leggi, scrivi e condividi le tue 10 righe dai libri http ... · la croce, gabellando come una mia...

20
leggi, scrivi e condividi le tue 10 righe dai libri http://www.10righedailibri.it

Transcript of leggi, scrivi e condividi le tue 10 righe dai libri http ... · la croce, gabellando come una mia...

Page 1: leggi, scrivi e condividi le tue 10 righe dai libri http ... · la croce, gabellando come una mia «creatura» la «banda della Magliana», per essere la genesi di questa attribuibile

leggi, scrivi e condividi le tue 10 righe dai librihttp://www.10righedailibri.it

Page 2: leggi, scrivi e condividi le tue 10 righe dai libri http ... · la croce, gabellando come una mia «creatura» la «banda della Magliana», per essere la genesi di questa attribuibile

32

Page 3: leggi, scrivi e condividi le tue 10 righe dai libri http ... · la croce, gabellando come una mia «creatura» la «banda della Magliana», per essere la genesi di questa attribuibile

Angela Camuso

MAI CI FU PIETÀLA VERA STORIA DELLA BANDA DELLA MAGLIANA

DAL 1977 FINO AI GIORNI NOSTRI

I edizione: agosto 2012© 2012 Lit Edizioni SrlSede operativa: Via Isonzo, 34 – 00198 Roma

Castelvecchi Rx è un marchio di Lit Edizioni

www.rxcastelvecchieditore.comwww.castelvecchieditore.cominfo@castelvecchieditore.com

quellapiccola
10 righe
Page 4: leggi, scrivi e condividi le tue 10 righe dai libri http ... · la croce, gabellando come una mia «creatura» la «banda della Magliana», per essere la genesi di questa attribuibile

a Miranda

Page 5: leggi, scrivi e condividi le tue 10 righe dai libri http ... · la croce, gabellando come una mia «creatura» la «banda della Magliana», per essere la genesi di questa attribuibile

Alle origini del «mito» della «banda della Magliana»

di OTELLO LUPACCHINI

magistrato

Quando mi è stato chiesto di redigere la prefazione a Mai ci fu pietà di An-gela Camuso, mi è tornato in mente che Varvara Petrovna, nei Démoni diDostoevskij, straccia senza rimedio l’amitié amoureuse che per vent’anni l’halegata a Stepan Trofimovic con un secco: «Voi siete un critico!». Mi son det-to, allora: questo, è l’insulto, perché d’insulto si trattava, a cui rischi d’e-sporti. E non nascondo che sono stato sul punto di declinare l’invito. Già apelle, infatti, provoca un certo qual sospetto di congenita crudeltà sviluppa-tasi in mestiere l’idea che qualcuno, per investitura di cattedra, ingaggio edi-toriale o, ancor peggio, per indole e inclinazione, abbia da ridire sull’operaaltrui. È un po’ come quando si scopre che il celebre tal chirurgo, da bam-bino, seviziava lucertole e rospi. Né è consolante, in proposito, la rivendica-zione, tacita o conclamata, di uno spazio autonomo e creativo per l’arte del-la critica, unta perfino col crisma di sapienziale da un’autorità come HaroldBloom. Innanzi tutto, perché Mr Bloom, si sa, è un critico; in ogni caso, poi,perché a rendere il critico ancor più spregevole e degno d’esser respinto ol-tre i confini del consorzio umano è che, a mo’ di parassita, abbisogni di un«ospite» rubicondo al quale attaccarsi per succhiarne linfe vitali.

Profondamente lacerato da tali pensieri, tuttavia, ho deciso alla fine dicorrere il rischio. E, nella speranza d’incappare in lettori dotati di sanissi-ma indipendenza di giudizio – i quali, sebbene non ricerchino nella pre-fazione l’idea quintessenziale, la matrice del testo, neppure, però, la getti-no via come fosse la cartina di una caramella – mi son ripromesso, per unverso, di evitare di far la figura di chi ti anticipa all’orecchio il film che staiper vedere mentre in sala hanno già spento le luci e il proiettore incomin-cia a ronzare, e si azzittisce soltanto allo scorrere dei titoli di testa; e, perl’altro, di cercare di confezionare un prodotto che possa vivere una suagagliarda vita autonoma, sia dotato di luce propria, che si diffonde e illu-mina, e non funga da satellite pallidamente illuminato al testo.

Si tratta, mi rendo conto, d’un proponimento ambizioso, ma è anche l’im-prescindibile condizione per evitare che la funzione di quest’angoscia di sti-

Page 6: leggi, scrivi e condividi le tue 10 righe dai libri http ... · la croce, gabellando come una mia «creatura» la «banda della Magliana», per essere la genesi di questa attribuibile

MAI CI FU PIETÀ 9

diante il quale attuare il progetto «dalle borgate alle stelle», esso sarebbeanche stato l’elemento dissolutore della stessa holding criminale.

L’Autrice imbastisce il racconto sulla scorta di elementi di fatto rigoro-samente desunti da sentenze, molte delle quali ormai irrevocabili, verbalid’interrogatori, rapporti e informative di polizia. Resta, dunque, fedeleagli atti giudiziari e sfugge così al rischio di trasformare i cattivi in eroi de-gni d’ammirazione, come capita sempre, quando, per rendere più glamouril racconto, si cede, invece, alla tentazione di ricostruzioni fantasiose.

Detto questo e riconosciuti, dunque, i suoi meriti all’Autrice, va anchedetto che Mai ci fu pietà s’inserisce nel filone lato sensu letterario che per-petua, di fatto, il mito della «banda della Magliana». E proprio le originidi questo mito meritano d’essere indagate, attingendo, magari, anche alpozzo dei ricordi personali.

All’inizio, fu la cosiddetta «operazione Colosseo», o per meglio dire il«processo penale n. 1164/87A G.I. (n. 8800/86A P.M.), nei confronti diAbbatino Maurizio + 237». In precedenza, come vedremo, se non proprioil nulla, certamente le tenebre.

Correva l’anno 1993 quando si diede corso alla suddetta «operazione»e non vi fu, all’epoca, giornale o telegiornale che non occupasse buonaparte degli spazi di «nera» con la cronaca dei delitti commessi dai braviragazzi della banda. Se ciò avvenne con tanta assiduità è perché sui pro-cessi penali cosiddetti celebri – e tale si prospettava sarebbe stato quelloin parola – la curiosità del pubblico si getta avidamente. È questa, infatti,al pari e forse più di tante altre, una forma di divertimento: si evade dallapropria vita occupandosi di quella degli altri; e l’occupazione non è maicosì intensa come quando la vita degli altri assume l’aspetto del dramma,verso i cui personaggi, l’atteggiamento del pubblico è il medesimo cheaveva, una volta, la folla verso i gladiatori che combattevano nel circo e haoggi, almeno là dove la si pratica ancora, per la corrida dei tori.

Artefice di quel processo, per avventura, fui io, nel ruolo ormai «pre-carizzato» di giudice istruttore, le cui funzioni il Parlamento «prorogava»,di semestre in semestre, su iniziativa ad libitum del Guardasigilli.

Omnibus et lippis notum et tonsoribus esse1 che, assolto ogni dovere ver-so le funzioni di servizio, specie se gratuite, il prefatore scrive per attirarel’attenzione su se stesso, nessuno degli smaliziati lettori di questo scrittome ne vorrà per la digressione ad meam personam alla quale mi accingo.

Taluno pretende per questo, e purtroppo non da oggi, d’inchiodarmi al-la croce, gabellando come una mia «creatura» la «banda della Magliana»,per essere la genesi di questa attribuibile a mie «ipotesi», premurandosi diaggiungere, «smentite dalle verifiche della magistratura giudicante». E vor-

le si riduca a quella dei bei vasi dello scaffale più alto nelle farmacie, che, perdirla con don Lisander, «sono vuoti, ma servono a dar lustro alla bottega».

È naturale che almeno due parole sull’opera e sul suo oggetto le debbapur spendere.

Dirò allora che Mai ci fu pietà narra fatti e misfatti accaduti a Roma, manon soltanto, negli ultimi trent’anni, riconducibili generalmente alla crimi-nalità organizzata capitolina e non, molti dei quali, ma non tutti, opera del-la cosiddetta «banda della Magliana», sodalizio delinquentesco che, natodurante gli anni Settanta del Novecento, riuscì, a cavaliere del fatidico 1978,a insediarsi saldamente al centro di ogni traffico criminale della Capitale ea imporre la propria supremazia in ogni settore di attività illegali.

Erano, quelli, gli anni in cui si andava realizzando e consolidando la com-mistione di vertice tra gruppi mafiosi, con una base economica sempre piùvasta, e settori della finanza, dell’imprenditoria e dell’amministrazione; iltraffico di droga a fungere da volano e a produrre disponibilità di denaro li-quido. Erano, quelli, gli anni durante i quali, nel Paese, la caccia ai sovversi-vi era momento genetico e fine ultimo di ogni inchiesta giudiziaria, accordopolitico o campagna mediatica. Erano, quelli, gli anni in cui c’era, dunque,tutto il tempo e lo spazio per appropriarsi dell’Italia, mentre gli addetti allasicurezza cavalcavano l’ossessione terroristica. Erano, quelli, finalmente, glianni, in cui alti gradi dell’Esercito e dei Servizi di sicurezza, variamente con-nessi alla Strategia della Tensione, aderivano alla loggia massonica P2.

I promotori del sodalizio, figli della città, delle borgate, novità assolutanei fragili equilibri della malavita della Capitale, avevano un progetto: ri-prendersi Roma.

Nei quartieri dell’Urbe scorrevano fiumi di eroina, da immettere nelcorpo sociale attraverso un ineluttabile travaso di sangue. Erano, quindi,necessari «amministratori» del territorio, capaci di dispensare morte confredda determinazione ed efficienza da contabili, ma anche «manovali»per azioni inconfessabili. Grazie ai talenti e all’ambizione dei sodali – iquali non rifuggivano dal ricercare l’appoggio anche di elementi esterni,che lavorassero per loro – rapida e inesorabile fu la trasformazione dellabanda in un’intrapresa criminale ampia e dagli scopi sociali sommamentearticolati: la gestione del mercato della droga rappresentava per l’organiz-zazione l’opportunità d’intessere «relazioni» paritarie con altri sodalizicriminali di prima grandezza nel panorama nazionale. La disponibilità diuna massa ingente di liquidità d’illecita provenienza le offriva l’occasionedi acquisire il controllo del mercato dell’usura, ma anche di spregiudica-te scorrerie in settori dell’economia legale, che meglio e più di altri si pre-stavano a remunerative operazioni di riciclaggio e reinvestimento dei ca-pitali d’illecita provenienza. E se il rapporto intessuto da taluni fra i ban-diti e i grossi imprenditori del «prestito a strozzo» fu lo strumento me-

8 ANGELA CAMUSO

1. Orazio, Satire., I, 7.

Page 7: leggi, scrivi e condividi le tue 10 righe dai libri http ... · la croce, gabellando come una mia «creatura» la «banda della Magliana», per essere la genesi di questa attribuibile

MAI CI FU PIETÀ 11

tenza; l’insieme di implicazioni logiche che possano assicurare che le ipo-tesi implicano la tesi è la dimostrazione.

L’endiadi «banda della Magliana», dovuta alla penna di qualche brillan-te e fantasioso, ancorché anonimo, cronista di «nera» di fine anni Settan-ta, esprime con suntuosa semplicità l’essenza di un efferato e articolato so-dalizio criminale, che è poi quello descritto nei capi d’imputazione del ci-tato processo penale vs. Abbatino Maurizio + 237. Ma non è da quella en-diadi, vale a dire dal concetto ch’essa magistralmente esprime, ch’ebbi adedurre l’esistenza della banda stessa, che inferii invece dalla conoscenza didati concreti, cioè da fatti ricostruiti, per dirla con Enrico Redenti4, «se-condo metodi intellettuali pregiuridici od extragiuridici, come può avveni-re di qualunque persona normale, di fronte a un quesito o ad un dubbio diordine storico».

Non sono così malvagio da pretendere che il nostro Taluno affatichi legià consunte meningi nello sforzo di discernere tra la deduzione e l’infe-renza, e neppure sono a tal punto sadico da imporgli di confrontarsi con lasussunzione, che è quel procedimento intellettuale al quale è chiamato ilgiudice, allorché, come direbbe Benedetto Croce5, «fa rientrare il fatto chesi ha innanzi, storicamente ricostruito, in una norma di legge». Vorrei soloricordargli, parafrasando il Pro insipiente di Gaunilone, che non è parten-do dal pensiero che la leggendaria «sentenza del 2000» della Suprema Cor-te di Cassazione abbia «demolito» il famigerato «teorema Lupacchini»,che si può dedurre che quella leggendaria sentenza abbia effettivamente«demolito» quel famigerato «teorema», non potendosi dedurre l’esistenzadi un oggetto pensato, per il solo fatto che esso esiste nella nostra mente,o peggio soltanto nei nostri desideri.

Restando, comunque, ancorati ai fatti, colgo l’occasione di questa ango-scia di stile, per ribadire, a scanso di equivoci, che tutte le sentenze, sia dimerito sia di legittimità, pronunciate sulla scorta dei dati fattuali condottia emersione dall’istruzione formale nel citato processo penale vs. Abbati-no Maurizio + 237, in cui s’iscrive la cosiddetta «operazione Colosseo», co-stituenti ormai anch’esse res iudicata, hanno affermato l’esistenza dellaconsorteria di malfattori descritta nell’imputazione, finalizzata alla com-missione di un numero indeterminato di reati, fra i quali il traffico inter-nazionale e la commercializzazione su larga scala di sostanze stupefacenti,gli omicidi, le rapine e le estorsioni contestate; che tutte, meno una di talisentenze, hanno sussunto il fatto storico accertato nella norma di cui all’art.

rebbe accollarmi persino la costituzione della suddetta banda, nella quale,motu proprio et inaudita altera parte, avrei arruolato, addirittura con fun-zioni apicali, anche un illustre Trapassato, già mondato dalla res iudicata,che, insegnavano gli intenditori, facit de albo nigrum, originem creat, aequatquadrata rotundis, naturalia sanguinis vincula et falsum in verum mutat.

Aristotele raccomandava di non «discutere con chiunque» e di non«esercitarsi col primo venuto», perché «quando si discute con certe perso-ne, le argomentazioni diventano necessariamente scadenti». Quelle vele-nose provocazioni dovrebbero, dunque, essere tenute in non cale, sebbeneil fin de non-recevoir possa essere maliziosamente spacciato per ammissio-ne dell’addebito. Poco male, se non mi fosse intollerabile lasciarmi infilarea forza i panni dell’Anselmo da Aosta, rimanendo in silenzio: è per me abo-minevole la goffaggine del nano che indossa il mantello rubato al gigante.

Sarebbe comodo vedere tutto simultaneamente, ma, stando a san Tom-maso2, il piano divino riserva questa visione intellettuale sincronica agli an-geli ed alle anime accolte «in patria», chiamati intellectuales proprio perchécolgono lo scibile intuitivamente; certo, se tutto sarà andato bene, anche noigodremo, speriamo il più tardi possibile, del motus cognitionis angelicae, maal momento siamo soltanto rationales: situati ad un livello inferiore nellascala metafisica, i nostri contenuti mentali sfilano a fatica, ab aliis in alia eun-tes atque redeuntes. Ebbene, anche se mi sarebbe molto piaciuto, per pro-vare l’esistenza del sodalizio criminale denominato «banda della Magliana»,non avrei potuto appagarmi dell’argomento ontologico dell’id quo maius co-gitari nequit3. È proprio di questo che mi accusa il Taluno de quo agitur. Eallora rivendico il diritto di dirla tutta, ma proprio tutta, una volta per tut-te, sul modo come si sia giunti alla formulazione di quel «teorema».

Mi corre, tuttavia, l’obbligo di alcune preliminari precisazioni termino-logiche, magari inutili per gli smaliziati lettori di questa prefazione, ma co-munque necessarie, ai fini di articolare un discorso vertebrato, dal mo-mento che il Taluno de quo agitur asserisce che quello che sprezzante-mente chiama «teorema Lupacchini» sarebbe stato «demolito» dalla Su-prema Corte di Cassazione, con l’ormai leggendaria «sentenza del 2000».

«Teorema» è parola che designa una proposizione che, a partire da con-dizioni iniziali arbitrariamente stabilite, trae delle conclusioni, dandoneuna dimostrazione. Il «teorema» è composto, dunque, da una o più ipo-tesi, una tesi e una dimostrazione della tesi. Nel «teorema giudiziario pe-nale», le ipotesi, vale a dire le condizioni iniziali su cui si vuole ragionare,puramente arbitrarie e che non abbisognano di dimostrazione, sono le fat-tispecie incriminatrici; la verifica della tesi implica la ricostruzione del fat-to al fine di poterne predicare il valore, in conformità alle ipotesi di par-

10 ANGELA CAMUSO

2. Tommaso d’Aquino, Summa Theologiae, 1a.58.3, in corpore.3. Anselmo da Aosta, Proslogion.

4. Enrico Redenti, Profili pratici del diritto processuale civile, Giuffrè, Milano,1938, p. 444.5. Guido Calogero, La logica del giudice e il suo controllo in Cassazione, Cedam,Padova, 1937, in Critica, 1937.

Page 8: leggi, scrivi e condividi le tue 10 righe dai libri http ... · la croce, gabellando come una mia «creatura» la «banda della Magliana», per essere la genesi di questa attribuibile

MAI CI FU PIETÀ 13

siva implicate in vicende malavitose, come dimostravano il rinvio a giudiziodi esponenti della loggia P2, di ufficiali dei Servizi segreti deviati e di estre-misti»; che i guadagni della malavita organizzata, provento del traffico deglistupefacenti, della gestione del totonero e delle macchine del videopoker,dello sfruttamento della prostituzione e delle estorsioni, calcolabili in alcunemigliaia di miliardi (delle vecchie lire), avevano consentito agli esponenti delcrimine organizzato di accumulare delle fortune, tanto da farli assurgere averi e propri operatori economici, in concorrenza talvolta con grossi nomidella finanza; che, insomma, «divenuta “imprenditrice”, la malavita romana,con forti collegamenti internazionali (Cartello di Medellin), cerca[va] orauna collocazione stabile e una supremazia nel tessuto sociale e nei rapporticon gli apparati amministrativi»; che a preoccupare maggiormente del «sal-to di qualità» della criminalità organizzata capitolina, «potuto avvenire gra-zie ai contatti con mafia,’ndrangheta e camorra», era la «presenza grigia»avente radici nel mondo economico e finanziario, potendo «il livello di pe-netrazione nel mondo economico e la dimensione degli affari trattati evin-cersi dai contatti con personaggi quali Licio Gelli, deferentemente chiamato“il grande venerabile”»; nonché dalla trattazione di «appalti di grandi opereedili da realizzare in Paesi stranieri (Argentina, Tanzania, Congo)», sintomoinequivocabile dell’esistenza di «un complesso reticolo di relazioni ad alto li-vello anche internazionale».

Nel citato documento parlamentare, si evidenziava, altresì, come gliomicidi volontari, tra il 1989 e il 1990, fossero raddoppiati, passando da44 a 86, mentre nelle restanti 20 regioni la crescita media era stata del18,44%; come le rapine fossero aumentate del 28% rispetto al 23% del-la media nazionale, le estorsioni del 67% rispetto al 18% della media na-zionale, gli attentati con esplosivo del 9%, i furti del 25% rispetto al 22%della media nazionale, gli scippi del 44% , rispetto al 32,5% della medianazionale, i furti in appartamento del 23% rispetto al 20% della medianazionale. E vi si sottolineava, finalmente, come «i fatti, meglio sarebbedire i cadaveri che insanguinano la capitale, d[essero] ragione a chi so-st[eneva] l’esistenza in Roma di una criminalità organizzata operante se-condo gli stilemi delle organizzazioni mafiose».

Nessun dubbio, del resto, che alla fine degli anni Ottanta, fossero notetanto l’esistenza della banda della Magliana quanto la circostanza che essaaveva intessuto una fittissima rete di collegamenti, complicità, coperture eagganci di vario genere, con gli ambienti più svariati, dalla Massoneria a ta-luni spezzoni dei Servizi di sicurezza, operanti, molto spesso, ai margini del-l’illegalità. Contesto, questo, in cui s’iscrivevano i rapporti operativi con am-bienti eversivi della Destra estrema, che prosperarono anche grazie allecomplicità e agli aiuti, così economici come logistici, della banda: fornituredi armi, rifugi, documenti d’identità contraffatti e altro.

416 bis c.p., qualificando dunque mafiosa l’associazione dedotta in impu-tazione; che, dunque, soltanto la leggendaria «sentenza del 2000» dellaCassazione ha sussunto il fatto storico accertato nelle norme di cui agli artt.416 c.p. e 74 d.lgs. n. 309 del 1990, qualificando non mafiosa, ma pur sem-pre associazione per delinquere finalizzata, fra l’altro, al traffico e alla com-mercializzazione su larga scala degli stupefacenti, nonché alla commissio-ne di omicidi, estorsioni, rapine e birbanterie varie, la consorteria di mal-fattori tristamente nota come «banda della Magliana».

È ben vero, insomma, per dirla con Aulo Gellio, che «Rethori conces-sum est, sententiis uti falsis, audacibus, subdolis, captiosis, si veri similesmodo sint et possint ad movendos animos hominum qualicunque astu irre-pere»6. È anche vero, però, che nulla vieta di qualificare falsario il retore,allorché costui, pur d’avere ragione, alteri fraudolentemente i dati di fat-to, poco importa se pietatis causa.

In ossequio al precetto giusto il quale suum cuique tribuere7, a quel Ta-luno qualche ragione devo pur riconoscerla. È la sacrosanta verità, infat-ti, che fino a quando non riattivai le indagini nel più volte citato processopenale vs. Abbatino Maurizio + 237, il cui punto d’emersione fu l’«ope-razione Colosseo», la banda della Magliana non godeva neppure un po’della considerazione che invece meritava.

Per rendersene conto basterà tornare con la memoria a quei tempi.

Nella prima Relazione della Commissione Parlamentare Antimafia sullostato della criminalità organizzata a Roma e nel Lazio, in corso di approva-zione proprio nei giorni dell’ottobre-novembre 1991, si evidenziava che laCapitale si caratterizzava per «sue specifiche manifestazioni criminali: da unaparte la criminalità nata dal tessuto urbano, maturata cooperando con grup-pi della mafia, della ’ndrangheta e della camorra, mentre dall’altro si [anda-vano] formando raggruppamenti criminali di stranieri»; che, pertanto, in Ro-ma si andava delineando «un milieu di formazioni criminali le quali trovava-no tra di loro collegamenti, sia saltuari che duraturi», con il conseguente «pe-ricolo d’importare forme di criminalità e d’esportarne altre, attraverso loscambio d’esperienze tra italiani e stranieri nelle grandi aree urbane»; che,per altro, «sebbene si registr[asse] un’apparente calma, [erano] all’operapersonaggi che già in passato [avevano] dimostrato conoscenze in ambienticosiddetti insospettabili». Sotto tale profilo, Roma veniva descritta alla stre-gua di «un crocevia tra la criminalità di stampo mafioso, criminalità comu-ne, attività di grandi faccendieri a livello nazionale e frange della Destra ever-

12 ANGELA CAMUSO

6. «Al retore è consentito il ricorso ad argomentazioni false, audaci, maliziose, in-gannevoli, sofistiche, purché abbiano qualche somiglianza col vero, e riescano inqualche modo a commuovere l’uditorio», Aulo Gellio, Noctes Atticae, I, 6, 4.7. «A ciascuno sia dato quanto gli è dovuto».

Page 9: leggi, scrivi e condividi le tue 10 righe dai libri http ... · la croce, gabellando come una mia «creatura» la «banda della Magliana», per essere la genesi di questa attribuibile

MAI CI FU PIETÀ 15

Nonostante l’abnorme crescita della criminalità; nonostante il cruento rie-splodere della faida interna alla banda della Magliana; nonostante il «preoc-cupato allarme» della Commissione parlamentare antimafia, che «richia-ma[va] l’attenzione del Parlamento e del Governo su una situazione certa-mente pericolosa», gli ambienti polizieschi romani, inspiegabilmente, conti-nuavano a ispirare una vulgata tesa alla programmatica sottovalutazione del-la pericolosità della banda della Magliana e, più in generale, delle infiltrazio-ni mafiose nel tessuto sociale e nei rapporti con gli apparati amministratividella Capitale. Ancora nell’ottobre del 1991, il Prefetto di Roma CarmeloCaruso, discutendo in Campidoglio i problemi legati alla criminalità orga-nizzata con il sindaco, i capigruppo consiliari, il questore e i comandanti deicarabinieri e della guardia di finanza, dichiara che «se la mafia è intesa comeuna foresta che soffoca le città, a Roma ci sono soltanto alcuni alberi».

Quanto ricordava Macbeth, il prefetto Caruso, col suo sprezzante ri-fiuto di farsi intimidire dalle notizie riferitegli: Till Birnam wood removeto Dusinane / I cannot Taint with fear. Un orgoglioso gesto di sfida, il suo,o non, piuttosto, il discorso di un uomo «roso dal terrore»?

Occorre pur dire, comunque, che con due memorabili interventi, il Tri-bunale della libertà di Roma, il 28 marzo e il primo aprile 1987, aveva re-vocato gli ordini di cattura, emessi il 12 febbraio precedente, da un pooldi pubblici ministeri, sulla scorta di devastanti chiamate in correità diClaudio Sicilia, nei confronti di numerosissime persone, accusate di ap-partenere, a vario titolo, alla banda.

Le indagini sulla banda, da quel momento, languirono per anni, men-tre il sangue continuava a scorrere per le strade romane. Nel frattempo,infatti, era riesplosa la faida interna all’organizzazione, che, nel corso de-gli anni Ottanta, per dirla col poeta, «spinse anzi tempo al morto regno»le anime, «E a’ cani e augei le salme [...] abbandonò» di numerosissimiesponenti della criminalità organizzata capitolina.

Le vicissitudini giudiziarie che tra il 1981 e il 1987 avevano investitoquell’universo, con strascichi variamente durevoli, avevano costretto glielementi di maggior spicco a più o meno lunghi periodi di detenzione, nelcorso dei quali – vuoi per le esigenze di sostegno ai detenuti e alle loro fa-miglie, vuoi per le oggettive difficoltà di gestione delle lucrose attività cri-minali, appannaggio della consorteria – le rivalità che già serpeggiavanofra i sodali non soltanto avevano provocato inevitabili frammentazioni delsodalizio, ma avevano anche reso concreta la possibilità, per elementi disecondo piano, di affrancarsi con autonome iniziative, sottratte al con-trollo degli esponenti di primo piano in vinculis: in conseguenza di tali ac-cadimenti, proprio nello stesso momento in cui alcuni di costoro eranotornati in libertà, si erano anche spezzati i delicati equilibri in atto e, in ra-pida successione, erano rimasti sul terreno, fra il 1989 e il 1990, EdoardoToscano, Giovanni Girlando ed Enrico De Pedis.

Proprio Paolo Aleandri, già appartenente alla formazione d’estremaDestra «Ordine Nuovo» e uomo di fiducia dei professori Aldo Semerarie Fabio De Felice, nonché tramite fra costoro e il Venerabile Maestro del-la loggia massonica P2 , Licio Gelli, imboccata, dopo la strage del 2 ago-sto 1980 alla Stazione ferroviaria di Bologna, la strada della collaborazio-ne processuale, aveva del resto rivendicato immediatamente la piena con-sapevolezza sia della pericolosità del famigerato sodalizio delinquentescocapitolino, sperimentata addirittura sulla sua pelle, sia della rete di conni-venze di cui esso godeva, della quale era sintomatica la sostanziale impu-nità dei suoi adepti.

«Quanto alla pericolosità dell’organizzazione», questo è quanto dichia-rato al riguardo dall’ex terrorista, «posso dire, per aver vissuto da prota-gonista quegli anni, che la banda della Magliana determinò un cambio dimentalità nell’ambiente malavitoso romano facendo passare il principioche si poteva imporre il proprio potere applicando regole semplici e fero-ci al fine di intimidire qualunque interlocutore che poteva, addirittura, es-sere fisicamente soppresso senza grossi rischi. In tal modo il sodalizio hacambiato le precedenti regole del gioco diventando esso stesso l’ente chele poneva, a differenza di quanto accadeva prima e cioè che tutto dovesseessere contrattato».

Una lucida quanto spietata analisi, quella dell’Aleandri, che trovavapuntuale riscontro, innanzi tutto, nell’impiego feroce e determinato, daparte della banda, di ogni tipo di violenza ed intimidazione, per quantoefferata potesse essere. Basti ricordare, in proposito, sia pure in via di ra-pidissima sintesi, il sequestro, avvenuto il 7 novembre 1977, e la successi-va uccisione del marchese Massimiliano Grazioli Lante della Rovere; l’o-micidio di Franco Nicolini, detto Franchino er Criminale, commesso il 2luglio del 1978, e quello di Sergio Carrozzi, eseguito il 28 agosto dellostesso anno; il tentato omicidio di Giovanni Piarulli, il 16 agosto 1979; l’o-micidio di Amleto Fabiani, perpetrato il 15 aprile 1980; il tentato dupliceomicidio in danno di Pierluigi Parente e Maria Nicoletta Marchesi, il 19settembre 1980; il tentato omicidio di Enrico Proietti il 27 ottobre 1980 equello di Mario Proietti il 12 dicembre dello stesso anno; gli omicidi diOrazio Benedetti, commesso il 23 gennaio 1981, di Nicolino Selis e di An-tonio Leccese, nella serata del 3 febbraio 1981; l’omicidio di MaurizioProietti e il tentato omicidio di Mario Proietti, il 16 marzo 1981; l’omici-dio di Giuseppe Magliolo, perpetrato il 24 novembre 1981; gli omicidi diMassimo Barbieri, eseguito il 18 gennaio 1982, di Claudio Vannicola, il 23febbraio successivo, di Fernando Proietti realizzato il 30 giugno 1982 e diMichele D’Alto, commesso il 30 giugno dello stesso anno; l’omicidio diRaffaello Daniele Caruso, attuato il 22 gennaio 1983, e quelli di AngeloDe Angelis e di Mario Loria, consumati, rispettivamente il 10 febbraio eil 18 settembre dello stesso anno.

14 ANGELA CAMUSO

Page 10: leggi, scrivi e condividi le tue 10 righe dai libri http ... · la croce, gabellando come una mia «creatura» la «banda della Magliana», per essere la genesi di questa attribuibile

MAI CI FU PIETÀ 17

Dottor C: «Ho capito, comunque... ».Avvocato D: «Dovrebbe essere una vecchia cosa ancora».Dottor C: «... comunque, se mi chiama, io... ».Avvocato D: «Embè! Lo vedremo di quello che si tratta... ».Dottor C: «Sì, credo che si tratti della banda della Magliana, è una trancia[sic!] del processo sulla banda della Magliana».Avvocato D: «E di che anno era il caso?». Dottor C: «Di quattordici o quindici anni fa».Avvocato D: «Ecco, allora può essere, perché ecco, appunto, questo [doveil «questo» ero ancora una volta io] è un tipo così, un po’ emarginato lì nel-l’ambiente, e gli hanno lasciato questi disastrati e vecchi processi imputridi-ti dagli anni... ».

Sebbene il titolare del «disastrato e vecchio processo imputridito dagli an-ni» fosse «un tipo abbastanza strano» e «un po’ emarginato», Claudio Si-cilia, collaboratore già liquidato, per i suoi precedenti, per la sua posizio-ne giudiziaria, per la sua personalità e per i suoi presumibili moventi, qua-le «fonte inattendibile», tornò, tuttavia, prepotentemente alla ribalta e ciòaccadde, purtroppo per lui, contro la sua volontà.

Paolo Aleandri, esaminato nel pomeriggio del 18 novembre 1991, avevachiuso il suo interrogatorio sottolineando come la «banda della Kawasaki»– nome con cui, in epoche più remote, veniva designata la «banda della Ma-gliana» – avesse «memoria d’elefante»: deliberata una sentenza di morte, laeseguiva, in ogni caso, magari anche dopo dieci anni. Con questa lugubrepremonizione, l’ex terrorista neofascista divenuto collaboratore di giustizia,aveva enunciato una fondamentale regola d’esperienza, che, a quanto pare,esulava dal repertorio di quel variopinto e patetico sciame di «grandi inve-stigatori» soi disants che, a Roma, si piccavano ormai di conoscere tutto del-la e sulla famigerata banda. Marcello Colafigli, infatti, in occasione dell’ar-resto che ne aveva interrotto la latitanza, aveva manifestato il proprio in-tento di eliminare fisicamente Claudio Sicilia per le sue fluviali rivelazioni elo aveva fatto – colmo dell’impudenza! – rispondendo a un interrogatoriodel pubblico ministero. E, tenuti nel debito conto sia il ruolo processualesvolto dal collaboratore – le cui molteplici chiamate in correità avevanoconsentito l’acquisizione d’importanti conoscenze sull’universo sommersodella criminalità organizzata della Capitale – sia il ruolo che, in contingen-ze meno avverse, egli avrebbe potuto tornare a giocare, v’era più d’una buo-na ragione per escludere che il feroce Colafigli si fosse lasciato andare ad uninnocente pour parler davanti al magistrato. Quantunque fosse esplicito,nella sua minaccia, un più che plausibile movente per un omicidio annun-ciato, Claudio Sicilia era stato, tuttavia, lasciato solo. E, proprio la sera del18 novembre 1991, due killer, a bordo di una motocicletta, lo freddaronocon alcuni colpi di pistola, all’interno di un negozio di calzature.

Difficile dire se si fosse trattato di un eclatante caso di frustrazione pa-ralizzante le capacità intellettive degli organismi statuali preposti alla pre-venzione ed alla repressione del crimine ovvero di un macroscopico casodi disattenzione selettiva, ma, certamente, a fronte di quel nuovo divam-pare della violenza fu disarmante l’inadeguatezza dell’opus investigante. Epure, non sarebbe stato difficile cogliere come non potesse essere statosoltanto per un accidente che la sanguinosa faida si fosse riaccesa e svi-luppata proprio tra il settembre del 1989 e il marzo del 1990, per poi ces-sare, quasi miracolosamente, nel luglio 1990: nel luglio del 1989, era eva-so dall’Ospedale psichiatrico giudiziario di Reggio Emilia, per essere nuo-vamente arrestato proprio nel luglio del 1990, Marcello Colafigli, da sem-pre considerato, al pari dell’allora latitante Maurizio Abbatino e di Enri-co De Pedis, uno dei punti di riferimento indiscussi della criminalità or-ganizzata romana e sicuramente, fra quelli, il più feroce e sanguinario.

Era questa la situazione, quando, nel febbraio del 1990, mi ritrovai inmano i settanta volumi del processo istruito sulle dichiarazioni di ClaudioSicilia. Vi restai immerso quasi due anni. Fatica ingrata: i precedenti pe-savano maledettamente. Tutto ormai sembrava deciso e altro non ci siaspettava da me se non che ponessi la pietra tombale su una materia chegli intenditori consideravano ormai morta.

Una bizzarria, del resto, era considerata la stessa esigenza che avvertivodi ricostruire puntualmente i fatti e di comprendere lo straordinario fe-nomeno criminal-politico-affaristico, del quale la banda della Magliana,ma specialmente la rete di protezioni efficienti e interessate di cui essa go-deva, costituivano le più evidenti manifestazioni.

Prova ne siano le «voci correnti nel pubblico» sul mio conto e su quelprocesso. Le documenta una conversazione, intercettata, proprio mentre sistava tanto faticosamente quanto inesorabilmente riavviando la macchinaprocessuale. Al telefono, due eminenti frammassoni: il primo, lo chiame-remo «dottor C», doveva rendere testimonianza, pertanto, si era rivolto alsecondo, che chiameremo «avvocato D», e lo aveva pregato di assumereinformazioni sul conto di chi intendeva interrogarlo, dunque sul mio:

Avvocato D: «Dunque, quello [dove il «quello», per l’appunto, ero io]è un tipo un po’ strano, mi riferiscono che non è della Procura della Re-pubblica bensì è ormai destinato al Tribunale giudicante, però, siccomec’è ancora qualche vecchio processo superstite che ancora segue il vecchiorito, quindi con l’ormai soppresso giudice istruttore, dice che probabil-mente lui [dove il «lui» ero sempre io] ha qualche vecchissimo processodel quale è giudice istruttore».

Dottor C: «Ho capito».Avvocato D: «Ed è un tipo abbastanza strano».

16 ANGELA CAMUSO

Page 11: leggi, scrivi e condividi le tue 10 righe dai libri http ... · la croce, gabellando come una mia «creatura» la «banda della Magliana», per essere la genesi di questa attribuibile

MAI CI FU PIETÀ 19

Maurizio Abbatino, colpito da più provvedimenti restrittivi, dopo unlungo periodo di latitanza, che si protraeva dal dicembre 1986, venne ar-restato, a Caracas, il 24 gennaio 1992. Gli antichi sodali si attivarono im-mediatamente, senza, tuttavia, approdare a risultati utili, per propiziarnela liberazione e scongiurarne l’estradizione dal Venezuela verso l’Italia: es-si avevano ben fondate ragioni di temere che l’Abbatino, considerato dasempre personaggio di primo piano dell’organizzazione delinquentesca,potesse indursi a clamorose quanto pericolose rivelazioni, specie dopo labarbara uccisione del fratello Roberto, prima torturato e, quindi, finito acoltellate sul greto del Tevere, alcuni giorni dopo l’agguato nel quale eracaduto Enrico De Pedis.

Non si sbagliavano.Giunto in Italia, a seguito della sua espulsione dal Venezuela, Maurizio

Abbatino, il quale, già poco dopo il suo arresto, aveva manifestato l’inten-zione di voler collaborare agli stessi ufficiali della nostra polizia giudiziariache l’avevano rintracciato all’estero, fornì preziose informazioni sulla ban-da, rivendicando al suo interno un ruolo di vertice; ne tracciò le linee di svi-luppo, sia sotto il profilo dei partecipi sia sotto il profilo della sua struttu-razione per progressive aggregazioni e stratificazioni di gruppi delinquen-ziali, in precedenza non omogenei, sia, finalmente, sotto il profilo stretta-mente operativo, sul terreno del traffico, del controllo e della commercia-lizzazione, a Roma, dell’eroina e della cocaina, tra la fine degli anni Settan-ta e i primi anni Ottanta. La sua collaborazione apparve subito particolar-mente interessante per i cospicui elementi di novità su un impressionantenumero di omicidi, che, proprio a partire dall’ultimo scorcio degli anni Set-tanta e sino all’inizio degli anni Novanta, avevano insanguinato la Capitale;su efferati sequestri di persona; su cruente lotte per il «controllo» del mer-cato della droga, della gestione del gioco d’azzardo e dell’esercizio dell’u-sura; sulla fagocitazione ed il controllo di attività economiche.

Quelle rivelazioni, d’altra parte, risultarono di assoluta importanza sottoun ulteriore punto di vista: mentre a Claudio Sicilia, il quale proveniva daNapoli e, dunque, non era pienamente consapevole delle dinamiche cheavevano attraversato la criminalità romana degli anni Settanta, sfuggivanospesso la reale portata ed il significato dei fatti che riferiva, Maurizio Abba-tino, cresciuto nell’ambiente della malavita capitolina di quegli anni, eraperfettamente in grado di apprezzare l’unitarietà, pur nella diversità deigruppi, fondamentale caratteristica della banda della Magliana, e, dunque,di trarne le conseguenze, in termini di adeguata spiegazione del fenomeno.

Inutile dire che con le rivelazioni di Maurizio Abbatino la banda dellaMagliana entrava nella mitologia.

Sulla strada della costruzione del mito, è poi arrivato Romanzo Crimi-nale di Giancarlo De Cataldo, libro nel quale, per l’appunto in forma ro-

Il 20 novembre 1991, «Il Messaggero», sotto il titolo Troppi piccoli reatiimpuniti, pubblicava un’intervista al dottor Fernando Masone, all’epocaQuestore di Roma, nella quale si leggeva: «Il problema vero di questa cittàè quello della piccola criminalità. Qui non abbiamo frequenti esplosioni digrossa criminalità. Quel che più s’avverte invece è la quotidianità della pic-cola criminalità. Sono questi piccoli reati quelli che incidono fortementesui cittadini. La gente quando viene colpita nel suo, nella sua casa, nella suaauto, non pensa e non può pensare che questo sia un piccolo reato. Chi vie-ne derubato, chi viene malmenato, chi subisce un danno, uno scippo, unfurto in appartamento, riceve un’offesa. Gravissima. Ecco, su queste cosedobbiamo avere una vera attenzione. Insomma, noi dobbiamo lottare ecombattere per ridurre questo problema che a mio avviso è il vero proble-ma di Roma. Del centro, ma soprattutto dei quartieri di periferia, dei quar-tieri dormitorio, di Tor Bella Monaca, di Corviale, di Centocelle e di tantialtri ancora. Ecco, se stasera sapessi che siamo riusciti a ridurre il numerodegli scippi anche di una sola unità, sarei davvero felice».

Incalzato dall’intervistatore («Dunque, il problema è questo. E la dro-ga?»), il Questore insisteva: «La droga c’è ed è tanta. E droga significa perlo più microcriminalità. Il piccolo spaccio, il consumo quotidiano trova-no alimento proprio nel piccolo reato non in quello grande».

Non potendosi sottrarre a una domanda sulla possibilità che vi fosserolegami tra la banda della Magliana, la mafia e la camorra, l’intervistato af-fermava: «Io personalmente non ho fatto indagini su questo, ma mi sentodi dire che è sicuro». Salvo naturalmente affermare, subito dopo: «A Ro-ma, comunque, non ci sono quelle manifestazioni tipiche di altre zone d’I-talia come il racket, l’estorsione capillare a negozianti e industriali, il con-trollo su tutte le attività economiche con percentuali e parcellizzazione delterritorio. Tutto questo qui da noi non c’è». E, quindi, ulteriormente pre-cisare: a Roma «ci può essere quello che noi abbiamo già detto ripetuta-mente: l’investimento di danaro sporco in attività lecite. E siccome questoè stato provato in vari casi già sottoposti all’autorità giudiziaria, che ha de-ciso il sequestro dei beni anche recentemente, non vedo perché questi fe-nomeni di criminalità organizzata non debbano esserci ancora. E noi la-voriamo per bloccarli. Anche se tutto va ricondotto entro certi limiti. Ro-ma non è un territorio di conquista per questa gente. Io ipotizzo tutto altop per essere pronto all’occorrenza, ma non dobbiamo esagerare».

Tutte queste dichiarazioni del Questore Masone intervenivano all’in-domani dell’omicidio di Claudio Sicilia, a bloccare il quale, la macchinadella prevenzione, ipotizzata al top, ma senza esagerare, purtroppo nonera stata pronta.

Gli autori dell’omicidio di Claudio Sicilia sono ancora ignoti, ma lasciagurata scelta di collaborazione della vittima, in ogni caso e contro ogniragionevole previsione, non restò isolata.

18 ANGELA CAMUSO

Page 12: leggi, scrivi e condividi le tue 10 righe dai libri http ... · la croce, gabellando come una mia «creatura» la «banda della Magliana», per essere la genesi di questa attribuibile

MAI CI FU PIETÀ 21

MAI CI FU PIETÀ

manzata, cioè mediante un artificio narrativo che permette di non atte-nersi rigorosamente alla verità storica, si racconta l’epopea della «bandadella Magliana», i legami di questa con l’eversione, i Servizi segreti devia-ti, la massoneria, la politica, le alte sfere del clero.

Da un così bel libro, che attinge, con grande intelligenza e gusto raffi-nato, agli atti del processo, è stato tratto, però, l’omonimo film di Miche-le Placido, sorta di specchio deformante che divora l’immagine riflessa,quella cioè della feroce associazione di malfattori brutti, sporchi e cattivi,per restituirne, grazie anche alla bravura e ai pregi estetici degli attori,quella di una patetica banda di «piacioni»: non eroi negativi, ma soltantogood fellas, belli, sfortunati, magari, e maledetti. Come se non bastasse, èspuntata finalmente anche la «serie», propagandata con discutibili trova-te pubblicitarie, tributaria di un incredibile successo di pubblico: su in-ternet, in particolare su Facebook, proliferano «gruppi» inneggianti aquesto o a quel personaggio oppure sondaggi che si domandano se è piùfico er freddo o er dandi.

Oggi, dovrebbe essere ormai noto lippis et tonsoribus che la liquidazio-ne giudiziaria e la conseguente estinzione del sodalizio delinquentesco lacui storia è narrata in Mai ci fu pietà è avvenuta nel periodo a cavaliere del1993; e che da allora non si dovrebbe, dunque, più parlare di «banda del-la Magliana» come se fosse un fenomeno associativo criminale in qualchemodo ancora attuale, sia pur con riguardo alle gesta dei suoi epigoni, i so-pravvissuti, cioè, alle mattanze o all’inesorabile scorrere del tempo, tal-volta ancora in stato di detenzione o tornati in libertà dopo carcerazionipiù o meno lunghe.

Eppure, le odierne cronache giornalistiche, considerato il forte appealche quell’associazione di malfattori, grazie soprattutto ai film e alle fiction,continua a esercitare sull’immaginario collettivo, concorrono a farla con-tinuamente rivivere, sia pure in modo assolutamente virtuale, quasi per ef-fetto del sortilegio d’una fata Morgana mediatica, ogni volta che qualcheevento criminale funesta Roma e il suo hinterland, sol che si sospetti vipossano essere implicati soggetti che ne abbiano fatto parte, in tempi co-munque ormai remoti, ovvero loro eredi o aventi causa.

20 ANGELA CAMUSO

Page 13: leggi, scrivi e condividi le tue 10 righe dai libri http ... · la croce, gabellando come una mia «creatura» la «banda della Magliana», per essere la genesi di questa attribuibile

MAI CI FU PIETÀ 23

Banditi

Con il sangue raffermo incrostato sulla fronte, il sequestrato giaceva inquello scantinato ormai da quattro giorni. Appena arrivato, gli avevanoordinato di spogliarsi, lasciandogli solo calzini e mutande. Era primavera,ma nel nascondiglio faceva freddo. Una flebile luce filtrava da una grata eun sacco a pelo sopra una brandina da campeggio non poteva essere ab-bastanza. C’era però il cuscino di stoffa, rossa, morbidissimo, con l’im-bottitura di lana grezza. E l’ottimo cibo, perché era lo stesso destinato aicarcerieri, dei veri buongustai. Molto spesso, all’ostaggio venivano servitidentro contenitori di plastica filetti al sangue e una volta anche rigatonicon la pajata: era uno dei piatti preferiti dal capo, il più cattivo, che si di-vertiva a mimare con la mano la pistola e a puntarla in mezzo agli occhidel prigioniero. La mossa aveva ricordato al rapito, con un brivido di or-rore, quella di quando si uccidono le bestie dentro il mattatoio. «Caropapà, carissimi tutti, sono nelle mani di un’organizzazione forte e decisa atutto. Se volete salvarmi fate quanto vi sarà richiesto. Per ogni trattativadetta organizzazione si farà riconoscere con questa sigla AZ 71 di cui so-lo voi siete a conoscenza. Spero che farete tutto senza perdere tempo. Tut-to si può rifare fuorché una vita. Silenzio con tutti e non commettete er-rori, potrebbero essere fatali», scrisse finalmente ai suoi familiari il mal-capitato, dopo quei primi giorni di inferno1. L’uomo finito nelle mani diquei balordi era l’orefice romano Roberto Giansanti, 29 anni, con nego-zio in via Livorno. Fu rapito la sera del 16 maggio del 1977 da un gruppoall’epoca piuttosto inesperto di sequestri di persona, ma voglioso di inse-rirsi nel business criminale più redditizio di quei tempi. Era l’ora di cena,Giansanti aveva appena posteggiato la sua auto nel garage condominialedi via Franco Sacchetti, alla Bufalotta, dove abitava. Prima che i banditigli saltassero addosso, ebbe il tempo di vedere con la coda dell’occhio treuomini calarsi in testa i passamontagna, con lo sguardo implorò un altroinquilino presente casualmente nel garage, ma questi rimase ad assistere

Le vicende narrate sono realmente accadute: si tratta di fatti accertati dai giudicicosì come scritto su sentenze irrevocabili. Questo libro è il frutto dello studio didocumenti giudiziari e di colloqui avuti dall’autrice con magistrati, investigatori eavvocati.

22 ANGELA CAMUSO

Page 14: leggi, scrivi e condividi le tue 10 righe dai libri http ... · la croce, gabellando come una mia «creatura» la «banda della Magliana», per essere la genesi di questa attribuibile

MAI CI FU PIETÀ 25

l’unica palese dimostrazione di agiatezza era proprio quella grossa villa incostruzione. Franco Giuseppucci l’aveva adocchiata e si era fatto i suoiconti: si convinse di poter organizzare un sequestro-lampo, in cambio diun riscatto colossale.

In realtà, i rapitori intascarono 350 milioni, ovvero una somma di granlunga inferiore alla richiesta iniziale di 5 miliardi. Per di più, dovettero di-videre i guadagni in molte parti: mentre era prigioniero, il gioielliere eb-be modo di distinguere almeno sei distinti carcerieri e nell’appartamentoadiacente alla sua prigione avvertì la presenza anche di una o di due don-ne, addette alla cucina dei pasti. L’allungarsi inaspettato delle trattative ela salute cagionevole del sequestrato crearono tra i banditi una certa ten-sione. Dopo pochi giorni il gioielliere si ammalò di congiuntivite acuta. Funecessario l’intervento di un medico amico della banda. «Sei il peggio af-fare che ci poteva capitare. Invece di un cristiano ci hanno portato un ca-davere e per di più malato di cuore», disse a Giansanti uno di loro4. Allafine, dopo altre tre lettere scritte alla famiglia e una serie di telefonate ter-rorizzanti, si arrivò a un accordo per la liberazione. Il cinquantaduesimogiorno di prigionia al gioielliere furono date da mangiare mele cotte; quin-di fu rivestito, narcotizzato e caricato su un’auto fino al luogo dello scam-bio, una strada isolata sotto un ponte sulla Prenestina. La moglie dell’o-refice, Marina, si ritrovò a giocare a una caccia al tesoro. Arrivò all’ap-puntamento seguendo man mano le indicazioni contenute in quattro bi-glietti lasciati in altrettanti cestini per i rifiuti, disposti in luoghi diversidella città.

Fu, questo dei messaggi, uno stratagemma utilizzato dallo stesso grup-po anche per un altro rapimento. Il fatto accadde sempre a Roma di lì aquattro mesi esatti ed ebbe un epilogo ben peggiore. Il riscatto pagato fudi due miliardi e l’ostaggio, il duca Massimiliano Grazioli Lante della Ro-vere, non fece mai ritorno a casa.

Il tragico sequestro del duca Grazioli rappresentò un salto di qualità.Fu questo il vero trampolino di lancio di quella che sarebbe poi diventa-ta la famigerata «banda della Magliana». Si stava formando in quel perio-do il suo gruppo originario, derivato dall’unione di alcuni criminali nati-vi dell’omonimo quartiere a Sud di Roma, la Magliana appunto, che a par-tire dal 1975, su input del Nuovo Piano Regolatore, era diventata «predadel degrado e della speculazione edilizia»5. Alla Magliana le ruspe aveva-no distrutto il paesaggio, colline verdi furono ricoperte in tempi record dabrutti alveari mal soleggiati, lasciando al contempo i nuovi residenti prividei servizi pubblici essenziali.

Il capo di questo primo nucleo della gang, Maurizio Abbatino, era na-to a Roma nel 1954 e dunque all’epoca del rapimento aveva 23 anni. Lochiamavano Crispino, per la capigliatura folta e riccia. Molti anni dopo, fu

alla scena ammutolito e immobile. Un attimo dopo, i banditi si diedero dafare con una spranga e i calci delle loro pistole.

«Ma chi è?», chiese un rapitore a un complice. «Ma chi sei?», ripeté un altro al gioielliere. «Sono Giancarlo Rossi»,

provò a mentire Roberto Giansanti, già mezzo tramortito dalle botte in te-sta. I rapitori gli frugarono nelle tasche e trovarono la patente. «È lui, è ilpadre», si rassicurarono. Originariamente, infatti, i banditi progettavanodi prendere in ostaggio uno dei figli piccoli del gioielliere, ma poi qualco-sa li costrinse a cambiare idea. «Dovevamo rapire il bambino, ma per lalegge reale che tutela i minorenni abbiamo scelto te», vollero riferire conscherno all’orefice, che aveva origini nobili, per terrorizzarlo. Lo carica-rono quindi in una macchina, facendolo sdraiare sul sedile posteriore del-l’auto con la testa appoggiata alle ginocchia di un bandito, che non smisedi colpirlo e di insultarlo per tutta la durata del viaggio.

«Fijie ‘e bocchina», gli urlava2. Dopo una corsa di un’ora sul GrandeRaccordo Anulare, Roberto Giansanti si ritrovò segregato in quella speciedi cantina. In effetti, ebbe l’impressione che quelli fossero del tutto im-preparati a occuparsi di un adulto: per legargli le caviglie, non trovaronodi meglio che la cintura dei suoi stessi pantaloni e malamente lo copriro-no con una tovaglia. Quando ne sentì il bisogno, durante la sua prima not-te da prigioniero, il gioielliere non poté fare a meno di orinare contro ilmuro, in un angolo.

«Le informazioni necessarie per sequestrare il gioielliere le diede Fran-co Giuseppucci», raccontò il pentito Claudio Sicilia nel 19863.

Franco Giuseppucci era un criminale di trent’anni, appartenente allavecchia guardia. Faceva il fornaio e per questo era soprannominato For-naretto, anche se poi gli affibbiarono il nomignolo di er Negro per via delcolorito scuro. Temuto e stimato, aveva ottimi canali per la ricettazione edera molto conosciuto nell’ambiente delle corse dei cavalli: agli scommet-titori clandestini prestava a strozzo i soldi accumulati con le rapine, riu-scendo così a riciclare il denaro e nello stesso tempo a ottenere ampi gua-dagni. Il gioielliere Giansanti, quando fu liberato, riferì ai carabinieri diaver notato proprio er Negro, qualche giorno prima del rapimento, da-vanti al suo negozio di gioielli in via Livorno. Se l’era ricordato perché ilbandito aveva un occhio di vetro, a causa dei postumi di un incidente. ErNegro, peraltro, era la stessa persona che Giansanti aveva visto, più di unavolta a partire da un mese prima del sequestro, nei pressi di un maneggiovicino al cantiere dov’era in costruzione la sua villa di famiglia, sull’Aure-lia: Giuseppucci arrivava in quel maneggio sempre a bordo di una Fiat124 spider, di colore giallo, parcheggiava la macchina con il retro controun albero, così da nascondere la targa e si piazzava in piedi per alcuni mi-nuti davanti al cofano, per coprire anche il numero di targa anteriore.

I Giansanti, d’altra parte, non erano tipi da sfoggiare lussi e ricchezze e

24 ANGELA CAMUSO

Page 15: leggi, scrivi e condividi le tue 10 righe dai libri http ... · la croce, gabellando come una mia «creatura» la «banda della Magliana», per essere la genesi di questa attribuibile

MAI CI FU PIETÀ 27

lare l’Olimpo criminale non diedero invero gli effetti sperati. Ad esempio,finì in sparatoria, con l’arresto in flagranza di uno dei banditi, il progetta-to rapimento di un costruttore perugino, Vincenzo Ciriello: imprevedibi-le fu la reazione dell’ostaggio, che era armato. Addirittura, ci fu anche iltentativo di recuperare il riscatto frutto del sequestro di un imprenditoreemiliano, liberato in cambio dell’impegno a pagare a posteriori i rapitori.L’uomo, a suggello del patto, aveva dato ai carcerieri metà di un santino,che quelli avrebbero dovuto utilizzare per farsi riconoscere. Una volta alsicuro, però, l’imprenditore pensò bene di far andare al posto suo, per laconsegna del denaro, un poliziotto in borghese, del quale comunque aimalviventi non sfuggì la presenza.

C’è quasi sempre una talpa dietro ogni rapimento. Nel caso del ducaMassimiliano Grazioli, assassinato dopo il pagamento del riscatto, a tra-dirlo fu un amico di suo figlio. Giulio Grazioli, 35 anni, aveva la passioneper la caccia e per i fuoristrada e fu così che due anni prima aveva cono-sciuto il suo Giuda, Enrico Mariotti, un coetaneo, tipo stravagante cheamava vestire con abiti militari e frequentava i giovani fascisti dei Parioli.Mariotti gestiva al centro di Ostia una sala corse ed era un grande esper-to di motori e collezionista di armi. In passato, era stato arrestato per averinvestito una persona su un’auto rubata, ma questo Giulio Grazioli non losapeva. Al figlio del duca, invece, era noto che a fare il buttafuori per Ma-riotti era un certo Franco Giuseppucci detto er Negro, di cui l’amico gliparlava, peraltro, in maniera colorita. La circostanza, tuttavia, non avevamai impensierito più di tanto il rampollo dei Grazioli, nonostante i suoiillustri natali: diventati duchi nel 1851, gli avi del giovane furono i mugnaidi papa Gregorio XVI mentre la famiglia di sua madre, Isabella Perrone,era stata proprietaria del quotidiano «Il Messaggero». D’altra parte, Ma-riotti dimostrava di avere conoscenze in ogni ambiente. Tra i frequentato-ri di una sua villa nel Reatino, punto di partenza per gite in motocross, c’e-ra anche il figlio di un questore.

Giulio veniva invitato spesso in quella casa di campagna da Enrico Ma-riotti e anche nella sua residenza di Ostia, dove il gestore della sala corseviveva con la moglie e due bambine. Allo stesso modo, la talpa conoscevabene la famiglia del suo nobile amico. In particolare, era informato del fat-to che i Grazioli avevano ottenuto di recente un cospicuo indennizzo: erastato per l’esproprio di alcuni terreni nei pressi della via Salaria, dove erastata costruita l’autostrada. Più di una volta, Mariotti aveva anche incon-trato l’anziano duca, sia nel suo palazzo di via del Plebiscito, dietro piaz-za Venezia, sia nella tenuta della Marcigliana, all’altezza di Settebagni. Sitrattava di 534 ettari di terreno coltivati a grano e pascolo alla cui curaMassimiliano Grazioli aveva dedicato negli ultimi anni tutto se stesso.Ogni giorno il nobiluomo, che aveva 66 anni, usciva da casa a orario fissoe si recava alla sua azienda agricola. Quindi ritornava a via del Plebiscito

proprio lui a fare ai giudici i nomi dei suoi compagni di imprese dell’epo-ca: Giovanni Piconi, Emilio Castelletti, Renzo Danesi, Enzo Mastropietroe Giorgio Paradisi, garagista, tutti suoi coetanei. Quando il gruppo di Cri-spino si unì a Franco Giuseppucci, er Negro, nativo invece di Trastevere,si costituì quella che si chiamava nel gergo della malavita una «batteria».La «batteria» presupponeva un patto di solidarietà e l’accordo a steccarein parti uguali i proventi dei delitti, anche qualora non tutti i sodali par-tecipassero all’azione. Er Negro, più anziano degli altri di una decina dianni, era già famoso nell’ambiente e suo pupillo era un ragazzo noto peressere irascibile e spietato, Marcello Colafigli detto Marcellone, con la fi-sionomia del gigante: Marcellone si unì quasi subito alla «batteria», anchese poi capitava che sia lui sia Giuseppucci, oltre che a lavorare con il nuo-vo gruppo, occasionalmente si aggregassero anche ad altre «batterie», conle quali di solito ci si incontrava nella zona dell’Alberone, sulla via AppiaNuova. Una di queste «batterie» era la cosiddetta «banda di Val Melai-na», che a differenza di quella di Maurizio Abbatino detto Crispino, spe-cializzata in rapine, già controllava il traffico della cocaina tramite un ca-nale aperto dal figlio diseredato di un conte, che aveva contatti con la ca-morra. La «banda di Val Melaina», tuttavia, si sfaldò presto, intorno al1972: i soci si montarono la testa, furono incapaci di gestire i guadagnistratosferici. Per tali motivi si può dire che a Roma, in quel periodo, nonesisteva alcuna grossa organizzazione di mala autoctona. Piuttosto, im-perversava un potente clan d’oltralpe: la cosiddetta «banda dei Marsiglie-si»: proveniente appunto dalla città portuale, era un clan che si era tra-sferito in Italia dopo che la polizia francese era riuscita a smantellare inpatria molte raffinerie della droga.

I Marsigliesi, a Roma, oltre che trafficare cocaina, controllavano buonaparte del gioco d’azzardo e in particolare il «Totonero», ovvero le scom-messe clandestine sulle partite di calcio. Nei night club dell’ormai deca-dente via Veneto riciclavano il denaro, anche quello frutto dei sequestri dipersona, e nell’aprile del 1975 organizzarono il rapimento di GiovanniBulgari, il gioielliere di fama internazionale con atelier in via Condotti, te-nuto prigioniero per un mese e liberato dopo il pagamento di un riscattodi un miliardo e 300 milioni di lire. Fu il colpaccio dei «francesi», ma an-che l’inizio della loro fine. Solo un anno dopo, il clan fu stroncato dallacattura clamorosa di uno dei suoi capi, Albert Bergamelli, che dimoravain una villa sull’Aurelia. Da quel momento, fino al 1983, l’anno in cui fuucciso in carcere, Bergamelli assistette, suo malgrado, all’ascesa di quelgruppo di malavitosi romani che aveva sempre disprezzato: «Sono deiborgatari – disse di loro una volta – è gente che agisce senza alcuna ra-zionalità»6.

Bergamelli aveva le sue ragioni. Fino a quando la sorte di Crispino e de-gli altri non incrociò quella dello sventurato Grazioli, i loro sforzi per sca-

26 ANGELA CAMUSO

Page 16: leggi, scrivi e condividi le tue 10 righe dai libri http ... · la croce, gabellando come una mia «creatura» la «banda della Magliana», per essere la genesi di questa attribuibile

MAI CI FU PIETÀ 29

lungarsi ben oltre ogni ottimistica previsione.«Non vi era un postino per recapitare i messaggi. I messaggi venivano

recapitati un po’ da tutti dopo aver preso accordi con il telefonista. Poi iltelefonista chiamava la famiglia e diceva dove erano i messaggi, che veni-vano lasciati da noi o in un bar, o in un cestino dei rifiuti o in una cabinatelefonica. Talvolta il telefonista dava delle indicazioni inesatte, in modotale che trovandoci noi sul posto potevamo verificare se e chi, ma soprat-tutto in compagnia di chi il destinatario si sarebbe recato a ricevere il mes-saggio. Si facevano cioè, delle prove», spiegherà ancora Crispino ai magi-strati8. Il telefonista, esperto truffatore e falsario, si chiamava Franco Ca-tracchi ma era soprannominato Spazzolino, perché fin da piccolo portavai capelli a spazzola. Raffinato nei modi e nell’abbigliamento, la sua casaera arredata con mobili antichi e tappezzata di velluto verde-azzurro. Par-lava in italiano perfetto, con voce squillante e un po’ effemminata: per ca-muffarla quando telefonava ai Grazioli, solitamente da cabine fuori Roma,si metteva una pallina da ping-pong in bocca. «Spazzolino era esperto ditrattative. Sua era stata l’idea di usare un codice, ovvero la parola d’ordi-ne “Aquila Nera” e sua era stata l’idea di far pubblicare annunci sul gior-nale dalla famiglia, come anche di fornire circostanze note solo al duca, inmodo tale che i Grazioli fossero sicuri che a telefonare erano i sequestra-tori e non sciacalli. Una volta, per inscenare un depistaggio, dal momen-to che il sequestrato era già stato spostato nel Napoletano, venne acqui-stato da qualcuno di noi un giornale in Toscana, dopodiché io e RenzoDanesi andammo nel Napoletano, scattammo la foto e rientrammo a Ro-ma in giornata. La Toscana fu scelta perché in quel periodo in quella re-gione operavano nel settore dei sequestri delle bande di sardi», dirà an-cora Abbatino9. In alcuni casi, i messaggi vennero composti con lettere ri-tagliate dai titoli di giornale; in altri battuti con una macchina da scriveretipo giocattolo, di marca Lilliput, la stessa utilizzata per il sequestro Gian-santi, che fu gettata nel Tevere e mai ritrovata.

Tutto l’evolversi delle trattative, naturalmente, venne seguito da vicinodalla talpa Enrico Mariotti, che recitò la parte dell’amico a perfezione. Ilgiorno dopo il rapimento, innanzitutto, si presentò a casa di Giulio Gra-zioli con un apparecchio per registrare le telefonate dei rapitori. Il figliodel duca ricompensò la solerzia, lasciandosi andare suo malgrado a peri-colose confidenze. La Procura di Roma, intanto, ordinò il blocco dei be-ni dei Grazioli ma il 16 dicembre del ’77, a trentanove giorni dal seque-stro, su «Il Messaggero» apparve un annuncio in codice: «ROLEX ACCIAIO

SMARRITO. Disposti rapida ragionevole soluzione riportando Rolex smar-rito sette novembre a noto indirizzo». Tra-scorsero 24 giorni di angoscio-so silenzio prima che la famiglia del rapito, ormai alla sua quarta implo-rante inserzione, potesse ottenere notizie sulla sorte del povero duca. In

percorrendo sempre a orari fissi, al volante della sua Bmw grigia, la me-desima strada, che solitamente era poco o nulla trafficata. Per questo, ri-cevuta la dritta da Enrico Mariotti, non fu difficile per er Negro, Crispinoe gli altri della sua «batteria» iniziare a pedinare la loro vittima.

L’azione scattò quando era buio. Un’Alfetta strinse la Bmw appenauscita dalla tenuta, costringendo il duca a fermarsi. Quindi i banditi, insette, lo agguantarono. Erano tutti armati di pistole e uno anche di mitra.Dopo aver tentato senza successo di narcotizzarlo lo caricarono in auto.

Il sequestro avvenne sotto gli occhi del fattore, Luigi, che era al volan-te della sua 126. Come di solito, anche quella sera seguiva il suo padronea breve distanza. Di lui i criminali non si curarono più di tanto: lo feceroscendere dall’auto, obbligandolo a buttarsi con la faccia a terra in un fos-sato. Quindi tolsero le chiavi dal quadro della macchina e le gettarono:«Erano travisati e parlavano in romanesco vero», raccontò il fattore ai ca-rabinieri, quella stessa sera.

L’organizzazione del sequestro fu complessa e vi parteciparono in mol-ti, tant’è che la prima richiesta di riscatto, arrivata a meno di un’ora dalrapimento, fu di 10 miliardi. Faceva parte degli accordi tra er Negro e Cri-spino, attivarsi soltanto in azioni lucrose. Ci pensò er Negro a reclutare gliuomini necessari per l’impresa. Ad alcuni banditi riuniti nel gruppo co-siddetto di Montespaccato, che faceva capo ad Antonio Montegrande, unventiduenne di Catania, fu affidato l’esclusivo compito della custodia del-l’ostaggio. Il duca, qualche decina di minuti dopo il blitz alla Marcigliana,venne preso in consegna da costoro su una piazzola del Grande Raccor-do Anulare. Fu caricato su un furgone dietro una casa abbandonata checosteggiava l’anello stradale. Gli autori materiali del rapimento erano sta-ti invece Crispino, quelli della sua «batteria» e due amici di Giuseppuccier Negro, gli stessi che ne avevano curato i preliminari. «Al momento delsequestro a bordo della Fiat 131 rubata c’eravamo io, Emilio Castelletti,Franco Giuseppucci e Marcello Colafigli, che aveva procurato il clorofor-mio… Sull’Alfetta c’erano Renzo Danesi, Giovanni Piconi e Giorgio Pa-radisi», racconterà agli inquirenti, 15 anni dopo, lo stesso Crispino7. I pro-tagonisti dell’assalto fuori dalla tenuta, in pratica, da quel momento in poinon si occuparono più direttamente dell’ostaggio, salvo una volta, per unimprevisto: la prima prigione, una palazzina a tre piani in zona Primaval-le, diventò insicura perché troppo frequentata e si dovette spostare il du-ca Grazioli in un altro nascondiglio, una casa in costruzione sull’Aurelia,in località Valle dell’Inferno. Da lì, peraltro, il nobiluomo fu nuovamentetrasferito, per finire in una terza e ultima prigione, una casa di campagnanel Salernitano. Ma, Crispino e i suoi, insieme a Franco Giuseppucci, inquel momento erano alle prese con un altro difficile compito: quello di se-guire in prima persona le complesse trattative, anch’esse destinate a pro-

28 ANGELA CAMUSO

Page 17: leggi, scrivi e condividi le tue 10 righe dai libri http ... · la croce, gabellando come una mia «creatura» la «banda della Magliana», per essere la genesi di questa attribuibile

MAI CI FU PIETÀ 31

duta nella fase successiva del riciclaggio. Quindici milioni, infine, furonodati a Enrico De Pedis detto Renatino o Renato, che nel periodo del se-questro si trovava in carcere per rapina. De Pedis, coetaneo di Abbatino,era molto amico di Giuseppucci er Negro per il quale nutriva una fiduciaincondizionata, tanto da avergli affidato il compito, quando Giuseppucciera ancora incensurato, di custodire le sue armi. Er Negro, all’epoca chia-mato ancora Fornaretto, le occultava dentro una roulotte, parcheggiata alGianicolo che col tempo divenne il nascondiglio di un vero e proprio ar-senale, visto che anche quelli delle altre «batterie» iniziarono a conse-gnargli in custodia i ferri del mestiere. La storia andò avanti fino a quan-do fu scoperta dai carabinieri grazie alla «soffiata» di un informatore, an-che se poi Giuseppucci la passò quasi liscia, se la cavò con un solo mesedi prigione: la roulotte, infatti, aveva un vetro rotto e il giudice ritennenon ci fossero prove che era stato proprio lui a nascondervi le armi. Giu-seppucci, poi, scoprì il nome dell’«infame» che lo aveva tradito. E lo feceammazzare.

Poco tempo dopo, a Testaccio, un tale soprannominato Paperino, scip-patore, rubò un Maggiolone davanti al cinema «Vittoria», lo aveva adoc-chiato perché era parcheggiato con le chiavi inserite. Nel bagagliaio trovòun borsone colmo di pistole, fucili e munizioni. Il Maggiolone era del Ne-gro, che oltre a quelle sequestrate nella roulotte teneva in custodia per En-rico De Pedis una quantità di altre armi. Ma Paperino non lo sapeva e sen-za perder tempo se ne andò a vendere tutta quella santabarbara, per duemilioni, a un bandito suo amico, Emilio Castelletti, del Trullo, già entratonel gruppo della Magliana che faceva capo a Crispino. Fu così, per caso,che nacque l’amicizia tra er Negro e il nucleo originario della futura ban-da. Giuseppucci, quello stesso giorno, si presentò dagli amici di EmilioCastelletti per reclamare il bottino. E quelli, saputo che le armi apparte-nevano a De Pedis, già rispettato e temuto nell’ambiente, gliele ridiedero.

Il progetto di fondare una grande banda organizzata, tutta composta daromani, fu concepito dentro il carcere. L’idea venne a un tale che si erafatto un nome per aver trascorso molto tempo dietro le sbarre: NicolinoSelis, nato a Carbonia, in Sardegna, nel 1952 e romano d’adozione. TraOstia e Acilia, sul litorale, già a partire dai primi anni Settanta, Selis ave-va messo su una «batteria». Capeggiava un gruppetto di giovani rapina-tori che avevano tentato di recente il grande salto, gettandosi nel businessdegli stupefacenti. Ma gli affari, nel periodo in cui a Selis venne l’idea difondare la «banda della Magliana», andavano male. Il principale interme-diario con i fornitori di droga, Gianfranco Urbani soprannominato il Pan-tera, era detenuto mentre un altro tra i più valenti del gruppo, EdoardoToscano detto Operaietto, un ventenne con la stoffa del capo, soltanto dapochissimo era stato scarcerato. «Nicolino Selis disponeva di una banda

un cestino vicino a Castel Sant’Angelo furono trovate una lettera del pri-gioniero e due foto polaroid, in cui il sequestrato teneva in mano «La Na-zione». Per la consegna del riscatto, fu scelto Giulio Grazioli. E ancorauna volta la talpa giocò il suo ruolo. Fu Enrico Mariotti a informare labanda del fatto che l’auto del suo nobile amico era sempre seguita dai ca-rabinieri, che era dotata di ricetrasmittente e sul tettuccio aveva una stri-scia di vernice fosforescente, per essere avvistata anche al buio. I crimina-li aggirarono subito l’ostacolo: rubarono una macchina, una Golf bianca,con la quale ordinarono al figlio del duca di spostarsi.

Era il 4 marzo del 1978 quando arrivò la telefonata decisiva, che i ca-rabinieri non poterono intercettare. Il figlio del duca, senza dire nulla agliinquirenti, aveva fornito ai banditi il numero di un amico. Il telefonistadisse a Giulio Grazioli di andare alla fermata metro Magliana. Lì, in uncestino dei rifiuti, c’era il biglietto a firma «Leone Rosso»: gli si ordinavadi salire sulla Golf, parcheggiata di fronte alla stazione. Un altro messag-gio, sotto il cruscotto, portava sulla via Cristoforo Colombo e un altro,stavolta autografato «Giglio Rosso», al km 17 della Roma-Civitavecchia.Infine, al chilometro 20 della stessa autostrada, nei pressi di un ponte, l’ul-timo biglietto, insieme a una foto: il duca con la barba lunga e una copiade «Il Tempo» di quel giorno. «Se tutto andrà come noi vogliamo riceve-rai a distanza massima di 24 ore la telefonata di papà», prometteva nelmessaggio «Leone Rosso» e Giulio Grazioli, senza riuscire a distinguerenulla per il buio, sentita solo urlare da sotto il ponte la parola d’ordine,lanciò nel vuoto il suo borsone pieno di banconote.

«Il gruppo di Montespaccato ci informò del fatto che l’ostaggio avevavisto in faccia uno dei carcerieri, di tal che ci fu detto che non si potevafare a meno di ucciderlo. A questa decisione, la quale non fu nostra, nonci opponemmo, in quanto l’individuazione dei complici poteva significa-re anche la nostra individuazione», racconterà Maurizio Abbatino10.

La sentenza di morte fu emessa prima del pagamento del riscatto mal’esecuzione avvenne dopo, perché era necessario fornire alla famiglia laprova che il duca fosse ancora vivo. Massimiliano Grazioli fu finito a col-pi di mitraglietta da un bandito biondo con i capelli a caschetto, Giovan-ni De Gennaro soprannominato Faccia d’Angelo. Il cadavere, mai ritrova-to, seppellito in campagna nel Salernitano, nei pressi forse dell’acquedot-to di San Severino.

Metà dei due miliardi del riscatto andarono al gruppo di Montespac-cato, che aveva tenuto in custodia l’ostaggio, e l’altra metà a quelli dellaMagliana, che avevano organizzato il rapimento. Ciascun gruppo, poi,aveva detratto dalla propria quota la stecca destinata a Enrico Mariotti eal telefonista Spazzolino. Esclusi questi ultimi due, in pratica, ciascun ban-dito aveva intascato circa 70 milioni di lire, compresa la percentuale per-

30 ANGELA CAMUSO

Page 18: leggi, scrivi e condividi le tue 10 righe dai libri http ... · la croce, gabellando come una mia «creatura» la «banda della Magliana», per essere la genesi di questa attribuibile

MAI CI FU PIETÀ 33

stratagemma della cosiddetta «fibbia», come in gergo si chiamava un mes-saggio in codice destinato all’esterno: su un foglio annotò il nome di SistoNardinocchi più un elenco di 20 persone detenute nel carcere di Sulmo-na e a fianco di ciascuna un numero, 300.000. Quindi, durante un collo-quio, passò la lista a sua madre e la incaricò di contattare un amico, il qua-le inviò a ciascuno dei nomi un vaglia da trecentomila lire, quanto valevala testa di quel disgraziato. La notizia, qualche tempo dopo, uscì sui gior-nali: Sisto Nardinocchi era stato assassinato da ignoti, dentro le docce delpenitenziario.

La prima riunione operativa tra Selis, l’Accattone, la batteria di Crispi-no e Franco Giuseppucci detto er Negro avvenne a otto mesi dall’assassi-nio del duca Grazioli, ovvero nel novembre del 1978. Si dovette aspetta-re che tutti i capi, prima detenuti, tornassero liberi. A benedire il sodali-zio Franco Giuseppucci, che aveva presentato Selis agli altri e per questofu sempre considerato il padre spirituale dell’alleanza. Nel frattempo, la«banda della Magliana» esisteva già, anche se ancora non era nota la suapotenza militare. Selis e Mancini avevano raccolto le adesioni di EdoardoToscano l’Operaietto, Giuseppe Magliolo detto er Killer, Angelo de An-gelis detto er Catena, Gianni Girlando detto il Roscio e Libero Manconenonché la promessa di collaborazione da parte del Pantera Urbani, a cuiSelis propose di fare il capo ma che rifiutò l’offerta, scegliendo piuttosto,lui che era «uomo più di parole che di pistole», il ruolo di intermediariotra la banda e altre organizzazioni criminali14. Il Pantera, d’altra parte, ave-va già i suoi buoni contatti: i boss della ’ndrangheta Giuseppe Piromalli,Paolo Di Stefano e Pasquale Condello, interessati ad allargare i propri af-fari di droga. A tale scopo, il Pantera li aveva incontrati in un lussuoso ri-storante dell’Eur, «Il Fungo», insieme ad altri due futuri affiliati della Ma-gliana: Amleto Fabiani detto er Voto e Manlio Vitale detto Gnappa15.

A consentire il passaggio dalle parole ai fatti fu un’evasione di gruppoda Regina Coeli. Selis, Toscano e Magliolo furono tra i protagonisti del-l’impresa, pianificata con i passaparola e i telegrammi in codice. Anche aMancini l’Accattone, che era stato trasferito nel carcere di Pescara, arrivòil messaggio convenuto con gli organizzatori della fuga: si annunciava lavisita, «a giorni», di un fantomatico «avvocato Bellignani». Mancini, aven-do compreso che la cosa era imminente, cercò in tutti i modi, invano, difarsi rispedire a Regina Coeli. Ma dovette aspettare un altro anno, quan-do arrivarono le licenze e i permessi di lavoro, per poter partecipare atti-vamente alle imprese della banda. Nell’attesa, comunque, fu sempre te-nuto informato dagli altri e ricevette pure la sua stecca, ovvero la quota diguadagni che secondo i patti gli spettava. «La differenza tra “batteria” e“banda” – spiegherà Crispino agli inquirenti – oltre che nel diverso nu-mero dei partecipi, sta anche nel ventaglio più ampio di interessi crimi-

“raccogliticcia”. Ecco perché volle unirsi a noi, che eravamo economica-mente più solidi», dirà Abbatino agli inquirenti11. Anche lui e i suoi soda-li, in verità, avevano i loro buoni motivi per accettare l’alleanza. NicolinoSelis, infatti, era diventato amico di Raffaele Cutolo, il potente boss dellacamorra e quel contatto altolocato rappresentava ai loro occhi un’occa-sione irrinunciabile: un patto di affari con i napoletani era utile, se non ne-cessario, per realizzare i sogni di grandezza della neonata banda.

Gli anni erano quelli in cui ’O Professore, come si faceva chiamare Raf-faele Cutolo, aveva fondato la Nco, cioè la Nuova camorra organizzata. LaNco si era formata per strappare a Cosa nostra il monopolio sul contrab-bando delle sigarette e in quel periodo ’O Professore stava vincendo la suaguerra. «Nicolino Selis si era innamorato del pensiero di Cutolo, che ave-va organizzato un gruppo che si opponeva a chi veniva da fuori, ovvero isiciliani che, come si suol dire, la comandavano a Napoli. Cutolo volevadifendere il suo territorio e Selis voleva fare la stessa cosa a Roma dove al-lora imperversavano i marsigliesi, i calabresi e quant’altro», racconterà aigiudici, venti anni dopo, un altro pentito, Antonio Mancini, detto l’Ac-cattone12. Era stato lo stesso Nicolino Selis a parlargli del suo piano, du-rante una comune detenzione a Regina Coeli. L’Accattone, che veniva dal-la borgata San Basilio, si chiamava così a mo’ di sfottò bonario: ai suoiamici aveva confidato di essere rimasto impressionato dall’omonimo filmdi Pierpaolo Pasolini, il cui protagonista gli assomigliava, fisicamente eanche nel carattere. Era, Mancini, uno che aveva «lavorato» con la batte-ria di Val Melaina, quella ormai disgregata, e lui e Selis, per quel proget-to di costituzione della banda, ritenevano di poter sfruttare l’uno l’espe-rienza e le conoscenze dell’altro: Nicolino si era fatto molti amici dietro lesbarre mentre invece l’Accattone, prima della galera, aveva svolto per treanni un’intensa e ininterrotta attività criminale.

Il carcere di Regina Coeli, in quel periodo, era una vera e propria «ba-raonda», per usare la stesse parole dell’Accattone: «Non vi erano cancellied erano, quindi, possibili contatti tra tutti i detenuti, senza particolaricontrolli. Questa situazione carceraria, del tutto particolare, consentivacontatti senza problemi pure con gli ambienti esterni del carcere, agevo-lati talvolta anche dalle guardie»13. Non a caso, tra i primi «lavori» perquelli della banda ci fu un omicidio da eseguire proprio a Regina Coeli. Icommittenti, calabresi, fecero recapitare a Selis e a un altro paio di dete-nuti le pistole necessarie: i killer si introdussero nella cella del predestina-to, che poi si salvò perché trasferito all’improvviso ad altro carcere.

Diversa fu la sorte di un recluso che voleva ammazzare l’Accattone pervia di uno sgarro: quest’ultimo scoprì il complotto in tempo e lo fece as-sassinare. Il condannato a morte si chiamava Sisto Nardinocchi ed era rin-chiuso nel carcere di Sulmona ma per l’Accattone, che si trovava a ReginaCoeli, le distanze e le sbarre non furono un problema. Il bandito usò lo

32 ANGELA CAMUSO

Page 19: leggi, scrivi e condividi le tue 10 righe dai libri http ... · la croce, gabellando come una mia «creatura» la «banda della Magliana», per essere la genesi di questa attribuibile

MAI CI FU PIETÀ 35

vorava ufficialmente nella ditta di suo padre che commerciava frutta e ver-dura all’ingrosso e aveva ottime referenze, in quanto imparentato con iMaisto di Napoli, clan di camorra già conosciuto a Roma perché traffica-va cocaina.

Sicilia era andato ad abitare alla Garbatella, vicino alla fermata dellametro San Paolo, al civico 122 di via Chiabrera, pochi metri da un bar sul-la stessa strada che era diventato il covo per quelli della Magliana. Al bardi via Chiabrera la polizia non si vedeva quasi mai, grazie a un paio diagenti del distretto di polizia di zona, il commissariato «Colombo», cheerano stipendiati dalla banda. Andavano a riscuotere i loro due-tre milio-ni mensili proprio lì, a via Chiabrera: «Passavano con una macchina diservizio, una Ritmo grigia, si appartavano a un angolo… », dirà Abbati-no17. Sul retro del bar, nella sala dove si giocava a biliardo, si decidevanoomicidi e si scambiavano milioni con chili di droga, si facevano recapita-re armi e si partiva tutti insieme per andare a uccidere. Il barista Ubaldonon vedeva e non sentiva. Spesso qualcuno chiamava al telefono, chie-dendo di parlare con gli avventori abituali, e Ubaldo passava la cornetta,senza impicciarsi.

Fu iniziando a frequentare il bar sotto casa che Claudio Sicilia entrò incontatto con quelli della Magliana. Il primo a stringere amicizia con il Ve-suviano fu Marcello Colafigli detto Marcellone, che abitava su una paral-lela di via Chiabrera. Marcellone era rimasto particolarmente impressio-nato da quelle parentele illustri del nuovo amico, ma anche dal suo re-cente passato: Claudio Sicilia, a Giugliano, aveva ammazzato un contrab-bandiere nel corso di una faida e gli sembrava dunque una persona da am-mirare. Soprattutto, a parlare bene a Marcellone di Sicilia era stato il «pa-drino» Raffaele Cutolo, che aveva conosciuto il Vesuviano nel ’67 al car-cere di Poggioreale. Tornato in libertà, Sicilia si era comportato da galan-tuomo, inviando ai Cutoliani ancora detenuti cioccolatini e cartoline confrancobolli da spedire e ’O Professore aveva gradito. Per questo, una vol-ta anche lui fuori dal carcere, lo aveva presentato ai suoi amici romani co-me un tipo affidabile, di «buona famiglia» e anzi gli aveva mandato a di-re che voleva rivederlo, per salutarlo18. Fu anche combinato un appunta-mento all’ippodromo, anche se poi il boss non si presentò: ’O Professoreera dovuto correre a Napoli per via del sequestro di un ragazzino, una fac-cenda delicata, perché era il figlio di un suo amico e voleva occuparsenedi persona.

Dirà Claudio Sicilia: «Marcello Colafigli, che già aveva fatto il compa-re di battesimo al figlio di Giuseppucci, prese un amore morboso per lamia famiglia… Alle 2 di notte mi veniva a svegliare a casa. Dormiva nelletto mio matrimoniale. Mia moglie dormiva nella stanzetta a fianco… Di-venni il suo confidente, pranzava a casa mia, usava i miei abiti e inoltrevolle fare il compare di battesimo a mio figlio in una cerimonia offerta da

nosi della “banda” rispetto alla “batteria”. La “banda”, peraltro, com-porta l’esistenza di vincoli più stretti tra i partecipi, i quali sono tenuti aprendere in comune ogni decisione, senza possibilità di sottrarsi dal dareesecuzione alle stesse. Ad esempio, tutti gli omicidi… vennero di volta involta decisi da tutti coloro che facevano parte della banda nel momentodella loro esecuzione, di volta in volta affidata a chi aveva maggiori capa-cità per assicurarne il successo con il minor rischio, sia personale che col-lettivo, soprattutto sotto il profilo preminente di assicurarsi l’impunità.Questo comportava che tutti si era parimenti compromessi, quindi tuttiparimente motivati ad aiutare chi fosse stato arrestato o incriminato...Inoltre, una volta costituiti in banda, ci imponemmo l’obbligo di non ave-re stretti legami di tipo operativo con gruppi esterni, il che assicurava lamassima impermeabilità della nostra banda, nel senso che nessuno pote-va agevolmente venire a conoscere i particolari delle azioni a noi ricondu-cibili»16.

Alla fine del ’79, quando Renatino De Pedis fu scarcerato, la banda or-mai era al completo. De Pedis era nato e cresciuto a Trastevere e aveva ini-ziato con gli scippi: quando si unì a quelli della Magliana era un espertorapinatore, aveva partecipato pure a qualche sequestro di persona ed eragià un leader, nel suo quartiere e in quello contiguo di Testaccio: lì opera-va una «batteria», i cosiddetti «Testaccini», appunto, diventati il gruppodi riferimento anche per i malavitosi dell’Alberone. Fu il suo amico er Ne-gro a proporre l’entrata nell’associazione dei Testaccini. I più vicini a Re-natino erano Raffaele Pernasetti detto er Palletta, ufficialmente commer-ciante di frattaglie all’ingrosso e un’altra vecchia conoscenza di FrancoGiuseppucci, Danilo Abbruciati, tipo baffuto e corpulento, ex pugile di-lettante originario della borgata Primavalle. Abbruciati, che aveva incas-sato la prima denuncia nel ’71 per aver picchiato e sequestrato sua moglie,era stato un pezzo grosso della mala romana, aveva «lavorato» con i Mar-sigliesi e con il clan di Francis Turatello, il bandito che nei primi anni Set-tanta spadroneggiava a Milano. Era però finito in prigione nel ’76 peromicidio e sequestro di persona e ritornato in libertà, tre anni dopo, si eraritrovato con ben pochi contatti: per questo motivo, all’inizio limitandosia fornire «dritte» per qualche colpo, gli convenne avvicinarsi ai Testacci-ni, dei quali poi diventò con Renatino uno dei capi.

Nel frattempo, sempre nel corso del ’79, alla banda si era unito Vitto-rio Carnovale detto il Coniglio e pure Fulvio Lucioli, il Sorcio, che aderìal progetto mentre era detenuto. Anche il Sorcio ricevette, per alcuni me-si fino a quando non fu scarcerato, la sua stecca, trecentomila lire a setti-mana che a turno i vari componenti della banda consegnavano a sua ma-dre.

Uno degli ultimi ad aggregarsi fu Claudio Sicilia, appena arrivato dalpaesone di Giugliano, vicino Napoli, dove era nato: detto il Vesuviano, la-

34 ANGELA CAMUSO

Page 20: leggi, scrivi e condividi le tue 10 righe dai libri http ... · la croce, gabellando come una mia «creatura» la «banda della Magliana», per essere la genesi di questa attribuibile

MAI CI FU PIETÀ 37

L’oro di Roma

«Ce l’ho fatta! Ce l’ho fatta!»1.Nel parcheggio dell’ippodromo di Tor di Valle, Nicolino Selis saltella-

va esultante, come un ragazzino. Era mezzanotte e mezza del 26 luglio1978 e Selis aveva in mano una pistola. A qualche metro da lui, per terra,giaceva un cadavere. Un proiettile gli aveva trapassato le guance e quattrogli avevano bucato la testa. Altre cinque pallottole lo avevano preso in va-rie parti del corpo. Qualche istante prima, l’uomo a terra si era congeda-to dal fratello all’uscita della sala corse. Stava camminando verso la pro-pria Mercedes, quando gli avevano sparato a bruciapelo. Il piazzale, es-sendo ormai l’orario di chiusura, iniziava in quel momento a riempirsi digente.

Il morto, all’anagrafe, si chiamava Franco Nicolini, 43 anni, ma lo co-noscevano tutti come Franchino er Criminale, per la bassa statura e il pes-simo carattere. Era a capo di una banda di allibratori clandestini. Lo ve-devano sempre a Tor di Valle in compagnia di suo fratello più piccolo,Giovanni, che tutti chiamavano Bebby storpiando l’inglese alla romana: disolito gli faceva da autista e quella notte si salvò per un caso, essendosi in-trattenuto all’ippodromo oltre la chiusura.

Franchino fu ucciso, oltre che da Nicolino Selis, da altri cinque: Mar-cello Colafigli, Edoardo Toscano, Enzo Mastropietro, Giovanni Piconi,Maurizio Abbatino detto Crispino e Renzo Danesi, i quali premettero ilgrilletto senza sapere esattamente il perché, tranne che stavano facendoun favore a Nicolino Selis. Selis ce l’aveva con er Criminale per degli«screzi» avuti con lui a Regina Coeli e da allora aveva deciso di vendicar-si. Forte di essere un «vecchio», Franchino aveva attirato su di sé quell’o-dio feroce perché nel carcere voleva fare il «capo» e anche perché era con-siderato un «infame»: approfittando dell’appoggio delle guardie carcera-rie, che in cambio usavano la sua collaborazione per prevenire sommosse,er Criminale organizzava false rivolte e teneva sotto scacco i detenuti che

lui che si svolse in un ristorante a Grottaferrata, ‘Il Fico Vecchio’ il cuiproprietario era intimo amico della banda della Magliana. A tale battesi-mo Colafigli regalò a mio figlio una catena in oro pesante con un solitarioal centro di una piastra come simbolo di grande rispetto e prestigio»19.

Parlava tanto, quel Colafigli. Non conosceva la discrezione. Piuttosto,non perdeva occasione di vantarsi col compare: delle sue imprese perso-nali e di quelle della banda. «Questo atteggiamento – dirà ancora Sicilia –rientrava in una maniera tipica di agire di quelli della Magliana, che nellamaggioranza facevano uso di cocaina, venivano dai furti di auto, dalle ra-pine di poco conto, dalle ricettazioni e simili e si erano trovati in un ruo-lo che non era il loro»20.

Per questo desideravano affrancarsi da quel passato modesto, di sem-plici malavitosi di borgata. «Roma – amavano ripetere – è nelle mani no-stre»21.

36 ANGELA CAMUSO