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l‘ancoradelmediterraneolegomene

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JACQUESKERMOALMARTINE

BARTOLOMEI

LAMAFIAA TAVOLA

CON 55 RICETTEORIGINALIseguito da

Due pizze, un giubbotto antiproiettilee addio “uomo de panza”

di Piero Colaprico

traduzione di Anna Scopano

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titolo originale: La mafia se met à table© 1986, Actes Sud

© 2010, l’ancora s.r.l., Napoli-Roma

per Due pizze, un giubbotto antiproiettile e addio “uomo de panza”di Piero Colaprico© 2010 by Piero Colapricopublished by arrangementwith Roberto Santachiara Literary Agency

www.ancoradelmediterraneo.it

prima edizione ottobre 2010

finito di stampare in Trebaseleghe (Pd)nell’ottobre 2010da Grafica Veneta S.p.A.

isbn 978-88-8325-278-5

copertina di Emanuele Ragniscoper mekkanografici associati

illustrazioni di Emanuele Ragnisco

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LA MAFIA A TAVOLA

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nota editorialeI termini in corsivo seguiti da asterisco sono in italiano o in siciliano neltesto originale.

Un grazie a Mario Porqueddu, e un sentito grazie allo chef Carmela Spa-gnolo per la consulenza gastronomica.

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Dodici anni di permanenza in Italia mi hanno insegnato chemafia e gastronomia sono strettamente intrecciate. I pezzi da no-vanta*, come vengono chiamati i capi* dell’Onorata società, invirtù della loro importanza, rifiniscono i propri menù con lastessa cura che mettono nella preparazione dei crimini. «Cuci-nare il delitto*» è un’espressione insulare il cui significato è tut-t’altro che casuale.

Dalla data della sua fondazione, che coincide pressappococon quella del trattato di Vienna del 1738, le gesta della mafiasono state segnate da pasti, banchetti, festini, pranzi, ceneclandestini nel corso dei quali i capi si riuniscono o si incon-trano per celebrare compleanni, festeggiare successi o organiz-zare la riscossione del pizzo*.

È stato scritto di tutto sull’origine della parola Mafia. Peralcuni è l’alterazione dell’espressione latina mea fides, la miafede, il mio credo. E questo credo, esportato negli Stati Unitialla fine dell’Ottocento, ha dato vita alla Mano Nera, l’appen-dice americana dell’Onorata società siciliana.

Con tutto il rispetto, nella storia della Mafia il pasto è impor-tante quanto nei Vangeli: la moltiplicazione dei pani, le nozze

introduzionejacques kermoal

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di Cana, l’ultima cena. Sia che si tratti di preparare lo sbarco diGaribaldi a Marsala nel 1860, di truccare il referendum che an-netteva la Sicilia al Regno di Sardegna, di organizzare un traffi-co di cavalli durante la Prima guerra mondiale, di lottare controil fascismo che intendeva sostituirsi all’ordine mafioso, di auto-rizzare gli Alleati a metter piede in Sicilia nel 1943, di monopo-lizzare il traffico della droga, di spartirsi il territorio di caccia aidollari statunitensi, di assassinare Enrico Mattei, il re del petro-lio italiano, o di eliminare il generale Dalla Chiesa venuto a sfi-darla nella sua capitale, Palermo, nel 1982, la Mafia si mette atavola.

Il pasto mafioso è un liturgia. Per convincersene, è suffi-ciente osservare lo svolgimento della singolare cerimonia cheprecede l’esercizio, da parte del capo di una famiglia mafiosa,del suo privilegio sovrano: il diritto di morte*. Don Genco Russodi Agrigento, l’ultimo imperatore mafioso, lo esercitò nell’ago-sto 1958, quando ordinò a Luciano Liggio, stella nascente dellanuova Mafia, di mettere fine alle attività – e ai giorni – del dot-tor Navarra, boss del clan corleonese, con il quale Genco Russoaveva un conto in sospeso. Vale la pena raccontare la storia.

Dopo aver convocato Luciano Liggio nella sua casa adAgrigento e dopo aver pronunciato in sua presenza il nome deldottor Navarra, il vecchio don si avvicinò all’ambizioso giova-ne, lo baciò sulla fronte, sul petto e su entrambe le spalle e pro-nunciò la formula sacrificale: «Ti offro la vita del traditore, nelnome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo, amen». DonGenco fece poi entrare Liggio e quattro suoi picciotti* nellalunga sala da pranzo rettangolare, con le imposte chiuse. Sullatavola erano stati disposti il pane, il sale, l’aglio e il vino. Dopoche tutti si furono accomodati, Don Genco spezzò il pane insei pezzi e vi strofinò l’aglio. Porse un pezzo a tutti i presenti,e tenne il sesto per sé. Sei mani intinsero il pane nel piatto delsale. Ognuno mangiò metà del suo pezzo e bevve la metà delbicchiere di vino che aveva davanti. A quel punto don Gencodisse a Liggio: «Vai, ti aspetteremo per terminare il pasto».

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Il pane simboleggiava l’unione, il sale il coraggio, il vino ilsangue e l’aglio il silenzio.

L’indomani, il 2 agosto 1958, lungo la strada che conduce-va a Corleone, il dottor Navarra cadeva sotto i colpi di LucianoLiggio, che tornò la sera stessa ad Agrigento per finire il pastodi pane, sale, vino e aglio cominciato il giorno prima…

E con le sue quattro guardie del corpo come testimoni, l’im-peratore mafioso disse all’assassino del dottor Navarra: «Nelnome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo, anche in miaassenza, la mia casa è la sua casa. Il mio pane è il suo pane, ilmio aglio è il suo aglio, il mio sale è il suo sale e il mio vino èil suo vino. Così sia».

Ho raccontato altrove di questa cerimonia, ma penso sia uti-le ricordarla in questa introduzione agli aneddoti gastronomicimafiosi. Non tutti i pasti della Mafia rientrano in questa liturgiamortuaria ma, ogni volta che l’Onorata società è chiamata aprendere decisioni importanti, costituiscono nondimeno un ri-tuale. Il folclore siciliano pullula di storie di tavolate mafiose at-torno alle quali gli zii* si dividono le fonti di profitto.

Questo libro racconta alcuni dei pasti durante i quali sisono decise le sorti di qualcuno, o legati a momenti storici. Ècosì che i nomi di Garibaldi, di Cavour, di Mussolini, diRoosevelt, di Enrico Mattei, del generale Dalla Chiesa, vengo-no fuori tra una forchettata e l’altra per mescolarsi a quelli didon Vito, di don Calogero Vizzini, di don Genco Russo, diLucky Luciano e dell’ultimo imperatore in carica, l’avvocatomafioso Vito G., e raccontare, per quanto possibile, poco piùdi un secolo di mafia.

Che i buongustai stiano tranquilli, nel mirino di quest’ope-ra c’è anche la loro legittima curiosità. Vedranno che i capo-clan sanno essere eccellenti chef ai fornelli e che la loro cucinaalimentare vale ampiamente la loro cucina politico-criminale.Anche in questo caso si tratta di una tradizione siciliana, per-ché nell’isola si usa onorare gli ospiti a tavola dicendo: «Sarò ioa cucinare».

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I ristoranti giocano un ruolo importante nelle gesta dellaMafia. Al Capone mette a punto gli ultimi preparativi del mas-sacro di san Valentino in un ristorante italiano. Il 15 aprile1931, Lucky Luciano si sbarazza di Giuseppe Masseria, dettoJoe the Boss, per mano dei suoi sicari al ristorante Scarpato, lamiglior tavola di Coney Island. Ugualmente celebre il banchet-to di cinquecento coperti per festeggiare la conquista del Bronxda parte di Maranzano, nello stesso anno.

La lista di questi pranzi, cene e banchetti potrebbe continua-re all’infinito. Prendiamo a caso: Salvatore Giuliano offre al mi-nistro Mattarella un pranzo preparato da lui stesso; il banchet-to funebre di don Calogero Vizzini, imperatore mafioso in Sici-lia, che riunisce cinque ministri romani, cinquantadue deputa-ti democristiani, tre vescovi, sessanta ecclesiastici, e tutti i capo-clan siciliani; Luciano che tratta con i Guerrini nel loro stessoterritorio, all’hotel Noailles di Marsiglia; Frank Sinatra che nel1963 viene a rendere omaggio a Genco Russo il quale, per rin-graziarlo, lo invita a tavola nella sua casa di Agrigento; la cena,infine, in un hotel di Trapani, dove fu decisa l’eliminazione delgenerale Dalla Chiesa.

Di questi incontri ce ne furono molti altri: conosciamo imenù e i vini che li accompagnarono. Abbiamo scelto quelliche, per la loro importanza storica o leggendaria, per la lorooriginalità o per il loro lato buffo, ci sembrano degni di pren-dere posto nel florilegio della gastronomia mafiosa.

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Credendo di donare la Sicilia a Vittorio Emanuele II di Savoia,Garibaldi l’ha appena regalata alla Mafia. I capi delle famiglie,riconoscenti, offrono all’“eroe dei due mondi” un banchetto che glisarebbe rimasto sullo stomaco.

All’inizio della primavera del 1860, Palermo era in fermento.La tempesta nazionalista irrompeva da Nord a Sud, avvolgen-do nelle pieghe della bandiera verde, bianca e rossa su cui eraimpresso lo stemma di Casa Savoia, il Piemonte, la Lombardia,il Veneto e l’Italia centrale, Toscana ed Emilia comprese. Neisaloni della capitale siciliana, dove come ogni anno con ilritorno del bel tempo erano ripresi i balli e i ricevimenti, nonsi parlava d’altro che di quel barbuto condottiero, distintosinella difesa della Repubblica Romana contro il Papato nel1849, che adesso aveva messo la sua spada al servizio diVittorio Emanuele II di Savoia. Questo vento di follia si chia-mava Risorgimento*, e il suo demiurgo Giuseppe Garibaldi. APalermo si percepiva chiaramente che il sostenitore della causanazionalista sarebbe avanzato verso le coste dell’isola, e che ilBorbone che troneggiava sul Regno delle Due Sicilie non avreb-

garibaldigli zii

e il banchetto d’onore1862

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be tardato a far le valigie e a lasciare la corte napoletana.D’altronde, Francesco II era un re mite, da poco salito al tronodi un Regno che, per quanto florido, doveva far fronte ai motiindipendentisti diffusi in Sicilia a partire già dal 1848.

Nell’isola, soltanto qualche principe, duca o barone, inca-nutiti sotto le armi borboniche e timorosi di perdere gli esorbi-tanti privilegi accordati loro dal trattato di Vienna del 1738,osavano ancora dirsi dalla parte del re. D’altronde, per la mag-gior parte, questi vecchi principi, questi matusalemme, nonavevano nulla di siciliano se non lo stemma familiare e i palaz-zi dove, qualche volta all’anno, davano feste sontuose. I prin-cipi Lampedusa (avi dell’autore del Gattopardo) e Alliata, ilduca Paternò di Carcaci, i baroni Tasca, La Motta, Cammaratasapevano benissimo che, quell’anno, i fuochi pirotecnici delleloro feste avrebbero sparato le ultime salve dei tempi benedet-ti in cui i borghesi venivano a baciar loro i piedi, invece diritrovarsi generali di un’armata di straccioni che urlano «Vival’Italia».

La fine di un’epoca! Perfino i giovani aristocratici, Tancredidi Lampedusa, il nipote stesso del principe, e il cavaliere Floresdi Partinico, si erano “presi una cotta” per Garibaldi e metteva-no tutte le loro energie a convincere quelle teste di rapa di san-gue blu che non vedevano più lontano dell’estremità dei loromerletti. Non si diceva forse che i due giovani, introdottisi inuno dei dormitori del collegio per fanciulle più celebre diParma, avevano svegliato le giovinette per far cantare loro laMarsigliese e il «Va’ pensiero» del Nabucco di Giuseppe Verdi, ilcui nome, ormai, si poteva leggere lungo le mura delle princi-pali città siciliane? A partire dalle insurrezioni di Milano eVenezia contro l’Austria, si sapeva che quei «Viva VERDI» sta-vano per: Viva Vittorio Emanuele re d’Italia.

Fu lo stesso Tancredi di Lampedusa, alla presenza di qualchegenerale borbonico che il barone Tasca aveva cordialmente in-vitato al primo ballo della stagione, ad annunciare trionfante lafavolosa notizia. Dopo aver zittito l’orchestra nel pieno della

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brillante esecuzione di un valzer viennese, il cavaliere di Lam-pedusa declamò trionfalmente: «Signore, signorine, signori, hol’immensa felicità di annunciarvi che il generale Giuseppe Ga-ribaldi si è imbarcato l’altrieri, 5 maggio 1860, alla testa di uncorpo di spedizione. Il loro obiettivo è la Sicilia. Tra poco tem-po saremo dunque liberi e italiani. Viva il nostro re VittorioEmanuele, viva il generale liberatore* Giuseppe Garibaldi! Mor-te al tiranno Francesco II, l’usurpatore!».

I generali borbonici non si erano ancora ripresi dalla sorpre-sa che i giovani più graziosi della nobiltà palermitana, chefacevano parte del battaglione d’élite di Tancredi e di Flores, simisero a distribuire bouquet verdi, bianchi e rossi, i coloridell’Italia nuova. Palermo, insomma, sfoggiava un esuberanteentusiasmo patriottico.

La gioventù dorata di Palermo aspettava lo sbarco dei gari-baldini. Dall’inizio del mese di gennaio, la Mafia, da parte sua,preparava il duplice colpo di stato che le avrebbe permessod’imporre il suo ordine su tutta l’isola. Poco importava che ciòfosse in nome di Vittorio Emanuele re d’Italia.

Nel 1860, la Mafia era essenzialmente il potere esercitato da-gli intendenti dei nobili siciliani. Mentre questi ultimi sperpe-ravano le loro eredità alla corte di Napoli – dove il re Borbonene esigeva la presenza almeno dieci mesi all’anno – gli inten-denti facevano fortuna ammassando, senza alcun controllo, ric-chezze colossali che permettevano loro di prestare denaro a in-teressi alti agli stessi nobili, facendosi pagare in terre ciò chequesti non potevano restituire in oro. Avevano inoltre costitui-to delle vere e proprie milizie, reclutandole tra i braccianti agri-coli che solo loro potevano decidere di far lavorare. Questi in-tendenti, che ben conoscevano la storia della Rivoluzione fran-cese e avevano visto come i loro omologhi transalpini erano di-ventati proprietari dei beni nazionali confiscati alla nobiltà, in-tendevano trarre uguale profitto dal Risorgimento.

Nessuno, d’altronde, si opponeva. Il popolo siciliano eratanto sprezzante dell’invasore straniero, quanto cosciente del

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vero potere locale. Agli zii* – così erano chiamati gli intenden-ti – venivano anche esposti, da parte del popolo, i piccoli pro-blemi della vita quotidiana e ci si appellava a loro per le riven-dicazioni salariali nei confronti del nobile proprietario, ren-dendoli al tempo stesso giudici-arbitri e protettori. Il popolotrovava anche normale – come ai bei vecchi tempi del feudale-simo – versare il pizzo*, calcolato secondo l’importanza del ser-vizio reso o del favore ottenuto.

Quando giunse il momento delle scelte politiche, gli zii sidichiararono liberali. Era un’etichetta il cui modernismo suo-nava bene e che valeva quanto qualunque altra.

L’11 maggio, dopo un breve scalo in Toscana, a Porto SantoStefano, la minuscola squadriglia del Liberatore* – due vapori dipiccolo tonnellaggio – gettarono l’ancora al largo di Marsala, auna ventina di chilometri da Calatafimi, fortezza occupata dasoldati borbonici. Dalle due navi sbarcarono poco più di mille-cento uomini, guidati dallo stesso Garibaldi che si bagnò legambe fin sopra le ginocchia. Quasi tutti portavano la barbacome il loro generale, superbi nelle loro camicie rosse e i lorofoulard verdi. Al grido di «Viva l’Italia» si fecero tutti un pedi-luvio, precipitandosi ad abbracciare i picciotti* degli zii*, incre-duli di fronte a queste dimostrazioni d’affetto rivoluzionario.

Gli ottocentocinquanta garibaldini, con cinquecento pic-ciotti, furono raggiunti dagli immancabili Tancredi e Flores che,al comando di uno squadrone di cinquanta giovani aristocrati-ci a cavallo, avevano deciso di versare il loro sangue per la liber-tà siciliana e la monarchia piemontese, divenuta italiana per lo-gica implacabile del senso storico. Dopo aver preso Calatafimi esgozzato qualche ufficiale e qualche soldato borbonico, la spe-dizione marciò su Palermo, dove la popolazione, scortata daglizii, aveva innalzato spontaneamente delle barricate.

Le nobili giovinette del battaglione Tancredi-Flores giocava-no a fare le infermiere e avevano indossato dei corsetti cremisi,graziosamente ornati da foulard verdi. Ricevettero in cambio ilbattesimo del sangue sui loro bei grembiuli bianchi, curando i

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malati. Qualche giorno dopo, Palermo era liberata, e i soldati inuniforme celeste del re di Napoli e i loro alleati austriaci dallecasacche immacolate avevano reimbarcato armi e bagagli.

Appena le strade di Palermo furono sgombre dei cadaveridei soldati di Francesco, si pensò a festeggiare l’avvenimento. Igiovani figli e i nipoti dei principi, dei duchi e dei baroni spa-lancarono le porte dei palazzi agli ufficiali garibaldini, cheritrovarono le infermiere nello splendore dei vestiti da ballodisegnati dai migliori sarti parigini. I vecchi principi, duchi ebaroni soffocavano la rabbia negli appartamenti dove il fra-stuono della festa, della polka e dei valzer teneva il tempo* diun mondo che scompariva.

Gli zii, intanto, non perdevano tempo. A prova del cambia-mento, indossarono vestiti scuri con gilet e cravattino, per mo-strare che niente sarebbe più stato come prima. Lontano da Pa-lermo, stabilirono un po’ ovunque delle municipalità a loro fe-deli. Si riunirono a Trapani per stilare la lista dei nobili da spo-destare dei beni, a espiazione della vergognosa collaborazionecon i Borbone. Molti di loro si erano già dati alla fuga all’arrivodelle camicie rosse. Gli altri furono dichiarati fuorilegge e i lorobeni confiscati e messi all’asta. Gli zii fecero in modo di esseregli unici ad aggiudicarsi fattorie e terreni degli emigrati e dei tra-ditori. Così, mentre Palermo danzava e la conquista garibaldinaavanzava, la Mafia stendeva la sua ragnatela.

A luglio, anche Messina cadde e in agosto il liberatore sbar-cò in Calabria. Nel giro di due mesi, con la battaglia del Voltur-no, l’unità – escluso il territorio dello Stato Pontificio – era cosafatta. Il 21 ottobre si svolse un referendum per l’annessione delRegno delle Due Sicilie al Regno di Sardegna, che diede unoschiacciante risultato a favore dell’annessione. L’8 di novembre,Garibaldi si ritirava sull’isola di Caprera. Ma avrebbe presto fat-to ritorno in Sicilia.

Intanto, appena i primi funzionari piemontesi sbarcaronosull’isola, trovarono una perfetta calma: gente al lavoro, rivo-luzionari inquieti in prigione e bandiere piemontesi su tutti gli

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edifici. L’ordine mafioso regnava ovunque. I funzionari eranocircondati di premure, le autorità locali soddisfacevano i lorominimi desideri: la Sicilia arrivò al punto di chiudere gli occhisul pudore delle sue figlie che venivano considerate poco incli-ni al corteggiamento.

Nel 1862, Garibaldi si imbarcò da Caprera alla volta delle co-ste sicule, intenzionato a risalire il Mezzogiorno per completarela conquista liberando Roma dal potere papale. Anticlericalemilitante, doveva prendersi una rivincita sul papa e riscattare ilfallimento del 1849. Avrebbe offerto a Vittorio Emanuele unacapitale degna di lui, la capitale dei Cesari. Il problema era cheil re non ne voleva sapere... e questo per una semplice ragione:la presa di Roma avrebbe potuto causare imbarazzi con la Fran-cia di Napoleone III, alleato del neonato Regno d’Italia e cheaveva posto il Papato sotto la propria protezione.

«A forza di vittorie, quel cretino di Garibaldi lascerà l’Italianella merda». Vittorio Emanuele non immaginava lontana-mente che gli zii avevano il loro piano per neutralizzare que-st’ansia forsennata di nazionalismo: avrebbero offerto un pran-zo a Garibaldi.

E non un pranzo qualunque. Un festino principesco il cuiricordo l’eroe di Marsala avrebbe conservato per sempre. Unbanchetto degno degli imperatori romani di ritorno a Roma,carichi di alloro e di gloria. La modestia non era la prima qua-lità di Garibaldi. Gli zii siciliani conoscevano la sua debolezzae avrebbero messo i bastoni della Mafia tra le ruote del suocarro trionfale.

L’invito fu fatto nelle debite forme. Per ringraziare il libera-tore della Sicilia, i notabili dell’isola avevano pensato di offrireal generale Garibaldi, sbarcato a Palermo, un ricevimentodegno del suo valore e del suo coraggio. La presa di Romaavrebbe atteso qualche giorno; Garibaldi non poteva declinarel’invito di quel popolo smanioso di ringraziare il suo eroe.

Popolo che riservò a Garibaldi onori commisurati alla suaingenua megalomania. Archi di trionfo a ogni angolo di stra-

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da, altari della vittoria in ogni piazza. Centinaia di bambini ebambine gettavano fiori al suo passaggio come in un paganoCorpus Domini. Si arrivò perfino a sgozzare un toro sulla piaz-za per suggellare con il sangue l’alleanza eterna tra la Sicilia eil condottiero*. Un certo Ettore Bentivoglio aveva composto uninno che gli alunni delle scuole cantarono vestiti di bianco,con il foulard verde dei garibaldini attorno al collo.

L’accoglienza fu indimenticabile, come il banchetto cheseguì, servito all’aria aperta, sotto i bastioni, a più di milledue-cento invitati. Mai, in tutta la storia dell’isola, nemmeno aitempi dei Fenici, dell’occupazione araba o dei re normanni icui fasti avevano attraversato indenni il tempo, si era assistitoa una tale esaltazione. Tancredi di Lampedusa, presente allafesta, avrebbe scritto nelle sue memorie che quel festino egua-gliava quelli di Cartagine offerti ai capi barbari. Cosa cheaveva, di certo, un ironico sottinteso, la cui esattezza sarebbestata dimostrata da ciò che avvenne in seguito.

Il generale, che aveva la reputazione di essere un’ottima for-chetta, nonostante usasse spesso le dita, era al settimo cielo.Sorseggiando i liquori, Garibaldi pensava davvero che valessela pena di consacrare la propria vita alla libertà. Nel pieno del-l’euforia, non osò rifiutare la proposta che gli venne fatta diprolungare il soggiorno in Sicilia di una settimana prima diriprendere i duri combattimenti che avrebbero aperto le portedi Roma.

Una settimana! Appena il tempo che bastava a Pallavicini,generale dell’esercito sabaudo, per guidare le truppe che avreb-bero sbarrato la strada per Roma all’eroe di Marsala.

Quando Garibaldi e i suoi uomini passarono in Calabria, l’e-sercito piemontese si era disposto a ventaglio sulle alture dell’A-spromonte. Sebbene il campo di battaglia non gli fosse favore-vole, Garibaldi decise comunque di combattere. Era convintoche i soldati di Vittorio Emanuele non avrebbero mai osato re-spingere i garibaldini, a cui il re doveva tutto per essere diven-tato quello che era. Aveva fatto i conti, però, senza Pallavicini.

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Fu una battaglia onorevole e la reputazione del grand’uomo fualmeno salvaguardata. Ferito a un piede all’inizio del combatti-mento, appoggiato contro un albero, Garibaldi ebbe l’estremasoddisfazione di vedere il suo avversario rassicurarlo: «Senza lavostra ferita, generale, non c’è dubbio che non avrei potutochiudervi la strada verso Roma». Soddisfatto, Garibaldi feceonorevole ammenda e si riconciliò con il re. Ritornò nelle sueterre, nutrendo un forte rancore verso gli zii siciliani, il cui ban-chetto gli sarebbe rimasto a lungo sullo stomaco.

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Questo pantagruelico pranzo avrebbe fatto rabbrividire gliamanti del mangiar leggero. Sebbene raffinato, era stato con-

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IL BANCHETTO OFFERTO DAGLI ZII SICILIANI A GARIBALDI UN ANNO DOPO L’UNITÀ

D’ITALIA, NEL 1862.

Prosciutto affumicato della Conca d’OroAgghiotta di pesce spadaBaccalà alla messineseStufato di gallinelle farcite al tartufoCosciotto di capriolo marinato all’acquavite di prugne d’AgrigentoAgnello arrostito con olio extravergine d’oliva di CaltanissettaCavolfiori, carciofi e sedanoFormaggio di capraCremeGelatiTorta a pianiPignolataMele alla cannella

Bazia molto fresco per il pesceFaro e Corvo per le carniMarsala all’uovo* per i dessert.

PORTATE

VINI

Il banchetto per Garibaldi

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cepito per robusti e gagliardi giovanotti che, dopo gli opulen-ti primi piatti, ebbero ancora abbastanza appetito da ingurgi-tare con entusiasmo gelati, soufflé, pasticceria e torte a piani.Garibaldi e i suoi uomini ebbero il buon gusto di fare onore al-le specialità siciliane: l’agghiotta di pesce spada, il baccalà allamessinese e la celebre pignolata. Ecco il segreto di queste suc-culente ricette.

Agghiotta di pesce spada6 persone

6 tranci di pesce spada, 6 cucchiai di olio extravergine di oliva,1 gambo di sedano, 1 cipolla, 2 spicchi d’aglio, 1 cucchiaio dicapperi, 50 g di olive verdi snocciolate, 4 pomodori maturi e 1cucchiaio d’uva sultanina, sale e pepe quanto basta.

Passate i tranci di pesce spada nella farina e friggeteli legger-mente. Metteteli da parte. Tritate il sedano, l’aglio e la cipolla efateli dorare nell’olio della frittura. Dopo qualche minuto,aggiungete i capperi, le olive e l’uva sultanina. Quando tutti gliingredienti saranno ben dorati, aggiungete i pomodori, ai qualiavrete tolto i semi, tagliati a pezzi. Salate, pepate e fate cuocereper circa 10 minuti. Disponete il pesce spada in un piatto e ver-sateci la salsa. Mettete in forno per 15 minuti, a circa 150° C.

Baccalà alla messinese4 persone

1 kg di baccalà, ½ bicchiere di olio extravergine di oliva, 1 kgdi patate, 100 g di sedano tritato, 500 g di pomodori pelati, 100g di olive bianche, 50 g di capperi, 1 cipolla, peperoncino rosso,sale e pepe quanto basta.

In un mezzo bicchiere d’olio, fate dorare la cipolla finementetritata. Quando prende colore, aggiungete i pomodori senzasemi, le olive snocciolate, i capperi dissalati e il sedano tritato.Lasciate insaporire per qualche minuto, poi versate 1½ litro di

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acqua. Aggiungete quindi il baccalà, le patate in pezzi e 30 g disedano tritato. Salate e pepate a vostro piacimento e mettetedel peperoncino rosso. Lasciate cuocere a fuoco lento per 2 ore.

Stufato di gallinelle farcite al tartufo4 persone

1 gallinella di 1½ kg, 150 g di carne di manzo macinata, 2 uova,1 cipolla, 1 spicchio d’aglio tritato, 2 cucchiai di provolone grat-tugiato, 1 tartufo medio, 1 cucchiaio di prezzemolo tritato, 1 bic-chiere di vino rosso, 2 bicchieri di brodo, sale e pepe. In mancan-za di tartufi potete usare i funghi porcini, ½ l di brodo vegetale.

Private delle penne la gallinella. Tagliatele le zampe e la testa.Preparate quindi un ripieno con le frattaglie, la carne macina-ta, le uova, la cipolla, l’aglio, il formaggio grattugiato, il prezze-molo, il sale e il pepe. Incorporate al ripieno i pezzi di tartufo.Riempite la gallina con il ripieno e ricucitela. In un tegame, fatescaldare 2 cucchiai di olio d’oliva. Mettetevi la gallina e fateladorare su tutti i lati. Salate e pepate. Fate sfumare 1 bicchiere divino rosso. Aggiungete 2 bicchieri di brodo preparato preceden-temente e ultimate la cottura.

Cosciotto di capriolo marinato all’acquavitedi prugne d’Agrigento6 persone

1 cosciotto di capriolo, 2 bicchieri di acquavite di prugne, 8 cuc-chiai di olio extravergine di oliva, 1½ kg di patate, 2 cipolle, 1 ra-metto di rosmarino, ½ kg di pomodori, sale e pepe quanto basta.

Fate marinare il cosciotto per tre giorni in una soluzione di olioe 2 bicchieri di acquavite di prugne. Una volta trascorsi i tregiorni, mettete la carne in una teglia da forno con le patate e ipomodori tagliati in pezzi, delle cipolle a fette, del rosmarino,sale e pepe. Infornate e lasciate cuocere per circa 90 minuti a150° C.

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Agnello arrostito all’olio extravergine d’olivadi Caltanissetta6 persone

Prevedete 1½ kg di carne a persona, 6 cucchiai di olio extraver-gine di oliva, 3 bicchieri di Marsala, 1 rametto di rosmarino, 1cipolla, 1 peperone verde, sale e pepe quanto basta.

Lasciate marinare i pezzi d’agnello per almeno 2 ore in unasoluzione di olio extravergine d’oliva con 3 bicchieri di Marsalao di Regaleale rosso, sale, rosmarino, 1 grossa cipolla e 1 pepe-rone verde tagliato in pezzi. Mettete i pezzi di carne in unateglia, senza asciugarli, con la cipolla e il peperone. Lasciatecuocere a fuoco lento per 90 minuti.

Pignolata6 persone

1 kg di farina, 12 tuorli d’uovo, 600 g di zucchero, 300 g di cacao,strutto.

Versate la farina a fontana, versatevi al centro i tuorli sbattuti e unpo’ di strutto. Lavorate la pasta fino a raggiungere la giusta consi-stenza. Preparate dei bastoncini dello spessore di un dito e taglia-teli in pezzetti lunghi 2 cm. Fateli dorare nello strutto, asciugate-li con la carta assorbente e ammuchiateli. Sciogliete lo zuccheroe il cacao, fate intiepidire e versate il tutto sulla pignolata.

Mele alla cannella6 persone

1½ kg di mele, 150 g di zucchero, 30 g di cannella in polvere.

Prendete delle mele abbastanza grandi. Eliminate il torsolo,sbucciatele e mettetele in una teglia. Riempitele con zucchero ecannella. Infornate per circa mezz’ora, finché non saranno cot-te a puntino. Mangiatele tiepide o fredde.

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Tra il formaggio e la cassata, don Vito Cascio Ferro, primo impera-tore mafioso*, si ricordò che un poliziotto americano era appenasbarcato dagli Stati Uniti per rompergli le uova nel paniere. Si asciu-gò le labbra e, posando il tovagliolo sul tavolo, si scusò con il suoospite, il deputato De Michele Ferrantelli, dicendo: «Continuate,torno subito».

Nell’anno benedetto 1909, Palermo era ancora la città descrit-ta da Tomasi di Lampedusa. Una città di velluti e di pianteornamentali, dove le carrozze – trainate da cavalli scelti neimigliori allevamenti austriaci – conducevano gli arricchiti e gliaristocratici superstiti del gotha borbonico dell’antico Regnodelle Due Sicilie verso indimenticabili amori e feste leggenda-rie. Al calar della notte, i grandi viali fiancheggiati da platani epalme vedevano passare gli equipaggi della gente per bene*palermitana che, ogni santo giorno, per tradizione, facevamostra di sé all’ora della passeggiata*, tra le diciotto e le venti.

Capitava spesso che il popolino, soprattutto il sabato sera,si spingesse lungo le vie da passeggio per ammirare le signore*e i signori* scambiarsi cenni con il cappello e sorrisi da vettura

don vitotorna subito

1909

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a vettura. Ciononostante, quell’anno non erano più soltanto iprincipi e i baroni a eccitare la curiosità popolare, ma il carriag-gio di un nuovo arrivo a Palermo, un certo don Vito CascioFerro, nativo di un piccolo paese di provincia, Bisacquino. Idue magnifici cavalli lipizzani bianchi e grigi che tiravano ilsuo calesse Tilbury grigio-oro facevano arrossire di gelosia inobili del luogo e spettegolare tutta la città.

Don Vito Cascio Ferro, cinquant’anni ben portati, un enor-me sigaro tra le labbra, la barba bianca e grigia come il mantodei suoi cavalli, non si curava dell’ironia degli aristocratici chevivevano le ultime ore di una gloria già appassita. Alla BirreriaItalia, quando faceva la sua entrata in quel caffè riservato all’é-lite palermitana, la folla si accalcava per baciargli le mani. DonVito si prendeva gioco di questa nobiltà decaduta e dei princi-pi che chiedevano denaro in prestito per poter conservare unostile di vita al quale le loro fortune non riuscivano a far fronte.Conosceva al centesimo l’ammontare delle loro finanze, cosìcome ben conosceva l’anatomia di certe loro spose che veniva-no a trovarlo di pomeriggio nei suoi appartamenti all’hotelSole, entrando dalle cucine, con il cuore che batteva forte e laveletta calata sui graziosi volti. Donne che si comprometteva-no inviandogli biglietti profumati che don Vito si faceva legge-re da uno dei suoi segretari poiché, cresciuto in una famigliacontadina, era analfabeta.

Nessuno, a dire il vero, poteva immaginare che questo signo-re alto, distinto e dal portamento aristocratico, oltre che unanalfabeta fosse anche un incallito criminale. Annoverarlo tra ipropri conoscenti era un privilegio e non c’era onore più gran-de di averlo alla propria tavola. Per l’appunto, il 12 marzo 1909,don Vito era stato invitato a casa di un suo caro amico, il depu-tato De Michele Ferrantelli, amicu di l’amici*, uno dei parlamen-tari che facevano da intermediari tra l’Onorata società e il go-verno di Roma.

Per don Vito, questo pranzo dall’onorevole era importantis-simo. Per due motivi. Innanzitutto, perché l’onorevole aveva il

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miglior cuoco di Sicilia, se non d’Italia; e poi perché aveva unimportante favore da chiedere al suo ospite, il quale, per moti-vi non meno importanti, non poteva rifiutare. In quel momen-to, in effetti, don Vito aveva qualche preoccupazione.

Due giorni prima, una lettera proveniente da New York l’a-veva avvertito dell’arrivo a Palermo di un poliziotto italoame-ricano di nome Joe Petrosino. Secondo la missiva, Petrosinoveniva in Sicilia per indagare sui legami tra la Mafia siciliana ela sua appendice americana, la Mano Nera. Joe Petrosino eraconvinto che ci fosse un legame tra la massiccia immigrazionedi siciliani e la crescente criminalità negli Stati Uniti, e peraccertarsene era intenzionato a recarsi in Sicilia. Sarebbe giun-to a Palermo il giorno seguente.

Per questa missione, Petrosino aveva reclutato due informa-tori, emigranti siciliani sbarcati di recente negli Stati Uniti gra-zie a una organizzazione controllata proprio dalla Mafia che,dietro pagamento, permetteva ai delinquenti siciliani di rifarsiuna vita in America con l’aiuto di documenti falsi e adeguatestrutture d’appoggio. Petrosino, che aveva promesso ai suoiinformatori l’immunità, aveva dimenticato solo una cosa: l’o-mertà*. Un siciliano non può sottrarvisi senza lasciarci la pelle.Per questo motivo, i due informatori avevano consigliato allaMano Nera di avvertire don Vito del prossimo arrivo del poli-ziotto in Sicilia.

In verità, Petrosino aveva tutte le ragioni per venire inSicilia a studiare la rete dell’emigrazione mafiosa. Nel corso deidue anni precedenti, aveva capito che a capo dell’emigrazionecriminale c’era proprio don Vito, la cui reputazione avevaattraversato l’oceano insieme ai pregiudicati giunti illegalmen-te o clandestinamente negli Usa.

Don Vito era proprietario di una vera e propria flotta, pocomeno di sessanta navi di grosso tonnellaggio, adibite al tra-sporto in Tunisia di bestiame rubato, che gli intermediaririvendevano per conto delle famiglie. Questa flotta trasportavaanche i criminali siciliani ricercati dalla polizia, che venivano

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poi trasferiti su cargo diretti in America, dove la Mano Nera sene faceva carico e assicurava loro un avvenire inserendoli neipropri ranghi. È comprensibile che l’arrivo del superpoliziottofacesse rizzare i capelli a don Vito.

L’americano era di tutt’altra tempra rispetto a quei poliziot-ti o carabinieri italiani verso cui don Vito si mostrava generosa-mente prodigo in cambio d’una buona discrezione. Anche i giu-dici e i procuratori avevano il loro prezzo. Ma non Petrosino,che al di là dell’Atlantico era considerato un poliziotto incorrut-tibile, deciso ostinatamente a distruggere l’organizzazione allabase, cioè in Sicilia. Don Vito era il suo obiettivo naturale.

Primo vero imperatore della Mafia, patrono incontrastatodi tre quarti della Sicilia, don Vito vi “tassava” tutte le fonti direddito. Non prelevava solamente il pizzo dagli incassi deicommercianti, ma proteggeva i monopoli dei suoi amici intutti i settori della vita economica dell’isola. Uomo di giustizia,don Vito inaugurò la tassazione del crimine. Ogni volta che neveniva commesso uno, offriva la sua mediazione: il criminalenon aveva nulla da temere e la vittima, per riavere il suo bene,pagava una somma inferiore al valore reale; riscuotendo ilpizzo, la Mafia vi trovava il proprio tornaconto così come illadro e il derubato. Il sistema era così soddisfacente che nessu-no osava più ricorrere alla polizia. Ogni litigio era sottoposto aun tribunale mafioso presieduto da don Vito, unico giudice,sovrano e senza appello. Sotto il suo regno, la Mafia giunse per-fino a mettere una tassa sugli innamorati che dovevano paga-re ’a cannìla*, quando – secondo l’uso siciliano – passeggiava-no sotto le finestre dell’amata: si trattava del prezzo simbolicodi una candela che un membro della mafia, incaricato di fareda accompagnatore, teneva per loro.

La mattina seguente, dunque, dopo essersi fatto radere dalbarbiere nell’hotel dove risiedeva, don Vito andò a fare unapasseggiata nella campagna circostante e sostò brevemente inuna fattoria gestita dall’affittuario di certi suoi conoscenti. Lìincontrò due uomini arrivati quella mattina dagli Stati Uniti,

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che non erano altri che gli informatori di Petrosino. Don Vitodefinì con loro gli ultimi dettagli, poi ritornò con il suo cales-se all’hotel Sole per fare la sua toletta, in vista del pranzo conDe Michele. Verso le undici e trenta, accompagnato dal coc-chiere-guardia del corpo, don Vito si recò alla Birreria Italia,dove ordinò dell’assenzio. La sua presenza diede nell’occhio inquanto era solito venire solo di sera. In seguito, i clienti e ilpersonale raccontarono che don Vito aveva parlato a voce alta,cosa che non faceva abitualmente. Furono così informati delpranzo dall’onorevole.

Dopo aver mandato indietro il calesse e i cavalli, don Vitoandò a piedi dal deputato, che abitava in un sontuoso palazzoa un quarto d’ora dal centro di Palermo. Il maggiordomo di DeMichele fece entrare don Vito a mezzogiorno e un quarto pre-ciso, come avrebbe confermato in seguito alla polizia. A mez-zogiorno e mezzo, i due uomini passarono a tavola.

Fu tra il formaggio di capra e la cassata siciliana che donVito chiese a De Michele il permesso di assentarsi per una ven-tina di minuti e, per l’occasione, che gli si prestassero cavalli,calesse e cocchiere. Tutto gli fu accordato con la miglior graziapossibile.

Alle tredici e trenta, don Vito Cascio Ferro mise il piedesulla predella del calesse che il cocchiere del deputato avevaappena abbassato. Nello stesso momento, Petrosino appariva apiazza Marina, seguito prudentemente e a distanza dai dueinformatori. Don Vito, sceso dal calesse, fissò il poliziotto ame-ricano negli occhi con una intensa curiosità; voleva, senzadubbio, capire di che pasta fosse fatto quel guastafeste. Fu ungrande momento, avrebbe confidato qualche anno più tardiagli amici, avidi di ascoltare per filo e per segno la storia diquell’incontro finito di diritto nel libro d’oro delle gesta mafio-se siciliane.

Don Vito estrasse dalla tasca una pistola e sparò un colpo inpieno viso allo scrupoloso poliziotto, mentre i due informato-ri si allontanavano in tutta fretta verso la fattoria dell’affittua-

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rio, come era stato deciso in precedenza. Quanto a don Vito,risalì sul calesse, mentre il cocchiere rimasto a bocca aperta tar-dava a ripiegare la predella. Alle tredici e quaranta, affondavail cucchiaio nella cassata. Si era assentato appena dieci minutie, con l’anima in pace, poteva finalmente assaporare caffè egrappa fumando uno di quei meravigliosi sigari ungheresi cheuna manifattura di tabacchi a Budapest fabbricava apposita-mente per lui, con il suo nome scritto sulla fascetta.

La serata alla Birreria Italia fu un trionfo. Tutta la Palermoche contava, aristocratici e alti funzionari, venne a compli-mentarsi con don Vito, che ringraziava discretamente con unlieve gesto della mano destra, tenendo un sigaro tra il pollice el’indice. La sua popolarità aveva raggiunto lo zenit. Le donnepiù belle lì presenti lo guardavano affascinate e gli uomini piùin vista mendicavano un gesto d’amicizia. Don Vito CascioFerro conoscerà altri trionfi, ma mai di questa qualità.

Il giorno dopo, l’intera città commentava il magnifico gestodi don Vito. Sembrava che tutta Palermo si trovasse nella vec-chia piazza Marina alle tredici e trentadue, nel momento in cuiil rispettabile omu di panza*, l’uomo d’onore, aveva regolato ilsuo conto con il poliziotto americano. C’era chi descriveva i li-neamenti di Petrosino contratti dalla paura, altri sottolineava-no la calma di don Vito mentre puntava la pistola, altri ancoral’avevano visto sorridere appena la sua opera di “giustizia” erastata compiuta. Nelle sale da tè del corso Vittorio Emanuele, nel-le bettole della Casba, la saga di don Vito eguagliava nell’imma-ginario popolare le grandi imprese del paladino Orlando.

Insomma, era opportuno raccontare l’incontro tra don Vitoe Petrosino come se vi si fosse stati presenti. Facevano eccezio-ne i poliziotti che condussero l’inchiesta e che non poteronomai mettere le mani sui testimoni del dramma. De Michele e ilsuo cocchiere giurarono su Dio che mai, in nessun momento,don Vito aveva lasciato il palazzo. Tutto il resto del personaledi questa onorabile casa, maggiordomo, domestici, servette epersonale della cucina, confermò la versione. Il giovane giudi-

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ce d’istruttoria che s’intestardiva a tenere aperto il dossier diquesto “agente di sicurezza assassinato” si vide chiudere più diuna porta tra le più in vista di Palermo. Fu perfino richiamatoall’ordine dal prefetto e, siccome insisteva un po’ troppo, dopoqualche telefonata a Roma, fu spedito a Pantelleria, dove finìla carriera.

Mai il prestigio di don Vito fu grande come in seguito aquest’assassinio. Il prefetto si vantava di contarlo tra i suoiamici più intimi. Ogni volta che un ministro del Regno era dipassaggio, don Vito era convocato in prefettura e invitato acena in occasione del suo prossimo viaggio a Roma.

L’omicidio di Petrosino fu attribuito ai due informatori, iquali, molto opportunamente, erano scomparsi. Si mormoravaanche che, in riconoscimento dei servizi resi, don Vito avesseofferto loro due hotel-ristoranti ad Algeri.

Negli Stati Uniti, i colleghi di Petrosino chiesero l’autorizza-zione a recarsi in Sicilia per trovare l’assassino del loro amico.Malgrado tutte le pressioni del dipartimento di stato, il governoitaliano oppose un rifiuto categorico a ciò che consideravanoun insulto ai poliziotti e ai magistrati che avevano lavato donVito da ogni sospetto. Roma non mancò di sottolineare che l’a-gente Petrosino era sbarcato in Sicilia senza che né lui né i suoisuperiori avessero contattato il ministero dell’Interno in Italia.C’era stata ingerenza negli affari interni italiani; l’Italia si senti-va in diritto di esigere delle scuse scritte. Cosa a cui il diparti-mento di stato dovette acconsentire.

Palermo avrebbe vissuto gli ultimi cinque anni della suabelle époque. La gioventù dorata siciliana sarebbe morta sulPiave insieme ai buoni a nulla della Casba e della sudicia cam-pagna. Ormai nulla sarebbe più stato come prima. Tranne unacosa: la Mafia.

Don Vito, invece, avrebbe combattuto la guerra a modo suo,decuplicando una fortuna che, già alla vigilia delle ostilità, eraannoverata tra le tre o quattro più importanti della Sicilia. Sa-rebbe morto in prigione nel 1943, ma questa è un’altra storia.

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Fino al 1923, anno in cui fu incarcerato, non dimenticavamai di pranzare ogni mercoledì a casa del suo caro amico, ildeputato De Michele, quando questi si trovava a Palermo. Ilmercoledì era diventato il loro giorno, in ricordo della vecchiacomplicità. In quegli incontri, venivano serviti triglie ai semidi finocchio, un agnello da latte in salsa con erbe delle pendi-ci dell’Etna, formaggi di capra di Caltanissetta e una meravi-gliosa cassata. Il tutto innaffiato dal meraviglioso vino che donVito stesso produceva dalle sue vigne sulle pendici dell’Etna.Questo perché, come affermava un vecchio detto siciliano:«Degustare una goccia di vino dell’Etna è tanto gradevole alcuore dell’uomo onesto quanto una goccia di sangue che coladalle vene del suo nemico».

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ChiantiFrascati

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PORTATE

VINI

Gli incontri del mercoledì erano diventati un’istituzione per ildeputato De Michele e don Vito. Quest’ultimo, benché nonsapesse né leggere né scrivere, sapeva mangiare come un prin-cipe bizantino e assaporare i cibi come un marchese venezia-no. Il semplice menù che il cuoco del deputato preparava a suadiscrezione incantava il palazzo, sebbene, a suo giudizio, nonfosse abbastanza opulento. Invariabilmente, a ogni incontro,la conversazione prendeva il via con gli antipasti della casa:olive al forno e fagioli alla menta; poi proseguiva con le trigliedi cui lo chef palermitano sposava il gusto delicato con il sapo-re pronunciato dei semi di finocchio, e l’agnello neonato*,

Olive al fornoFagioli alla mentaTriglie ai semi di finocchioAgnello di latte in salsa con erbe delle pendici dell’EtnaFormaggi di capra di CaltanissettaCassata siciliana

12 MARZO 1909, PRANZO PRIVATO A PALERMO A CASA DEL DEPUTATO DE

MICHELE FERRANTELLI IN COMPAGNIA DI DON VITO CASCIO FERRO.

Pranzo privato alla palermitana

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cotto a fuoco lento con le erbe colte sulle pendici dell’Etna. Idue uomini terminavano l’incontro con il fiore all’occhiellodella gastronomia siciliana: la cassata. Ecco dunque le ricette diquesto menù che, un secolo dopo, ha conservato tutta la suaattualità.

Olive al forno4 persone

400 g di olive nere, 2 spicchi d’aglio, ½ bicchiere di vino bian-co, 2 cucchiai di olio extravergine di oliva.

Prendete delle olive, preferibilmente nere, grosse e carnose. Met-tetele su un vassoio con un po’ d’olio d’oliva, ½ bicchiere di vi-no bianco e spicchi d’aglio interi. Passatele in forno e toglietelequando cominciano a seccarsi. Servitele ben calde.

Fagioli alla menta6 persone

1 kg di fagioli, 1 spicchio d’aglio, 2 coste di sedano, 4 cucchiaidi olio extravergine di oliva, ½ bicchiere di aceto bianco, 6foglie di menta, sale e pepe quanto basta.

Usate grossi fagioli bianchi, detti “spagnoli”, bolliti in acqua aro-matizzata con aglio e sedano. Sgocciolateli, versateli in un piat-to da portata: conditeli con olio d’oliva, ½ bicchiere d’aceto divino bianco, sale, pepe e un pugno di foglie di menta tagliategrossolanamente. Serviteli ben caldi.

Triglie ai semi di finocchio6 persone

12 grosse triglie di scoglio, 1 cucchiaio di semi di finocchio, 1cucchiaio di prezzemolo tritato, 150 g di lardo, 7 cucchiai diolio d’oliva, succo di limone, sale e pepe quanto basta.

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Prendete le triglie, togliete loro le interiora e lavatele. Conditelecon l’olio d’oliva, il succo di limone, sale e pepe, i semi di finoc-chio schiacciati, il prezzemolo e il lardo tagliato a cubetti. Prepa-rate dei fogli di carta oleata: su ogni foglio disponete 2 trigliecondite, con il grasso del lardo. Chiudete a cartoccio, arrotolatenell’alluminio e fate cuocere per circa 20 minuti, alla griglia o al-la brace.

Agnello di latte in salsa con erbe delle pendicidell’Etna6 persone

2 kg di carne d’agnello, farina, olio d’oliva, sedano e cipolla, 1½l di brodo di carne, 1 ciuffo di prezzemolo, origano, 1 cucchiaiodi cipollina, sale e pepe.

Tagliate la carne in pezzi di misura regolare. Passateli nella fari-na e fateli dorare in 1 bicchiere d’olio d’oliva dove avrete pre-cedentemente fatto soffriggere il sedano e la cipolla tritati.Salate, pepate, e coprite l’agnello con il brodo. Lasciate cuocereper 1 ora a fuoco lento. A fine cottura, cospargete la carne con1 cucchiaio di prezzemolo tritato, 1 cucchiaio di cipollina trita-ta e l’origano.

Cassata siciliana4 persone

400 g di pan di Spagna (6 uova, 150 g di zucchero, 180 g di fari-na), 700 g di ricotta di pecora, 200 g di scorza di frutti canditi,100 g di cioccolato amaro, 250 g di zucchero semolato, 1½ dldi maraschino.

Tagliate il pan di Spagna in quattro dischi di 1 cm di diametro.Tritate le scorze di frutta candita, grattugiate il cioccolato conuna grattugia dai fori larghi. Passate la ricotta con il passaver-dura in una terrina. Aggiungete le scorze di frutta candita, il

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cioccolato, lo zucchero e 6 cucchiai da minestra di maraschino,quindi mescolate con una forchetta. Mettete da parte. Con unfoglio di carta da forno coprite il fondo e i lati di uno stampoper pan di Spagna della capacità di 1½ l. Bagnate i dischi di pandi Spagna con il resto del maraschino. Guarnite il fondo e i latidello stampo con tre dischi, quindi versateci il contenuto dellaterrina aiutandovi con una spatola. Coprite il tutto con l’ulti-mo disco e premete con il palmo della mano per farlo aderire.Coprite lo stampo con un altro foglio di carta da forno e fateraffreddare in frigo per almeno 2 ore. Sformate la torta e servi-te. Potete gustare la cassata così oppure ricoprendola con unaglassa di cioccolato e burro fusi insieme.

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viva mussoliniviva don ciccioviva la mafia

1924

Che idea buffa aveva avuto Mussolini venendo a far visita al paesi-no di Piana dei Greci, a mezz’ora d’automobile da Palermo! Due an-ni prima, in questo feudo mafioso*, il re in persona s’era accorto che,in quei luoghi, un ometto dalla carnagione scura chiamato don Cic-cio Cuccia era l’unico padrone dopo Dio. Forse anche prima di lui...

Per quanto povero, nel 1924 il borgo di Piana dei Greci si sen-tiva benedetto dagli dèi. La primavera era superba, il raccoltos’annunciava buono, i braccianti* – le mani intrecciate e disoc-cupate della miseria siciliana – sarebbero stati impiegati per lamietitura. L’aveva promesso il sindaco, don Ciccio Cuccia.

Don Ciccio era un tipo particolare. Basso, scuro di carnagio-ne, irascibile, autoritario, il sorriso crudele e la voce acuta, erada dieci anni il sindaco di questo paesino di 4.500 abitanti, di-scendenti in gran parte da immigrati albanesi stabilitisi nellapiana alla fine del quindicesimo secolo. A dirla tutta, questo sin-daco basso e tarchiato era anche il capo indiscusso della Mafialocale.

Piana dei Greci – in seguito ribattezzata Piana degli Albane-si – si trovava ad appena mezz’ora d’auto da Palermo. Un tem-

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