 78-92; L. VANZAGO, Breve storia dell'anima, il Mulino, Bologna 2009, 53-70.

200 I Ripensare l'anima

-problema; anche quelli devono conservar~i irrepren~ibilf e saranno redenti dalla sua venuta. Tre aspetti dunque d1 un u­nica realtà personale, inscindibili non in quanto legati l'uno all'altro, ma in quanto sono la stessa realtà vista sotto aspetti diversi24 • Ecco in breve questi aspetti.

Con la parola corpo si intende la concretezza della materia, morta o viva, strutturata sistemicamente oppure no. Il fatto di essere materia strutturata in un certo modo non deve far dimenticare che la persona è fatta di materia come ogni altra

cosa. Con la parola anima si intende invece l'aspetto strutturato,

sistemico-funzionale di questa materia. Una strutturazione che consente lo svolgimento di determinate funzioni, in questo caso quelle legate alla vita, cioè proprie di un livello di com­plessità che permette al sistema ?i ~ccuparsi_ di se stesso e agire come un tutto. Alcune fun~1orn per_ le p_ian~e, altre pe:" alcuni animali, altre ancora per d1vers1 ammali. S1 tratta pero di funzioni concrete. Non materiali - nel senso che una fun­zione non è una cosa - ma assolutamente concrete: mangiare, spostarsi, riprodursi, scappare, provare dolore o benessere, pensare, scegliere. . .

Con la parola spirito si intende un aspetto particolare d1 certe "anime" cioè strutture funzionali, proprie soltanto di certe coscienz~ di ordine superiore. È la capacità di intera­gire consapevolmente con l'altro per costruire se stessi, di scegliere la propria individualità soggettiva personale. La vita che si occupa di sé - aspetto dell'anima - lo fa in modo consapevole tramite l'altro - aspetto dello spirito. Lo spirito pertanto è una capacità specifica di relazione, la relazione personale, quella cioè in cui sono di fronte all'altro con la

24 Cf L.R. BAKER, Persone e corpi. Un'alternativa al dualismo cartesiano

e al riduzionismo animalista, Mondadori, Milano 2007.

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consapevolezza che in questo incontro decido -in modo fon­damentale - di me. Una interpretazione dello spirito quindi come dimensione relazionale.

Si parla sempre della stessa realtà, mettendone in luce ca­ratteristiche diverse. L'aspetto che mi pare più interessante qui è la proposta relativa allo spirito e al modo in cui può essere utile, da una parte per distinguere 1 'anima dallo spirito umano, e dall'altra per distinguere lo spirito dell'uomo dallo Spirito di Dio.

Che cos'è lo spirito?

Se lo spirito è l'aspetto relazionale che abbiamo descritto ne deriva che in un pensiero che non concepisca la relazio~ ne o la concepisca solo come fatto accidentale, lo spirito è incomprensibile. Questo è particolarmente evidente nella tradizione teologica occidentale che, anche se talvolta tende a sottostimare la relazione in ambito antropologico, tuttavia fa giocare alla relazione stessa un ruolo chiave in teologia tri­nitaria, fino a concepire, con san Tommaso, le persone divine come relazioni sussistenti:

E tali relazioni in Dio non sono come accidenti inerenti al sog­getto, ma sono la stessa essenza divina: perciò esse sono sus­si~t~nti _co'?e sussiste l'essenza divina. [ .. .] Perciò la persona d1vma s1gmfica una relazione come sussistente. E questo equiva-1: sign~ficare la relazione come sostanza, vale a dire un'iposta­s1 sussistente nella natura divina; benché ciò che sussiste nella natura divina non sia altro che la stessa natura divina. E stando a queste premesse è vero che il nome persona significa diretta­mente la relazione e solo indirettamente l' essenza25 •

25 TOMMASO D'AQUINO, Summa Theologiae, I, q. 29, a. 4.

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Se persone divine sono costituite dalla relazione, lo Spirito Santo è la relazione sussistente per eccellenza. La relazione è qualcosa di così fondante da essere la persona che costituisce il legame originario fra Padre e Figlio. L'amore è una perso­na. Proviamo a seguire ancora Tommaso nella sua riflessione trinitaria:

Lo Spirito Santo si dice legame fra il Padre e il Figlio in quanto è Amore; infatti il Padre con un unico amore ama se stesso e il Figlio, e viceversa [il Figlio ama con un unico amore se stesso e il Padre], quindi nello Spirito Santo, in quanto Amore, è im­plicito un rapporto del Padre al Figlio, e viceversa, come di un amante a ciò che ama. Ma per ciò stesso che il Padre e il Figlio si amano vicendevolmente, è necessario che questo mutuo amore che è lo Spirito Santo proceda da ambedue. Quindi a motivo di tale origine lo Spirito Santo non è un semplice dato intermedio, ma una terza persona nella Trinità26

.

In una impostazione come questa lo Spirito Santo è com­prensibile come persona solo in prospettiva relazionale, come del resto il Padre e il Figlio, che hanno infatti nomi relazio­nali. Da qui seguono inoltre un paio di corollari che devono essere tenuti presenti anche per le relazioni fra le persone umane: il fatto che la relazione definisca contemporaneamen­te entrambi i soggetti coinvolti ( «con un unico amore ama se stesso e il Figlio, e viceversa») e il fatto che la relazione non sia tanto qualcosa che sta in mezzo fra i due, ma ciò che costituisce entrambi («non è un semplice dato intermedio, ma una terza persona»).

Per la persona umana le cose non stanno in modo trop­po diverso. Anche lo spirito dell'uomo non si comprende se non in prospettiva relazionale. È l'apertura, la finestra che lo

26 TOMMASO D'AQUINO, Summa Theologiae, I, q. 37, a. 1.

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abilita - e lo costringe - a costituirsi e darsi un'identità nella relazione con l'altro. Questo spiega anche la difficoltà che si ha nel definire se lo spirito sia qualcosa di mio, di tuo o di autonomo rispetto ad entrambi. In una casa, infatti, la fine­stra è uno spazio strano: appartiene all'interno o all'esterno? I mobili sono interni, il giardino è esterno, i muri hanno u~ lato all'interno e uno all'esterno, ma il vano della finestra? E il luogo in cui interno ed esterno si incontrano~ Allo stesso modo la relazione fra me e mio padre di chi è? E mia, è sua, è di entrambi o è autonoma rispetto ad entrambi? In un'im­postazione poco attenta al peso ontologico delle relazioni la risposta rischia di essere la seguente: è accidentale per en­trambi. Ci sono io, c'è mio padre e la relazione è qualcosa di successivo ed accessorio che dice una collocazione reciproca. Invece questa finestra può essere vista come il momento co­stitutivo dell'identità di entrambi.

Tutto questo, come ho cercato di mostrare nei capitoli pre­cedenti, può essere pensato anche senza dover fare riferimen­to a Dio e allo Spirito Santo. Significa che l'uomo è costituito, nella sua sussistenza personale, dalla relazione: in prima bat­tuta dalla relazione con gli altri e dalla relazione con se stesso che si genera in questo incontro. In modo analogo poi anche con gli oggetti, gli animali e la realtà non personale. Si tratta in questo caso di una relazione diversa, in quanto non vi è la reciprocità che caratterizza gli incontri personali: gli oggetti, gli animali - e i sogni - sono molto più inermi, muti nella relazione con le persone. Sono tendenzialmente "usati" dalle persone come schermi di proiezione del proprio desiderio. Questo non rende il rapporto falso, in quanto per uno dei due partner, quello umano, il rapporto è vero, e incide sulla costituzione della persona. Fra le possibilità perciò, almeno potenzialmente, c'è anche quella di costituirsi in relazione a Dio o a un idolo, nella misura in cui questo si possa raggiun­gere - o si offra - alla relazione con-costitutiva personale.

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La condizione di apertura spirituale è talmente duttile che di per sé un idolo può essere costituti~o ?~Ila perso~a. qu_anto un amore o lo Spirito Santo. La spec1fic1ta delle rehg1om che vedono Dio in modo personale consiste nel fatto che la rela­zione è aperta sui due fronti in modo libero e consapevole: Entrambi si offrono alla relazione, anche quando questo I~ espone al più radicale dei rischi, quello di vedere se stes~1 definiti da questa relazione. Per l'uomo questo è_scon_tato. E infatti impossibile sottrarsi al rischio: avvici~ars1 al vmo, ~d una donna, avere un cane, installare un alta:mo nel pr_opr~o soggiorno, guardare la televisi~ne non è mai_ mno~uo. Ri_sc~ia sempre di mutare quello che siamo. Nella nvel~z101:e ?1bhca si mette a tema chiaramente il fatto che questo nsch10 e corso anche da Dio, in quanto partner reale dell'alleanza con !_'uo­mo. Per questo nel cristianesimo si può ess~re i~ ,relaz10~e con Dio solo nello Spirito, cioè nella sua relaz1onahta pr~pn~, costitutiva. Lo Spirito Santo è la disponibilità inte_rn~ d1 D1~ ad essere fatto dalla relazione, quella fra Padre e Figlio, che e talmente costitutiva da essere una persona divi~a. Qualcosa ~i analogo però avviene anche ne_i n~st_r~ confronti, ~na stessa di­sponibilità ad esporsi alla ~ost1tut1v1ta de_ll~ relaz1on~. In que­sto caso non serve un'ulteriore persona d1vma: tutta I apertura necessaria per entrare in relazione con noi è già pres~~te nella relazione fra Padre e Figlio, è già presente nello Spmto.

Jiingel affronta con decisione questo argom~nto, guardan­do al Dio che non vuole essere se stesso senza I uomo. Mostra allo stesso tempo come non ci si possa difendere trop~o velo­cemente dietro l'obiezione che questo renderebbe Dio trop­po esposto alla libertà dell'uomo e l'u?mo in qualch~ modo "necessario a Dio". L'obiezione è sena, ma non puo essere semplicemente evitata da chi voglia pensare il Dio cristiano: quanto piuttosto attraversata in p_rofondit~, fino al pu1:t? d1 ripensare tutto il nostro modo d1 concepire la necessita, la libertà e la relazione. Non è qui il luogo per affrontare questa

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sfida e tuttavia vorrei riportare le parole di Jiingel per mo­strare quanto questa prospettiva sia allo stesso tempo centrale per la visione cristiana di Dio e disorientante per chi cerchi di pensare il Dio di Gesù Cristo.

Dio proviene da Dio, ma non vuole venire a sé senza di noi. Dio v~en~ da Dio, ma con l'uomo. Perciò appartiene già alla divinità d1 Dio anc~e la sua umanità. Questo è ciò che la teologia deve finalmente imparare. La teologia dovrà evitare di fraintendere il suo compito. Il modo di pensare Dio in modo che Egli, essendo pensato come veniente a se stesso, sia pensato allo stesso modo come veniente all'uomo, non può voler dire pensare ormai Dio come_ dipendente dall'esistenza dell'uomo. Non si potrà finire col dire che l'uomo è necessario per Dio. [ ... ] Naturalmente si potrebbe escludere facilmente questo malinteso dicendo che Dio può appunto anche venire a se stesso senza venire all'uomo anzi che egli sia Dio proprio per il fatto di essere già sempr~ venuto a se stesso senza l'uomo e il mondo. Tuttavia io conside­ro empio questo argomento. Esso pensa la libertà di Dio come mero possesso di sé e limita a questo la sovranità di Dio - pen­sato come assoluto possesso di sé -, separando in un primo momento la dimenticanza di sé dell'amore da questa sovranità e facendola seguire alla libertà come una seconda cosa diversa da essa. Gli s~udi raccolti in questo libro [Dio, mistero del mondo] n_o? s?no 10 fondo altro che un unico attacco contro l'irreligio­slta d1 questa argomentazione27•

Anima, spirito e Spirito Santo

La caratteristica distintiva dell'anima spirituale umana c~oè dello spirito, rispetto agli altri viventi, è pertanto quell~ d1 non poter essere pensata se non in relazione. La singola

27 E. JONGEL, Dio, mistero del mondo, cit., 58.

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persona non è un livello sistemico sufficiente per comprende­re ciò che è una persona: l'altro ne è un elemento costitutivo, nel bene e nel male. Nel gran numero di interpretazioni pos­sibili io opterei per questa caratteristica come determinante per affermare l'uomo imago Dei. Come Dio, anche noi non possiamo essere pensati che in relazione. Come Dio, e diver­samente da un sasso, siamo in quanto rispecchiamo qualcu­no, e per grazia, possiamo rispecchiare anche Dio.

La vita, l'intelligenza, le emozioni possono entro certi limiti essere pensate come caratteristiche di un'anima non spiritua­le, cioè caratteristiche sistemiche individuali, comprensibili analizzando l'individuo solitario. Per la libertà, come caratte­ristica specifica della persona spirituale, questo non è possibi­le, non può essere pensata come libertà personale senza l'al­tro, e si colloca quindi ad un livello sistemico originariamente interpersonale. Questo fa sì che anche la nostra intelligenza, i nostri affetti e ogni aspetto della nostra vita biologica siano ti-significati da questo livello sistemico spirituale. Il corpo e l'anima diventano spirituali quando l'organismo è capace di relazione spirituale; non nel senso che diventino eterei, ma nel senso che vengono coinvolti in relazioni più complesse che li determinano radicalmente.

Questo vale per la distinzione e la relazione fra anima e spi­rito. Ma va chiarita anche la distinzione e relazione fra spirito e Spirito Santo. Talvolta infatti, come abbiamo visto nel testo di Ireneo riportato sopra, si corre il rischio di confondere spirito dell'uomo e Spirito Santo: non è solo un problema di precisione terminologica o di maiuscole. Dipende per così dire da quella caratteristica che abbiamo individuato nella finestra, cioè nel luogo che unisce il dentro e il fuori di una casa, il luogo della relazione. In questo caso è il luogo della particolare relazione fra Dio e l'uomo. Dove avviene questa relazione? In me? In Dio? Fra di noi? Nell'incontro fra la nostra disponibilità relazionale e quella di Dio c'è un luogo

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- la relazione - in cui ciascuno è se stesso e allo stesso tempo ciascuno è costituito dall'altro, è quello che è in virtù del-1' altro. Nella finestra del nostro spirito l'aria della nostra casa e lo spazio infinito di Dio si incontrano senza confondersi e tuttavia sono realmente uniti. Per chi pensa in primo luogo la sostanza, questo è un luogo pericoloso, dove può essere ossessivamente necessario stabilire cosa è nostro e cosa è di Dio. Per chi invece pensa la relazione, questo è il luogo origi­nario, dove bisogna evitare che la definizione delle proprietà impedisca la fecondità dell'incontro. È il luogo in cui Dio mostra la sua possibilità spirituale, la possibilità cioè di farsi costituire non soltanto dall'altro divino ma anche dall'altro non-divino: «Padre mio e Padre vostro» (Gv 20,17). Allo stesso tempo è il luogo in cui il nostro spirito mostra la sua possibilità di farsi costituire non soltanto dall'altro umano, ma anche dall'altro non-umano, divino, che si offre come possibilità relazionale costitutiva reale.

Da qui derivano alcune conseguenze e alcune domande che costituiscono possibili piste di approfondimento.

In primo luogo diventa evidente il carattere gratuito, gra­zioso, della relazione con Dio. Se Dio non si offrisse a noi come partner noi non potremmo pretenderlo o conquistarlo. Potremmo immaginarlo, farcene un idolo, magari anche re­lativamente adeguato a Dio stesso, ma per quel che riguarda la relazione è chiaro che è possibile solo se lui si offre a noi. In che modo tutto questo è simile e diverso dal modo in cui anche le nostre relazioni umane sono gratuite, sono legate alla disponibilità e al ruolo che l'altro vuole assumere nel rapporto?

In secondo luogo emerge l'ambiguità che il termine figlio assume nel cristianesimo: è allo stesso tempo la condizione del Figlio e la condizione dei figli; la condizione del Verbo e la condizione di noi peccatori. In che senso questa condizione

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è simile e in che senso è diversa? Tale ambiguità emerge qui in quanto il nome di F/figlio è un nome relazionale, riferito al Padre, e pone a tema la differenza e la somiglianza che lega allo stesso Padre il Figlio e i figli.

In terzo luogo va chiarito il ruolo di Gesù come Figlio nel quale siamo figli. Perché è lui e non altri ad aprirci la strada alla relazione con il Padre? Lo stesso Spirito Santo infatti ci mette in relazione col Padre in quanto Spirito del Figlio.

Cercare di rispondere a questi interrogativi sarà il compito dei restanti capitoli, prima però ci sono un paio di ambiti specifici della teologia che possono essere rivisti alla luce di questa prospettiva relazionale dello spirito.

Il mistero

Fino a qui abbiamo parlato di spirito, di Dio e dell'uomo senza descrivere mai come avverrebbe in concreto questa comunicazione di spiriti. Il rischio è quello di immaginare qualcosa di "spiritualista", una sorta di comunicazione segre­ta e mistica. Può certo essere anche questo, ma il riferimento principale è molto più ordinario. La relazione spirituale che ci lega agli altri - umani - passa quotidianamente attraverso i gesti e le parole che costituiscono la nostra vita di ogni giorno. Nella relazione che ci lega ad amici, nemici, amanti e figli, ci sono talvolta momenti topici: quando l'ho vista per la prima volta, quando con un amico abbiamo rischiato di morire in montagna, quando un altro mi ha chiesto di donargli un rene o quando qualcuno mi ha picchiato. Così come possono es­serci momenti di intensità magica ed eterea: uno sguardo, una sensazione, un istante. Eppure la nostra vita, pur punteggiata da tali eventi, non è fatta solo o principalmente di questo. È fatta di gesti consueti attraverso i quali passa il nostro nome, la nostra identità e passano i legami con gli altri. La nostra

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vita di relazioni spirituali può essere fatta di amicizie e amori che si declinano in qualche cena, qualche gita e tanta quoti­dianità. Qualcosa di analogo avviene nella relazione spirituale con Dio. Così come il suo aprirsi a noi non è stato prima di tutto un momento astratto e intimo ma la vita concreta del figlio del falegname, allo stesso modo l'aprirsi spirituale del­l'uomo a Dio non è fatto in primo luogo di intuizioni intime o straordinarie ma dalla concretezza quotidiana della propria vita. Con questo non si esclude il ruolo fondamentale che possono avere certi momenti di intensità o straordinarietà spirituale, ma soltanto ricordare che, nel cristianesimo, sono altrettanto spirituali la trasfigurazione e la croce, l'intuizione mistica e la carità. In entrambe, infatti, l'uomo è coinvolto nella vita di Dio, ne vede la gloria e si lascia toccare e dare forma da quello che lo coinvolge.

E allora che fine fa il mistero? Per chi adotta una prospet­tiva come quella che ho proposto non c'è niente di più facile di essere rimbrottati da qualcuno che, con le migliori inten­zioni, lo invita ad «avere più fede». Potrebbe anche essere un buon invito se non fosse in realtà un appello a dare più valore a tutto ciò che di strano e misterioso ha a che fare, anche tangenzialmente, con la religione: miracoli, apparizioni, doni carismatici straordinari, coincidenze e casualità provviden­ziali ecc. Tutte cose rispetto alle quali non ho personalmente alcuno scetticismo, ma che ritengo non siano al centro del mistero della vita spirituale.

Ma allora che cos'è il mistero? Mi pare che una interpre­tazione misteriosa del concetto cristiano di mistero sia tanto diffusa quanto fuorviante. Il mistero ha a che fare con lo S/ spirito e quindi è da intendersi proprio in senso relaziona­le. Si dà mistero laddove ciò che avviene coinvolge il gioco di costituzione di identità fra le persone, siano esse umane o divine. È mistero in quanto coinvolge due libertà: questo evento spirituale non può essere mai completamente detto in

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-anto si costruisce nell'atto stesso di farsi e in quanto rimane

qu D . d . perto alla libertà creativa della persona. a qui en~an~

:nche i caratteri "misteriosi" del mistero. Non sono emgm1 che prima o poi si sciolgono, ma è mistero perché rimane sempre inafferrabile28

• • .

Se esistano gli UFO è un enigma: o c1 sono o non c1 sono, e io non ne ho idea. Se poi esistono e si presentano, l'enigma è risolto. Cosa pensi mio fratello ~ un mistero perché, ~~r "co­noscendolo" molto meglio dell argomento UFO, lui rimane libero, relazionale e creativo, e quindi ~p~rto ad_ un futuro ancora da costruire. In modo analogo Dio e un mistero: non un enigma da scoprire, per svelare se c'è o non c'è o come è fatto. E un vero mistero di relazione, sempre sorpren?ente, anche quando lo si conosce. Quando conoscerem? D~o fac­cia a faccia saranno svelati gli enigmi ma resterà 11 mistero, perché Dio resterà in eterno il vivente, de~ideroso d~ sorp_ren~ <lerci con il mistero del suo volto e desideroso d1 lasciarsi sorprendere dalle sue creature vive.

6.4. Il posto di tutti. Nota sull'handicap

Un discorso specifico merita un tema che rischia di ess~re trascurato quando si parla di anima e di spirito in pro~pett1va più tradizionale, ovvero quello di ~olor~ che, ~er nas~1ta o per disavventura, si trovano in una s1tuaz1one d1 handicap gra­vissimo e di deficit insuperabile a livello psichico. In questa prospettiva rientrano coloro che non sviluppa~o mai - come nel caso di ritardi mentali gravissimi alla nascita - o - come

28 Cf K. RAHNER, Sul concetto di mistero, cit., 391-465.

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nel caso dell'Alzheimer - perdono quelle che chiamiamo le fun~ioni_ psichiche superiori. Si tratta, è ovvio, di un discorso ass~1 dehca_to, ch_e meriterebbe una trattazione b~n più ampia e d1ffere~z1ata d1 q~ella che posso svolgere qui. E per questo c~e cons1~ero solo 1 casi gravissimi, rispetto ai quali non c'è bisogno d1 entrare nei dettagli relativi alla definizione e alla gravità ~el deficit. E tuttavia è utile non tralasciare questa prospettiva, nella convinzione che abbia molto da dire al no­stro modo di definire cosa sia una persona e al nostro modo di rendere operativa nella storia questa definizione.

Ad un primo sguardo l'impostazione materiale-sistemica sem?~a registrare una perdita netta rispetto all'impostazione trad1Z1onale. Se_ i~fatti l'anima è trattata come un dato pre­sente per defimz10ne, totalmente in mano a Dio, è chiaro che qu~ste persone sono persone, dotate di anima spirituale, a prescindere dal deficit o dall'handicap. Se invece l'anima è un livello sistemico funzionale, queste persone si trovano nella condizione per cui la loro umanità non è salvata né garantita ~lalla _b_iologi~. Né a livello genetico - in quanto per ~lcum addmttura il numero dei cromosomi può esse­re differente - e nemmeno dalla struttura funzionale _ in quanto non pervengono ad una complessità funzionale tale da ga~antire loro, _arpunto, le funzioni psichiche superiori. Sono m una cond1z1one molto particolare, che ritroveremo quan~o a~fr~nteremo la dimensione cristologica, ovvero sono salvati prmc1palmente dallo spirito. Infatti nella dimensione funzionale individuale, ovvero la dimensione dell'anima, non hanno_abbastanza, o non hanno più abbastanza, per potersi gar,antlre la relazionalità che li rende liberi.

E una situazi~ne sim~le a quella dei bambini molto piccoli: nemmeno_q~estl sono m grado di gestire le funzioni psichi­che supenon e propriamente nemmeno le possiedono né tant?m~no so~o in grado di gestire la propria relazion~lità cost1tut1va. Ne1 bambini la gestiscono gli adulti al loro posto

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favorendola, sviluppandola, entrando in relazione con loro: lo fanno in modo prospettico, aspettando e favorendo lo svi­luppo della loro "anima". Nelle persone con handicap gravis­simo succede qualcosa di simile. La differenza fondamentale è che non c'è, o è limitatissima, la previsione di crescita. La loro relazionalità costitutiva è gestita da altri, ma non in ma­niera prospettica quanto in maniera assoluta. Che queste per­sone siano riconosciute come "umane" non dipende dal loro divenire capaci di umanità psichica e spirituale, non dipende dalla loro capacità di imrorsi, ma dalla nostra ospitalità rela­zionale; dipende da noi. E qui che la dimensione dello spirito - che è dimensione strutturalmente interpersonale - diventa essenziale. Se ci fermiamo alla dimensione psichica, possia­mo dire che queste persone non vi accedono mai. Ma nella dimensione spirituale, noi li possiamo considerare figli, amici, amori, persone, anche nell'assoluto silenzio da parte loro, an­che nell'assoluta inevidenza. Sono persone non in quanto essi entrano in relazione con noi, ma in quanto noi entriamo in relazione con loro facendoli diventare parte del nostro stesso spirito. Possiamo dire che così facendo ci comportiamo con loro in un modo simile a quanto Dio fa per noi: offrirci cioè una possibilità relazionale cui non avremmo nessun accesso se non ci fosse offerto dalla sua pura gratuità.

Una tale prospettiva spaventa. Sembra parlare di livelli di umanità diversi, aprendo scenari eugenetici terribili. È molto più semplice ritenere che l'umanità sia garantita ontologica­mente dalla presenza dell'anima e non andare oltre. Tuttavia, mi pare, ci sono per lo meno due aspetti che non devono essere trascurati.

Il primo aspetto riguarda la precedenza - dialettica - del rapporto spirituale che Dio ha con le sue creature su qualun­que altro rapporto. «Prima di formarti nel grembo materno, ti ho conosciuto, prima che tu uscissi alla luce, ti ho consacra­to» ( Ger 1,5). Da un punto di vista cristiano la possibilità e la

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dignità spirituale del più grave ritardo mentale, come quella di qualunque genio, sta nel fatto che, molto più radicalmente di qualunque altra relazionalità, essi sono persone spirituali in quanto Dio li sceglie, ci sceglie, come interlocutori della sua soggettività. Questo dato mi sembra ciò che voleva difendere l'affermazione della creazione immediata dell'anima e questo dato, nello S/spirito, resta. Un cristiano sa che con chiunque abbia a che fare - in qualunque relazione, società, chiesa o famiglia - ognuno è preceduto dalla relazione che lo salva, quella del Dio che è morto anche per lui, senza chiedergli quale sia il suo QI.

Il secondo aspetto riguarda invece l'efficacia storica, ef­fettiva delle nostre affermazioni di umanità. Al di là della pura affermazione, infatti, nella storia concreta delle persone, costoro sono oggettivamente esposti all'arbitrio del nostro spirito. Non ha in fondo molto senso affermare che sono persone se poi nessuno ha nulla a che fare con loro, se poi vengono addirittura soppressi nel ventre materno. In quanto soggetti spirituali, tutti, siamo responsabili di una umanizza­zione concreta che nessun principio garantisce semplicemen­te. Chi non può gestire il rapporto è di fatto affidato alla cura di coloro che possono farlo: se chi può lo coinvolge, allora egli, che non può, è "umanizzato" in quanto diviene parte fondamentale dell'umanità, altrimenti ne è semplicemente escluso. Da qui, mi pare, nasce non tanto il diritto a eliminare chi non raggiunge un certo standard in quanto non-umano, ma piuttosto la possibilità di renderci conto che anche essi possono diventare pieni soggetti di diritto nella relazione con noi. Questa prospettiva è pericolosa? Forse. Eppure non va dimenticato che già attualmente a molte di queste persone non viene data possibilità di relazione, o perché "terapeuti­camente" abortite o perché "clinicamente" emarginate. Può darsi che non sia possibile fare altro, ma in ogni caso limitarsi ad affermare la loro personalità teologica teorica mi pare in-

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uffi_ciente. Mi piacerebbe invece mostrare come il cristianesi­~o qui abbia da proporre una ~isione_esigent~ ~ affascinante, che può coinvolgere nella relazione p1en~, spmtuale, umana, anche chi di suo non potrebbe accedervi. .

I due aspetti, quello teologico e quello umano e sociale, de­ono essere affermati e resi efficaci insieme e separatam~nte.

~a dignità dell\1omo, la sua dignità spiritual~_sta, radical~ nte in Dio. E Dio che ci sceglie come suoi mterlocutori

:: q~esto ci costituisce come soggetti di dignità assoluta. E tuttavia noi siamo soggetti spirituali nella concretezza delle nostre relazioni quotidiane. Vale per la persona sana, ma vale · modo estremo ed esposto per le persone con disabilità ;avissima. Senza un coinvolgimento personale ra~icale con altri nessuna persona è una persona. O almeno lo e solo per un'affermazione di principio, senza che si capisca bene cosa

significhi. . . . . . . . , Questo è vero a livello di relazioni md1v1dual1, c10~ c~~e

persone legate da singole relazioni, ~ vale ancora d1 pm a livello sociale: per queste persone puo e deve essere trovato un posto che le personalizzi come appartenenti ad una co!11u­nità politica, culturale, liturgica. Devo1;10 r~cevere attenzione politica, cioè diventare part~ della cost1tuz1on~ ~ersonale co­munitaria. Da questa atten21one non solo essi ricevono defi­nizione ma anche la società stessa. In prospettiva relazionale, infatti, Ìa società - come qualunque sistema - viene "giudi­cata" dalla sua capacità di integrare le sue stesse componen­ti, come pure dalle componenti che essa integr~. I~ cred~ ~ vorrei che la società in cui vivo fosse umana, d1 un umamta capace di farsi carico anche di quest~ difficili~si1:1e sitl~a:ioni come parte integrante di sé, e magari fosse crisu~na; c1oe ca­pace di integrare in sé lo Spirito del Figlio, proprio riuscendo concretamente a mostrare la capacità di Dio di inserire nella definizione di sé anche chi non ha molto da offrire o non ha le parole per farlo.

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Mi pare sia questo quello che si intende quando si afferma che la condizione dell'handicap è degna di attenzione /enome­nologica29. Non però di una fenomenologia che semplicemen­te constati l'esistente ma di una fenomenologia aperta, in cui l'umanità non sia soltanto il dato -il dato che potenzialmente porta alla rupe Tarpea - ma, molto di più, sia una possibilità aperta di reciproca umanizzazione.

29 C/ P. SEQUERI, L'umano alla prova. Soggetto, identità, limite, Vita e

Pensiero, Milano 2002, 135-159.

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7. Ripensare la libertà

Ripensare l'anima in prospettiva materiale-sistemica e lo spirito in prospettiva relazionale non è evidentemente un'o­perazione innocua. Comporta delle scelte e dei rischi per l' an­tropologia - che non vanno sottovalutati e che ho cercato di mostrare - assieme all'opportunità di guardare a noi stessi in modo nuovo e forse più aderente a quello che siamo. Spinge però a ripensare non solo l'uomo e le sue relazioni, ma anche la relazione fra Dio e l'uomo e alla fine Dio stesso. In questo capitolo e nel prossimo cercherò di mostrare in che modo un'antropologia che, a partire dalle neuroscienze, prenda sul serio l'autonomia ontologica dell'umano, possa trovare nel Dio di Gesù Cristo un interlocutore possibile.

7.1. La libertà adulta

Inviti

Fino a che punto sia seria la sfida di considerare l' autono­mia ontologica dell'umano lo si nota affrontando una con-

217

ap
Evidenziato
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Teilhard de Chardin, P. 95 Telfener, U. 23, 30s. Tertulliano 175, 180 Tommaso d'Aquino 172s., 202s. Tononi, G. 35, 37, 104, 120

332 I Indice degli autori

Vaccaro, A. 200 Vaio, S. 29s., 37 Vanzago, L. 200 Varela, F. 3 7 Ventimiglia, G. 281 Vygotskij, L.S. 136s., 145, 147

i

Indice generale

Prefazione . .................................. . 5

prima parte TERMINI DI UN CONFRONTO

1. Il campo da gioco . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 11 1.1. Il muro cartesiano si sgretola 12 1.2. Popolazioni in evoluzione 21 1.3. La complessità dei sistemi 29

2. Quali sfide? . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 43 2.1. Un nuovo ateismo scientifico? 44 2.2. Come se Dio non ci fosse 51 2 .3. Due stili teologici 60

seconda parte COSCIENZA E LIBERTÀ

3. Questioni di/ondo. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 75 3.1. Materialismo e determinismo 75 3 .2. Orientarsi fra le posizioni 83

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4. Coscienza in relazione . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 98 4.1. Il mistero della coscienza 98 4.2. Coscienza primaria 112 4.3. Coscienza di ordine superiore 134

5. Libertà in relazione . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 145 5 .1. La libertà e l'altro 145 5.2. Dire la libertà 155

terza parte SFIDE TEOLOGICHE

6. Ripensare l'anima. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 173 6.1. L'anima 173 6.2. Le funzioni sistemiche dell'anima 178 6.3. Corpo, anima e spirito 199 6.4. Il posto di tutti. Nota sull'handicap 213

7. Ripensare la libertà . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 219 7 .1. La libertà adulta 219 7 .2. Passione di libertà 225 7.3. Relazione di libertà 239 7.4. La libertà della Trinità 248 7.5 Il nuovo. Nota sullo Spirito Santo 255

8. Ripensare la relazione . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 262 8.1. A partire da Dio 262 8.2. Il posto di Dio 267 8.3. Il Figlio e i fratelli 287 8.4. Figli nel Figlio 300 8.5. Il posto della creazione. Nota su Rm 8 313

Bibliografia . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 317

Indice dei nomi. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 329

334 I Indice generale

JAN-OLAV HENRIKSEN

FINITEZZA E ANTROPOLOGIA

TEOLOGICA Un'esplorazione interdisciplinare

sulle dimensioni teologiche della finitezza

Editoriale di ANDREA AGUTI

Un saggio ben documentato sulla fenomenologia della finitezza umana. Il senso della finitezza e la sua valenza euristica acqui­stano precisione e profondità interrogando le scienze positive, sotto la guida di autori noti a livello mondiale. L'analisi fenome­nologica viene così arricchita da una indagine interdisciplinare in cui convergono filosofia, teologia e scienza contemporanea. Dalle pagine di questo libro emerge allora progressivamente -in una maniera insolita e inaspettata, forse - quell'Infinito che si manifesta e si rende presente proprio nel finito ...

Giornale di teologia 3 79

ISBN 978-88-399-0879-7 I 368 pagine

QUERINIANA