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Frutto del diavolo

Un thriller culinarioTOM HILLENBRAND

traduzione di Giovanna Targia e Marina Pugliano

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Titolo dell’opera originaleTEUFELSFRUCHT. EIN KULINARISCHER KRIMIOriginally published as “Teufelsfrucht. Ein kulinarischer Krimi” by Tom Hillenbrand© 2011, Verlag Kiepenheuer & Witsch GmbH & Co. KG, Cologne / Germany

Traduzione dal tedesco di Giovanna Targia e Marina Pugliano

© Atmosphere libriVia Seneca 6600136 [email protected]

Redazione a cura de Il Menabò (www.ilmenabo.it)

I edizione nella collana Biblioteca del giallo dicembre 2013

ISBN 978-88-6564-071-5

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A Cornelia

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Prologo

Aaron Keitel osservava la sua mano sinistra tirare indietro ilcarrello della semiautomatica per poi lasciarlo scattare dinuovo in avanti. Sollevò l’arma sopra la testa e mirò in unpunto imprecisato tra il fogliame della giungla in cui sospet-tava si trovasse uno di quei dannati uccelli. Gridavano gli uc-celli, gridavano da ore, non la finivano più di strepitarerabbiosi contro la truppa di stranieri che aveva osato invadereil loro territorio sperduto.

L’americano premette il dito sul grilletto e immaginò diesplodere il caricatore della Walther P99 su uno di quegli al-beri, quindici colpi in tutto. Si figurò rami, foglie e piume in-sanguinate volare in ogni direzione. E perché no? Ci sarebbestato un rumore assordante, certo, ma poi gli uccelli avreb-bero forse smesso di gridare.

Keitel abbassò l’arma. Doveva stringere i denti. Sapeva findall’inizio che quella spedizione nella pianura di Aramia, unazona assai remota della Papua Nuova Guinea, l’avrebbe stre-mato fisicamente e psicologicamente. Ma erano solo duegiorni che camminavano a fatica in mezzo alla giungla umidacon quel caldo asfissiante ed era un po’ troppo presto per per-dere il senno. Più tardi, magari.

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Mise la sicura alla Walther e l’infilò di nuovo nella fon-dina del cinturone. Soltanto allora si accorse dell’insettogrosso come un pugno che si era già inerpicato sulla tibiae, dopo una breve ricognizione, si accingeva a procederenell’arrampicata. Keitel scosse la gamba. Ci fu un rumorestridulo quando schiacciò il parassita sotto la suola del-l’anfibio.

Keitel si fermò per guardarsi intorno. Fin dove arrivava losguardo, non vedeva che alberi ricoperti di fitte piante ram-picanti e una boscaglia impenetrabile ad altezza d’uomo.Nella provincia meridionale, strade e centri abitati erano pres-soché inesistenti. In compenso era un paese in cui abbonda-vano insetti velenosi e paludi disseminate di insidie. Non perniente la regione circostante il fiume Aramia era nota comel’angolo più inospitale della Papua Nuova Guinea.

Riprendendo il cammino affondando con i piedi nel ter-reno, Aaron Keitel si asciugò le mani sudate sul giubbottomimetico kaki e non poté trattenere un sogghigno. In PapuaNuova Guinea non c’era, presumibilmente, un solo angoloche non fosse inospitale, con l’eccezione forse del CrownePlaza a Port Moresby, la capitale. Tutta quella maledetta isolaera una caverna infernale di aria calda e umida.

A un certo punto, Keitel si fermò e fece cenno alla guidalocale di aspettare. Svitò il tappo della bottiglia d’acqua, bevveun lungo sorso e si versò il resto sui capelli biondi, impastatidi polvere e sudore. Poi calpestò uno scarafaggio piuttostobizzarro, grosso quanto un porcellino d’India. Gli insetti nongli facevano né caldo né freddo, ci aveva fatto l’abitudine. Lesue spedizioni lo avevano portato, fra l’altro, a Giava, in In-docina, e nella foresta pluviale brasiliana. Negli anni si era as-suefatto a insetti di ogni specie e dimensione. La PapuaNuova Guinea sfidava però anche i globetrotter più esperti.Di giorno l’aria era calda e umida, di notte faceva un freddopolare. Di dormire in quelle zone selvagge non se ne parlava:

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sia per il clima, sia per gli insetti che tentavano in continua-zione di intrufolarsi in tutti gli orifizi.

Con un cenno Keitel chiamò la sua guida: «Sekou, quantomanca ancora?» A differenza di Keitel, che era equipaggiato conil più moderno abbigliamento da escursionista, lo smilzo gui-neano indossava soltanto pantaloni corti e una maglietta scolo-rita del Manchester United. Non sudava, né pareva spossato.«Non lontano adesso, sir. Tulai avere accampamento lassù», dissefacendo un cenno vago con la mano in direzione della parete difoglie, rami e liane che si ergeva di fronte a loro. Keitel annuì,gettò nei cespugli la bottiglia di plastica e riprese a marciare.

I Tulai erano una tribù che viveva nelle remote pianuredell’Oriomo, la zona sudoccidentale di quell’isola del Paci-fico. Per stabilire un contatto con Ratu Koca, il capo dei Tulai,Keitel aveva trascorso quasi due mesi nella capitale e in unbuco di provincia chiamato Daru.

Di solito la tribù non riceveva visite da parte di uominid’affari americani, né di chicchessia. Giusto ogni paio d’annisi trovava a vagare nella zona qualche etnologo o linguista chestudiava la vita schiva di quei cacciatori e raccoglitori, o il lorostrano dialetto. Quegli indigeni, con i loro simboli marzialidipinti sul viso e i loro strambi copricapo, non interessavanoquasi a nessuno.

A ciò si aggiungeva il fatto che i Tulai avevano banchettatodivorando quattro sacerdoti metodisti in missione non piùtardi del 1952, vale a dire in un’epoca in cui quasi tutte letribù della Papua Nuova Guinea avevano abbandonato il can-nibalismo già da un pezzo. Non si sapeva con precisione se iTulai si attenessero ancora a tradizioni gastronomiche di quelgenere. Per cui anche questa circostanza contribuiva a tratte-nere perfino i più incalliti turisti della giungla dall’addentrarsinel territorio dei Tulai senza essere invitati.

Fino all’aprile di quell’anno, Keitel non aveva provato il ben-ché minimo interesse per i Tulai. Più precisamente, non aveva

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mai sentito parlare di loro finché non gli capitò di leggere no-tizie sulla tribù in un libro dell’etnologo britannico LeicesterMorris. Negli anni Settanta, lo scienziato aveva trascorso pressoi Tulai diverse settimane studiandone usi e costumi.

Keitel leggeva regolarmente resoconti di viaggi e avventureda cui potesse apprendere nozioni sulla flora e la fauna menonote di regioni lontane: faceva parte del suo mestiere. Sulleprime, la monografia di Morris sui Tulai era stata una letturadi una noia mortale e Keitel si era dovuto forzare per non met-terla da parte già dopo il primo capitolo; per i metodi di cac-cia e la struttura familiare degli odierni indigeni, Keitel nutrivaall’incirca la stessa curiosità che per i risultati del cricket pa-puasico. Ben presto, però, si era imbattuto in un passaggio delresoconto di Morris che lo aveva elettrizzato: «I Tulai si nu-trono soprattutto di focacce preparate con il midollo dellapalma da sago. Anche serpenti ed esemplari del cusco grigio(Phalanger orientalis) fanno parte della loro dieta. In occa-sioni festive servono inoltre un frutto simile alla melanzana,chiamato chatwa. Mi è stato offerto in occasione delle nozzedi uno dei figli del capo e fa parte senza dubbio dei cibi più sa-poriti che abbia assaggiato durante tutti i miei viaggi. Osereiaddirittura affermare che la chatwa è il cibo più squisito che ioabbia mai avuto modo di gustare in tutta la mia vita».

Keitel era un carpologo di formazione, un botanico spe-cializzato nei frutti e nei semi delle piante. Un frutto di nomechatwa, però, non l’aveva mai sentito nominare. Senza indu-gio aveva contattato l’autore del libro. Il professor Morris eragià emerito, ma conservava ancora un ricordo vivido del sa-pore e dell’aspetto del misterioso frutto che, al telefono, de-scrisse a Keitel come «straordinariamente aromatico e di unasquisitezza indescrivibile».

Il carpologo, di conseguenza, aveva interrogato tutte le ban-che dati che gli erano accessibili, ma senza risultati. Il fruttoche aveva entusiasmato a tal punto Morris era completamente

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ignoto alla ricerca botanica. Questa scoperta aveva scatenatoin Keitel quell’euforia febbrile di cui era vittima ogni volta checapitava sulle tracce di nuovi frutti, bulbi o radici. Stavolta,però, la curiosità era più forte che mai. Scovare frutti o bacchesconosciuti ai botanici era come cercare un ago in un pagliaio.Scoprirne di nuovi e per di più commestibili, poi, era presso-ché impossibile e per il suo lavoro riuscirci costituiva di per séil massimo premio. Se poi quei frutti rientravano nella cate-goria “dal sapore straordinario”, a quel punto era tombola.

Keitel pescò una Marlboro dalla tasca dei pantaloni. Diquel successo lui avrebbe saputo fare buon uso. Da quandotre anni prima aveva scoperto nelle Ande un frutto di nomeParo, una specie di noce che negli Stati Uniti e in Europaconsideravano ormai una bomba vitaminica e un miracolosoanti-aging, aveva trovato soltanto minutaglia: un crescioned’acqua della Cambogia, utilizzabile come condimento per leinsalate; una castagna bluastra della Cina che, cosa incon-sueta, conteneva dosi altissime di calcio. Per gli chef dei ri-storanti di Tokio, Parigi o Los Angeles, sempre avidi diingredienti originali, quelle novità erano state accolte con en-tusiasmo. Nulla, però, che promettesse quattrini a valanghe.

Sekou, che lo precedeva, gridò qualcosa in una lingua cheKeitel non aveva mai sentito. Sollevò lo sguardo e vide tre uo-mini spuntare dal folto dei cespugli e dirigersi verso di loro.Dovevano essere guerrieri Tulai. I corpi nudi erano spalmatidi una melma nera e decorati con linee bianche a V, che aKeitel ricordavano il pied-de-poule delle giacche inglesi ditweed. Solo i genitali erano nascosti da tubi di legno. Cia-scuno teneva in mano un mazzo di piccoli giavellotti.

Dopo una breve conversazione con la guida di Keitel, i treTulai fecero dietro front invitando lo straniero a seguirli.

«Cos’hanno detto, Sekou?» gridò Keitel.«Loro portare noi da capo. Loro dire Ratu Koca contento

di visita».

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«Ovvio che è contento» borbottò Keitel. «Con tutto quelloche portiamo fa l’affare della sua vita». La regione dei Tulai eracosì isolata che raggiungerla era impossibile, non ci arrivavanoneppure gli onnipresenti taxi degli aeroporti della Papua NuovaGuinea. Parte dell’accordo stipulato dall’americano in via pre-ventiva trattando con il capo per tramite di alcuni mediatori,prevedeva un’ampia fornitura di merci: per trasportarle Keitelera stato costretto ad arruolare non meno di otto portatori.Quegli uomini stavano attraversando la giungla con la schienacarica di preziosi oggetti provenienti dal lontano mondo civi-lizzato: pentole, coltelli, ami, ma anche radio portatili che fun-zionavano senza batterie e, in più, una cassa di Cherry-Cola.Per quella cassa Ratu Koca aveva espressamente insistito.

«Gli hai chiesto della chatwa? Ne hanno raccolto un nu-mero sufficiente di esemplari? E anche una pianta con tuttele radici, come d’accordo?» Sekou non rispose, limitandosi adannuire. Nonostante l’afa, Keitel fu assalito dai brividi. Inquella spedizione aveva investito la bellezza di cinquanta osessantamila dollari, e la parte del leone era toccata alle sue ri-serve personali. Se le cose andavano storte, si poteva presu-mere che la sua promettente carriera di foodscout sarebbegiunta al termine.

Dopo un’altra mezz’ora di marcia il gruppo raggiunse unapiccola radura. A sinistra si ergevano tre capanne di legno co-struite su pali. A destra, sulla terra battuta, c’era un bivacco ri-vestito di stuoie di rafia. Vi sedevano circa quindici Tulai chescrutavano i visitatori con un misto di curiosità e reverenza.

«Quello è il capo?» chiese Keitel volgendo lo sguardo indirezione di un uomo anziano con la barba bianca che sedevaal centro. Sulla testa poggiava un alto cappello di paglia fittodi piume variopinte, le braccia muscolose e il torace erano di-pinti di giallo. «Sì, capo è lui» rispose Sekou.

Keitel sorrise, avanzò qualche passo verso Ratu Koca e siinchinò. «Saluto l’onorevole capo e mi rallegro di poter con-

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cludere affari con lui». Mentre Sekou traduceva quei conve-nevoli, Keitel si guardava intorno furtivo. Metà nascosto dallaboscaglia, scoprì ciò che aveva sperato: in una sorta di madiadi legno si trovavano dozzine di frutti lucidi dai riflessi az-zurri. Avevano una forma simile alle melanzane, solo moltopiù grandi, lunghi quanto un avambraccio. Le chatwa. Esat-tamente come le aveva descritte il professor Morris.

La voce di Sekou strappò Keitel ai suoi pensieri. «Capoprega di sedere vicino lui». L’americano prese posto accantoal capo sorridente e con grandi gesti esortò i portatori adaprire gli zaini. Quindi mostrò a Ratu Koca la merce di scam-bio. Dopo averla esaminata, il capo ordinò a uno dei sudditidi porgergli una Cherry-Cola. Ratu Koca aprì la lattina ebevve un sorso. Prima di mandar giù la brodaglia, se la passòda una guancia all’altra. Aveva lo sguardo critico del somme-lier che voglia assicurarsi della qualità di un bordeaux parti-colarmente costoso. Ratu Koca sorrise: l’aroma artificiale diciliegie sembrò convincere il suo palato. Quando il capo ebbefinita la sua degustazione, Keitel ruppe il silenzio. «Sekou,digli che sono un po’ affamato per il lungo viaggio e assag-gerei volentieri una chatwa».

A sentire la parola chatwa, il capo impartì un ordine a unadonna seduta dietro di lui. Poco dopo la donna distendevauna grande foglia davanti a Keitel. Sul vassoio improvvisatosi trovavano quattro chatwa, tagliate a metà nel senso dellalunghezza. Con ogni evidenza i frutti erano stati arrostiti sullafiamma. Keitel ne prese uno e l’addentò.

Dovette fare uno sforzo per non sputare immediatamenteil boccone. La polpa tenera del frutto aveva la consistenza diun avocado troppo maturo e un sapore amaro e oleoso. Kei-tel fece una smorfia, al che Ratu Koca e i suoi sudditi si scam-biarono sguardi eloquenti e iniziarono a ridacchiare.

Il capo si rivolse brevemente a Sekou. Questi tradusse perKeitel: «Mister USA troppo impaziente, dire Ratu Koca. Lui

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dire chatwa non si mangia così». In quel momento un’altradonna portò una scodella che conteneva una pasta fumante egiallastra. Gesticolando, il capo afferrò una metà del frutto.Prese un pezzettino di corteccia che si trovava accanto allaciotola e lo usò per spalmare sulla chatwa un po’’ di quellasostanza giallastra. Quindi offrì a Keitel il frutto così prepa-rato. E Keitel lo prese e l’assaggiò.

Solo quando Sekou lo scosse per le spalle Keitel si accorsedelle lacrime che gli scivolavano sulle guance. Il frutto nellesue mani era per metà scomparso. «Tutto bene, sir?»

«Tutto bene, Sekou». Keitel affondò ancora un morso nellachatwa. «Sto benissimo». L’ultima frase si perse nei sin-ghiozzi.

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