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I edizione Arcana: 2011

© 2011 Arcana Edizioni Srl

Via Isonzo 34, Roma

Tutti i diritti riservati

Cover: Laura Oliva

La presente opera di saggistica è rivolta all’analisi e alla promozione di autori e opere di ingegno.

Si avvale dell’articolo 70, 1° e 3° comma, del Codice Civile circa le utilizzazioni libere,

nonché dell’articolo 10 della Convenzione di Berna.

ISBN: 978-88-6231-141-0

www.arcanaedizioni.com

AANNTTOONNIIOO PPUUGGLLIIAA

DDEEPPEECCHHEE MMOODDEETTOOUUCCHH FFAAIITTHH

TESTI COMMENTATI

arcana

DDEEPPEECCHHEE MMOODDEE[[BBaassiillddoonn,, 11998800]]

“La nostra è musica bianca, è molto europea, e non è fatta per ballare”.– DAVE GAHAN

“Se Dio dovesse dare un voto ai Depeche Mode, ci darebbe un sette. Noncredo arriveremmo a un dieci”. – MARTIN GORE

“Vogliamo solo un paio di singoli di successo e una copia del disco chenon salti”.– ANDY FLETCHER

“Siamo gay. Veniamo da Basildon. Siamo famosi in Germania. Eravamofamosi negli anni Ottanta. Siamo tristi. La nostra musica è deprimente”.– ALAN WILDER

“Amo i Cure, ma non mi identifico con quello che scrive Robert Smith.Quando Martin scrive una canzone arriva dritto al mio cuore... riesce asuscitare una sensazione che non sapevo nemmeno esistesse”.– UTENTE DEL FORUM DI DEPECHEMODE.COM

“Mio figlio è ossessionato dalla vostra musica. Per amor del cielo, smette-te di far dischi!”.– LETTERA AL FAN CLUB UFFICIALE, 1985

“Sanno cosa vuol dire originalità”.– ALEX KAPRANOS (FRANZ FERDINAND)

“Quando senti delle tastiere in una canzone dei Killers, è a causa deiDepeche Mode”.– BRANDON FLOWERS (THE KILLERS)

“Ogni volta che sento il riff di chitarra di Enjoy The Silence sento qual-cosa di strano muoversi nello stomaco”.– SHAKIRA

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SSSSOOOOMMMMMMMMAAAARRRRIIIIOOOO....

Words like violence 13...We can be heroes... 19SPEAK & SPELL 23A BROKEN FRAME 67CONSTRUCTION TIME AGAIN 99SOME GREAT REWARD 139BLACK CELEBRATION 183MUSIC FOR THE MASSES 235VIOLATOR 273SONGS OF FAITH AND DEVOTION 313ULTRA 355EXCITER 391PLAYING THE ANGEL 425SOUNDS OF THE UNIVERSE 461

Ghost Track 503Keyword 507Ringraziamenti 509Contatti 511

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“Probabilmente è la canzone più evangelica che abbia mai registrato. Par-la di trovare un conforto, un sollievo, una spalla a cui appoggiarsi, unamano a cui aggrapparsi”.– JOHNNY CASH SU PERSONAL JESUS

“Sì, credo che sia piuttosto buona”.– MARTIN GORE SULLA VERSIONE DI JOHNNY CASH DI PERSONAL JESUS

“Martin, è come se Elvis avesse fatto una cover di una tua canzone!”.– DAVE GAHAN, IN RISPOSTA ALLE PAROLE DI MARTIN GORE SULLA VER-SIONE DI JOHNNY CASH DI PERSONAL JESUS

Al mio adorato Lù (1994-2011)

WWOORRDDSS LLIIKKEE VVIIOOLLEENNCCEE..

WORDS LIKE VIOLENCE

ma quando Gore cerca di alzare il tiro affrontando le ossessionipiù oscure dell’animo umano, il risultato è del tutto imbarazzan-te”. Lo scriveva Damon Wise nel 1990 su «Sounds» e non è cheavesse tutti i torti, per quanto la sua prospettiva fosse irrimediabil-mente viziata da quell’atavico pregiudizio, tutto albionico, chebolla i ragazzi di Basildon come inguaribili bamboccioni tout court.Senza scomodare i giganti della letteratura, anche a un esame super-ficiale appare evidente che, rispetto a Martin Gore (non conside-rando gli apporti marginali di Vince Clarke, Alan Wilder e in tem-pi recenti lo stesso Gahan), parolieri contemporanei comeMorrissey, Nick Cave, Robert Smith, Michael Stipe e persino Bo-no si collocano su un altro livello per stile, contenuti, poetica, am-bizione, risultati. La colpa del riccioluto songwriter (sulla cui de-strezza nel comporre melodie pop non dovrebbe invece sollevarsidubbio alcuno)? Non aver letto abbastanza, a quanto pare. Per lamaggior parte, le sue liriche attingono dal linguaggio quotidiano,basandosi sull’uso a volte elementare di figure stilistiche, sull’in-tuizione estemporanea (sovente felice, altre volte meno), sull’am-bigua giustapposizione semantica di simboli e contenuti apparen-temente opposti (il suo traguardo più genuino, a ben vedere). Ec-cezion fatta per l’ingenua – benché spontanea – incursione nel so-ciale di CONSTRUCTION TIME AGAIN (1983), per ammissione dellostesso autore le canzoni trattano esclusivamente tre temi. Tre. Amo-re, sesso, religione. Spesso e volentieri (con)fusi insieme. Più tuttoquello che ruota attorno, s’intende.

Lungi dall’essere un avido divoratore di pagine, conclusi glistudi secondari – niente art school, orrore! – Gore è finito subitoa... lavorare in banca. Solo l’insperato successo della band in cuisi era ritrovato quasi per gioco, e il conseguente abbandono del-l’autore principale Vince Clarke lo hanno portato a cimentarsiprofessionalmente con il mondo delle parole. Quelle parole che lui,in realtà, non ha mai particolarmente amato: taciturno, timido,restio al confronto, al punto di andare ogni domenica a vedere lepartite dell’Arsenal solo per non dare un dispiacere al papà di unamico (per non dire che non voleva). Un caratterino complesso,per niente facile da decifrare, come scopriremo passo passo.

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To put it in wordsTo write it down

That is walking on hallowed ground.Martin L. Gore, Sacred, 1987

...un libro sui Depeche Mode? “Forte!”, pensa lo scrittore accarez-zato dall’idea. È una gran bella storia da mettere in parole, una pa-rabola musicale, artistica e umana in cui c’è praticamente tutto.Discografia indipendente e milioni di copie, avanguardia pop eTop Of The Pops, culto per pochi e religione di massa, piccoliclub e stadi stracolmi, integrità artistica e fiuto da classifica, nuo-vi suoni e vecchi suoni, ingenui boy scout e rockstar strafatte inoverdose, amore e sesso, amicizia e livore, scioglimenti scongiu-rati e rinascite impossibili, stalli senza uscita e repentini colpi dicoda. Musica e vita, musica e vite, attraverso gli ultimi tre de-cenni e tutti i cambiamenti e le trasformazioni epocali che si so-no portati dietro. Non male, no.

...un libro sui testi dei Depeche Mode? “Ahia!”, pensa lo scrit-tore accarezzato dall’idea. “Se ci fosse William Burroughs a scrive-re per Dave Gahan, i Depeche Mode sarebbero eccezionali. Ma nonè così. È Martin Gore a scrivere per Gahan, e i Depeche Mode so-no solo ridicoli. L’ingenuità dei loro testi potrebbe sembrare accat-tivante nella sua infantile assenza di qualsivoglia pretesa artistica,

WORDS LIKE VIOLENCE

My little wordsAre going to stingHaven’t you heardThe pain and joy they bringMartin L. Gore, Little Soul, 2009

ANTONIO PUGLIA, LUGLIO 2011

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Che poi, cosa ci sarebbe da decifrare? “Words like violence” èil verso d’apertura della sua canzone più celebre, e non è certoun caso: l’impossibilità, anzi l’inopportunità di usare le paroleha finito per diventare uno dei cardini – se non il cardine – sucui poggia il suo universo concettuale. Volete farne a tutti i costiun poeta, con questi presupposti? Di più: volete che se ne possascrivere un libro, con questi presupposti?

Chiaro che sì. Non è davvero il caso di inciampare nei passi fal-si di chi continua, ancor oggi (vedi come la maggioranza della criti-ca nostrana sembra non aver ancora del tutto compreso la questio-ne, oscillando tra irrimediabile puzza sotto il naso e superficiale ce-lebrazione della grandezza pop), a imputare ai Depeche Mode quel-la mancanza di “artisticità” – “artistry”, dicono gli anglofoni – cheli renderebbe irrimediabilmente inferiori a chiunque altro.

“Words are meaningless”, le parole non hanno alcun significa-to, replica ineffabile Martin Gore, soffiando sul castello di carte.Non sarà mai incoronato poeta, e v’è ragione di credere che nongli interessi minimamente. E francamente non deve interessareneanche a noi, che stiamo per intraprendere questo viaggio. Unviaggio lungo una vita. Un viaggio parabolico. Un viaggio circo-lare. Un viaggio che, innanzitutto, racconta le tappe di una cre-scita umana prima ancora che artistica o poetica, in cui – lo ve-dremo – non è difficile riconoscersi. Perché quando i DepecheMode parlano di amore, sesso, fede, devozione, nichilismo, osses-sione, urgenza, desiderio, perversione, amicizia (sì, alla fine sonopiù di tre, i temi) stanno soltanto parlando di noi. Adolescenti,uomini, genitori, amanti, santi, peccatori, dominatori, servi. “It’sa lot like life”, somigliano molto alla vita, queste canzoni, comepagine di un lungo romanzo di formazione. Come i versi di Dan-te e Catullo, gli aforismi di Oscar Wilde, le rime pop-rock diDavid Bowie, Lou Reed e Iggy Pop, le leggende di Omero, le epo-pee di Steinbeck, i pensieri di Schopenhauer, l’Apocalisse di SanGiovanni ... Il modo sincero, inequivocabile e naïf (ovvero, nonnecessariamente filtrato dalla cultura in senso accademico) incui Martin Gore racconta l’esperienza umana lo fa arrivare piùlontano di quanto si pensi. Più di chiunque altro, forse.

TOUCH FAITH

......WWEE CCAANN BBEE HHEERROOEESS......

...WE CAN BE HEROES...

nella testa, sempre più forti. La via di uscita è dietro l’angolo, seb-bene ancora non possa minimamente immaginarlo. Non lo im-magina certo – forse lo sogna, chissà... – quella volta in cui si ritro-va per caso dietro il microfono insieme ai French Look, comples-sino in cui milita un silenzioso ex chitarrista convertito tastieristache risponde al nome di Martin L. Gore, a improvvisare una raf-fazzonata e amatoriale versione di “Heroes”. “Possiamo essere eroi,solo per un giorno” è il grido di battaglia di tutti i giovani derelitticome lui, e Dave (passato già burrascoso, il suo, tra risse, piccoli fur-ti e riformatorio) sputa quei gloriosi versi di Bowie con l’ardore ela convinzione di chi ci crede davvero (un “firm believer”, detto inparole che gli sarebbero state un giorno familiari). Talmente con-vincente da destare l’attenzione di Vince Clarke (al secolo VinceMartin), ex cristiano rinato che da un po’ si è messo in testa cheper uscire dalla snervante routine di lavoretti provvisori c’è solo unmodo: fare sul serio con una band. Anche se ha cominciato a scri-vere delle canzoni, di cantare non gli va proprio. Sì, quel teppistel-lo di Gahan è proprio quello che ci vuole per i suoi CompositionOf Sound. Se credete che si tratti di un nome pretenzioso, l’ideadi chiamarsi come una rivista di moda francese solo perché fa tan-to finto chic (come si usa al club Blitz di Londra, tana di Duran eSpandau ancora in erba) non è certo da meno. Poi, se per darti untono all’inizio lo pronunci anche “depesh-ay”, il gioco è fatto. Iro-nico però: lo si voglia tradurre letteralmente come “dispaccio di mo-da” o, più precisamente, “moda pronta da indossare” (in gergo dépê-che mode indica generalmente tutto ciò che non è alta moda), dà co-munque l’idea di qualcosa di transitorio, volatile, non certo di unmostro destinato a sopravvivere tre decenni, dodici album e a smer-ciare qualcosa come 95 milioni di copie in lungo e in largo per ilglobo... Ma forse siamo andati troppo avanti.

Brrrlllp! Riavvolgiamo il nastro a quel lontano maggio 1980, perché è

adesso che inizia il nostro viaggio. St Nicholas ComprehensiveSchool, debutto ufficiale del nuovo cantante dei Composition OfSound. Insieme a Vince ci sono gli altri due, il citato Martin dei

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BASILDON, PRIMAVERA 1980

Jethro Tull, l’agronomo inglese inventore della prima seminatri-ce meccanica (destinato a battezzare quell’altra celebre band,esatto), nacque a Basildon nel 1674. Non è difficile da immagi-nare: la sua invenzione diede il via a un’autentica rivoluzione.

Cosa c’entra tutto questo con i Depeche Mode? Non molto, adire il vero, anche perché quella Basildon si trova nel Berkshire, dal-le parti di Reading. La Basildon che ci interessa – in gergo Bas –sta invece nell’Essex, a una quarantina di chilometri dal clamoredi Londra. Non esattamente il centro del mondo, no. C’è quelpub di fronte alla stazione dei treni che è meglio starne alla larga,se sei un adolescente che ama ascoltare musica “strana” – Clash,Damned, Iggy Pop – e torna dalle serate trascorse nella Capitale conun po’ di makeup addosso; i bulli sono sempre in agguato e qual-che calcio sui denti magari riesci a beccarlo, se sei fortunato. Eh sì,le gioie della vita di provincia. “C’è solo una cosa buona in unapiccola città: sai che te ne vuoi andare”, dice Lou Reed nella suaSmalltown, e anche se quella canzone sarà scritta solo qualche an-no dopo il giovane Dave Gahan ne sente le parole riecheggiare

SSPPEEAAKK && SSPPEELLLL..[[11998811]]

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French Look (o Mart, come lo chiamano gli intimi) e l’amicodel cuore di Vince, Andy Fletcher (o Fletch, come lo chiameran-no tutti). Salvo quel frontman dall’aria ribelle – ma ancora bam-boccia – si tratta per lo più di ordinary guys, tizi del tutto norma-li, che potresti trovare a impilare scatoloni da Sainsbury’s, o die-tro lo sportello di una banca, o magari al telefono di una compa-gnia di assicurazioni. Gente di Basildon, insomma. “Quando cre-sci in una piccola città, dici: qui non è mai nata nessuna celebrità”,continua il vecchio Lou. Non per molto, a quanto pare. Perché c’èin effetti qualcosa che rende quei quattro diversi da tutti. “È im-possibile battere due chitarre, un basso e una batteria”. Eh no,caro Mr. Reed. Balle. Stavolta le tue parole stonano. Meglio quel-le di Ralf Hutter dei Kraftwerk: “Credo che il sintetizzatore sia piùsensibile di uno strumento tradizionale come la chitarra”. Ebbe-ne sì: anche i sintetizzatori hanno un’anima. Rendere calde lemacchine, renderle carne viva, pulsante, renderle in definitivaumane: questa sì che è una bella sfida da raccogliere. Difficile daimmaginare adesso, su questo piccolo palco di provincia, tra l’o-dore delle pinte rovesciate sul pavimento appiccicoso, il ridacchia-re sprezzante dei bulli, le gonnelline delle fidanzate ...

Eppure quei tre tastieroni al posto delle solite chitarre e tam-buri stanno dando il via a un’autentica rivoluzione.

Forse Jethro Tull c’entrava qualcosa, dopo tutto.

SPEAK & SPELL

soprattutto di riprodurre, sintetizzandola, la voce umana. La primamacchina parlante: un vero prodigio, altroché. Ancor più perché èla ripetizione in miniatura di un processo antico quanto l’uomo:dando un nome alle cose, parlando e sillabando (“speak & spell”, ap-punto) l’uomo cerca di conoscere il mondo, di spiegare ciò cheprova – “feel” – attraverso i sensi, di capire e cogliere il mistero di quelche lo circonda. Ovvio che E.T. l’extraterrestre, quando deve fare “te-lefono casa”, usi il “Grillo Parlante” e non chissà quale sofisticatomarchingegno interstellare ... Non c’è Uomo senza Verbo, e nonc’è Verbo senza Uomo.

A ben vedere, il debutto discografico dei Depeche Mode nonpoteva chiamarsi altrimenti. Proprio come l’omonimo giocattolo,SPEAK & SPELL (il disco) è un ludus, spesso dai tratti marcatamenteinfantili, che tuttavia consente di conoscere e ristrutturare il mon-do (del pop) attraverso la creazione di un nuovo linguaggio. E co-sa altro sono i tastieroni imbracciati fieramente dai nostri eroi al po-sto delle chitarre se non dei giocattoli tutti da scoprire e con cuicostruire una nuova grammatica delle sette note? Ma non solo lagrammatica: tutto qui è nuovo, “new”. Nuova band, nuove facce,nuova musica. Nuova vita. Non potrebbe esserci titolo più pro-grammatico, in effetti, per la prima traccia di un primo album.Ma, al di là delle nostre suggestioni, le strofe di New Life evocanouno scenario del tutto differente. Noir, persino.

I stand still stepping on the shady streetsAnd I watch that man to a strangerYou think you only know me when you turn on the lightNow the room is lit, red danger

In piedi, per le strade ombroseL’uomo che guardo diventa un estraneoCredi di riconoscermi solo quando accendi la luceAdesso la stanza si accende, pericolo rosso

Un incontro al buio. Chi sarà questo pericoloso estraneo/stra-niero? Se colta nella duplice accezione semantica, la parola

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NNEEWW LLIIFFEE

Scrivi e controlla: “acqua”. “A-q-u-a”. Non ricevo, riprova e controlla. “A-c-q-u-a”. Esatto!

Se avete sentito un clic – o un bip, che è meglio – provenire dai mean-dri più reconditi della vostra memoria, allora avete tra le mani il li-bro giusto. La voce elettronica che scandisce roboticamente quelleparole arriva dritta da una vecchia pubblicità dei primi anni Ottan-ta, distante dalle nostre vite postmoderne appena un salto su YouTu-be. Collodiana denominazione di uno dei giocattoli più famosi disempre, il “Grillo Parlante” non è altro che lo “Speak & Spell”, la sca-toletta magica prodotta dalla Texas Instruments che tra il ’78 e il’92 consente a milioni di bimbi in tutto il globo di imparare e per-fezionare l’ortografia grazie a un particolarissimo (e particolarmen-te pedante, almeno nella versione italiana) tutor virtuale, in gradodi raddrizzare strafalcioni nelle principali lingue del mondo. Ma

SPEAK & SPELL

molto più umano ancorché “sintetico”: non lo diceva forse Dan-te che l’amore per Beatrice lo aveva condotto a “vita nova”? Ol-tre che all’amore stilnovistico, il giovane Clarke sembra tuttaviapuntare a molteplici tipi di amore, tutti comunque abbastanzaterreni, come vedremo canzone dopo canzone nello svolgersi diSPEAK & SPELL. Non sono forse questi i temi che interessano gliadolescenti del pop di ieri e di oggi (Lennon & McCartney inse-gnano)? Intanto il mistero continua:

Features fuse and your shadow’s redLike a film I’ve seen now show me

I tuoi connotati si confondono e la tua ombra è rossaCome un film che ho visto, adesso mostrami

Richiami alla fantascienza e ad arti visive come cinema e fotogra-fia sono una vera fissazione per l’esordiente songwriter (vedremo piùavanti Photograph, Dreaming Of Me e altre canzoni). Tipico da stu-dente della art school, direte voi. Niente di più sbagliato: come peri suoi compagni di viaggio, la carriera scolastica di Vince si arrestadopo gli anni trascorsi alla Laindon High Road ComprehensiveSchool di Basildon; terminate le superiori, in attesa di coronare il suosogno a sette note si impelaga in un numero indefinito di dead endjobs (magazziniere da Sainsbury’s, postino, addetto alla pulituradelle toilette degli aerei) tra cui un non meglio precisato impiegoalla Kodak. Se ciò non è sufficiente a spiegare la fascinazione /os-sessione per la fotografia, almeno non ce la fa sembrare del tuttocasuale. A ogni modo, il finale si mantiene criptico:

The stranger in the door is the same as beforeSo the question answer’s nowhere

Lo straniero alla porta è lo stesso di primaLa risposta alla domanda è quindi: da nessuna parte

“Nowhere”. Quale che sia la domanda (dove siamo? dove stia-

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“stranger” riconduce forse neanche troppo casualmente a una del-le band cui i Nostri sono sempre stati (a più livelli) legati: i Cure.No Romance In China, la prima collaborazione tra gli imberbiVince Clarke e Andy Fletcher nel 1977, ne è addirittura una fo-tocopia: “Volevamo essere i Cure. Il nostro primo demo suonaesattamente come loro”, ammette senza problemi il leader esongwriter, che nei primi set dal vivo non manca mai di include-re una timida e ossequiosa Three Imaginary Boys. Il suo “stranger”è però molto diverso da quello, tutto camusiano, di Robert Smithe della sua Killing An Arab: nessuna apatia esistenziale, nessun ab-bandono alla necessità della noia, all’assenza dei sentimenti. Quel-la sarà materia prediletta da Martin Gore, accanito lettore de LoStraniero nonché vero protagonista della nostra storia. Ma al mo-mento occorre entrare nell’universo tematico di Vince, l’attualeprotagonista di questa storia (la sua storia: dagli inizi fino all’abban-dono alla fine del 1981, i Depeche Mode sono sostanzialmenteuna sua emanazione); per lui lo “straniero” è semplicemente il pro-tagonista-simbolo di un rapporto semiclandestino e fugace, quin-di eccitante, come ogni cosa che è sconosciuta, nuova.

Complicating, circulatingNew life, new lifeOperating, generatingNew life, new life

Complicando, mettendo in circoloNuova vita, nuova vitaOperando, generandoNuova vita, nuova vita

Rendere complicato, mettere in circolo, operare, generare:galeotte le saltellanti melodie da videogame prodotte dai synthmonofonici (cioè in grado di riprodurre un solo suono alla vol-ta), tutto rimanderebbe a un immaginario di vita artificiale, daAsimov all’uomo-macchina (THE MAN MACHINE) dei maestriKraftwerk. Ma la nuova vita potrebbe anche intendersi in senso

TOUCH FAITH

II SSOOMMEETTIIMMEESS WWIISSHH II WWAASS DDEEAADD

A dispetto del titolo funereo (“A volte vorrei essere morto”: altro Cu-re-ismo involontario?), la seconda traccia di SPEAK & SPELL trasudatutta la naturale esuberanza delle “melodie allo zucchero filato” (fe-licissima definizione di una penna del «New Musical Express») deiprimi Depeche Mode; basterebbe il gioioso riff di tastiera per mi-surare tutta la distanza con i coevi fenomeni new wave, specie i te-nebrosi goth e le loro fascinazioni ossianico-esistenzialiste. Non c’èproprio spazio per la depressione in questi solchi: nessun down, so-lo up. Letteralmente: come dice appropriatamente Vince a un gior-nalista, “noi siamo U.P., che sta per UltraPop!”.

New sound all aroundYou can hear it tooGet it hot, never stopJust for me and you

Un suono nuovo tutto intornoPuoi sentirlo anche tu

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mo andando?), in realtà non c’è alcuna direzione, non si va danessuna parte. Tanto per ripeterci: la filosofia sarà materia diMartin. Piuttosto, che questi versi siano la metafora di un rap-porto finito (e magari consumato ...) in un vicolo cieco? O un sem-plice gioco di rime e assonanze? A dirla tutta, né Clarke né i suoicompagni hanno mai fatto mistero della natura estemporaneadei testi dei primi Mode: questo perché Vince aggiunge le parolealla musica a partire dal suono, non viceversa come farà poi Go-re. “Le canzoni di Vince sono strane perché non significano nien-te”, dichiara seraficamente quest’ultimo, “solo melodie cui ven-gono aggiunte parole in rima”. Come il 99 per cento della musi-ca pop, d’altronde. E infatti New Life, pubblicata il 13 giugno1981 come lato A del secondo singolo dei Depeche, sale pian pia-no fino alla undicesima posizione in classifica, assicurando ai quat-tro sbarbatelli (oddio, eccetto l’allora barbuto Clarke) la prima, im-pacciatissima esibizione a Top Of The Pops. Chi ben comincia...

TOUCH FAITH

SPEAK & SPELL

Una nuova notte, mi sento beneSapendo che ci seiBallo con te con tutto il tempoE non pensi che sia un crimine?

Innocenza o spregiudicatezza? Fedeltà o infedeltà? Amore o lus-suria? Oscilla su questo sottilissimo filo, il mondo dei giovani Mo-de, ed è probabilmente qui che risiede maggiormente il suo fascino.Ricapitoliamo: lui è innamorato, lei vuole – e ottiene – un rappor-to disimpegnato; lui sta al gioco, ma in realtà ne soffre. Un topos, in-somma. Tutto diventa ancor più chiaro nella strofa successiva:

I know where you goBut I don’t know whyYou say that it’s from aboveAnd I say “this is modern love?”

So dove vaiMa non so il perchéTu dici che è destinoE io dico: “È questo l’amore moderno”?

Come canterà di lì a poco David Bowie nella sua Modern Lo-ve (1983), non è facile innamorarsi di “amore moderno”. Ma seper lui il “modern love” è quello che lo “porta in chiesa in tem-po” (“gets me to the church on time”), quindi quello tradizionale delmatrimonio, nel caso di Clarke è proprio l’esatto opposto, in unribaltamento dei valori dell’amore “classico”: tutto è lecito, ma aciò si accompagnano inevitabilmente angosce, paure, rischi e ti-pici di un’adolescenza fatta di rapporti “moderni”. Ma fragili co-me una bolla di sapone. Anzi, di bubblegum.

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È da gustare caldo, impossibile fermarloSolo per me e te

La prima parola del testo è “new”, tanto per ribadire il concet-to. E il “suono nuovo” non può che essere quello dei sintetizzato-ri: il synthpop, la musica dei ragazzi di inizio anni Ottanta. Ragaz-zi sono i Depeche, ragazzi sono quelli per cui suonano e cantano.Altro che i darkettoni borchiati e truccati di nero di lì a venire: ilpubblico di questi Mode è composto prevalentemente da timiditeenager. “Ai nostri primi concerti dovevamo essere molto carinicon le giovani fan ... potevano essere le nostre sorelle minori”, ri-corda Andy Fletcher. Dopo uno show al Camden Palace di Lon-dra nel 1982, Gahan si ritrova persino coi vestiti a brandelli pereffetto collaterale dell’espansività di alcuni ardenti sostenitori.Qualcuno ha detto A Hard Day’s Night? Non esattamente: perquel tipo di mania c’è ancora tempo. Più infoiati che devoti, sitratta per lo più di ragazzini che consumano 45 giri come succosecaramelle, o meglio ancora bubblegum da masticare e buttar via unadietro l’altra. In altre parole, la versione anni Ottanta di quelliche, poco più di dieci anni prima, suonavano alle festicciole di-schi come Sugar, Sugar degli Archies o Simon Says dei 1910 Fruit-gum Co (li chiameremo Nigels, il perché lo scoprirete più avanti).Anche se, a differenza del bubblegum pop originario di fine anniSessanta (canzoncine usa e getta, ad alto contenuto di saccarosio),quello dei Depeche è soltanto il colorato e appiccicoso rivesti-mento esterno. L’interno può avere il sapore salato di una lacrima:

New day, turn awayWipe away the tearNew night, feel alrightKnowing that you’re hereDancing with you all the timeAnd don’t you think that it’s a crime

Un nuovo giorno, mi voltoAsciugo una lacrima

TOUCH FAITH

User
Stamp

SPEAK & SPELL

I’ll be your operator babyI’m in control

Credi di avere il controllo ma non mi conosci, bimbaPosso manovrarti, posso addomesticarti Posso portarti in giro in un modo diverso[...]Sarò il tuo burattinaio, piccolaHo il controllo

“Tu mi fai girar ... poi mi butti giù”, direbbe qualcuno di nostraconoscenza. La donna-bambola da manovrare e possedere è un ar-chetipo erotico cui il pop non ha saputo sfuggire: ne sa qualcosa ilSerge Gainsbourg che nel 1965 scrive per France Gall, conturban-te e innocente bambolina in carne e ossa, Poupée De Cire Poupée DeSon (“Bambola di cera, bambola di pezza”), filastrocca ricca di allu-sioni in pericoloso bilico tra l’estremamente innocente e l’indicibil-mente sconcio. Al di là delle nette implicazioni sessuali, il gioco dirimandi all’universo cibernetico suggerito da musiche e ambienta-zione è tuttavia affascinante: “I’m the operator of my pocket calculator”,fanno eco i Kraftwerk, che peraltro si erano definiti “showroomdummies”, ovvero manichini. Al punto di trasformarvisi, in mani-chini. “Non facciamo più session fotografiche”, spiegava Ralf Hut-ter pochi anni prima, “usiamo dei replicanti con le nostre sembian-ze. Sono di plastica, e resistono di più alle foto”. Uno dei massimisuccessi di Gary Numan, il principino oscuro del pop sintetico bri-tannico, è un Lp chiamato giustappunto REPLICAS. Blade Runner èquasi pronto a uscire nelle sale. Insomma, i Depeche Mode sono im-mersi fino al collo nello Zeitgeist, eppure riescono a mantenere unacarnalità che li rende diversi. Da tutti. Ma il vero dominio, quelloda cui è impossibile fuggire, si esercita sulla mente:

All the things you tried to do babeAnd all the words we’ve said beforeAre only part of what I started babyAnd you can’t stop me anymore

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PPUUPPPPEETTSS

E quante facce può avere, questo moderno amore? Dimenticatela cotta mal corrisposta (pur camuffata da licenziosità) di ISometimes Wish I Was Dead, perché qui ci si addentra in territoridecisamente più morbosi. Secondo Johnny Black del magazine«Q» la canzone sarebbe stata influenzata dalle prime sperimenta-zioni con le droghe da parte di Vince (anfetamine, prevalente-mente), e questo ne giustificherebbe la diversità nei toni rispettoal resto del materiale. Cosa c’è di più perverso del prendere qual-cosa dall’immaginario infantile – le marionette – e inserirlo inun contesto di dominio amoroso/sessuale? È il 1981, a scriverenon è ancora Martin Gore ... ma Master And Servant e A QuestionOf Time, con le loro apologie di possesso fisico, sono praticamen-te a un soffio.

You think you’re in control but you don’t know me babeI can move you, I can soothe youI can take you places in a different way[...]

BBOOYYSS SSAAYY GGOO!!

Va bene, togliamoci subito il dente e affrontiamo di petto l’argo-mento. Gay o non gay? Non è questo il problema, suvvia, perquanto nella mente di certi profani l’idea possa inevitabilmentefare capolino, magari sulla spinta della becera equazione chitar-ra: macho=tastiera: checca. Puro dovere di cronaca, il nostro,poiché c’è chi lo pensa davvero: si vada su Google e si confronti-no alcuni (probabilmente neanche troppo seri) commenti de-trattori sul web, stile “gayest band ever”, o una (serissima!) di-scussione su Yahoo Answers dall’inequivocabile titolo “AreDepeche Mode gay?”, cui fa eco una pagina (satirica) titolata “Itold you Depeche Mode was gay!” (su sedition.com). Certo, insuperficie una canzone-inno come questa alimenterebbe inverocerte suggestioni... fino a farle diventare convinzioni parecchio so-lide. Leggere per credere:

[...] I think that I have to show youTry to look insideTake me for a ride

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Tutto ciò che hai provato a fare, piccolaE tutte le parole che abbiamo detto primaSono soltanto parte di ciò che ho iniziatoE non puoi più fermarmi

Insomma, non c’è scampo: il rapporto è ormai sbilanciatosul totale dominio sull’altro, fino ad assumere contorni quasi daincubo, se non ci fosse comunque il contesto della band a ripor-tare il tutto a una dimensione, di fatto, ludica. Questi DepecheMode non possono fare paura, su. Non è comunque un caso se,in una rara esibizione televisiva del 1981 alla BBC per lo showSwap Shot (in onda il sabato mattina, giusto in tempo per iNigels), i quattro eseguono questa canzone completamente vesti-ti di pelle, con un Fletch in perfetta tenuta omosex con tanto dicappello da biker che, più che Marlon Brando, fa tanto VillagePeople. È solo il gioco delle parti, certo... E allora giochiamo. One,two, three... Go!

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mico rockettaro che a scuola vi prendeva in giro per la cassettinadei Depeche Mode nel vostro walkman. Parafrasando(male) JohnLennon, che in un suo bistrattato inno femminista diceva che “ladonna è il negro del mondo”, synthpop is the gay of the music world.

A ogni modo, i “boys” del testo – che, riconoscerete, non ne-cessita grande sforzo di esegesi – possono rimandare a un altro con-testo. Tutt’altro contesto. Scaviamo nella biografia di metà dei Mo-de originali: Vince Clarke e Andy Fletcher si conoscono alla sezio-ne di Basildon della Boys Brigade: un po’ boy scout un po’ azionecattolica, quest’associazione giovanile di marcato stampo religiosoè a oggi diffusa in sessanta paesi del mondo e conta non meno dimezzo milione di iscritti. “Era fantastico!”, ricorda Vince. “Andavialla Boys Brigade essenzialmente per giocare a ping pong. L’unicoobbligo consisteva nell’andare in chiesa ogni domenica, il che eraok”. Talmente ok che fino ai sedici anni il fondatore dei DepecheMode ha seriamente corso il pericolo di diventare predicatore di pro-fessione. “Predicavamo nelle strade e in ogni genere di luogo, comei caffè. Eravamo assolutamente coinvolti. Andavamo fino a Londraper partecipare a questi meeting revivalisti alla Royal Albert Hall”.

Tornando alla nostra canzone, in definitiva non possiamoche prenderla come un’ingenua, divertente e divertita strizzatad’occhio a un certo tipo di cultura, e di audience ovviamente (concui, lo vedremo, l’ambiguo discepolo di Bowie Martin Gore flir-terà pesantemente). “Boys keep swinging, boys always work it out!”è il manifesto – di matrice bowiana, chiaro! – dei truccatissimi,androgini e provocatori ragazzi del club Blitz di Londra, i futurinuovi romantici che invaderanno le classifiche e alleggeriranno si-no all’inconsistenza il pop di inizio anni Ottanta. E poi non èforse sulle piste da ballo dei piccoli e grandi club gay – che gli stes-si Mode contribuiscono a riempire sin dagli esordi, anche in Ame-rica – che è passata buona parte della liberazione sessuale di fineVentesimo secolo? Senza contare che in Inghilterra l’omosessua-lità è stata un reato penale fino agli anni Sessanta. Come dire: sischerza, si gioca, si ammicca, ma fino a un certo punto.

Ricapitolando. Dave è sposato (due ex mogli e un’infinità diamanti e fidanzate nel carniere), Vince è sposato, Martin è – sta-

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In the day and the night get to know youBoys meet boys get togetherBoys meet boys it’s foreverDon’t say noBoys say go

[...] credo di dovertelo mostrareProva a guardar dentroPortami a fare un giroDi notte e di giorno imparo a conoscertiRagazzi incontrate ragazzi, uniteviRagazzi incontrate ragazzi, è per sempreNon dite di noRagazzi, andiamo!

“Vince Clarke non è gay”, dice a chiare lettere una delle tantebiografie su internet. Beh, lo sarebbe Andy Bell, da quasi trent’an-ni suo compagno di viaggio negli Erasure; e, complici questi versigaleotti, l’associazione distratta Depeche = gay scatterebbe facilenella mente del succitato becero profano. Ma questo, ne converre-te, non spiega proprio un bel nulla della questione. Proviamo così:è innegabile che il synthpop sin dalla sua nascita (già da Soft Celle Visage, ancor prima quindi delle macchiette sfacciate dei FrankieGoes To Hollywood e dei drammi autentici e vissuti dei BronskiBeat) si intrecci, in misura variabile, alla cultura gay. Ora, soffermar-si sulle radici di tale legame è un po’ come camminare sulle sabbiemobili, il rischio di sprofondare nelle generalizzazioni (o ancor peg-gio, nella sociologia spicciola) è molto forte. Un comun denomi-natore tra le parole “synthpop” e “gay” però forse ci sarebbe, ed è... il pregiudizio. Radicato, inestirpabile. Ricorda Daniel Miller (loincontreremo più avanti; per ora vi basti sapere che è una figura cru-ciale nella nascita sia del synthpop stesso che dei Depeche): “L’at-titudine della maggior parte di quelli che lavoravano negli studi diregistrazione era del tipo: ‘Se non hai un batterista e un chitarristaallora non è vera musica, e poi cosa sono quelle scatole nere, di si-curo non sai suonare’”. Per ulteriori informazioni, chiedete all’a-

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NNOODDIISSCCOO

“This ain’t no party / This ain’t no disco / This ain’t no foolingaround”: lo scenario di austerity bellica dipinto da David Byrnein questo verso di Life During Wartime (da FEAR OF MUSIC deiTalking Heads, 1979) c’entra ben poco con l’atmosfera da partydanzereccio di questo – invero non particolarmente ispirato –brano. Se la frase “questa non è una discoteca” ricorre come re-frain costante, il suo senso è piuttosto sfuggente (o più verosi-milmente casuale, come buona parte delle liriche firmate Clarke),se non come ossimoro testuale rispetto alla musica, innegabil-mente dance. Che questi ragazzacci di Basildon non vogliano for-se fare il verso ai genitori e ai loro vetusti rimproveri (“Non sia-mo in discoteca!”)?

This ain’t nodiscoSometimes when I wonder if you’re taking a chanceThis ain’t nodisco and you know how to danceMove me disco, baby don’t you let goThis ain’t nodisco

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to – sposato, Andy è sposato, e anche il venturo Alan è sposato.Tutti hanno figli. Sia come sia, la parte non straight del pubblicodei Depeche Mode già dal primo disco non può sentirsi discri-minata. Di fatto, Clarke sa certo quale importanza sociale e cul-turale abbia l’emancipazione dei costumi che proprio in quei tem-pi, grazie alla cultura dei club (e anche ai Culture Club, certo) rag-giunge nuovi traguardi; ne è tanto affascinato da continuare adammiccare all’universo omo in una delle canzoni successive, l’in-vero molto gaia – e molto pop, come vedremo – What’s Your Na-me. Ma prima tocca farci un altro giro in discoteca. O meglio, unaspecie.

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sarà inevitabile. Come dire: questa non è una discoteca, è uno sta-dio. Ma il Vince Clarke che mette giù queste poche frasi per ac-compagnare un semplice riff techno-pop non può certo ancorasaperlo, quindi preferisce giocare con parole e concetti tipici delsuo immaginario (la solita “picture”; il recitare una parte) alla ri-cerca della metrica che meglio si adatti alla melodia.

Part one act oneEveryone pretendThis ain’t nodisco[...]Always makes me happy when you’re taking a chanceThis ain’t nodisco and you know how to dance

Parte prima, atto primoTutti fingono che questa non sia una discoteca[...]Questa non è una discotecaSono sempre felice quando ci proviQuesta non è una discoteca e tu sai ballare

Se “rock’n’roll” (dondolare e rotolarsi) è una metafora del ses-so, “dance” cosa sarà mai? E se non è una discoteca, sarà comun-que un altro tipo di alcova. Sul sesso del partner, meglio comun-que lasciare aperta ogni possibilità. Sono gli anni Ottanta! Ecco...non è forse carino quel ragazzo che balla accanto al bancone?

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Questa non è una discotecaA volte quando mi chiedo se ci stai provando con meQuesta non è una discoteca e tu sai ballareFammi muovere, discoteca, bimba non mollare Questa non è una discoteca

“This ain’t no disco”: non è una discoteca, ma non è nemme-no musica disco. Infatti è new wave e la new wave, come il punkprima di lei, per buona parte si oppone ideologicamente proprioa quello che viene visto semplicemente come l’edonismo vacuosimboleggiato dal faccione di John Travolta e dalle sue movenzepaillettate, puntualmente rievocate sui luminosi dancefloor difine anni Settanta. Non è così semplice in realtà, dato che la di-sco era nata anzitutto come cultura underground, e diverse bandnew wave (dai Talking Heads stessi ai Gang Of Four) ne abbrac-ciano devotamente ed entusiasticamente stilemi e filosofia. A ognimodo, nel 1981 la disco music come fenomeno è in netto decli-no, ma non lo è certo la cultura che ne è scaturita, e alla cui fon-te il synthpop si abbevera volentieri (vedi le connessioni con l’u-niverso gay affrontate qualche pagina addietro). Gli stessiDepeche Mode non potranno mai fare a meno della componen-te dance: già a partire dai primi singoli i remix in formato 12”sono la norma, non l’eccezione. Vince: “Registravamo 7”, eDaniel Miller li faceva diventare 12”. A causa delle loro dimen-sioni, i singoli a 12” a quei tempi servivano soprattutto per au-mentare il volume del disco, perché su 7” il vinile non si può in-cidere fino in fondo. Più profondo è il solco, più il volume deldisco è alto, e così la nostra musica poteva essere suonata neiclub”. Aggiunge Mart: “Chiaramente quella dei 12” è anche unascelta commerciale. Fare i mix vuol dire guadagnare di più, è stu-pido non dare il giusto risalto a un buon prodotto se è ballabile equindi sfruttabile sotto l’aspetto commerciale”. Ecco allora che,come ogni buon collezionista sa, il catalogo dei Depeche Modeè una vera miniera di edizioni limitate, rarità assortite, mix inu-suali e perle nascoste. Insomma, si tratta soprattutto di musica perballare; e, una volta arrivato il successo di massa, la rivoluzione

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