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LEGGI ROMA AL CONTRARIO

Realizzata da:

Andrea Morlino

E-mail: [email protected]

Mobile: 347-6953569

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INDICE

MILANO

La felpa della Kappa 4

Lui, e solo lui 6

Provare a fare i grandi 8

Non meritevoli di vivere quel sogno 14

Perché 18

Senza età 21

Stai calmo, non agitarti, ho paura 23

C’è la neve nei miei ricordi 26

Forare 30

Fuga 32

PISTOIA

Per le cose semplici 34

NAPOLI

Rattenuto 36

VIESTE

Sgarbugliando la grande matassa 43

L ’ architiello e la gabbia d’oro 46

San Francesco, la mancanza di lucidità e l’ingordigia 49

Svegliarsi nuovo 54

L’altalena di coriandoli 57

Un natale a marzo con la voce di panna 66

L’acqua schietta ed il sole intimorito 76

Il sole che ci inghiottiva 82

Per l’istante 86

Leggi Roma al contrario 88

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FLASH FORWARD

Prato immenso.

Prato irlandese, prato pugliese…che importa dove sono.

Il sentiero infinito si perde nella valle, appoggio la schiena al capezzale di tua madre.

Aspetto te.

Te insicura.

Te donatrice.

Te indefinita.

Te, svolta della mia vita.

Tramonto caldo, quasi mi dai fiducia sul fatto che lei arriverà.

Ma se non sa nemmeno che io sono qui?!

Io pazzo.

Io sognatore.

Io indefinito.

Io, spero svolta della sua vita.

La paura di riaffidarsi ad una persona, di donarle la mia bussola e dirle:

“Scegli tu la rotta, io mi fido di te”.

La paura di donarle quella bussola quando ne sono appena ritornato legittimo

possessore.

Ma, dietro i fiori, un biglietto….

la sua scrittura…

calda come questo tramonto….

che sembra quasi darmi fiducia sul fatto che lei…arriverà.

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MILANO

La felpa della Kappa

21.59

“Non esco”

22.03

“Esco”

22.05

“Non esco”

22.09

Squilla il telefono: “Andre, ti muovi, esci?!”

“No”

“Vengo a prenderti a calci Andre, dai che ci divertiamo”.

“No”

“Sono sotto casa tua, mò ti suono”

“No”

Driiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiin

Persona apatica che non vuole uscire: Andrea, 23 anni, abitante di Carugate, sperduto

paese situato nella Brianza di serie B, ma pugliese nel sangue, natio di Vieste, luogo

dove risiede la sua anima.

Un gruppo di amici, “La_Kumpa”, ristretto ma fidato. Qui si parla di vera amicizia, mica

balle.

Un luogo di ritrovo fisso da sempre: il bar in piazza “La cascina” che per connotazione

pare più “Bar dello sport” lei di qualsiasi altro bar chiamato “Bar dello sport”, perfino più

di quello narrato da Benni.

Con i suoi i vecchietti, che un bianchino lo fanno durare un pomeriggio. Con la Wilma,

una brioche su cui specifici studi antropologi hanno dimostrato un’età pari al triplo della

Luisona di Benni. Un forestiero un giorno la mangiò. Non se ne ebbe più traccia…di lui.

La Wilma tornò reincarnata in una stecca di Liquirone, dura come il marmo, e molto

Oratorioladomenicapomeriggio nello spirito.

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Una storia con una ragazza bellissima e dolcissima, Francesca, finita…per colpa di

Andrea, chiaramente. Tante matasse mentali auto costruite ed auto flagellatanti, otto

mesi di down e quindicidicoquindici chilogrammi persi per superare tale debacle.

Pochi vizi, essenzialmente due: i concerti, nei quali sogna un giorno di poter lavorare e

la buona cucina, i ristoranti. Il sogno, forse irrealizzabile, di aprire un ristorantino di

pesce sulla spiaggia nella sua Vieste.

Una passione calcistica: a’ Lazzzio, scelta a cui non sa dare spiegazione essendo un

pugliese trapiantato a Milano.

Un amico fidato: Pablo, un labrador bianco che pesa più di lui e che, non si sa come,

ogni santissima sera ha l’entusiasmo, gli occhi vispi e la gioia di chi ama veramente la

vita.

Una laurea apparentemente utile, rivelatasi poi totalmente inutile, in quel settore a

cavallo tra la comunicazione, l’economia, il marketing, il pierraggio, Fabrizo Corona e

Lele Mora.

Un sogno realizzato, tramite una botta di culo stratosferica: dopo la tesi riesce ad

entrare nel team di una delle agenzie di concerti più importanti d’Italia.

Persona attiva che vuole uscire: Daniele, 23 anni. Semplice ma bello. Bello ma

semplice. Uno che con le donne ci sa fare, alla grande. Uno che, miei occhi testimoni,

andò a ballare nella discoteca più alla moda di Milano con la felpa della tuta della

Kappa e, così conciato, si fece un figone stratosferico che non sto a spiegarvi, davanti

agli occhi increduli dei figli di papà incravattati ed imbambati.

Daniele è la luce di Andrea. Per Andrea. Daniele è l’unico amico che per farlo reagire

non lo consola ma lo scuote, lo sgrida, lo passa appunto a prendere quando lui non

vorrebbe mai e poi mai uscire.

Daniele nella vita reale è…Daniele.

Andrea nella vita reale è….me medesimo.

E questa è la mia storia, o meglio, la storia di uno che stava male e tentava in ogni

modo di cambiare per stare bene.

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Lui, e solo lui

“Non riesco a capire che cos’hai e, soprattutto, perché lo hai. Ti sei laureato in tempo a

pieni voti, lavori nel posto dove hai sempre sognato di lavorare, privilegio che hanno in

pochi, hai una famiglia unita, hai tanti amici, non hai problemi di salute.

Perché stai male?” disse Daniele passandomi la terza birra della serata in Cascina.

“Non lo so, cazzo. Non lo so. E’ una crisi mutabile, astuta, camaleontica. Un giorno sto

male per un motivo ed il giorno dopo per un altro. È indecifrabile. Il fatto è che io non

riesco ad affrontarla, c’è sempre un muro di distrazioni e di finti impegni che mi fa

impedire di mettermi lì e parlare a questa crisi. E il realizzarsi di questo pensiero sai

quale è? Lo sai quale è, Dani?! È che non riesco a piangere.

Non riesco a piangere, per Dio. A volte mi metto lì, ci penso sai, a tutto questo che ti

sto dicendo, ma non riesco a piangere. E piangere sarebbe un primo passo verso

l’ammettere di avere un problema. Invece vince sempre l’aridità nei miei occhi, non

riesco ad ammettere il mio dolore”.

Mi alzai, andai verso il cornicione della fontana davanti alla Cascina. Una fontana che

vorrebbe dare un tocco di eleganza ad una piazza rustica, come un bicchiere di vetro

di Murano messo in una tavola di un’osteria per camionisti, una fontana vorrei ma non

posso, una fontana che li, tra le nostre vite, non centrava proprio un cazzo.

Salii sul cornicione e ci camminai sopra, ritornai da lui e riattaccai:

“I motivi sono del mio malessere sono i più disparati: spesso non riesco a parlare coi

miei genitori, anche se non abbiamo litigato. Non mi va di parlare, così, senza un

motivo. Mi chiudo. E sto bene con la musica silenziosa nelle mie orecchie. Con la dolce

malinconia di un venerdì sera in casa da solo.

Altre volte mi manca mostruosamente una donna, donna non in quanto donna, donna

non in quanto sesso…ma donna in quanto abbraccio, in quanto progetto, in quanto

vigilia di natale assieme, in quanto Andrea stringimi forte.

Altre volte ancora questa realtà e questo paese mi stanno stretti come un giubbino

delle scuole elementari. Sarà che questo lavoro mi ha trasportato in una realtà che è la

cosa più distante che possa esistere da qui, da noi…ma mi sembra di volere di più, di

iniziare a capire che ci sono tanti di quei paesaggi, mari e tramonti che non abbiamo

mai visto che è assurdo stare a passare le sere a sbronzarci in Cascina.

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Non riesco più a capire neanche se mi vada ancora bene uscire sempre, e dico

sempre, con le stesse persone. So che su di loro posso contare, che se manco mezza

volta mi vengono a cercare ma, Dani, sono sempre gli stessi discorsi. Conosciamo a

memoria pregi e difetti di ciascuno di noi, è come specchiarci ogni sera in una foto già

vista.

Io non voglio più specchiarmi, io voglio buttarmi. Buttarmi nell’ignoto, buttarmi e

sbagliare, buttarmi e bruciarmi…ma buttarmi!”

“Ma pensa a chi non ha tutto quello che hai tu” disse lui alzandosi di scatto “Pensa a

chi non ha i genitori, a chi non ha amici, a chi si alza ogni mattina e vorrebbe bruciarla

la fabbrica dove lavora, pensa ai bambini in Africa che muoiono perché non hanno

l’acqua”

“Dani, ma vaffanculo! Come faccio io a pensare ai bambini in Africa, a

contestualizzarmi in quel dolore?! Il dolore che prova ognuno di noi è sempre il dolore

più grande che in quel momento possa esistere, anche se si parla di un taglietto al

mignolo. Il dolore è soggetivizzato, io non riesco a pensare al dolore degli altri.

Io devo pensare al mio, e risolvere il mio”

Il secondo wodka tonic in mezzora ci aveva steso. Avrei potuto addormentarmi nella

fontana di fronte alla Cascina. Ma sapevo anche che avremmo potuto continuare fino

all’alba con quei discorsi e che lui, e solo lui, avrebbe potuto capirmi.

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Provare a fare i grandi

Sabato sera.

Solita routine, anticipo “Lazio – inter”, avrei potuto vederlo a casa, ma avevo bisogno di

una birra ed una pacca sulla spalla da un amico. Mi recai quindi in Cascina per vedere

la partita con gli altri. Mentre parcheggiavo pensai, a differenza del mio discorso fatto a

Dani poche sere prima, alla fortuna di abitare in provincia. Non hai tutto a portata di

mano, è vero, ma chi abita a Milano la “Cascina” se la scorda; non intendo come luogo

concreto, ma come concezione astratta, come respiro di casa..

A Milano, se una parte della città prima in diventa out, il locale ti saluta e chiude.

La Cascina è un’istituzione, qualsiasi concetto di “tendenza” sbatterebbe contro la sua

serranda, è come una bandiera nel calcio, come Franco Baresi. Nel calcio moderno

non esistono più le bandiere, nella società attuale un locale non ha la certezza di

sopravvivere in eterno.

Per questo è affascinante la solidità della Cascina.

“Luca il solito, grazie” dissi.

Mi piaceva un sacco dire il solito, mi faceva sentire uno di casa.

Sei medie chiare arrivarono immediatamente sul nostro tavolo.

Sciarpa d’ordinanza bianco azzurra al collo, seppur consapevole di essere cenerentola

che va contro al corazzata Potionski.

Invece…Rocchi di testa, gol. 1-0 per noi.

Rocchi, Pandev, Ledesma la ridà a Pandev, semirovesciata, gol. 2-0.

Madò, Madò.

Intervallo. Altra media.

Mauri, Mutarelli, Mauri, gol 3-0.

Traversa di Cambiasso, Crespo a porta vuota. 3-1.

Maledette birre di Luca di seconda scelta, la mia vescica stava a dir poco scoppiando.

Corsi in bagno come un bambino che non vuole perdersi la fine del suo cartone

animato preferito, conscio però che, a sette minuti dalla fine, il risultato fosse ormai in

cassaforte.

Si,. in una cassaforte…bucata. Tornai giusto per vedere il 3-4 in diretta. Quaterna di

Crespo, infame traditore.

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Perdere così, in rimonta, mi faceva veramente imbestialire. Perdere in generale mi

faceva imbestialire, ma in quel modo ancor di più. Per dieci minuti dovevo stare solo,

tutti lo sapevano.

“Certo che un laziale a Milano è proprio strano trovarlo” ecco, lei non lo sapeva.

“….”

“Cosa fai, hai perso la parola dopo che vi abbiamo stesi?”

“!!!!”

“Ho capito, la partita è argomento tabù. Claudia, piacere”

“Andrea”

Claudia era la classica ragazza che non noti in mezzo ad altre ragazze, che non ti

gireresti mai a guardarla per strada ma che, se la scruti bene, scopri che è veramente

carina. Fisico asciutto. Capelli mossi.

Non l’avevo mai vista alla Cascina, nonostante fosse di Carugate.

Quella sera non uscii con gli altri, ma rimasi a parlare con lei in piazza tutta notte.

La settimana successiva l’Inter perse in casa contro il Catania ed io mi feci due grosse

risate guardandola dritta in faccia.

Tre giorni dopo venne a casa mia.

Due giorni dopo ci baciammo, alle 16:07, mentre impastavamo insieme una torta alle

mele guardando un attuale e triste rifacimento dell’indimenticato Bim Bum Bam.

In quell’istante Claudia mi disse che nonostante i suoi 17 anni non aveva mai baciato

nessuno. Immediatamente realizzai di non essermene accorto, dato che altre ragazze

che si vantavano di chissà quali passati amatori baciavano in realtà molto peggio.

In un secondo momento pensai che era una cosa fantastica, ai giorni d’oggi, rara e

fantastica. Lei era pura, e non mi riferisco al mero contesto ginecologico della

questione, ma al fatto che fosse pura nelle emozioni, nei brividi, nelle farfalle allo

stomaco. Il suo campo chiamato amore era liscio come dopo una nevicata, sarei stato

io il primo a percorrerlo e a lasciare i miei passi. Tutto ciò profumava clamorosamente

di indelebile.

Claudia mi riportò ad assaporare le piccole cose; lei era un’amante del paese e della

tranquillità; io venivo da un paio di anni vissuti invece decisamente più di notte che di

giorno e con un tasso alcolico tenuto costantemente su livelli, definiamoli,

imbarazzanti.

Ricordo che il primo appuntamento dopo quel bacio lo fissò lei:

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“Allora ci vediamo domenica a mezzogiorno per una passeggiata in pista ciclabile, ti

va?”

Nella mia mente apparvero tre distinti campanelli d’allarme:

- Primo: io la domenica a mezzogiorno costantemente, pesantemente ed

indiscutibilmente…dormo.

- Secondo: cos’è e dov’è la pista ciclabile?

- Terzo: perché dobbiamo fare una passeggiata a piedi se possiamo farla in

macchina?

Quello infatti era il periodo in cui io usavo la macchina per qualsiasi cosa: se il

giornalaio era a duecento metri da casa mia, io prendevo la macchina, facevo dieci

minuti di strada causa sensi unici inconcepibili, litigavo per un parcheggio cinque minuti

e prendevo il giornale.

Definii la nostra storia “Bim Bum Bam” non per mancarle di rispetto, ma perché era la

riscoperta in me di abitudini, orari e luoghi che avevo completamente dimenticato.

Data la vicinanza tra nostre abitazioni eravamo sempre assieme, preparavamo torte,

prendevamo il thè alle cinque parlando fino a sera.

Tutto troppo bello. Tutto troppo facile. Per essere vero. Per durare.

E invece durava.

Presi casa sua come seconda abitazione, nei giorni in cui i miei erano via ero sempre

da loro. Strinsi un rapporto intenso con sua madre. Praticamente mi ero fatto adottare

senza chieder loro prima il permesso.

Gli equilibri erano chiari fin dall’inizio: io ero quello grande, io ero quello che

proponeva, io ero quello che organizzava le sorprese.

L’implicito compito che mi ponevo ogni mattina al risveglio era rendere la sua giornata

particolare, irripetibile, distintiva dalle altre: un biglietto messo sulla sua macchina al

parcheggio del metrò, una visita anche quando non potevo passare da casa sua.

Rendere straordinario ogni momento ordinario, apparentemente noioso, un lunedì

mattina piovoso.

Capivo benissimo che era talmente sottile il limite tra la distinzione se Claudia fosse

innamorata di me o innamorata dell’innamorarsi da rendere le due cose praticamente

indistinguibili.

Claudia era innamorata dell’innamorarsi.

Di avere qualcuno a cui pensare al risveglio, per la prima volta nella sua vita.

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Di avere qualcuno con cui passare il sabato pomeriggio, sognare, progettare, cinema,

pizza, non ti lascerò mai, cene, viaggi, ti prego Andrea stringimi forte.

Passarono due anni veramente belli. Veloci, come ogni cosa che sia bella, ma densi.

Per la prima volta stavo vivendo la vera quotidianità con una donna.

Per tutti eravamo una coppia solida. Mi dava più forza questo giudizio esterno che

l’andamento vero e proprio del nostro rapporto, in cui io continuavo a essere quello che

organizzava, proponeva.

Ricordo piccoli momenti che mi facevano sentire grande: ad esempio quando in ferie,

mentre Claudia era in doccia, squillava il suo cellulare. Era sua madre. Io rispondevo e,

in quelle poche parole scambiate, mi sentivo clamorosamente genero. Tutto profumava

di genero.

O quando una delle due famiglie era fuori Milano, vivevamo assieme e giocavamo a

fare gli sposati. In quelle situazioni, la spesa il sabato pomeriggio era la situazione più

surreale.

Lei: “Amore, oggi Ipercoop”

Io: “Noo”

Lei: “Si ciccio, tanto ho solo due cosettine da prendere” e mostrava un minuscolo

foglio.

Sottomesso davanti al potere femminile, mi avviavo a questo esodo insieme ad altri

duemila sudditi delle loro compagne.

Arrivavi e trovavi parcheggio nell’unico posto che era disponibile: sulle strisce, in

rimozione forzata e contromano: praticamente a rischio ergastolo.

Entrati, ecco svelato l’arcano: il microfogliettino era stato in realtà accuratamente

sezionato tipo bigino bignami e srotolato si rivelava come un’infame lista di

quattrocentododici prodotti.

E quel giorno (e lei lo sapeva!) non c’è il 3 x 1 ma il 6 x 1. Dio mio! 6 kg di Macine.

“Ma cosa cazzo ce ne facciamo di 6 kg di Macine se io non faccio colazione?!”

chiedevo sempre stupito.

Il carrello iniziava a riempirsi sempre di più ed io ero sotto che tentavo dagli specchietti

laterali di vedere qualcosa. E, confermatemelo, trovatemi un carrello che vada dritto!

No! sono fatti apposta, sarebbe troppo facile, cosi sbandavo a destra e a sinistra.

Sembravo il dottor House.

Il momento più assurdo era alla cassa. Io ho girato diversi Paesi d’Europa e ho sempre

notato che le file sono lineari, ovvero esiste un primo unico, un secondo unico etc…

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L’ Italia è l’unico posto al mondo in cui esiste la fila bipolare, ovvero un primo unico ma

due secondi a parimerito e tre terzi sgomitanti che essendo da podio se la giocano; e li

è un guadagnarsi centimetri su centimetri manco fossimo al Tour de France.

Poi c’ erano quelli furbi che si approfittavano anche dei loro bambini; ero in coda e

sentivo da dietro questa voce: “Vai, vai che tanto il signore ti fa passare”.

“No, No! Il signore dopo sedici ore di angherie col cazzo che ti fa passare, bel

bambino!” e allora lì, senza farsi vedere, quando era altezza bacino…pam!, gomitatina

sul viso del piccolo pargolo.

“Sputa i dentini bel bambino, tanto son da latte, e ringrazia quel buon uomo di tuo

padre!”

La persona prima di te in coda, chiaramente, ne aveva una delle sue: aveva vinto un

buono di 100 euro di spesa e comprato un attrezzo da ginnastica dal prezzo di 99.99

euro.

Concluso il pagamento eccolo all’attacco della povera cassiera :”Uè signorina, voglio il

centesimo di resto che mi spetta!”

“Caro cliente, il buono non dà diritto ad un rimborso economico, ma consente solo una

spesa per un massimo di 100 euro”

“Eh no, 100 euro al ghè vint e 100 euro la vò spend’”

“Può prendere queste cicche”

“Va ben”

“Perfetto il conto è di 101,50 euro” mi deve 1,50 euro.

“Ahahha signorina, mì al ghè vint, e mì l ghe devi paghà?! Che schi l’è un contrusens!”

Le duecento persone in fila presero a calci fino all’uscita lui, il suo attrezzo ed il

maledetto buono. E tieniti le cicche per consolazione, nonnino.

Ma il momento peggiore doveva ancora arrivare: durante il pagamento i ruoli erano

definiti a monte…da lei. Lei era l’addetta alle tessere: punti e bancomat, chiaramente il

mio bancomat. Io ero addetto allo stivaggio: dovevo fare le borsine con la divisione dei

prodotti nei vari sacchetti che decideva…lei. Ma lei, questo criterio di divisione, non

me lo diceva mica.

La solidarietà femminile, per antonomasia, in natura non esiste, quando può rivelarsi

determinante per ingabolare un uomo…si!

Cenno d’intesa tra la cassiera e lei, e la cassiera quadruplicava la velocità del nastro.

Arrivavano dei panetti di burro ai 210 km/h, difficile da evitare. E quelle maledette

borsine non si aprivano mai. Mai! Erano saldate quelle borsine!

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L’ultimo prodotto da inserire era sempre il Dixan da due litri che, immancabilmente,

distruggeva le Macine sottostanti. Lei tanto, nella confusione, non se ne sarebbe mai

accorta.

A casa lei si buttava sul divano e diceva: “Sono distrutta, metti via te che sei alto e

arrivi alle mensole”.

E lì tutto profumava di rassegnazione.

Quando era il turno delle Macine provavo a ravvivare il sacchetto un po’ con una

innovativa respirazione macina a bocca e lì capivo che le donne hanno occhi in luoghi

che noi ignoriamo; perché lei era nell’altra sala, di spalle, con volume del televisore

maleducatamente alto e mi urlava “Le hai sbriciolate eh?! Lo sapevo!”

Era un gioco delle parti, entrambi ne eravamo consapevoli, ma ci piaceva provare a

fare i grandi.

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Non meritevoli di vivere quel sogno

Questa mia attenzione nell’ordinario veniva esaltata con gesti clamorosamente

straordinari.

Una notte presi bomboletta, il fido Dani e la mattina dopo nella sua via Claudia trovò

scritto:

Quando tu chiudi gli occhi

le tue palpebre sono aria.

Mi trascinano:

vado con te, dentro.

Non si vede nulla,

non si sente nulla.

Superflui gli occhi e le labbra,

in questo mondo tuo.

Per sentire te

non valgono i sensi consueti,

che si usano con gli altri.

Bisogna attenderne di nuovi.

Si cammina al tuo fianco

sordamente, al buio,

inciampando nei forse, nelle attese;

sprofondando verso l'alto

con gran peso di ali.

Quando tu riapri gli occhi

io torno fuori, ormai cieco,

inciampando ancora, senza vedere,

nemmeno qui.

Senza sapere più vivere

nè in quell'altro, nel tuo,

nè in questo mondo scolorito

dove io vivevo.

Incapace, indifeso

fra l'uno e l'altro.

Andando,venendo

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dall'uno all'altro

quando tu vuoi,

quando apri, quando chiudi

le palpebre, gli occhi.

Avrei voluto vedere il suo viso, mentre alle sei di mattina leggeva quel testo.

Avrei voluto vedere il suo viso, per capire se vi era stupore.

Perché da un po’ di tempo mi ero reso conto di essere entrato in un circolo vizioso

ingestibile: inizialmente non ricevevo da lei, me ne ero fatto una ragione, ma lei era

entusiasta del mio dare, delle mie attenzioni, del mio metterla su un piedistallo.

Successivamente non ricevevo da lei, ma non vedevo nemmeno più una gioia in lei per

le cose le donavo. Non riuscivo più a sorprenderla. E la cosa mi faceva impazzire. E

più tentavo di sorprenderla, più alzavo il livello delle mie idee, più lei si abituava a quel

livello, più non riuscivo più a ri-sorprenderla. Ciclo assassino. Ciclo vizioso.

Un giorno feci il gioco della morte, come lo chiamo io. Il venerdì pomeriggio

solitamente si organizzava, ops…organizzavo, la serata. Uno di quei venerdì stetti

volontariamente zitto. Ore 18, nulla. Ore 20, nulla. Ore 22, nulla.

Me ne andai a letto.

Il giorno dopo arrivai da lei sconsolato. Claudia, in massima tranquillità, disse: “Ho visto

che non ti eri fatto sentire, quindi ho organizzato con le altre”.

Fuoco e fiamme nella mia testa.

Non per il gesto in sè, ma per la consapevolezza che secondo lei quello che aveva

fatto era giusto. Le due cose sono radicalmente diverse.

Poi, però, il giorno dopo arrivava il messaggio “Ho sognato il nostro amore, la nostra

casa, il nostro futuro”.

Sali e scendi. Scendi e sali. Emozione su, delusione giù. Delusione giù, emozione su.

Ma, dopo un po’, anche sulle migliori giostre di Gardaland viene la nausea.

L’apice del mio improvvisarmi inventivo la raggiunsi quando un giovedì le dissi:

“Sabato partiamo”.

“Dove?”

“Non lo saprai mai”.

Taxi, mentre eravamo seduti guardavo i prati confinanti la zona di Varese. Mi piace

molto, quando sono su un’auto ma non guido, guardare il paesaggio e astrarmi,

diventare aria, reinventarmi pensiero, improvvisarmi sole e passeggiare in quei campi

che vedo schizzare dal vetro.

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Pensai a come stesse lei in quell’istante, alla fortuna che stesse vivendo: qualcuno la

stava conducendo in un luogo a lei segreto, qualcuno aveva usato il proprio tempo per

organizzare qualcosa per lei.

Quasi mi dimenticai che quel qualcuno fossi io, ci vedevo quasi dall’alto, pensai a

quanto lei fosse fortunata.

E accettai, con un vuoto al cuore, la consapevolezza che lei non mi avrebbe mai

donato quella fortuna. Quell’istante su quel taxi.

Arrivammo a Malpensa.

Tabellone delle partenze:

“Scegli” dissi.

Avevo già scelto.

Parigi.

La città dei suoi sogni.

La città dei miei sogni, ma questo non aveva più importanza.

Subito dopo la dichiarazione della destinazione, maledetta la mia capacità di dare un

significato ai gesti più inutili, capii che Claudia non mi amava più.

Iniziò a saltare da sola, a cinque metri da me, urlando “Vado a Parigi, vado a Parigi!!!”

Non venne da me.

Non disse “Andiamo a Parigi”.

Non esisteva più unione.

Non esisteva più condivisione.

La città che più di ogni altra trasuda amore, arte e passione da ogni suo angolo fece da

contesto alla fine di un amore che nessuno dei due aveva la forza di ammettere.

Pittoresco paradosso.

Parigi non è mai banale, incantevole nel suo sorprenderti. Ogni monumento non lo vedi

avvicinandoti da lontano, ma te lo trovi solo a due metri da te, uscendo da una via

chiusa o da una metro. Imprevisto ed imponente come uno schiaffo.

Paradosso dei paradossi, il sabato notte la portai in cima alla torre Eiffel, luogo

turisticamente scontato ma sfido chiunque a dire che non mozzi il fiato.

Tre ore di coda per salire mi avevano fuso il cervello. È affascinante pensare come

migliaia di persone facciano ore ed ore di coda per assistere a una veduta che dura

non più di dieci, quindici minuti. Quanto deve essere magica quella visione? Quanto

deve essere rara? Immensa nella sua brevità?

Al terzo piano, davanti ad un’orda di cinesi incuriositi, mi inginocchiai e le dissi:

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“Qui siamo davanti alle luci del mondo, e davanti al mondo non potrei mai mentirti”

Ma lo stavo facendo.

Bugiardo.

Infame.

In ginocchio.

Anello.

“Claudia, vuoi sposarmi?”

“Si” e scoppiò a piangere.

Ma anche lei mi stava mentendo.

Davanti agli applausi ed i flash dei giapponesi si compiva la più triste farsa del nostro

amore.

Le luci del mondo ci guardarono severe come una madre guarda il proprio figlio dopo

un capriccio o come forse Dio, chi lo sa, guarda l’uomo che sfrutta il povero per

arricchirsi.

Le luci del mondo ci giudicarono non meritevoli di vivere quel sogno che spettava solo

a chi di vero amore…si nutriva.

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Perché

Il nostro amore finì silenzioso ed inosservato in una calda estate, dopo

milletrecentoventisette giorni di storia.

Solitamente divido la fine degli amore tra fine infarto e fine tumore.

La fine infarto è quando tu passi da lei, camicia perfetta, serenità totale. Vedi da

lontano che lei non ti aspetta sotto casa come al solito, ma poco più in là, quasi a

proteggere dalla tempesta in arrivo quel luogo così magico in cui vi eravate scambiati

migliaia di promesse e brividi. Sale in macchina un secondo, ti dà una lettera mentre

singhiozza e riscende subito. Tu non hai neanche bisogno di leggerla, inizi

semplicemente ad urlare, dentro o fuori di te non fa differenza.

Urlo muto od urlo lancinante, cosa cambia?

Ti senti stupido, ripensi a quante volte nel mese precedente tu non ti accorgevi di nulla

e lei stava per trovare le parole per dirti tutto.

La fine infarto è…Francesca.

La fine tumore è lenta, inesorabile, paradossale. Paradossale perché ti rendi conto che

il tuo o il suo amore sta svanendo lento, goccia dopo goccia, ma pur sempre svanendo

e tu, che sei il protagonista di quella favola, non puoi fare niente. Tu, che saresti l’unico

a poter muovere le pedine, devi assistere inerme.

E’ come quando ti cade il tappino del dentifricio nel lavandino. Blocca l’attimo.

Nell’istante in cui ti cade dalle mani sei cosciente che lo stai perdendo, ma la possibilità

concreta che tu lo recuperi è praticamente nulla.

La fine tumore è…Claudia.

Claudia tre giorni dopo la nostra fine conobbe un’altra persona.

Claudia cinque giorni dopo la nostra fine uscì con questa persona.

Claudia sette giorni dopo la nostra fine baciò questa persona.

Claudia tra due anni sposerà questa persona.

Dire che ciò mi lasciò indifferente è da ipocriti.

Il suo ragazzo mi disse: “La mattina dopo la fine di una storia, qualsiasi storia, io mi

sento una persona nuova, libera”. Mi fece tenerezza, perché capivo che a quella frase

non ci credeva nemmeno lui. Provi a dire questa frase ad un uomo che la sera prima è

stato lasciato da moglie e quattro figli dopo trentaquattro anni di matrimonio, credo che

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convincerlo della bontà di questo pensiero sia alquanto difficile. Perché mentre parlava

sentivo le sue unghie che si graffiavano col vetro su cui si stava arrampicando.

Ero fiero di me quando mi rendevo conto che tutte le motivazioni a cui attribuivo la fine

della storia non le pensavo solo a posteriori, ma erano in me ferree certezze da mesi e

mesi.

Capii che ciò che avevo visto all’inizio come una cosa emozionante, il campo innevato

mai calpestato da nessuno, era stato la causa della nostra morte.

L’esperienza, assente.

Gli errori del passato da cui impari, assenti.

Pensai a Claudia come un genietto della matematica, portata. Portata a vivere una

storia quotidiana, accontentarsi di poco, di un sorriso, di una visita. In seconda media,

quando si affrontano le espressioni, il professore di matematica sottopone a Claudia un

analisi di sistema con studio di funzione comparato alla valutazione dei limiti

infinitesimali. Una storia densa come l’olio e con prospettiva di matrimonio.

Claudia è spiazzata, considerava la matematica come casa sua, se ne sentiva

padrona; ma ora trova, proprio in casa sua, un elemento che non sa capire. Dopo tre

anni non puoi più emozionarti come il primo mese, ma devi trovare l’emozione da

momenti diversi.

Claudia non crede più nella matematica. Se fosse stata in quarta liceo l’avrebbe risolto

quel sistema, ora no. Ora le fa paura, perché è una cosa più grande di lei.

Secondo elemento che ci uccise, insieme all’inesperienza, fu la vicinanza. Una storia

vicina è una storia vera: giustissimo! Ma spesso nelle uscite serali non parlavamo più.

Io la guardavo e tentavo di capire, capire dove stavamo andando, perché eravamo

arrivati a quel punto. Cosa ci avesse portato lì. Ammesso che vi erano molti altri

problemi, spesso ripensavo alle ore immediatamente precedenti a quell’uscita e capivo

che non ci stavamo dicendo più nulla semplicemente perché ci eravamo già detti tutto.

In quella giornata, infatti, ci eravamo già sentiti dodici volte e visti altre quattro.

Capii che un difetto portato dalla vicinanza era la facilità nel vedersi. Deduzione

talmente banale da risultare geniale. Non c’era un’attesa, un viaggio da fare in

macchina, un sacrificio. Bastava citofonare.

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Dai piccoli gesti traggo universali considerazioni. È il mio pregio ed il mio difetto. Ogni

sera, dopo lavoro, passavo da casa sua. Mi sentivo a casa, ci raccontavamo la

giornata.

All’inizio in queste visite lei era ammirevole in ogni piccolo gesto. Ricordo che quando

andavo via non chiudeva mai la porta, ma rimaneva a guardarmi fino a che avessi

chiuso anche il cancello. Non mi piace che una porta chiuda netta ed implacabile un

momento che era stato tutto nostro, cullati tra sogni e speranze. Il lasciare quella porta

aperta fino all’ultimo era come giurarmi che quel momento, il nostro momento, non si

sarebbe esaurito solo chiudendo una barriera, ma sarebbe rimasto sempre vivo nella

sua mente.

Poi quella visita risultò sempre più scontata, quotidiana, entravo e non si girava

neanche a salutarmi dal divano su cui era seduta.

Ma soprattutto. perché quella visita non la faceva anche lei?! I tempi ci sarebbero stati,

dato che abitiamo a cento metri di distanza.

Da quella osservazione capii come la vicinanza in una storia faccia da cartina di

tornasole, tolga i vincoli, le supposizioni. Se Claudia avesse abitato anche a soli dieci,

quindici chilometri da me non mi sarei mai posto il dubbio del perché non venisse a

trovarmi in quella mezzora prima di cena. Sarebbe stato per lei impossibile, dato che

solo di strada correva appunto mezzora. Non avrei mai capito se fosse la distanza o la

mancata voglia di me ad impedire quella visita. Qui la vicinanza aveva distrutto questo

dubbio.

Perché non prendeva i jeans, le scarpe e non veniva lei da me?

Perché?

Abitudine.

Perchè?

Mancanza di stimoli.

Perché?

Passività.

Perché?

Tutto è dovuto.

Perché?

Perché?

Perché?

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Senza età

Tre anni, che nel loro viverli sembravano eterni ed impossibili nel concludersi,

parevano ora come una breve parentesi. Dalla vita. Dalla mia crisi. Che riaffiorò,

intatta, inesorabile, invincibile.

Ciao crisi, credevo di averti sconfitto, ma eri andata solo un attimo al bar, brutta

puttana.

Ero quasi orgoglioso nel dire che non stavo male per la fine con Claudia, ma per

qualcosa di molto più grande, complesso, indecifrabile, arriverei a dire affascinante.

“Per Dio” mi dicevo “se si deve star male, che almeno si stia male per un qualcosa di

indecifrabile e non per una storia portata avanti a forza per un anno!”.

Alienato.

Da vocabolario:

“L'alienazione nel suo verbo <alienare> riferimento all'atto dell'allontanare da sé,

dell'estraniare da sé e quindi all'atto di prendere distanza da qualcuno o da qualcosa.

Talvolta il termine viene utilizzato per indicare genericamente il disagio dell'uomo nella

moderna civiltà industriale nella quale l'artificio che gli è proprio lo fa sentire allontanato

dalle proprie radici più naturali.”

Io prendevo distanza da me.

Spesso, durante il tragitto in macchina per arrivare a lavoro, mi rendevo conto in viale

Palmanova di essere in…viale Palmanova! Non sapevo minimamente come ci fossi

arrivato lì, non me lo ricordavo, non ero arrivato io lì. MI vedevo dall’alto e non mi

riconoscevo nel guidatore di quell’auto, ne ero estraneo.

Io ero schiacciato in me.

Tutte le volte che uscivo con i miei amici dovevo sempre e assolutamente avere la mia

auto. Per potermene andare via da solo. All’improvviso. Accadeva che all’improvviso

mi mancasse l’aria, mi venissero delle fitte di mal di testa lancinanti, i discorsi intrapresi

al tavolo non mi interessassero più, improvvisamente e totalmente. Potevo essere nella

festa più rumorosa, nella cena più coinvolgente ma io mi sentivo improvvisamente solo.

Solo e chiuso in una bolla di vetro. Non capivo più i discorsi, non sentivo più gli odori,

non vedevo più i colori. Aria fresca, sognavo aria fresca ed i-pod a palla nelle

orecchie. Così uscivo e giravo per ore in macchina cantando, urlando, le canzoni dei

miei idoli. Quanta benzina sprecata.

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Io ero impaurito dal mio mondo.

Dal mondo che mi circondava. Dal mondo che avevo scelto. Capii che il settore

lavorativo in cui mi ero inserito era, al di fuori del nostro ufficio, un mare pieno di squali.

Ma non squali cattivi e basta, il che ci può anche stare. Ma squali stronzi, che è

diverso. Quante strette di mano finte. Quanti sorrisi finti. Quanta finzione. Finzione.

Finzione. Finzione. Imparai che tutto doveva essere dimostrato, carta canta. Un cliente

ti chiamava e, con la scusa di farti un saluto, ti diceva che l’offerta l’accettava a quelle

condizioni. Quella per lui era una risposta mascherata da saluto.

Per me indimostrabile in futuro.

Imparai a dimostrare tutto e a richiedere dimostrazione di tutto. Ogni minima notizia

veniva scritta per mail. “Sono arrivato” mail; “Ho acceso il pc” mail; “Sto impazzendo”

mail.

Io ero impaurito da me.

Non riuscivo più ad amarmi. Ad amare la semplicità, un tramonto, a stare fermo. Stare

fermo. Stare fermo nella nostra società non è accettato. Devi correre. Se non corri devi

essere in ritardo per una riunione. O dover fare una telefonata urgente. O modificare

un allegato. Mi accorsi che anche quando camminavo durante una passeggiata, il

passo era rapido, affannato, sempre in ritardo. Anche se stavo andando contro il nulla.

Stare fermi era impossibile.

Una volta feci il gioco della morte “Devi guardare per cinque minuti immobile un

tramonto” mi dissi; dopo venti secondi mi sentii agitato; dopo trenta mi sentii stupido;

dopo quaranta me ne andai a bermi una birra. Di corsa, ovviamente.

Non capivo il me nella mia famiglia. Non riuscivo più a parlare, a comunicare. La

stanchezza del lavoro era solo un pretesto. Non ero assolutamente arrabbiato con loro.

Ma non avevo la spinta, l’input per raccontare loro la mia giornata. O per interessarmi

alla loro. Non mi piacevo in quella veste. Ma non riuscivo ad uscirne.

Un altro me, in me, che comandava il mio vero me.

Assurdo, ero l’unico quasi trentenne ad avere una crisi adolescenziale!

Io prendevo distanza da me.

Io ero schiacciato in me.

Io ero impaurito dal mio mondo.

Io ero impaurito da me.

Io mi sentivo…senza età.

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Stai calmo, non agitarti, ho paura

Una lunedì mattina dovetti andare a Bologna per un sopralluogo in un area in cui

pensavamo di fare un festival rock nell’estate successiva.

Le trasferte, brevi o lunghe che siano, sono un’altra cartina di tornasole. In quel viaggio

stacchi completamente la testa e scappi via dal tuo mondo quotidiano. Non esistono

più mail, telefonate, riunioni, impegni, allegati, amici, aperitivi, cinema, cene. Non esiste

più quel muro tra la proiezione che pensi di avere di te e la tua vita reale. Quel muro di

colpo scompare e ti ritrovi davanti a te stesso. Solo. Lì ogni stato d’animo viene

amplificato o, meglio, analizzato per quello che è realmente.

Se in quel periodo stai bene, in quelle ore ti rendi conto realmente di stare bene.

Ma se in quel periodo stai male, concludete voi.

E io in quel periodo stavo concretamente ed indiscutibilmente male.

Arrivai con largo anticipo ed entrai quindi in un bar per buttare sul pc appunti sparsi che

avrebbero poi composto questo testo. Questa scena è alquanto rara in Italia, abituale

invece in altri Paesi come l’Inghilterra in cui moltissime persone scrivono o leggono

negli Starbucks.

Poche settimane prima ero stato a Londra per lavoro e mentre stavo scrivendo in un

Cafè un uomo seduto accanto a me, sulla quarantina, mi disse:

“You are a great history in your mind”

“How do you understand this text?” replicai col mio inglese stentato.

“Sono di Barletta, per questo l’ho capita” disse spiazzandomi.

“Naaaa, pur io sò puglies”

“Naaaa, nù miracol, da scend a bascc?”

“Viest, provinc d Fogg”

“Antò, piacer”

“Andrè, piacer”

“Andrè, stai scrivendo proprio una bella storia. Malinconica, ti invidio, hai qualcosa da

raccontare”

“Antò, da noi in Italia non funziona così. Se scrivi da solo a un bar, si nù sfigat Lei ora il

venerdì sera esce con questo tizio, io sono da solo a casa a scrivere. Secondo te chi

sta messo meglio?”

“Assolutamente tu.” Replicò convinto. ”Scrivendo questi strazi, tu ti stai

inconsapevolmente amando. Ti stai raccontando, stai conoscendo te stesso e questo è

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il primo e più difficile passo per uscire da questa crisi che, da quanto ho capito, stai

affrontando. Lei cerca lui per saltare il suo maggese, l’inevitabile periodo di riposo che

la tua anima deve avere dopo un terremoto come quello che avete subito. Ma dal

maggese non si scappa. O vai tu da lui, o viene lui da te. Tu hai avuto il coraggio di

affrontarlo a piè pari.

Stai certo che ti stai amando molto di più tu di quanto lei ami lui.”

Ricordo con grandissimo affetto e stupore le parole di Antonio, mi aveva aperto una

porta nuova, una visione che non avevo mai ipotizzato.

Ma, come mi capitava spesso in quel periodo, bastavano due parole per darmi

entusiasmo, ma anche due minuti da solo per farmi ripiombare nella mia

insoddisfazione.

“Soccia, ma poveriiino quel ragasssso che scrive al computer. Deve essere proprio

sooooolo” disse un’anziana bolognese al marito, facendomi appunto ricordare che la

realtà si chiamasse purtroppo Italia e non Londra.

Andai al luogo prestabilito e monitorai la zona. Era affascinante la pace assoluta di

quel luogo sapendo che, da lì a pochi mesi, quel prato sarebbe stato una fusione di

musica, emozioni, urla, note, canne, brividi e sesso. La quiete prima della tempesta.

Ad un tratto notai un avvallamento, un’enorme buca. Questa non ci voleva. Avremmo

dovuto assolutamente coprirla o recintarla. Scesi, tramite una piccola scala per capire

quanto fosse profonda. Non era molto ampia, era piena di fango e foglie, foglie e

fango. Feci per risalire quando “STAAMMMM” le viti della scaletta cedettero e caddi a

terra con l’arnese in faccia.

“Ohi che bot che gu pres” dissi con il mio milanese stentato.

Dopo essermi ripreso, mi adoperai per salire, doveva essere semplice dato che era

profonda solo tre metri. Iniziai però a capire che quei tre metri erano pochi per incutere

timore, ma irraggiungibili per superarli senza un supporto.

Inizia a agitarmi.

Le pareti erano scivolose, impossibili da arrampicare.

Stai calmo.

Attorno l’area era completamente deserta.

Non agitarti.

La scaletta era irrimediabilmente rotta.

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Ho paura.

Una fossa, apparentemente contenuta, stava diventando la mia gabbia.

Quella fossa era la mia crisi, solo apparentemente superabile, ma in realtà astuta,

fangosa, mutabile. Io vedevo la luce, era li a pochi centimetri da me, “E’ facile”

pensavo, ma in realtà era irraggiungibile. E se la luce è irraggiungibile, che sia a pochi

centimetri da te o a decine di metri, poco cambia: sempre irraggiungibile è.

Quella fossa era la mia crisi. Ufficiale. E io ne ero prigioniero, senza sapere come

uscirne.

“STO MALEEEEEEEEEEEEEEEEEEEEEEEEEEEEEEEEE” urlai con tutta voce che

avevo in gola.

Stai calmo.

Non agitarti.

Ho paura.

Stai calmo.

Non agitarti.

Ho paura.

Stai calmo.

Non agitarti.

Ho paura.

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C’è la neve nei miei ricordi

Il fatto di Bologna mi aveva scosso, avevo perlomeno ammesso di avere un problema

e si dice che ammetterlo sia solo il primo passo, ma anche il più difficile.

Tornai da Bologna a notte fonda, il mattino mi svegliai tardi. Talmente tardi da perdere

il mio solito pullman ed inseguire il successivo che, buonanima, si fermò ad aspettarmi.

Mentre correvo, notai che mi scivolarono gli appunti che stavo scrivendo su quel mio

bizzarro periodo. Non avevo certo tempo di fermarmi a riprenderli, tanto nessuno li

avrebbe mai letti. La sera ritornai distrutto alla stessa fermata.

Avevo il solito mal di testa lancinante. Solo per caso notai, nella casella contenente gli

orari del pullman, un foglio incastrato.

Lo aprii incuriosito.

“Ragazzo misterioso,

mi sono imbattuta casualmente nel tuo scritto e perciò, inconsapevolmente, nella tua

crisi. Non so se riceverai mai queste parole. Mi rivedo nel tuo momento, nel tuo buio,

nel tuo non saperti orientare per uscirne.

Esiste un cielo che ci proteggerà, liberi, dalla nostra inquietudine?

Un saluto,

Liliana”

Realizzai cosa avevo fatto solo dopo averlo compiuto: presi un foglio, trovai

miracolosamente una biro nel giubbino e scrissi.

“Cara Liliana,

leggo con piacere queste tue parole. Ho perso il foglio mentre rincorrevo il pullman,

solito ritardatario che sono. Sto affrontando questo periodo con lucidità, lucidità nello

sconforto, strano binomio. Ma almeno non cado in scene isteriche e ridicole quali il

chiudersi in casa o il non mangiare. Condivido con questa mia crisi, me la porto dietro

al lavoro, al cinema, in pizzeria come ti porteresti dietro un amico, un confidente.

La scruto, la osservo, per un giorno, spero, attaccarla. Ma lei è camaleontica, furba,

attenta. Credevo di averla eliminata tramite una storia duratura, ma non era affatto

così. Vivo ogni momento, anche il più felice, con una vena di malinconia. La notte di

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capodanno sono sempre triste. Lo faccio quasi apposta, per distinguermi dagli altri-

Quando sono felice mi piace guardare il mare d’inverno.

Buona serata,

Andrea”

Lo ammetto, non dormii tutta la notte.

Quella scrittura mi emozionava. Sapeva di pace, di donna, di calma, di bambina, di

pura, di montagne russe.

Al mattino presi il pullman talmente presto che in ufficio si sarebbero poi emozionati,

dati i miei conclamati arrivi in ritardo. Corsi alla fermata, il cuore mi batteva come ad un

primo appuntamento.

Un nuovo foglietto.

“Ciao compagno di gioco epistolare,

è una notte buia, talmente buia che il cielo sembra quasi di pietra, invalicabile.

Vorrei essere stella, per starci aggrappata a quel muro di pietra.

Almeno il mio limite sarebbe anche la mia ancora. Nella realtà invece il mio limite

produce in me solo ossessione, frustrazione.

Io, quel tramonto per cinque minuti immobile, non riesco proprio a vederlo.

Non ne ho la forza.

Liliana”

Entrai in quel vortice senza neanche accorgermene. Gioco epistolare. Che cosa

assurda, ma bella. Riuscivamo a sentirci due volte al giorno, tra mattino e sera. Mi

affascinava il fatto che i suoi pensieri notturni, in cui la notte offre intimità, pace e

silenzio, fossero letti da me durante il giorno caotico e viceversa. Una sola volta ebbi la

tentazione di “spiare” per capire chi fosse quella ragazza, ma mi schiaffeggia da solo.

Avrei tolto la magia a tutta la situazione.

Lo scambio di lettere era così costante da farlo diventare quasi un botta e risposta.

Lei:

“Colore preferito?”

Io:

“Azzurro, tu?”

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“Giallo”

“Stagione preferita?”

“Te l’ho già detto!”

“Quando?! Non è vero!”

“Il mare d’inverno”

“Non è una stagione, imbroglione, è uno stato mentale!”

Ciò che mi affascinava era, nell’era della comunicazione/sms/mail/incapacità di

attendere, l’ aspettare cinque, sei, otto ore per una risposta solo sul suo colore

preferito. Mi aiutava a calmarmi, a far fare al tempo il suo corso, a guardare il tramonto

senza scappare.

“Cara Liliana,

voglio farti una confessione, che ti farà ridere, ma per me è importante: io non ho

vissuto il Natale. Questo Natale che è appena passato.

<Stupido> penserai <solo i bambini vivono il Natale!>

Invece lo vivo anch’io, o forse sono un bambino, chi lo sa!

Da piccolo all’inizio dell’avvento ponevo un calendario con delle finestrelle nascoste.

Ogni finestrella nascondeva un cioccolatino. Da solito impaziente, non resistevo ed il 5

dicembre avevo già finito tutti i dolci. Passo da uomo medio, lo so, ma mi piace tutto

del Natale. Passeggiare stretti per evitare il freddo per il centro. Prendere la cioccolata

assieme. Passare dai rispettivi parenti a fare gli auguri. Darsi indizi sui rispettivi regali,

depistare la persona amata. Mentre scrivo noto che tutte queste cose appartengono al

periodo precedente il Natale, non nel giorno del 25 dicembre in sè. Aveva ragione

Leopardi, l’attesa di un evento crea idealizzazione dello stess; più lo idealizzi, più è

difficile mantenere le aspettative, più ti delude.

Il giorno di Natale vale per me come Capodanno, mi piace essere triste. Camminare

per il paese da solo, mentre tutte le famiglie si riuniscono tra i parenti, ascoltare

Carmen Consoli e la sua poesia. La adoro nell’essere rock anche con una sola chitarra

acustica, la adoro nella sua dolcezza, nella sua rabbia, nella sua dedizione all’arte.

<Rep etra rep etra, is eroum> recita una sua canzone.

<Per arte per arte, si muore>.

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Quest’anno non ho vissuto nulla di tutto ciò, non ho comprato un regalo, non ho dato

indizi, non ho ricevuto indizi. E, cara Liliana, non c’è nulla di più brutto quando devi

convincerti di essere felice solo perché tutti sono felici.

Quando io sto male ho però la presunzione che tutti sappiano che sto male. Fuori dalla

messa di Mezzanotte io volevo gridare a tutti <Cosa fate? Eh?! Cosa fate tutti qui?!

Andate tutti a lavorare, oggi è il 17 settembre, non è Natale, non c’è nulla da

festeggiare!>. Capii che mi avrebbero preso per un pazzo, quindi evitai.

Tutto questo per dirti, anche se non ti interesserà per nulla, che io non ho vissuto il

Natale.

Andrea”

“Caro Andrea,

io non ho vissuto il Natale, non avevo il coraggio di dirlo a nessuno.

Ora posso farlo.

Grazie.

Inoltre mi sono trasferita qui a Carugate da poco, vengo da molto lontano, ho

pochissimi amici, pochi parenti.

Sono scappata da un dolore immenso ma ho capito che, se il dolore è dentro di te,

puoi anche andare in capo al mondo ma te lo porterai dietro, sempre e comunque.

Se il dolore invece è causato dalla tua staticità, o dalla vita che questo luogo ti obbliga

a fare, allora scappa. Se la tua condizione è questa, provaci Andrea, provaci.

Scappa per ritrovarti.

Quando non capisci più gli altri, quando gli altri non ti capiscono più prendi un lenzuolo

bianco e rannicchiati sotto.

Ora sarai spettro agli occhi del mondo.

Ora sarai peccatore e redentore di te stesso.

Ora dovrai rendere conto solo alla tua felicità.

C’è la neve nei miei ricordi,

c’è sempre la neve,

e mi diventa bianco il cervello,

se non la smetto di ricordare.

Liliana”

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Forare

Liliana sembrava la voce della mia coscienza: diceva quello che avevo paura di dire, o

quello che speravo di sentirmi dire.

Chissà se era reale, nessuno l’aveva vista, io non l’avevo mai vista. Magari quei

biglietti erano una mia proiezione.

Pensavo a queste mentre guidavo, direzione Trento, per un concerto.

Ad un tratto Sbang! Sbang! Sentii la ruota posteriore cedere, avevo forato.

Fortunatamente a poche decine di metri vi era una piazzola di sosta. Accostai. Mentre

cercavo il crick, le macchine mi passavano affianco ad una velocità impressionante.

Quando noi andiamo in auto non ci rendiamo conto di andare così veloce, di essere

come schegge impazzite. Provate voi a porvi ai bordi di un’autostrada e dire che le

sensazioni sono le stesse rispetto a quando si è seduti in auto. In tal caso sei scheggia

impazzita ma non te ne rendi conto, non ne hai la percezione. Senti solo silenzio,

calma.

Mi bloccai e in un attimo mi sembrò tutto così chiaro: l’autostrada era la nostra vita da

percorrere, l’auto a tutta velocità era la vita come te la faceva percepire la società

attuale: a tutta velocità con l’illusione di essere fermo.

Io non ce la facevo più, non volevo più fingere, volevo scendere, semplicemente

scendere.

Ripensai a quello che mi aveva detto Liliana e se fosse per puro caso o per magico

destino che avessi fatto queste considerazioni subito dopo le sue parole.

Realizzai che ero assuefatto dal mio malessere.

Quando entri in un ristorante un odoro tremendo di fritto ti pervade. Lo senti. Ti

disgusta. Ma la cena dei tuoi ex compagni di classe è fissata lì. Entri, quasi ti

dimentichi del fritto, che in realtà sta penetrando in te, nel tuo giubbotto, nel tuo olfatto.

Solo la realtà esterna, il freddo pungente del giardino per fumatori ti fa capire che puzzi

clamorosamente ed irrimediabilmente di fritto. Senza quel freddo tu non lo avresti mai

capito e l’aria nel locale ti sarebbe sembrata normale.

Io stavo da talmente tanto tempo ormai in quel locale…nella mia crisi…che credevo

che il fritto fosse l’aria normale…che il non parlare ai genitori o lo scappare da un

locale improvvisamente fossero gesti giustificabili ed ammissibili…avevo bisogno di

quell’aria fresca per capire che puzzavo di fritto…di una realtà, una persona, una

divinità, un luogo che mi facessero capire che non erano comportamenti ammissibili.

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Io avevo bisogno di avere le palle di alzarmi da quel tavolo e di andare a fumarmi una

paglia in giardino, non pensare a chi perdevo ma a cosa stavo per guadagnare.

Io avevo bisogno di scappare.

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Fuga

Finalmente presi una decisione, non era proprio un salpare l’ancora verso il mio futuro,

ma diciamo che era almeno l’ iniziare a sistemare le cime.

Decisi di partire, ogni luogo, ogni amico, ogni via, mi ricordava ciò da cui dovevo

scappare. Se, come solitamente succede, quel “cui” fosse stata una lei, sarebbe

bastato semplicemente evitare quei posti. Il problema che in questo caso il “cui” ero io,

era il mio passato; stavo in sostanza scappando da me stesso.

Rassicurai i miei familiari sulla bontà di questa scelta, presi un’aspettativa a lavoro, due

abiti, quei pochi soldi che avevo e partii.

La decisione sulla destinazione fu immediata: Vieste.

Vieste è il luogo della mia anima e, se la mia anima volevo ritrovare, era soli li che

dovevo andare.

Mi immagino già che se Bossi avesse realizzato il suo progetto, al fiume Po mi

avrebbero fermato alla dogana.

“Buongiorno, passaporto”

“Tenga”

“Motivo del viaggio in terronia?”

“Devo ritrovare la mia anima”

“Benissimo, proceda”.

Decisi di andare in macchina, l’on the road mi avrebbe aiutato a metabolizzare la

pazzia di quella scelta. Sviando i continui accorgimenti di mia madre ed i saluti di molti

amici, troppi…dato che fra essi vi era diversa gente che mi aveva accuratamente

evitato nel mio momento di bisogno…una notte, senza dare nell’occhio, partii.

Prima però una sosta inevitabile:

“Cara Liliana,

sarà caso o destino ma dopo le tue parole sono accaduti dei fatti che mi hanno

confermato la bontà del tuo consiglio.

Parto.

Parto per scavalcare il muro che mi separa dalle mie paure.

Parto per ritrovare il silenzio, per rivedere quel tramonto senza che il tempo mi sia

nemico.

Parto per ritrovarmi e chissà, perché no, un giorno poterti raccontare la mia storia.

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In questi giorni così difficili mi hai donato una speranza, una via da seguire. Ora è

giusto che io la segua da solo, ma non posso non ringraziarti per avermela indicata.

Col cuore,

Andrea”

Ero emozionato ed agitato. Da una parte entusiasta: era la prima vera azione che

facevo io, era la prima volta che uscivo dalle rotaie, che decidevo per me

prendendomene rischi e responsabilità; dall’altra ero inquieto: non sapevo cosa stavo

facendo precisamente. Per assurdo io, uomo calcolatore e re dei calcolatori tra tutti i

calcolatori del mondo, non avevo un piano, un tragitto, una tempistica, uno

scopo…nulla.

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PISTOIA

Per le cose semplici

Il viaggio fu tutto tranne che diretto: dovevo rivedere troppi luoghi che mi avevano

emozionato durante i mesi in tour, ma che allora non avevo avuto il tempo di vivere

appieno.

La prima tappa fu Pistoia, località più famosa per il suo festival blues estivo che per la

propria bellezza. Pistoia è un gioiello di arte, di cibo e di pace incastonato tra le colline

dell’appennino toscano. Soggiornai al “Convento”, un hotel nascosto tra i vigneti e le

colline e ricavato da un ex convento di frati francescani. Vi ero già stato nei viaggi di

lavoro e mi ero promesso di riguastarmi, con la dovuta calma, quella vista notturna ed

impagabile sulla città illuminata.

Il silenzio spettrale iniziava il suo gioco: io, solo con me stesso, o meglio, contro me

stesso. Basta amici, basta aperitivi, basta uscite a distrarmi dal mio non vivere. Ora il

mio mostro era davanti a me e con lui dovevo iniziare a farci i conti. Per forza.

Immagini confuse, ricordi, prospettive: ripensai a mia mamma quando metteva insieme

a me la notte della vigilia il pane e il latte fuori dalla finestra. “Questi sono per le renne

e babbo natale” diceva aprendomi le porte di un sogno notturno. Una volta portatomi a

letto, toglieva il tutto ed il mattino io sbarravo gli occhi dalla meraviglia. Quanto tempo è

passato; bastasse così poco per realizzare un nostro sogno ad oggi, bastasse così

poco.

Ripensai anche al signor Lenoni, un personaggio allucinante conosciuto per lavoro a

Pistoia. Arricchitosi attraverso misteriose mosse finanziarie, Luigi Lenoni era diventato

il magnate del paese ed aveva successivamente aperto un noleggio di auto e barche di

lusso. Con lui passai giorni indescrivibili, dove “indescrivibile” era un aggettivo non

necessariamente positivo. Mangiai in ristoranti in cui avrei dovuto aprirmi un mutuo per

pagare il solo coperto, giravo in Porche e per pranzare si andava a Viareggio in barca

su un settanta piedi. Mi ripeteva sempre: “Noi, Andrea, lè si vive nel lussssssso”, si

cosi con sette esse, “Noi la si è gente speciale, ci si distingue dalla massa, dalla gente

normale, al mattino io mi scelgo la macchina in tinta col colore dei calzini!”. E ancora:

“Quando vedo el mio figliolo che alla sssera le ritorna a cccasa su un bel Ferrarino…io

mi sento veramente un uomo soddisfatto”.

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Più ricordavo quei discorsi e più capivo che per risolvere il mio malessere io ero già a

metà dell’opera grazie alle mie origini, pure, semplici, umili.

Le file alla posta, il saluto al fruttivendolo del paese, la passeggiata in piazza erano

cose di cui lui probabilmente ignorava persino l’esistenza. Per risolvere il mio dilemma

io stavo scappando in un posto ancora più umile di quello in cui avevo vissuto, se fossi

stato uno della gente speciale l’avrei risolto (???) con una riga di bamba ed un week

end a Montecarlo.

Stetti fino alle quattro del mattino circondato da quel silenzio e quelle stelle, ubriaco di

costellazioni e pensieri sconnessi.

Al mattino pagai il conto e ripartii, sulla strada confinante con l’uscita dalla cittadina,

fermo ad un semaforo, mi sentii toccare sul finestrino. Lenoni. Dopo 2 anni che non lo

rivedevo.

“O bischerooo!! E che tu ci fai nel mio regno??”

“Ciao Luigi, sto ritrovando la mia anima”

“O che tu dici??!! Ma queste droghe sintetiche del giorno d’oggi fanno male nun lo

sssai? Vieni da me in barca a Viareggio che c’ho dù bimbe (in toscano bimbe è il

termine per indicare le ragazze, per non creare equivoci a sfondo pedofilo) che vedi

che te la ritrovano loro l’anima oh crucco!!”

“No, grazie, Luigi, faccio da ssolo”

“Vabbbene oh bischero, ci si incontra ancora, e ricorda che la gente speciale la

sssiamo solo noi!”

“Ma quale gente speciale, ma quale. Eh… quale? La gente speciale è chi si alza alle

cinque del mattino e si fa un culo così, è chi perde una lacrima dagli occhi mentre il

proprio figlio pronuncia la prima parola, è chi si suda qualunque cosa si guadagna, è

chi si emoziona per un’alba, è chi piange di gioia per un bacio sotto la pioggia, è chi

ascolta la propria madre, è chi fa crescere i propri nipoti senza lamentarsi mai mentre

questi urlano pisciano strillano e cagano tutto il pomeriggio, è chi rispetta se stesso

prima ancora di rispettare gli altri: quella è la gente speciale”.

Volevo dirgli queste cose, ma tanto non avrebbe capito. Rimasero urla silenziose nel

mio cervello confuso, quindi sgommai e ripartii. Ma capii, in cuor mio, che era da quelle

cose che dovevo ricominciare a vivere: dall’emozionarsi per ciò che la vita mi aveva

donato: per le mie mani, per i miei pensieri, per un temporale in mezzo al mare.

Per le cose semplici.

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NAPOLI

Rattenuto

La mia prossima destinazione sarebbe stata Napoli.

Napoli: calore ed ingiustizie, meraviglia e degrado, affetto e camorra.

Napoli, contraddizione innata.

Il golfo che si scorge dall’autostrada sembra un immenso abbraccio pronto ad

accoglierti; mi sentivo più sicuro, protetto.

Avevo scelto il soggiorno presso un hotel affacciato al lungomare: il mare, il mare!

Finalmente vedevo il mare, moto perpetuo, instancabile, affascinante nella sua

costanza. Posai la borsa in stanza e mi diressi subito verso un castello, di fronte

all’hotel, che si spegneva con un piccolo porticciolo tra le onde del Tirreno. Mi diressi

proprio verso il porto, sistemandomi su una panchina. Chiusi gli occhi. Riuscivo a

vedere lo stesso il sole intenso, il calore sulle mie palpebre chiuse. Sentivo il vento,

fresco sul mio viso. Odoravo la salsedine. Aprii le braccia, scappai via con la mente. Il

mio corpo era li ma la mia mente era da tutt’altra parte, ingabbiata tra sensazioni

contrastanti: la libertà che la natura mi stava facendo riassaporare, dopo tanto, troppo

tempo ed i ricordi che quel porto mi faceva riaffiorare. La barca, la sua passione per la

barca, il mare, la navigazione.

Mio padre ed io abbiamo sempre avuto questa passione, lui con grandi sforzi ha

messo da parte i soldi per acquistare una piccola imbarcazione che ormeggia nel porto

di Vieste e che d’estate usiamo per le nostre gite a ridosso della costa. Quella barca è

il mezzo, il braccio per riassaporare la magia di quel luogo ogni estate, ogni anno.

Una magia perpetua, proprio come il movimento del mare.

Questo porto mi ricorda mio padre, mio padre mi ricorda la mia assenza, la mia

assenza mi ricorda la mia crisi. Perché quel porto in quel castello? Perché quel mare

immenso e libero lì accanto? Pensai che poteva essere un segnale, un primo segnale:

lo scontro tra la mia prigione e l’orizzonte più libero, più infinito.

E la barca non era altro che il collante tra i due mondi.

In passato la barca era il mezzo attraverso il quale mio padre mi mostrava le grotte

magiche, in cui un fascio di luce dava vita a mille sfumature. Ammiravamo le coste

imperiose del Gargano in cui gli alberi, sfidando la natura, nascevano tra le rocce più

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dure a venti metri dall’acqua e il vento, nei decenni, li modellava a sua forma e

piacimento.

Ora la barca era il simbolo del contrappasso, del mio male, era il ricordo di mio padre

davanti a quell’immenso blu.

Come era possibile che lo stesso oggetto fosse mandante di due messaggi così

opposti? Come? Ma la barca è anche l’unico mezzo che permette di attraversarlo quel

mare e chissà che sarebbe stato in futuro il mezzo che mi avrebbe permesso di

ritornarci…a quella libertà.

Iniziavo a capire l’utilità di questo mio viaggio: mai e poi mai a Milano, tra impegni a

domino l’un tra l’altro, sarei riuscito a fare questi pensieri. Serviva quel sole delicato

sulle mie palpebre chiuse, serviva quella linea indecisa a separare il blu intenso del

mare dall’azzurro pallido del cielo. Serviva scappare. Per scavarmi dentro. Ed io ero

scappato. E io mi stavo scavando.

Mi alzai e feci un giro per il centro della città. Le viuzze erano stipate di venditori

ambulanti di ogni cibo ed oggetto immaginabile: dalle vongole ai vestiti, dalle

sfogliatelle ai televisori. Notavo che, pur essendo solo le tre di pomeriggio, tutte le

famiglie erano in giro assieme: mamma, papà e figli. Presumo che nessun milanese

abbia mai fatto una passeggiata con i propri genitori alle ore 15 di un giorno feriale.

Non mi addentro nel fatto che quei padri fossero in giro non per loro scelta ma per

l’inguaribile problema della mancanza di lavoro nel sud Italia, ne rimango ben fuori.

Dico solo che quella scena trasmetteva in me sensazione di libertà, vacanza,

cioccolata la vigilia di Natale; e che quella era l’unica sensazione, in quel momento, di

cui avevo vitale bisogno.

Mi avvicinai nella zona dei quartieri spagnoli, cerchia ben nota per le vicende che

riguardano la criminalità organizzata. Ricordai una scena surreale vissuta proprio in

quel quartiere con i Negramaro. Dopo un concerto al teatro Augusteo di Napoli ci

recammo con il furgone che solitamente trasportava la band verso una pizzeria che era

stata scelta per la cena al termine del concerto. Nessuno di noi conosceva Napoli,

quindi segnammo l’indirizzo sul navigatore satellitare e seguimmo le indicazioni.

Nessuno di noi sapeva che ci stavamo addentrando nei famigerati quartieri spagnoli.

Le vie iniziavano ad essere sempre più strette, le curve sempre più a gomito.

L’incombenza del nostro mezzo non ci aiutava di certo a divincolarci in quelle strade.

Ad un certo punto, infatti, ci incastrammo letteralmente in una curva che definirla a “u”

era un eufemismo. Completamente bloccati, non potevamo andare né avanti, né

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indietro. “Bene” pensai “manteniamo la calma!”. Calma che non fu assolutamente

mantenuta quando si avvicinò davanti a noi una macchina. Lampeggiò due volte i fari

abbaglianti, poi si fermò. Uscirono due energumeni che sembravano arrivati

direttamente dal set di Romanzo Criminale. Capelli con la riga laterale, dolcevita

marrone su giacca di pelle nera e Rayban appesi a vistose collane d’ oro luccicante.

Il sangue mi si gelò. Tentai di capire il da farsi: guardai il satellitare: “nessuna posizione

rilevata”; guardai il cellulare “nessun segnale”; guardai il cielo e iniziai a recitare il

Padre Nostro. Si avvicinarono con passo lento ma sicuro. Ci invitarono a scendere.

“Che modo alternativo di morire” pensai, ormai rassegnato. Uno dei due disse: “Ma Vù

siit u cantanti dù Negramarr?”

“A parte che, gentile signor Romanzo Criminale, al massimo lei dovrebbe usare il

termine singolare: il cantante in quanto in un gruppo musicale solitamente il cantante è

uno solo” pensai, ma chiaramente non dissi.

Tutti, all’unisono, facemmo un gesto affermativo con la testa.

“Beh..allurr..faciteme nà firma, che mia figlia va pazza schiattata pà vvui” disse uno dei

due.

“Ma vafff…” credo che con il sospiro ti sollievo che tirai avrei potuto spegnere l’incendio

del secolo, altro che lo scoiattolo della Vigorson.

In un nanosecondo fornii ai ragazzi carta e penna, credo che per loro quello resterà

uno degli autografi più lieti in carriera.

“Moh scustatevvè, pà à cortesia vi tolg ù mezzo da stu impicc” disse lo stesso. Non ci

potevo credere, l’uomo apparentemente più malavitoso della storia della camorra

napoletana ci stava spostando il furgone incastrato! Con un gesto energico scostò

Francesco, l’autista, dalla portiera, salì e con due rapide manovre riportò il

monovolume in carreggiata.

Credo che in vita mia non assisterò mai più ad una scena così surreale.

Quella sera decisi di tornare a cena nello stessa pizzeria in cui fummo ospiti con la

band. Ricordavo la conduzione familiare, le pareti in legno, respiravo nell’aria la

difficoltà di mandare avanti un’attività in un luogo cosi difficile mista alla forza,

all’unione familiare, al calore di un abbraccio.

Era una sera feriale, il locale era praticamente vuoto. Una radio, in sottofondo,

trasmetteva una musica country, decisamente incoerente con il luogo: offriva un senso

di spaesamento, di astrazione: mi fermai un attimo a riflettere sul potere immenso della

musica. Crea in noi visioni ed ambientazioni che da soli non potremmo mai

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raggiungere. Chi avrebbe mai pensato ai cowboy texani in mezzo ai quartieri spagnoli

a Napoli?!

Ed invece, eccoci qui: sospesi su una nuvola, dilatati nel tempo e nello spazio.

Il proprietario mi fece subito accomodare; dei ristoratori napoletani mi ha sempre fatto

sorridere l’eleganza, quasi goffa, con cui si presentano ai clienti con gesti come

l’inchino od il linguaggio forbito in un perfetto italiano rapportato poi ai dialoghi che si

sentono in cucina in un dialetto che si avvicina quasi ad una lingua straniera, tanto è

stretto ed incomprensibile.

Mentre cenavo, notai una scena che mi colpì: nel tavolo accanto al mio, il padre del

proprietario stava insegnando al nipote il gioco della scopa. L’anziano signore

sembrava appena uscito da una cerimonia regale: giacca, doppiopetto e camicia linda;

una coppola in testa nascondeva parzialmente il suo viso rugoso, quasi a volerlo

proteggere. Il nipote, che non avrà avuto più di dieci anni, era impressionante: una folta

chioma di capelli ricci neri copriva un viso dalle espressioni decise, ferree, quasi

consolidate. Sembrava di vedere gli atteggiamenti di un quarantenne dentro il corpo di

un’adolescente. Pensai che quel viso fosse l’espressione concreta di come in quei

posti sei obbligato a crescere in fretta, la faccia tosta è quasi un obbligo.

Anche per vincere una partita a pallone tra i vicoli.

In quel momento il mio pensiero scivolò indietro negli anni, al mio caro nonno Angelo,

l’unico dei quattro nonni che conobbi. La sua dedizione a me, immensa, era

inversamente proporzionale alla sua statura, minuta. Gli occhi azzurri, come il mare più

limpido, erano un’oasi di pace per me fanciullo, spaventato dalla vita che mi poneva

davanti a sempre maggiori ostacoli.

Nonno Angelo si prese cura di me per tutto il periodo delle elementari. Era un po’

nonna, quando mi cucinava per pranzo, era un po’ padre, quando mi insegnava ad

andare in bicicletta, era un po’ madre, nell’aiutarmi a svolgere i compiti.

Era un punto di riferimento, quando mi aspettava alla fermata del bus scolastico.

Era il calore della serenità, quando dal vetro opaco del forno guardavamo insieme la

spuma di patate lievitare.

Era la severità inesistente, quando lasciava correre situazioni in cui ero palesemente in

torto.

Nonno rifiutò ogni ospedale, orgoglioso e testardo; se ne andò nel letto di camera sua

e l’ultima frase che disse fu a me, sussurrandomi: “Fai il bravo”.

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Caro nonno, se io ora mi ritrovo dalla parte opposta d’Italia, solo, incapace di amare,

incapace di parlare ai miei genitori, non so se ho mantenuto la promessa, non lo so.

Anzi, credo proprio di no.

Pagai conto ed uscii.

Perché mi trovavo qui, sia nel luogo che nella mente? Come ci ero arrivato?

Come in una storia di amore, non ti accorgi mai che stai arrivando alla fine, quando dai

quello che sarà l’ultimo bacio non sai mai, in quell’istante, che quello sarà l’ultimo

bacio. In egual modo, io mi ritrovavo in crisi non sapendo nemmeno come e perché ci

fossi entrato. Io avevo incrinato la storia d’amore con me stesso. Ma se in una storia a

due puoi incolpare l’altro di atteggiamenti sbagliati, in questo caso il conflitto nasceva e

non usciva da me.

Io ero vittima e carnefice del mio male.

Ritornai al porticciolo, sarà per i pensieri della serata, sarà per l’oscurità ma quel luogo

non mi dava più così tanta sicurezza. Sentivo il rumore delle onde, ma non le vedevo.

Non vedevo ma sentivo. Sentivo ma non vedevo.

Quel mare eri tu, oh mia paura.

Ti sentivo, ti sentivo, eccome se ti sentivo. Ti sentivo talmente bene che non rivolgevo

più alcuna parola a nessuno dei miei cari, ti sentivo talmente bene da fuggire per

ottocento chilometri.

Ma non ti vedevo, non ti vedevo assolutamente. Eri nascosta nei miei silenzi, nella mia

malinconia. Avevi mille forme, proprio come un’onda; e quando pensavo di averti vista

e capita, tu cambiavi forma ma mantenevi intatto lo stesso dolore.

Mi ci volevo buttare in quel maledetto mare, ma la logica paura di buttarsi a gennaio in

acqua di notte era la mia implicita paura di affrontare quel dolore.

“E buttati” dicevo “cosa aspetti, codardo, buttati. Cazzo…buttati!”

Il codardo, da buon codardo, se ne tornò invece in albergo.

Quella notte feci un sogno, erano diversi mesi che non sognavo.

Sognai nonno Angelo.

Era in forma, solito vestito grigio della domenica. Camminavamo nel suo orticello,

quello che per anni, con una dedizione certosina, aveva curato ed amato. Ricordo

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quando da piccolo mi “interrogava” chiedendomi se ogni ramo di piselli o di carote

fosse pronto per il raccolto od ancora troppo acerbo.

Mentre camminavamo, notavo però che l’orto era trasandato, irregolare e pieno di

erbacce. “Da quando me ne sono andato io, qui è un disastro” furono le sue prime

parole.

Dopo uno dei suoi soliti sospiri, iniziò un monologo praticamente ininterrotto: “Queste

piante sono come delle splendide figlie, da curare, adorare, sgridare, crescere,

indirizzare. Guarda, persa la loro guida, hanno perso il loro splendore. Solo la natura

potrà dirci se ora la situazione sarà o meno rimediabile. Solo il destino ridarà vigore o

toglierà la vita”. Per la prima volta in vita mia notavo in lui uno sguardo cupo, che

divenne quasi aggressivo quando smise di guardare il sentiero e mi fisso negli occhi.

“Tu stai buttando via il frutto più bello, Andrea, che è la vita. Tu non riesci più a

emozionarti per una tazza di the presa con la tua famiglia una domenica pomeriggio,

non hai più gli occhi lucidi per il silenzio di una valle incontaminata, o per una serata

con i tuoi amici.

E questo perchè? Perchè? Perché una ragazzina ti ha lasciato? E chi sta male

veramente cosa dovrebbe fare, spararsi? La cosa che mi fa imbestialire è che tu stai

buttando via la tua vita e non hai nemmeno un motivo valido, un pretesto per farlo.

Ricomincia dal basso, dal piccolo e se hai bisogno di aiuto, diamine, chiedilo! Quante

volte ho aiutato queste piante, quante volte da sole non ce l’avrebbero mai fatta.

Sii umile, ammetti il tuo dolore ma non solo a stesso come stai facendo ora, ma anche

agli altri, solo cosi potrai vincerlo.”

“Ora devo andare - disse - chiama la mamma.”

“Cosa?” dissi.

“Prendi quel telefono e invece di aspettare la chiamata di chi non ti merita chiama la

mamma, e chiedile aiuto. Abbi cura di te, figliolo” e sparì nel sentiero.

Mi era arrivato addosso un treno, si dice che quando si assiste ad un fatto

sconvolgente, nei primi istanti annulliamo quella visione, la cancelliamo, la evitiamo.

Non capivo se ero frastornato nel sogno o nella realtà, se fossi sveglio o stessi ancora

dormendo.

Quella notte non chiusi più occhio, il sogno era stato come uno scossone, una doccia

ghiacciata, una visione nuova della stessa vita precedente. Volevo chiamarla subito,

mia madre. Volevo chiamarla dopo settimane, forse mesi, che non lo facevo

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spontaneamente. Nel cuore della notte, però, si sarebbe spaventata. Quindi all’alba

andai a fare una passeggiata sul lungomare e lo feci.

La conversazione fu stentata, emozionata, rattenuta, che può considerarsi come un

unione di “rattrappita” e “trattenuta”.

Era un inizio, è normale che non potesse essere agevole. Poche frasi di circostanza

“Come stai?”, “Che tempo fa?”, ma non era importante il contenuto di quella telefonata,

l’importante era…farla, quella telefonata.

Grazie, nonno.

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VIESTE

Sgarbugliando la grande matassa

Di prima mattina mi misi in viaggio nel miracoloso intento di attraversare l’Italia in

“orizzontale” per giungere fino a Vieste. All’altezza di Cerignola uscii dall’autostrada e,

allungano il percorso, feci tutta la statale 89 che da piccoli chiamavamo l’ora di curve.

La statale 89 è un insieme infinito di curve poste su uno strapiombo adiacente

all’Adriatico ed immerso nel verde del Gargano.

Da lì si può ammirare la conformazione unica della zona, con gli alberi che quasi

sfidano il destino nascendo dalla roccia verticale a pochi passi dal mare.

Era l’inizio della mia terra, di una serie di flashback annebbiati dal tempo ma comunque

vivi e nitidi dentro di me. Durante quel tragitto, mia madre ci impediva di leggere,

mangiare, dormire. Praticamente un regime. Sguardo fisso sulla strada per evitare di

rimettere.

Giunsi sulla vallata che offriva la prima visione di Vieste da lontano.

Quella lingua di terra che muore nel mare con la chiesetta di San Francesco sulla

punta, quello scontro fra civiltà e natura con Dio in mezzo quasi a farne da paciere…mi

offrì un brivido lungo la schiena.

Non posso farci nulla, sono ventisei anni che vedo quei posti, che ormai conosco a

memoria, ma ogni anno è come se avessero sfumature diverse tali da regalarmi nuove

emozioni.

Decisi di soggiornare nel nostro appartamento che usiamo per l’estate, molto meno

comodo rispetto all’hotel, ma immensamente più ricco di ricordi, istanti, emozioni.

La casa era chiaramente da sistemare, non pronta per un soggiorno. Ricordo che

quando ero piccolo e giungevamo dopo dodici ore di viaggio, mia madre organizzava

immediatamente una divisione dei compiti a dir poco staliniana che seguiva il seguente

ordine:

- bagagli da togliere dall’auto;

- bagagli da portare in casa;

- aspirapolvere da passare;

- posate ed oggettistica varia da lavare;

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- tavolo esterno di 400 kg da spostare;

- serramenti della veranda da montare;

- aghi di pini del vialetto da raccogliere (che se, scusate, i punti precedenti erano

necessari per una minima sopravvivenza, ditemi voi che cazzo di fastidio dessero

all’umanità gli aghi di pino sul vialetto!).

Immancabilmente io tentavo di sottrarmi a questa gestapo con la scusa di andare a

salutare gli zii ma, tempo sette minuti diciamo otto al massimo, venivo inesorabilmente

richiamato all’ordine.

Questa volta, conscio della mia libertà, non feci assolutamente nulla di tutto ciò.

Al contrario, mi presi una sdraio, una birra e mi misi a guardare il tramonto calante

sulle colline.

Tramonto fuoco, tramonto impietoso, tramonto delicato, tramonto accogliente.

Era il benvenuto che Vieste mi dava. “Ricambio, cara Vieste”, dissi.

E feci cin cin col sole.

Capivo che mi stavo riappropriando del mio tempo, ogni giornata aveva densità in

quanto mi lasciava qualcosa. Di Pistoia ricordavo la semplicità della vita, di Napoli la

stella eterna dei miei nonni e l’umiltà nel riuscire a chiedere aiuto.

Proprio come con Claudia, ma a differenza di allora dove tentavo io di renderle ogni

giorno indimenticabile, ora cercavo di rendermi ogni giorno indimenticabile: era un

regalo che facevo a me stesso.

Era, forse per la prima volta nella mia vita, far partire un gesto di amore che ritornava

solo ed unicamente a me. Un circolo d’amore finalmente virtuoso.

Nessuno lo avrebbe calpestato o lodato, non avevo più alibi, non avrei più potuto

accusare nessuno di non proteggere il mio amore.

Da quel momento se fossi stato felice, sarebbe stato solo per merito mio; se fossi stato

triste, il problema si sarebbe annidato unicamente in me.

Ero sempre più dentro me stesso. Stavo rompendo tutto pezzo per pezzo, come se

fossi una persona fatta di mattoncini Lego. Toglievo, toglievo, toglievo. Era come se

sotto, soffocata, schiacciata da tutte queste cose, ci fosse la risposta. Sentivo che

eliminare e togliere era la strada giusta. Annullavo sempre di più quell’essere me

stesso che in fondo non era il mio vero io.

Ormai avevo visto, e non potevo più fingere!

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Ero entrato nella grotta dove c’erano le mie paure, i miei fantasmi e li sfidavo.

Cominciavo veramente a conoscermi e a capire quanto tutto questo fosse collegato: il

mio rapporto con la famiglia, gli amici, il lavoro, le donne.

Tutto era intrecciato, ma ora stavo finalmente sgarbugliando la grande matassa.

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L ’ architiello e la gabbia d’oro

La casa è collocata sulle colline del Gargano, ad una decina di chilometri da Vieste.

Scesi in macchina verso il paese quando, sulla destra, notai l’architiello.

L’architiello è un arco di roccia che si erige sul mare ed irrinunciabile meta estiva dei

turisti. Negli anni ottanta realizzarono anche uno spot dei “Baci perugina” su quel

fondale.

Un ricordo mi richiamava lì. Parcheggiai e scesi a piedi fino a raggiungerlo. L’anno

prima io e Claudia, passandoci sotto con la barca, ci eravamo promessi amore (?)

eterno (??).

Claudia, Claudia. Quanto sarebbe rimasta delusa se, entrando una notte nei miei

sogni, si fosse accorta che io non ho mai provato per lei quell’amore totalizzante,

estremo, che ti fa tremare le gambe dalla felicità.

Amavo la sicurezza che la nostra storia mi offriva, non amavo la nostra storia.

È mostruosamente diverso.

Amavo chiederle come era andato un esame, amavo passare da lei la sera, amavo

l’accoglienza della sua famiglia, cercare sorprese, organizzare viaggi, dare densità ad

ogni istante.

Mi resi conto che amavo i gesti che partivano da me; non ho purtroppo percezione,

calore, ricordo dei suoi gesti giunti a me. Sarà spavalderia o prepotenza ma in quella

“casella” di memoria ho un desolante vuoto.

Ho peccato, lo ammetto. Recito alle onde la mia colpa.

Ma, chiedo io, quante storie nate a diciassette anni arrivano ad una stabilità pressoché

definitiva? Due su cento? Tre su cento? Non di più. E siamo sicuri che negli altri

novantasette casi non fosse vero amore? Non lo so. Forse è vero amore ma un’età di

continui cambiamenti, insicurezze, il passaggio dallo studio al lavoro ed il sapore della

libertà fanno perdere la direzione.

Ed, al contrario, quante storie nate a trent’ anni arrivano al matrimonio? Settanta su

cento? Più o meno. Ma chi mi dice che l’amore di queste settanta coppie è più vero, a

prescindere, di quello delle novantasette “vittime” dell’esempio precedente?

“A trentanni anni sei più maturo, ragiona, immaturo scrittore” penseranno i più. La mia

risposta sarebbe: il mio lavoro mi permette di conoscere molte persone, molte storie,

molti racconti. Ed io, cari lettori, ho visto cose che voi umani non potete nemmeno

immaginare.

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Ho visto uomini aprire un mutuo dopo 1 mese e mezzo di fidanzamento per poi dire

“adesso si che sono felice, quando tutti sapevano che non ero fidanzato venivo visto

come un emarginato”. Ho visto persone avere la fretta dipinta nei loro occhi, fretta di

dimostrare a genitori, amici, parenti che anche loro si stavano “realizzando”.

Questo è il modello che impone la società: R-E-A-L-I-Z-Z-A-R-S-I. E tu, anche se ti

ostini a fare quello alternativo contro i modelli di massa (come tutti quelli che dicono ”io

non lo guardo SanRemo” ma chissà perché poi il festival fa sempre venti milioni di

ascoltatori; o trovassi uno che ammette di andare a vedere i film di natale di DeSica

ma, chissà perché, DeSica fa sempre venti milioni d’euro di incasso) inconsciamente

assorbi quel modello e ti adoperi per realizzarlo.

Uno dei punti cardinali di questo modello, insieme al lavoro, la sicurezza economica e

la casetta col giardino è, chiaramente, una compagna.

Una compagna, attenzione, non la compagna.

Mesi fa ero in centro con Daniele e ci fermammo, per un’analisi socio demografica

della società alta borghese, al “Sant’Ambrous”, il bar più famoso di Milano, il bar da

“cioccolata con panna 15 euro grazie” per intenderci.

Ci sedemmo e Dani mi fece notare come nessuna, e giuro nessuna, delle

coppie/famiglie che ci circondavano stesse colloquiando. Sembrava una candid

camera, tutti inesorabilmente zitti.

In quell’istante ho rivisto, con duemila euro in meno nel portafoglio, me e Claudia in

quelle coppie e ho capito che anch'io ero entrato in quel gioco suicida.

“Ho vissuto tanti anni in una gabbia d’oro,

si..forse era bellissimo…

ma sempre in gabbia ero!”

recitava una canzone dal mio i pod mentre guardavo l’oscurità delle onde.

Diploma, fidanzamento, laurea, lavoropostofissoindeterminato, matrimonio,figli.

Non si scappa: questo è il modello.

Il guidatore del tram: ebbene si, a volte mi sento il guidatore del tram. Il guidatore del

tram pensa di guidare il tram, ma in realtà il percorso è già impostato, può solo

accelerare o decellare. Possiamo solo decidere se cazzeggiare un anno in più

all’università e laurearci un anno dopo, ma sempre laurea è! Possiamo decidere di fare

la pazzia e sposarci a venticinque anni o a trentacinque, ma sempre matrimonio è.

Il percorso è già impostato, e tu lo DEVI seguire.

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"Beh se le carte in tavola stanno così" pensavo "se io avrò una moglie non perché lo

voglio ma perché devo, io mi alzo dal tavolo da gioco, cordialmente saluto tutti, mi

allontano con uno svolazzo di smoking e mi trasferisco qui eremita a coltivare olive in

collina per tutta la vita".

“Cara Claudia,

noi eravamo il sistema. Noi eravamo la paura di passare un week end intero da soli a

leggere un libro davanti ad un camino acceso. Noi eravamo l’impossibilità di ascoltarci

dentro noi stessi.

Perdonami, per favore, se non me ne sono accorto prima.

Attenta, tutto questo non è il triste rinnegare solito al termine di ogni storia. Mai lo farò,

e sempre sarò orgoglioso di essere stato il primo a vederti “innamorare dell’amore”.

Non giudico se la tua nuova, immediata, storia sia il rientrare nel sistema o meno, ti

augurò di no, ma questo lo sai solo tu, in fondo al tuo cuore.

Ma ora io devo andare, devo scendere dal tram. Ho voglia di guidare a piedi, di

sbagliare, di perdermi nella notte, di sbattere la faccia ed imparare dalla mia

imprudenza.

Non ti auguro ogni bene come si dice in questi casi ma ti auguro, con i tuoi tempi e le

tue scelte, di avere anche tu il coraggio di scendere da quel tram, da quella gabbia

d’oro, che è sì d’oro, ma sempre gabbia è.

Col cuore,

Andrea”

Presi il foglio scritto e lo infilai in una bottiglia di vetro che avevo con me.

Mi alzai e la buttai proprio lì, nel mare dove ci eravamo promessi eterno amore.

E sentii, per la prima volta, che l’eterno amore lo stavo donando a me stesso.

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San Francesco, la mancanza di lucidità e l’ingordigia

Alba. Alba di fiori. Alba di rugiada. Alba di vacanza. Alba di caffè.

Quando ero piccolo, il risveglio in questa casa aveva un sapore agrodolce. Sapevo

infatti che mi sarebbe aspetta una giornata di mare, sole e giochi con i miei amici

(dolce) , ma prima mi aspettava l’immenso, insuperabile ostacolo dei…compiti! (agro).

Mia madre, da brava maestra, non si perdeva una virgola, sapeva tutto quello che

dovevo fare, per diamine pareva saperne più della mia maestra stessa.

Non si sgarrava, quindi erano prima i brevi pensieri delle elementari, poi le lezioni di

scienze delle medie, fino agli studi di funzione del liceo. I compiti hanno sempre

scandito ogni istante della mia adolescenza, ogni vacanza, ogni inverno, ogni estate.

In ogni ambito in cui ero impegnato, dalla scuola alla musica, ho vissuto la costanza

sempre come un obbligo, mai come una causa nata da un mio interesse di fondo.

Ricordo che un anno il professore di chitarra mi diede da svolgere ogni giorno cento

volte la scala di Do maggiore. Mi sistemavo sul retro della casa, sotto un sole battente

ed incominciavo: do-re-mi-fa. Lentamente, poi sempre più velocemente.

Cento sante volte ogni santo giorno. Mio cugino, che aveva la finestra al piano di sopra

e che probabilmente si era coricato solo un paio d’ore prima dopo l’ennesima notte di

bagordi, batteva ogni mattina alla finestra imprecando: “Allora! Basta! Almeno cambia

tonalità!!!”

Ripetei quella scala cento volte per sessanta giorni, uguale seimila volte, la facevo

ormai ad una velocità impressionante.

Quando a settembre il professore disse “Bene, fammela sentire” partii e, alla quarta

nota, mi inceppai. Nooo.

Non sono mai stato lucido nei momenti decisivi della vita.

Non sono mai stato lucido nei momenti decisivi della vita.

Non sono mai stato lucido nei momenti decisivi della vita.

Non sono mai stato lucido nei momenti decisivi della vita.

Ripetei nella mente questa frase lasciando cadere la tazzina di caffè dalle mie mani

che si ruppe a terra in mille pezzi.

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Questo era un momento decisivo della mia vita e io non riuscivo a venirne fuori perché

non ero stato lucido. O meglio, non ero stato lucido fino alla partenza di questo viaggio.

Il professore che mi guardava in attesa dell’esecuzione del brano era il muro che io

trovavo in me quando mia madre mi chiedeva di parlare. Ed io perché non affrontavo

quel muro? Non per paura od insicurezza, ma per mancanza di lucidità. Non mi

astraevo, non guardavo la situazione da fuori ma continuavo a dire “sarà per la

prossima volta” e intanto distruggevo il rapporto, goccia dopo goccia, con i miei cari.

Che stupido!

Dovevo andare là ora, immediatamente, bisogno primario, boccata d’ossigeno dopo

minuti sott’acqua.

San Francesco. Primo pomeriggio. San Francesco è la chiesa sulla punta di Vieste.

Vieste si presenta come una spada che saluta la terra ferma per morire nel mare. La

città nuova alle spalle, la città vecchia circondata dalle onde.

San Francesco è l’ultimo saluto che il paese dà al mare, prima di abbandonarsi a

quell’immenso.

Attraversai di corsa tutte le stradine della città vecchia, luoghi in estate accalcati di

gente ed ora sorprendentemente nudi. Quelle vie sembravano più larghe, come una

stanza priva degli abituali mobili.

Correvo, correvo, correvo. Qualcosa, qualcuno mi richiamava là. Non sapevo cosa ci

fosse, ma correvo come quando sai che manca poco ad un esito, come quando

acceleri il passo tra i corridoi dell’università per arrivare alla bacheca che espone i

risultati del tuo esame che hai preparato chiudendoti un mese in casa.

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Giunsi alla chiesa, la costeggiai ed arrivai ad un prato incontaminato: l’ultimo, vero,

saluto che la civiltà lasciava alla natura.

Mi appoggia ad una roccia per riprendere fiato.

“Oh, si prop fuoor alenamend” – giunse una voce da pochi metri più in là.

Era un pescatore che, con la solita indifferenza mista a curiosità dei pugliesi, attaccò

bottone.

“No guardi, signor pescatore, sto rincorrendo la mia anima” – stavo per dire. Ma capii

che questa frase avrebbe comportato ulteriori spiegazioni se non derisioni, quindi

sorrisi e mi voltai.

“Nui sim dei tendador” – riattaccò.

“Cosa?!” – dissi io. Essendo fuori allenamento con il dialetto locale avevo capito: “Noi

siamo dei terroristi” e già mi immaginavo i branzini imbottiti al tritolo preparati da Al

Qaeda.

“Noi – siamo – dei – tentatori” ripeté in italiano, scandendo le parole come se fossi io

ad essere tra i due quello che non parlava l’italiano.

Era un signore anziano, le rughe profonde erano il segno del tempo scavato sul suo

viso. Ma i suoi occhi erano sereni, puri, schietti.

“Noi siamo dei maghi, degli illusionisti” proseguì “Vendiamo finzione alle nostre prede

per attirarle.

L’esca è il richiamo. Il pesce saggio la ignora, il pesce ingordo ci casca.

Più l’esca è fatta bene, più sfidiamo la loro arguzia.

Fino ad arrivare all’esca vera, che è la contraddizione totale, perché il tuo pane diventa

l’anticamera del tuo dolore.

Non scendere mai sotto l’ accontentarti, non salire mai sopra l’ingordigia, solo così

sopravviverai.”

Rimasi a bocca aperta. Non perché volessi vedere una metafora in tutto, ma

quell’uomo mi aveva sbattuto in faccia il mio errore. L’ingordigia di pane.

E il mio pane era l’amore.

Io volevo essere un punto di riferimento per tutti, io volevo dare le migliori

soddisfazioni nella vita ai miei genitori, io volevo essere il trascinatore della

compagnia.

Io volevo, io volevo, io volevo.

Ma ho ceduto in tutto, ho peccato in ogni cosa.

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L’ingordigia, chi è ingordo alla fine perde.

Il surfista che sfida l’onda impossibile cade;

l’amico che ha voluto dare sei esami in un semestre deve ancora laurearsi, mentre tu

lavori da tre anni;

lo scalatore finanziario ora è in galera;

chi ha sfidato il troppo amore oggi ha perso.

L’ingordigia, mista alla mia mancanza di lucidità, mi aveva fatto perdere la concezione

dell’umile, l’emozionarsi per il poco, l’addolcirsi per il medio.

Per me una cena in famiglia in settimana non era più nulla perché io puntavo al top, a

portare la ragazza a Parigi, ma quanti avrebbero pagato per quella cena perché oggi

possono solo sognarla?!

Tutto nella mia mente si stava aprendo, riassettando, chiarendo.

Il cielo invece si stava improvvisamente coprendo! A Vieste è così, sarà che è esposta

ai venti, ma il tempo cambia con una velocità incomprensibile.

Nel giro di pochi minuti il cielo era diventato nerissimo. Il vento piegava i rami

fischiando come una stridente melodia, il mare insorgeva come un padre severo.

“Riparati figliolo” disse il pescatore, ritirando in gran fretta la sua attrezzatura.

Io invece sentivo la pace.

Estate, spiaggia al tramonto, la gente rincasa, il mare ti culla, il gabbiano ti saluta, tu

leggi un libro e non sai se è più magico ciò che leggi o quel che ti circonda.

Io ora mi sentivo così.

Sentivo la mia mamma che mi chiamava, dal mare.

Sentivo il mio nonno che mi diceva che il pranzo era pronto, lavati le mani birbante che

si fredda, dal cielo. Chissà che in quel pescatore ci fosse un po’ di lui.

Sentivo mio padre che mi invitava a fare un giro in barca, dai che oggi ci si diverte, dal

vento.

Sentivo loro dalla natura.

Sentivo loro nella natura.

Sentivo loro natura.

“Vienn’ acca! S’impazzuet??!!” gridavano gli altri pescatori correndo al riparo mentre io

mi dirigevo, dalla parte opposta, verso gli scogli.

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Non ero impazzito, cari miei compaesani, ero semplicemente vivo. Sentivo la pace,

non grazie ad una ragazza, una compagnia od un evento. Sentivo la pace grazie a

me. Me soltanto. Me totale. Me puro.

La pioggia iniziò a bagnarmi il viso, l’odore dell’umidità risaliva dai prati. Sentivo le

braccia tremare, il formicolio alle dita proprio come prima di svenire.

Un urlo immenso, liberatorio, totale, intimo, dolce, arrabbiato…uscì dalla mia voce.

Alzai gli occhi al cielo e PIANSI!

Piansi.

Piansi!

PIANSI!!!

PIANSI!!!!!!

Piansi dopo anni.

Piansi le mie paure.

Piansi la mia semplicità.

Piansi il mio nonno.

Piansi la mia famiglia.

Piansi la mia mancanza di lucidità.

Piansi la mia ingordigia.

Il cielo era la mia culla e la sua pioggia l’immensa lacrima che mi donava.

E tutto era pace, tutto era chiarito, tutto era amore.

Tutto era bellezza.

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Svegliarsi nuovo

Il sole mi accarezzò la faccia, augurandomi il buongiorno.

Solitamente si dice “avevo dormito poco e male”, io avevo dormito “poco e bene”, in

quanto era stata la notte insonne più attesa di di tutta la mia vita.

Non potevo non ammettere che il giorno precedente era avvenuta una svolta decisiva

nella mia vita.

Mi sentivo nuovo. Avevo pianto ed affrontato per la prima volta le mie paure.

Tutto mi sembrava più intenso; l’odore del caffè era più corposo, il brillare del sole sul

mare più accecante, il promontorio di colline più maestoso. La mia mente era un

continuo intersecarsi di “grazie” e “scusa”.

Con troppe persone mi dovevo scusare.

Un essere indefinito dovevo invece ringraziare. Forse Dio, forse il mio nonno, non lo

so. Ma ogni panorama, immerso in quella natura incontaminata, mi faceva sentire in

debito con questa “essenza”, è come se mi si regalasse la visione di un film, talmente

reale da essere il mio contesto.

Presi un sentiero che dalla nostra abitazione conduceva nell’entroterra. Ricordo che da

piccolo, grazie alle amicizie dei nostri genitori con la guardia forestale, io ed i miei

cugini facevamo immense passeggiate lungo questi sentieri. Ed era un continuo

rincorrerci, ammirare, fotografare. Si viveva con la pace nel cuore; ma io, ora, quella

pace, anche se in lontananza, riuscivo di nuovo a sentirla.

Camminai a lungo per quegli sterrati. Il silenzio quasi ecclesiastico di quelle valli mi

dava i brividi. Ogni particolare aveva importanza, per me nulla doveva più essere

ovvio. Mi accorsi ad esempio di quanti frutti la natura mi aveva circondato, in pochi

metri raccolsi mandorle, olive, more, carrube e rosmarino.

Guardai questi frutti tra le mie mani ed incominciai a piangere come un bambino.

Ormai la fontana era stata aperta ed avevo tante di quelle lacrime arretrate che ogni

minima emozione coincideva con un singhiozzo.

Il sentiero che stavo percorrendo sfociò in una statale asfaltata. Le colline si erano

diradate e la strada si perdeva tra un prato immenso, chiarissimo. La bellezza della

Puglia è che, in differenti stagioni, cambia radicalmente il suo aspetto: se in estate

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ricorda la Grecia, calda e mediterranea, in autunno e primavera si scopre quasi

nordica: questo prato verdissimo sembra una distesa irlandese.

Accanto ad un palo della luce notai dei fiori. Poi una foto. Poi una candela, accesa. Poi

un biglietto.

Mi avvicinai incuriosito a quella sorta di capezzale e la fotografia immortalava una

donna anziana dal viso accogliente.

“5 febbraio 2006

tre anni fa il destino ti ha rapita da me, ha tolto la tua mano dalla mia.

Sono scappata da qui, cara madre, te ne chiedo scusa ma non resistevo.

Ogni vicolo eri tu. Ogni scoglio eri tu. Ogni gabbiano che vola in cielo SEI tu, ogni

ricordo SEI tu.

Ogni ricordo è il dono più caro, è l’abbraccio ogni mattina quando esco di casa, è il tuo

sorriso prima di un mio impegno che mi mette paura.

Ma ogni ricordo, ognuno di quegli stessi ricordi, è una spada rivolta verso di me ogni

istante, è la consapevolezza che non ti avrò mai più....mai.

Ho bisogno di averti nel mio cuore, mamma, ho bisogno della buonanotte, della pasta

al forno, delle passeggiate, della vigilia di natale, della pace del tuo amore.

Ma se ti porto nel mio cuore è la conferma incessante che tu sei lì perché non sei più al

mio fianco. E questo non riesco più a sopportarlo. Quindi a volte vorrei dimenticarti,

perché così perderei il ricordo, ma forse attenuerei il mio dolore.

Queste due sensazioni mi schiacciano, mi opprimono, mi snervano.

E io non ricordò più nemmeno che sapore abbia la pace del tuo amore.

Col cuore,

tua per sempre

Liliana”

Le mani iniziarono a tremarmi, il cuore iniziò a battermi all’impazzata, proprio come

prima di aprire l’esito di un esame importante, proprio come quando dissi “ti amo” la

prima volta.

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Quel biglietto era di Liliana, la mia Liliana. Ne ho avuto la certezza fin da subito. La

calligrafia, il nome, la fuga da qui, i pensieri, l’incertezza, la delicatezza, il continuo

vacillare tra reazione e sconforto: tutto riportava a lei.

Il biglietto era stato scritto solo un giorno prima del mio passaggio, quindi la speranza

che lei fosse ancora in paese era reale.

Se quello era un segno del distino ora, più che mai, ci credevo.

Clamorosamente, ci credevo.

“Il vento mi ha portato qui.

Le colline mi hanno accolto.

Il mare mi ha cullato.

La pioggia mi ha ridonato nuova vita.

Non ti verrò mai a cercare, mai.

Ti aspetterò qui, dove riposta il tuo ricordo più intimo, al tramonto, ogni sera.

Andrea”

Piegai il biglietto e lo appoggia accanto al suo.

E nuovamente lettere.

E nuovamente sogni.

E nuovamente vita.

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L’altalena di coriandoli

Il giorno successivo, al calar del sole, mi recai sul luogo in cui avevo trovato il biglietto.

Ero emozionato, non mi sentii mai fuori luogo, neanche per un attimo.

Alla curiosità che provavo a Carugate nel gioco epistolare si era aggiunta la

consapevolezza di essere una persona diversa, di poterle offrire un me più completo.

Aspettai mezzora.

Aspettai un’ora.

Aspettai due ore.

Liliana non arrivò mai.

II secondo giorno mi presentai alla stessa ora nello stesso luogo.

Grilli e cicale, cicale e grilli, non sentivo null’altro.

Mi sentii come sull’altalena dei coriandoli. L’altalena perché tutto ciò era un turbinio di

emozioni continue, alte quando mi recavo sul luogo, basse quando non la vedevo, alte

quando sentivo un rumore, basse quando capivo che non era lei. Dei coriandoli perché

tutto era appeso ad un filo, tutto era cristallo.

Non arrivò nessuno e ritornai verso casa.

Il terzo giorno, imperterrito, arrivai puntuale alla stessa ora e nello stesso luogo.

Sentii male alla bocca dello stomaco. Ricordai che tutto questo il mio viaggio, concreto

ed interiore, era iniziato anche grazie a lei. Ripensai a tutto quello che mi aveva fatto

vivere. Da quando era “entrata” nella mia vita non mi sono mai annoiato, sono stato

molto bene, o molto male, ma comunque sono stato.

All’improvviso mi resi conto che ero pieno di quello che avevo vissuto, ma che in mano

non avevo niente, se non alcuni fogli di carta. Non l’avevo mai vista. Nessuno l’aveva

mai vista. Non ho prove concrete della sua esistenza materiale. Chi può dirmi che

Liliana non viveva solo nella mia immaginazione? Che era un mezzo per spingermi a

compiere questo percorso?

Per questo era tutto perfetto: la fragilità che sogno in una donna, la delicatezza, la

semplicità. Seduto ad un palo disperso nel prato del nulla, forse stavo avendo solo lì il

mio primo pensiero lucido. Magari la gente che mi conosceva diceva in giro che ero

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impazzito con una donna immaginaria nella testa. Ed io come potevo dimostrare il

contrario?!

Lei era un respiro, un’emozione, era confusione e chiarezza. Lei mi ha insegnato a

credere nei miei sogni, anche a rischio di diventare ridicolo, come in fondo ero in quel

momento.

Ridicolo.

Ma ridicolo con la pace nel cuore.

Arguto lettore, il flash forward allora incomprensibile che hai letto alla prima pagina si

rifà a questo punto della storia.

Ad un tratto notai che, incastrato nella fotografia della madre, vi era un biglietto piegato

in decine di parti tali da raggiungere dimensioni imperscrutabili. Lo aprii alla velocità

della luce:

“Segui il sentiero nel prato dorato. Il mio passato ti guiderà.

L.”

Oddio.

Oddio!

ODDIO!!!

Il cuore sembrava esplodermi. Lei c’era, lei aveva letto, lei aveva risposto, lei mi

invitava all’ennesima sfida al destino.

Iniziai a camminare sulla strada, non sapendo bene cosa. Effettivamente il biglietto era

sì poetico, ma non chiarissimo.

Sulla destra notai un sasso che teneva salda una foglia.

Non era una foglia, ma un foglio.

“23 febbraio 2004

Non so cosa sia, non è un diario, non è una lettera, ma non potevo tacere.

La scorsa notte, nella via adiacente alla mia, uno sregolato quanto geniale ragazzo ha

scritto sull’asfalto il testo di questa poesia

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Quando tu chiudi gli occhi

le tue palpebre sono aria.

Mi trascinano:

vado con te, dentro.

Non si vede nulla,

non si sente nulla.

Superflui gli occhi e le labbra,

in questo mondo tuo.

Per sentire te

non valgono i sensi consueti,

che si usano con gli altri.

Bisogna attenderne di nuovi.

Si cammina al tuo fianco

sordamente, al buio,

inciampando nei forse, nelle attese;

sprofondando verso l'alto

con gran peso di ali.

Quando tu riapri gli occhi

io torno fuori, ormai cieco,

inciampando ancora, senza vedere,

nemmeno qui.

Senza sapere più vivere

nè in quell'altro, nel tuo,

nè in questo mondo scolorito

dove io vivevo.

Incapace, indifeso

fra l'uno e l'altro.

Andando,venendo

dall'uno all'altro

quando tu vuoi,

quando apri, quando chiudi

le palpebre, gli occhi.

“Quando tu”, di Pedro Salinas. Il mio autore preferito. La poesia preferita del mio autore

preferito.

Come hai fatto, sregolato quanto geniale ragazzo, a entrare così tanto nei miei

pensieri?

Ma quanto freddo avrai preso a scrivere, di notte, di tutto questo testo?!

Ma soprattutto, quanto amore ti avrà donato lei per meritare tutto questo?”

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“28 febbraio 2004

Le giornate scorrono irrimediabilmente uguali. Non esiste domenica né fatica. Solo

grazie alla fatica puoi godere della pace del riposo.

Il trasferimento è stato come me lo aspettavo, inevitabilmente spiazzante. Ho perso il

mio mare, il mio lavoro, i miei sapori, i miei tramonti.

Mi sento in bilico, sospesa, né su, né giù. La mia mente è una giornata di nebbia, un

lunedì di lavoro, in cui speri disperatamente di avere la consapevolezza che qualcuno

in quell’istante ti stia pensando.

Stamane, mentre facevo una passeggiata, ho notato che tutto il quartiere era

tappezzato da fogli con incisa questa poesia:

A te si giunge solo

attraverso di te. Ti aspetto.

Io certo so dove sono,

la mia città, la strada, il nome

con cui tutti mi chiamano.

Ma non so dove sono stato

con te.

Lì mi hai portato tu.

Come potevo imparare il cammino

se non guardavo altro

che te, se il cammino erano i tuoi passi,

e il suo termine

l'istante che tu ti fermasti?

Cosa ancora poteva esserci

oltre Ma ora,

quale esilio, che assenza

essere dove si è!

Aspetto, passano treni,

il caso, gli sguardi.

Mi condurrebbero forse

dove mai sono stato.

Ma io non voglio i cieli nuovi.

Voglio stare dove sono già stato.

Con te, tornare.

Quale immensa novità

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tornare ancora,

ripetere, mai uguale,

quello stupore infinito! a te offerta, che mi guardavi?

Perché, sregolato quanto geniale ragazzo, ho l’impressione che sia ancora opera

tua?!”

“3 marzo 2004

Sregolato quanto geniale ragazzo, da oggi hai un nome…Andrea, un viso…puro,

e…una fidanzata, Claudia.

La finestra di camera mia dà su una via chiusa.

La via chiusa dà su una villetta.

La villetta dà su di te.

Tu dai su uno di quei fogli appesi per il quartiere.

Il foglio dà su di lei e ne rispecchia il suo sorriso, come un lago di Scozia riflette la

foresta in sé.

Sogno la tua sensibilità che si adagia su di me e mi protegge, calda coperta in una

notte invernale.”

Mi tremavano le mani, flashback assassino. Lei mi conosceva, o meglio mi seguiva,

quindi mi spiava??? Altro che estranea del pullman.

Non capivo se ero più arrabbiato per quella che era a tutti gli effetti una bugia, o più

affascinato da una ragazza che per due anni mi aveva aspettato, sognato,

accarezzando il mio viso senza posare mai la sua mano sul mio volto.

Sempre a distanza. Sempre fantasma.

Altri passi. Altri sassi. Altri sogni incisi.

“30 marzo 2004

Oggi ho assistito a una scena assurda. Tu sei arrivato da lei e le hai detto:

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- Ho una sorpresa per te – e hai tirato fuori una busta. Conteneva una poesia, scritta

da te, la tua prima poesia come da tua ammissione. Cinque righe, un gioiello, di

purezza, di semplicità.

Lei l’ha letta e ha esclamato: - Ah, ok. Ora mi dai la sorpresa?! –

Ho visto il tuo viso crollare come un aereo in picchiata libera. Ingenua ragazza, era

quella la sorpresa, e non sai quante persone (tra cui chiaramente io) darebbero un

rene per ricevere in dono una poesia, per di più scritta solo per te.

Vorrei rapirti, darti amore e pretenderlo da te perché tu potresti donarmelo, lo so, lo

vedo, lo sento.

Vedo la dedizione che dai al tuo amore, lo modelli come un artigiano custodisce

gelosamente la sua più preziosa scultura. Ogni sera tu passi a trovarla, ad ogni suo

esame tu preghi per lei, non è mai lei a venire da te, a desiderare te.

Perché fa così? Perché non capisce della fortuna che ha? E, soprattutto, perché tu fai

finta di nulla?!”

“28 giugno 2004

Estate di impalpabile gioia. È come essere ad una festa in cui tutti ballano swing e tu

adori il metal, tutti i sorrisi altrui ti sembrano così immotivati.

Tutto dà profumo di libertà: il sole sembra quasi non volerci abbandonare più, e la sera

ti saluta con rammarico; ma io non riesco ad amalgamarmi con questo contesto.

Voglio l’inverno, voglio la nebbia; nebbia che non scappi dalla mia mente.

Nebbia che offuschi e posticipi la rinascita.

Questa notte l’hai riaccompagnata a casa e avevi una faccia strana, insofferente.

Sei sceso dalla macchina e le hai come tirato addosso una serie di scomode verità che

tenevi dentro, forse, da troppo tempo.

Le finestre sono aperte e dalla mia ho potuto sentire tutto. Il silenzio della notte faceva

da spettatore al tuo sfogo.

Erano tutte le cose che ho scritto e pensato in precedenza, mi sono venuti i brividi. Era

come se una parte di me parlasse uscendo dal tuo corpo.

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E, una volta finito, lei era come indifferente. Ehiii sveglia! Ti ha appena detto che non

ce la fa più, che vorrebbe attenzione, sacrificio e tu?! Fai qualcosa, rispondigli, se hai

motivazioni dille, arrabbiati, discuti, bacialo, stringilo fino a scoppiare, scappa, amalo,

lascialo, no tu cosa fai? vai via come se nulla fosse!

La sensazione di sentirti ogni giorno sempre più intimo, sempre più parte di me ma io

ero, sono e sarò sempre e solo un’ estranea.

La finestra è il mio filtro tra la finzione e la realtà, la speranza e l’illusione, l’amore e la

solitudine.

Vorrei stringerti tra le stelle che ci cullano, mentre ti lascio lì, solo, ad attendere un suo

sacrifico che non avverrà mai.”

Non capivo più nulla. Il mio passato non era stato reale ed il ricordo del suo passato mi

stava conducendo verso il nostro futuro.

Dalla strada statale si diramava un sentiero sterrato. In fondo ad esso, un ultimo sasso.

Un ultimo foglio. Un ultima verità.

“15 ottobre 2005

L’autunno ha portato la tua solitudine. Vi siete lasciati.

Sappila gestire come un dono, non come una disfatta. Dopo aver donato il tuo cuore

per così tanto tempo, sei ora arido, spento.

Porta la tua anima a maggese. Maggese è riposo per rigenerare, per riemozionarti, per

riemozionare.

La sua scelta non mi stupisce. Ha saltato a piè pari l’inevitabile maggese, che poi è

inevitabile solo se prima di vero amore si trattava. Non ti curar di lei, le conseguenze di

questa sua scelta non arriveranno certo su di te.

Dalla mia finestra si vede la tua fermata del pullman, stamane a causa della tua solita

fretta, salendo, hai perso degli appunti.

Non ho resistito. Il mio primo contatto con te. Da quelle righe è iniziato il mio sogno.”

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Dopo quell’ultima lettera, il sentiero si perse in un lago di aghi di pino.

Profumo d’estate.

Profumo di sogno.

Due immensi alberi formavano tra loro un arco nel cielo, quasi come a condurmi, ad

invitarmi. Baciata dall’arco, vi era una piccola grotta artificiale fatta da sanpietrini, come

quelle che contengono le Madonne.

La parte coperta dalle pietre era quella davanti a me.

Il mio cuore, da quanto batteva, avrebbe potuto tenere in vita da solo tutti i miei cari.

O, chissà, in quel cuore battevano all’unisono tutti i cuori dei miei cari ritrovati.

Nella grotta un lenzuolo, bianco.

Sotto di questo, la sagoma di una persona.

“Quando non capisci più gli altri, quando gli altri non ti capiscono più…prendi un

lenzuolo bianco e rannicchiati sotto.

Ora sarai spettro agli occhi del mondo.

Ora sarai peccatore e redentore di te stesso.

Ora dovrai rendere conto solo alla tua felicità.

C’è la neve nei miei ricordi,

c’è sempre la neve,

e mi diventa bianco il cervello,

se non la smetto di ricordare.”

Eccoti.

Eccoti insicura.

Eccoti imponente.

Eccoti insperata.

Eccoti donatrice.

E’ inspiegabile descrivere come una persona che non avevo mai visto fosse già parte

di me. Liliana era il mio tassello mancante. I suoi occhi erano lo sguardo accogliente

dopo una mia sconfitta; il suo viso era il sorriso smagliante ad accompagnare la mia

vittoria. Le sue mani mi avrebbero curato nella malattia e chissà quante volte lo

avevano già fatto a distanza, premurose ma indiscrete.

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Ci abbracciammo talmente intensamente che credevo di scoppiare. Era un ri-

abbracciarsi, prima ci eravamo solo distratti un attimo.

All’unisono, dei timidi singhiozzi di entrambi diventarono sempre più forti.

Incominciammo a piangere, come due bambini. Il sale di quelle lacrime era la vita.

Il pianto congiunto cadde come la pioggia di San Francesco qualche giorno prima

facendo da pubblico al nostro bacio.

Non parlammo mai, nel silenzio di quella foresta parlavano già in troppi. Parlavano i

nostri occhi, ci applaudivano i sentieri, ci sussurravano la loro ninna nanna le stelle.

Le labbra erano unite nel nostro pianto, il quale era unito nei nostri corpi, che erano

uniti tra i pini protettori, che chiedevano spazio al cielo sornione.

Cielo che, davanti a quel miracolo di vita, si sentiva quasi indiscreto spettatore.

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Un natale a marzo con la voce di panna

Avete presente quando provate uno stato di serenità interiore così profondo che siete

coscienti di essere diffusori di amore?

Quando possono cambiare i contesti, potete essere nella più triste riunione del più

triste lunedì mattina condito dalla più triste pioggia moderata milanese ma voi vi sentite

fonti di amore? Parlate con gli altri e li tranquillizzate? Vi si pone un problema e lo

risolvete?

“Può essere sabato solo quando lo vuoi, può essere sabato solo quando lo vuoi” recita

una canzone.

Io mi sentivo esattamente cosi: ero innamorato, innamorato di me, dei miei genitori, dei

miei pensieri; ero innamorato della mai fuga, del profumo del caffè al risveglio, di

Liliana.

Scoprii la sua voce solo al risveglio, dopo dieci ore abbracciati in quella grotta e cullati

dal sogno più imprevedibile.

“Buongiorno, amore mio” furono le sue parole. Non erano parole dette al risveglio,

nessuno di due aveva chiuso occhio, era il buongiorno che mi offriva alla mia nuova

vita, alla sua nuova vita, alla nostra nuova vita.

La sua voce era panna, una vaschetta gelato alla panna mangiato nella più calda

giornata d’agosto: morbida, accogliente, dissetante, attesa, meritata.

Capii subito che Liliana aveva il mio stesso modo di ragionare, lo stream of

consciousness, ovvero la libera esternazione dei pensieri nell’ordine in cui nascono

dalla mente senza una riorganizzazione interna.

In sostanza è come aprire infinite parentesi di una espressione numerica senza

chiuderne alcuna, perché ogni termine riconduce a nuovi pensieri.

Vi assicuro però che quando è solo uno dei due interlocutori a ragionare così, si riesce

a mantenere una certa logica, ma quando sono due su due, la conversazione

raggiunge punti di puro dilemma.

Risultava infatti inconcepibile come, partendo da una discussione sull’inquinamento

delle imbarcazioni turistiche sulla costa garganica, si arrivasse a parlare della

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decisione di Lino Banfi di non schierare Aristotales nella finale de “L’allenatore del

pallone”.

Non parlammo mai del suo inseguimento nei due anni precedenti, se io lo avessi

ritenuto un gesto di amore od un atto adolescenziale.

Rimaneva il nostro “non detto”, in un rapporto, un qualsiasi rapporto, credo debba

esistere sempre un “non detto”, un qualcosa che sai che andrebbe trattata ma rimarrà

sempre taciuta.

Deve esistere per immaginarsi che “non ci siamo ancora detti tutto”, frase che troppo

spesso riecheggia nelle menti delle coppie, che ci sarà sempre un’ultima rivelazione.

Non dormimmo mai nella stessa casa in quei giorni. Ci piaceva l’idea di corteggiarci, di

prepararci prima di uscire, di attenderla in auto sotto casa sua e spalancare il mio

sorriso quando la vedevo arrivare pura, splendida, viva.

Ho sempre discusso con certi miei amici su tale argomento, amici che ricercavano la

convivenza appena possibile. Io ho sempre preferito il metodo “Storia alla Max

Pezzali”, ovvero:

“gli anni d'oro del grande real

gli anni di Happy Days e di Ralph Malph

gli anni delle immense compagnie

gli anni in motorino sempre in due

gli anni di - che belli erano i films -

gli anni dei Roy Rogers come jeans

gli anni di qualsiasi cosa fai

gli anni del - tranquillo, siam qui noi!-“

Non la reputo una “non voglia di crescere”, so che la convivenza significa maturità,

condivisione dei problemi più banali, ma vorrei che quando accadrà, stupido illuso,

fosse per sempre.

Non per una morale pseudoreligiosa o per passare come il grande sognatore, ma per

un fatto puramente egoistico.

Si, egoistico. Sono infatti la persona più attaccata al mondo al ricordo, dal ricordo

ricavo dolore, dal dolore malinconia. Anche solo vivendo una storia “ognuno a casa

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sua”, una volta finita, non riesco più a tornare nelle stesse città, negli stessi locali,

cinema, ristoranti. Non riesco, è più forte di me.

La stessa “goccia dei film” è per me straziante.

La goccia dei film è un gioco autolesionista che ho immaginato parecchi anni fa. Adoro

andare al cinema e ho sempre trovato compagne con questa stessa passione. La

storia che va bene è come lo scorrere incessante di una doccia bollente dopo una

giornata di lavoro massacrante in inverno. Quando la storia finisce, la doccia si spegne;

la mia doccia ha un problema ad un rubinetto tale da far si che non si spegne di colpo

ma l’acqua passa da 10 gocce, a 8, a 4, via via fino a spegnersi del tutto. Le gocce

calanti sono il percorso cinematografico/televisivo che fanno gli ultimi film che hai visto

con lei.

L’abbracciavi dolcemente mentre guardavi “La casa sul lago del tempo” al cinema. Poi

la vostra storia finisce; una sera tornando da lavoro ti fermi a fare la spesa da single e

nel reparto “nuovi arrivi” scopri che “La casa sul lago del tempo” è uscito in dvd (10

gocce al silenzio).

Il mese successivo passeggi da solo per il centro, in un anonimo sabato pomeriggio, e

scopri che “La casa sul lago del tempo” è ora disponibile in noleggio (8 gocce al

silenzio).

Tre mesi dopo torni a casa da lavoro, lunedì sera, la testa pare quasi richiedere più

centimetri da quanto scoppia. Ti stendi sul divano senza cenare e accendi Sky.

“Incredibile, questa sera vi presentiamo in anteprima assoluta tv –La casa sul lago del

tempo- buona visione” (4 gocce al silenzio).

Una calda sera d’estate, finestra aperta e rumore della televisione del vicino come al

solito troppo alta. Tu abbracci il tuo nuovo amore, in lontananza tra il rumore dei grilli la

televisione del tuo vicino ti annuncia “E a seguire, per il ciclo - I bellissimi di rete4 – in

prima tv assoluta su reti non digitali vi presentiamo – La casa sul lago del tempo – “.

Tu accenni un sorriso sarcastico, il rumore delle gocce nella tua testa è finalmente

scomparso.

Solo ora, realmente, silenzio.

La morale di questa discutibile metafora è: se, quando i film che vedevi al cinema con

la tua ex arrivano in tv, tu sei ancora single...c’è qualche cosa che non va.

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Se una cosa così indifferente ai più (ho ripreso il discorso del condividere nella stessa

casa...emm scusate…ecco un chiaro esempio di stream of consciousness) crea in me

tale scompiglio, immaginatevi vivere nella stessa casa, che è la tua casa. È facile,

infatti, come fanno diverse mie amiche, stabilirsi a casa altrui; ma quando la casa è la

tua e se la storia finisce tu devi a ragion di logica continuare a viverci (a meno che tu

sia miliardario e ti trasferisca nell’altra residenza a Saint Moritz).

Non riuscirei a sopportarlo.

Alla colazione penserei che quella era la tazzina che usava sempre lei.

Da quel pianoforte le dedicai la mia prima canzone d’amore. Su quel pc scrivemmo

assieme il nostro primo monologo, all’alba di una mattina dopo aver passato la notte a

leggerci a vicenda poesia su quell’altro divano, a destra del pianoforte.

Le candele sulla mensola le aveva comprate lei, e le accendeva sempre prima di

guardare assieme i film, accovacciati sotto il plaid che ora è sulla scrivania in camera

da letto.

No, assolutamente no. Non riuscirei umanamente a sopportarlo.

Molto meglio Max Pezzali e le notti in motorino sempre in due.

Nella nostra convivenza separata era dolce l’attesa prima di ogni incontro. Un

pomeriggio mi disse di passare a prenderla alle sette, avrebbe organizzato tutto lei.

Mentre scendevo dalla collina su cui risiede la mia casa, musica jazz usciva dalle

casse dell’autoradio, ma musica jazz usciva anche dalla mia mente.

La vita mi sorrideva, le onde del mare risalivano gli scogli come se si riposassero dopo

una giornata di incessante movimento. Realizzai che per la prima volta nella mia vita

non usavo una storia per essere felice, ma ero felice a prescindere e donavo alla mia

storia tutta la mia serenità interiore. Quando Claudia, nel periodo di esami universitari,

studiava e non poteva uscire, io spesso il sabato pomeriggio andavo al cinema da solo.

Tutti i miei amici mi chiedevano se ci fosse qualche problema, io al contrario mi

vantavo dicendo che vivevo una storia ma allo stesso tempo stavo bene da solo con

me stesso. Beh, una volta lasciati, un sabato pomeriggio provai ad andare al cinema

da solo, a metà strada mi sentii talmente triste e stupido che tornai indietro. In

quell’istante capii che la mia precedente felicità nei miei momenti solitari era solo

effimera. Perché sapevo comunque di avere lei.

Ecco, nella mia situazione attuale, sarei riuscito ad andare al cinema, il sabato

pomeriggio, da solo, senza vivere una storia ed essere estremamente sereno.

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Da un campo adiacente alla statale, raccolsi dei gelsomini da donare a Liliana.

Nonostante questo ero in clamoroso anticipo, così mi fermai al porto a guardare la

nostra barca. Da grande appassionato di barche, mio padre ha sempre fatto sacrifici

per poterne acquistare una. Dato che il proprietario del molo era un nostro amico, ci

aveva fatto un prezzo di favore per tenerla ormeggiata tutto l’anno, senza portarla al

deposito ogni fine estate. Quando la vidi è come se mi si aprì un baule di ricordi. Io in

quella barca passavo le mie estati, le gite alle isole Tremiti, la traversata in Croazia col

mare in tempesta, le prime notti a dormirci da solo appena ero più grande e mia madre

me lo concedeva.

La vita del porto mi ha sempre affascinato, nonostante non sia del tutto comoda con le

docce fredde e gli spazi ridotti ma lo svegliarsi al mattino col tintinnio delle vele, il

rumore delle onde ed il profumo di salsedine credo sia qualcosa di impagabile.

Nel porto vige anche un grande rispetto reciproco, è una sorta di comunità, ci si

scambia opinioni, ricordi, viaggi. Ho parlato per ore e sentito centinaia di storie

affascinanti da persone di cui non conoscevo nemmeno il nome.

Ma il porto è così: è condivisione di un sogno chiamato libertà.

Accostai la macchina sotto il portone della casa di Liliana ed attesi, quasi già

dipendente dalla sua bellezza proprio come un cane è dipendente dal suo padrone

prima del solito giro serale nel quartiere.

Scese dolce, scese bella, scese donna. Il vestitino a fiori le donava così tanta

leggerezza da aver paura che ad un certo punto volasse via, come una farfalla in un

campo di girasoli.

“Benvenuto alla tua serata, segui la statale per Peschici” – mi disse.

Stavo ricevendo quello che per anni avevo sempre e solo creato: una sorpresa. È

stupefacente come la visione da un piano diverso di una stessa situazione regali

sensazioni radicalmente opposte.

Ripensai al viaggio in taxi verso Malpensa, ora finalmente anch’io stavo vivendo il

brivido che Claudia aveva provato durante quel tragitto.

Parcheggiammo la macchina su un promontorio e scendemmo a piedi per un sentiero

sconnesso; scendemmo talmente tanto fino ad arrivare alla scogliera adiacente al

mare.

Lì, imprevedibile come un fiore cresciuto tra la pietra, sorgeva un ristorante, il

“Trabucco”.

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Il trabucco è un antico sistema di pesca completamente in legno che sorregge delle

grosse reti. La leggenda narra che in questo ristorante si mangi solo il pesce pescato

attraverso l’adiacente trabucco. Delle assi di legno a mò di palafitta danno un minimo di

stabilità ai tavoli che, di fatto, sono poggiati sugli scogli.

Un trio jazz, composto da batterista, chitarrista e pianista, suonava solo per noi. Quelle

note erano talmente frizzanti che parevan voler scappare in mare e ballare a braccetto

con le onde.

Il locale era completamente vuoto e notai subito una cosa alquanto strana: il tavolo al

quale il cameriere ci fece accomodare era completamente addobbato di rosso.

Candele, tovaglia rossa, piccole pepite finto oro sparse sul tavolo e pungitopo a

decorazione floreale.

Sopra il camino alla destra del tavolo uno stupendo presepe completamente illuminato.

Non capivo.

“Questo è il tuo Natale, Andrea, il nostro Natale. Lo so, sono un po’ in ritardo, è marzo

e ci sono 20 gradi, ma quel che conta è sentire quel brivido di quella notte magica. Tu

lo senti, Andrea?”

La mia anima fu più rapida della mia mente; prima che potessi costruire qualsiasi tipo

di risposta i miei occhi si inzupparono di lacrime e la strinsi talmente forte che credevo

di esplodere.

Nessuno aveva mai fatto nulla di tutto ciò per me, mi sentivo quasi “in debito”, in

imbarazzo davanti a cotanta dedizione.

“Perché?” fu l’unica parola che riuscii a dire.

“Perché sei il sospiro di vita, che si è posato su di me, mi ha avvolto, mi ha protetto nel

silenzio della distanza e mi ha spinto a rialzarmi” rispose.

“Stringimi” dissero i miei occhi, senza parlare.

Lei si alzò e mi abbraccio forte.

Intangibile sintonia.

La cena fu un’abbuffata di specialità pugliesi: le pettole, panzarotti fritti, aprirono la

strada ad una spaghettata allo scoglio divina; poi la zuppetta san severese, vini, dolci,

tutto era curato alla perfezione.

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In quegli istanti capii che volevo lì accanto la mia famiglia, per festeggiare il nostro

Natale. Ero però cosciente che mancava poco, che quel momento sarebbe presto

arrivato.

“Dai, sbrigati, che se no facciamo tardi” disse Liliana.

“Ma? Tardi per cosa?”

Come al solito, non rispose. Lei era attimo di vita, misterioso, impulsivo, spiazzante.

“Ma il conto? Non paghiamo?!” dissi allibito.

“Il proprietario è mio zio, è il suo regalo di Natale per noi due”.

“Wow, ma almeno presentamelo”.

“Zio, Andrea; Andrea, zio Salvo” ci disse trascinandomi per una mano verso il

parcheggio mentre mi scontrai praticamente con un uomo sulla cinquantina.

“Salve…Salvo” dissi quasi imbarazzato per il gioco di parole.

“Ciao Andrea, e buon Natale” fece lui con un sorriso accogliente.

“Andre, segui per Vieste, e schiaccia che siamo in mega ritardassimo”.

“Sposami” dissero i miei occhi.

“Don Antonio non ama i ritardatari” fece lei.

“Mah???!!! Come hai fatto? Mi hai letto ancora gli occhi?”

“Cosa?!”

“Mi hai letto ancora negli occhi. Ti hanno appena chiesto di sposarmi e tu hai già

avvisato il prete!?”

“Ah…emm…no…cioè si, il prete è avvisato, ma non per sposarci, ma lo voglio! Wow,

sono la prima donna al mondo ad aver ricevuto una proposta di matrimonio implicita

dagli occhi!”

Parcheggiammo ed arrivammo a piedi a San Francesco. Ebbi un brivido, ripensando a

ciò che era successo pochi giorni prima, proprio lì, in quel luogo.

Entrammo in chiesa. Mentre si faceva il segno della croce, sottovoce mi sussurrò

“Sorpresa numero due, la tua messa di Natale”. Mi mise in faccia il suo orologio:

mezzanotte spaccata.

Ripensai all’ultima vera messa di Natale, in cui ero lì con il corpo ma non certo con

l’anima.

La chiesetta era deserta, Don Antonio era un omino basso, rotondo, che sprizzava

bontà solo a guardarlo. Sapeva di pane caldo appena sfornato, di caffé all’alba, di un

abbraccio atteso da tanto. Sapeva di buono.

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L’omelia sembrò un discorso fatto apposta per me. Capii subito dallo sguardo di intesa

fra lui e Liliana che lei le aveva descritto tutta la mia situazione, il mio percorso. Ancora

un incontro con una persona sconosciuta che credevo invece di conoscere da anni e

che pareva conoscermi da altrettanti. Come con il pescatore, come con Liliana. Ancora

quella magia. Come se io in realtà conoscessi già il mondo, il mio mondo, ma prima lo

guardavo da una visione distorta, tale da sembrarmi estraneo.

Don Antonio parlò della bellezza della semplicità ma di quanto questo società faccia di

tutto per renderci ciechi davanti a questi valori, di quanto oggi si faccia fatica ad

accettare il basilare. Mi venne un brivido, era la cosa che avevo imparato a Pistoia, ma

questo né Liliana né conseguentemente lui potevano saperlo; con lei non avevo mai

parlato di quello che era accaduto nel mio viaggio, un altro “non detto”.

Ci disse che per superare questi ostacoli vi era paradossalmente bisogno di grande

lucidità e dedizione nel vivere l’emotività; ci voleva lucidità nel vivere la gioia di una

cena con i propri genitori, perché ad oggi la cena coi genitori è un “tempo rapido” da

scorrere perché sta iniziando il nuovo reality show alla tv da non perdere.

Pensiero identico a quello avuto mentre ricordavo le mie scale di chitarra in estate.

Lucidità.

Lucida razionalità per vivere una vera emotività.

In quell’istante mi astrassi, mi/ci guardai dall’alto, noi tre, nella casa di Cristo circondata

dal mare notturno che vegliava su di noi. Pensai che in quello stesso contesto, una

notte, in quella chiesetta, a mezzanotte, con Don Antonio a celebrare, Liliana sarebbe

diventata mia moglie.

Doveva essere tutto così. Come avrei fatto a portare tutti da Milano? Non era un

problema, anzi una prova: chi sarebbe venuto, mi avrebbe dimostrato il suo amore. So

già che Daniele sarebbe venuto al volo, col suo sorriso che era stato il vero faro di luce

nella mia impenetrabile nebbia. Pablo sarebbe venuto sicuramente, con la gioia

incancellabile nei suoi occhi. La mia famiglia e zio Stefano, con i suoi baffi che passano

serenità allo stato puro. Sugli altri amici, pseudo amici, amici di favore, “grande Andre

che mi fai entrare gratis ai concerti”, metto una mano sul fuoco che non sarebbero

venuti e, sinceramente, sarebbe stato meglio così.

Non erano degni di quella magia.

Lucidità nell’emotività. Bloccare l’attimo. Davanti alla luna. Per renderlo eterno.

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Salutammo Don Antonio ringraziandolo infinitamente. Rientrando verso l’auto, vidi che

Liliana si indirizzò verso il posto di guida. Nell’istante in cui realizzavo, toccandomi la

tasca, che avevo perso le chiavi della macchina lei era già salita e messa in moto.

“Mah?! Oh maga Silvan, ma come hai fatto?”.

“Disattento” disse lei, facendomi una linguaccia.

“Ok ok, bel gioco, ma ora scendi”.

“Neanche per sogno”

“No, toglimi tutto, ma non la mia auto”

“Non il tuo Brail?” altra linguaccia.

Ma come si faceva a litigare con una persona così?!

Sorrisi e la lasciai partire. Ho sempre avuto una mia teoria sulla guida femminile. Chi

guida in modo troppo accorto è una donna che non si lascia andare nella vita. Una mia

ex ragazza guidava con 4 cinture di sicurezza, sedile a un centimetro dal volante, radio

a volume impercettibile perché distrae, specchietti retrovisori sistemati ogni dieci

secondi, frenata imperiosa venti metri prima di ogni stop, incapacità cronica di buttarsi

nelle rotonde.

La rotonda l’ho sempre vista come una metafora della vita; nel nostro paese vi è una

mega rotonda costruita da un urbanista che deve avere il quoziente intellettivo di topo

Gigio, se non inferiore, dato che in essa si condensano in ordine: un’autostrada, una

tangenziale, un paese e i due centri commerciali più grandi d’Italia. Se attendi che ti

diano la precedenza che ti spetta, fai prima a portarti un cuscino per la notte. Non

passa chi ne ha diritto, passa chi ha spirito d’iniziativa e velata prepotenza.

Nella vita quasi sempre non emerge chi ha diritto, ma chi ha altrettanto spirito

d’iniziativa e velata prepotenza. La rotonda vorticosa ed incessante è il mondo d’oggi,

se ne vuoi entrare a far parte non puoi aspettare che ti lascino passare, devi buttarti.

Liliana guidò sportiva fino ad un’insenatura che collegava due baie. Vi ero già stato

molti anni prima per un falò con la mia “Kumpa marina”, ma quella serata era talmente

magica da lasciarmi a bocca aperta.

L’insenatura tra le due baie creava una sorta di piscina naturale circondata dalle rocce,

la luna creava un’autostrada di luce che portava dritta a noi.

L’ambiente era quasi astratto: gli alberi che lottavano contro ogni forma di gravità

crescendo sulla roccia verticale ricordavano di essere nel Gargano, ma il mare

immobile e la sabbia quasi rosa davano uno spettro lagunare.

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Come la canzone nella pizzeria di Napoli, ecco una nuova conferma della mia

rinascita: davo valore ad ogni particolare ed ora, di colpo, eccoci in una laguna

africana.

Ci sedemmo sul bagnasciuga, i piedi a sfiorare l’acqua.

Neanche me ne accorsi quando mi trovai le sue mani sopra gli occhi e la sua voce

sussurrarmi ad un orecchio: “Terza sorpresa, buon Natale Andrea”.

In quell’istante partii con uno dei miei soliti viaggi mentali e notai come Liliana non

usava quasi mai parole come “amore, tesoro” o similari, anche in situazioni calzanti

come questa, di notte e in una spiaggia deserta. Io adoravo questa scelta, la

condividevo e ne conoscevo anche i motivi: quanto al giorno d’oggi queste parole sono

inflazionate? In passato mi veniva detto “ti amo” al termine di ogni messaggio, al posto

di dirmi “ciao”.

Mi veniva detto talmente tante volte che alla fine io non ci credevo più. Per fortuna la

rarità riesce ancora, anche nei giorni nostri, a creare magia. Avremmo lasciato quelle

parole a momenti futuri, sognandone sempre di migliori. Ancora un “non detto”, ancora

un mistero, ancora una via inesplorata da percorrere assieme.

Nelle mie mani risiedeva un braccialetto di piccolissime conchiglie.

“L’ho fatto io, con le conchiglie di Vieste” – partì lei come al solito in uno dei suoi

inaspettati monologhi – “Vieste rappresenta la tua rinascita ed il mio dolore, è l’unione

del nostro male e del nostro bene; è il nostro tao: la guerra e la pace interiore.

Non esiste il male senza il bene né, ahimè, viceversa.

Per questo un giorno vorrei vivere qui con te. Perché quella luna è il nostro sorriso e

questa pioggia la nostra lacrima.

Noi siamo nati dalle emozioni di questo luogo.

Noi siamo questo luogo”

“Sposami” dissero i miei occhi. E la baciai.

Liliana prese dalla tasca del giubbotto una candela rossa. Scavò una piccola fossa

proprio al confine tra la sabbia bagnata e quella asciutta, tra la vita e la morte.

L’accese, mi abbraccio da dietro, una stella cadente svanì sopra di noi.

“Buon Natale, mamma” disse mentre una sua lacrima mi bagnò l’orecchio.

In quell’istante, per la prima volta in assoluto nella mia vita, mi sentii unico essere con

un’altra persona.

In quell’istante, per la prima volta in assoluto nella mia vita, io amai.

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L’acqua schietta ed il sole intimorito

Quella notte dormimmo abbracciati sulla spiaggia. Seppure fosse già marzo, di notte la

temperatura calava molto ed era bello ricevere calore dal suo abbraccio.

Verso le sei mi svegliai e, mentre sorgeva l'alba, stavo per svegliarla per guardarla

insieme, ma come facevo a svegliare un angelo cosi?! Mi sembrava di interrompere

una danza perfetta. Si dice che quando due persone respirano con lo stesso tempo di

inspirazione ed espirazione, in quell’istante, siano in unione l’uno con l’altra. Aspettai la

sua espirazione e iniziai a respirare al suo ritmo. Unione totale.

Ad un certo punto mi ricordai di Tonino, noo.

Tonino era un pastore che aveva un pascolo nelle colline su cui sorgeva casa nostra.

Lo conoscevo da 20 anni ed era una sorta di padrino per me; da piccolo passavo interi

pomeriggi a giocare a pallone contro il muro della sua imponente casa rossa. Da solo,

contro quel muro. Si dice che affini la tecnica. Con me non accadde.

“Andrè, vienn a bascè” mi diceva, per poi prepararmi la bruschetta con i pomodorini

coltivati da lui ed il suo olio. Assetato, mi andavo poi a prendere l’acqua dal suo pozzo.

Dio mio quanto era buona quell’acqua, fresca, schietta, pura. Quanto mi mancava

quell’acqua, quando mi mancava quella semplicità.

Nel mio ultimo soggiorno avevo stretto con Tonino un patto di ferro: la guardia forestale

aveva chiuso vari terreni per non si sa quale motivo, cosicché io gli permettevo di far

pascolare il suo gregge nel nostro terreno e lui mi riforniva di olio, olive e pomodori tutti

categoricamente di sua produzione.

Uno scambio irrinunciabile, direi.

Ma la sera precedente, prima di andare a prendere Liliana, avevo chiuso il cancello,

non conscio che avrei passato la notte fuori casa. Dovevo andare assolutamente ad

aprire quel cancello, in questo paese infatti ogni gesto viene portato subito ad una

considerazione morale.

“Ho trovato il cancello chiuso, Andrè, potevi dirlo subbbito se recavo disturbo” già mi

immaginavo le sue parole. Parlai a lungo a Liliana di questo soggetto, lei concluse

dicendo che il patto concordato constatava solamente la mia voracità nel mangiare

qualsiasi cosa, in qualsiasi quantità, a qualsiasi ora.

Dovevo tornare a casa subito. Liliana dormiva. Lei doveva tornare a casa sua per un

impegno. La macchina era una sola. Mi sentivo Christian De Sica quando in ogni film di

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Natale si ripete inesorabilmente la solita scena in cui lui nello stesso ristorante ritrova

sia la moglie che l’amante e non sa cosa fare.

Scelta estrema: presi una coperta dalla macchina, coprii Liliana. Carta, penna e lasciai

le mie chiavi della macchina sul suo petto.

“Scusami, non sto certo scappando!

Lo sai com’è poi Tonino, si offende – Io sono come un padre per te – etc…e poi non ci

dà più le olive!

Tieni tu la macchina, guida sportiva se no poi il motore si insospettisce che ci sia un

estraneo alla guida :-). Riportamela pure nel pomeriggio.

Andrea

P.s. Voglio vivere con te. Qui. Per sempre”

La “laguna” era proprio sotto la collina che ospitava casa nostra quindi, in pochi, minuti

arrivai a piedi al cancello del nostro terreno.

Tonino, puntuale, più di un orologio svizzero era già li ad attendermi.

“No, Andrè, perché stavo pensavo che sto recccando disturbo, bla, bla, bla, bla”.

“No, Tonino, no!”

“E non mi segui a bascc?”

“No, Tonino, prima passo da casa tua”

“A ccas mia?! E a cu affà?”

“A bermi l’acqua schietta del tuo pozzo” dissi ghignando beffardo.

Quando tornai a casa realizzai che ero palesemente distrutto. Mi feci una doccia con

l’intenzione di ributtarmi a letto. Mentre mi immergevo sotto il getto bollente ripensai a

tutte le volte che in piena notte mio padre urlava per la doccia. Che ridere.

Erano le classiche giornate binomio: lavoro + concerto. Uscivo al mattino per andare a

lavoro, alla sera mi recavo al locale o palazzetto che fosse. Concerto, conclusione

concerto. Casa. Ore 3:00. Ero fuori esattamente da diciannovedicodicannove ore, una

doccia mi sembrava il minimo premio che mi spettasse.

Gli orari di mio padre erano leggermente diversi, dato che da lì a tre ore dopo si

sarebbe dovuto alzare per affrontare un’altra giornata lavorativa.

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Quindi all’aprirsi del getto era immancabile il suo urlo, ormai mi stupivo del contrario.

Quell'insignificante momento spesso mi fece pensare che era giunta l’ora di andare via

di casa, impegni diversi, orari diversissimi, umori diversi.

Chiaramente non ne avevo le possibilità economiche per permettermi tutto ciò, quindi

per il momento mi limitavo a godere delle docce notturne senza contorno di urla

durante i concerti fuori Milano, con camera di hotel annessa.

Dormii tutta la mattina, mi svegliò un fascio di sole accecante che filtrava dalla finestra

semiaperta.

Sentii un rumore di macchina salire dalla strada sconnessa. Questa zona è talmente

poco battuta, che da piccoli io e i miei cugini ci divertivamo a riconoscere dal suono il

proprietario dell’auto. Il gioco prese talmente piede che partì un giro clandestino di

scommesse ad ampissimo raggio. Non ci si parlava neanche più, bastava uno sguardo

d’intesa all’arrivo di un auto. Si esclamava solo la scommessa e il nome dell’auto.

Ricordo che una mattina salì un’auto, guardai mio cugino Luca e gridai: “Mangiare dieci

buondì in mezzora senza bere tutta la mattina / zio Stefano”

“Accetto / zio Nino”

Ahah....un urlo satanico riecheggiò nella mia mente, già vedevo mio cugino soffrire e

implorarmi un bicchiere d’acqua, io che gli avvicinavo una bottiglia da due litri di the

freddo per poi toglierla mestamente dalle mani.

Era zio Stefano, era lui, non poteva essere altrimenti, avrei riconosciuto quel motore

della sua Alfetta tra altre mille.

Dalla salita apparve il muso dell’auto di zio...Nino.

Nooo, mio cugino in un'estasi concitata che neanche le bestie di Satana, corse in

cucina a prendere un pacco intero di Buondì ed ordinò a mia madre di non darmi da

bere fino a pranzo.

Voi non avete idea di quanto siano gnuccosi i Bondì.

Da allora sono passati ventidue anni ed io, appena rivedo quell’ammasso di glassa e

plastica, ricerco all’istante una qualsiasi forma di sostanza liquida.

Mi stiracchiai. L’auto che stava salendo era l’auto di Liliana, ovvero la mia auto. Dietro

riconobbi l’auto di mio padre. Avrei dovuto preparare il pranzo per tutti, apparecchiare,

andare nello sgabuzzino a prendere le bibite, tagliare il pan…..COSAAA???!!! L’AUTO

DI MIO PADRE!!!???

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La mia stupida mente come al solito non era riuscita a distinguere l’ordinario dallo

straordinario.

Schizzai sul piazzale e questa volta i Buondì li avrei evitati: era l’auto di mio padre

veramente.

Scesero ad uno ad uno come un pacco scartato lentamente vi erano: mio padre, mia

madre, mia sorella Sara, Pablo e Dani!!! Pablo mi saltò addosso che a momenti mi

spezzava, ripensai al suo entusiasmo ritrovato ogni santissima sera anche con una

bottiglia di plastica vuota tra i denti. Capii che, nel mio piccolo, anche io avevo ritrovato

il suo amore verso le piccole cose.

Su quella macchina vi erano tutte le persone che desideravo avere accanto, con me,

tra gli ulivi ed i grilli della mia terra. Prima che mi rendessi conto di quello che stavo

facendo, mi buttai in ginocchio al centro di quel piazzale e scoppiai a piangere.

Piangere di gioia.

Piangere di vita.

Crisi mia, ti avevo riconosciuta, affrontata, fronteggiata e sconfitta. E quello era il giorno

di celebrazione della mia vittoria.

“Auguri” fù la prima parola che mia madre mi rivolse.

“Auguri?!” dissi dubbioso.

“Oggi è il tuo compleanno!”

Che stupido, era il quindici marzo, il mio compleanno. Come spesso mi accade in

vacanza, avevo perso completamente la cognizione del tempo.

“Ha organizzato tutto lei” disse indicando Liliana.

“Quarta sorpresa, auguri” fece lei.

“E come diavolo hai fatto?”

“Il numero di casa tua l’ho trovato da internet. È stata un po’ dura spiegare tutta la

storia, tua madre mi stava scambiando per una pazza, ma alla fine ce l’ho fatta. E gli

ho convinti a scendere per questa festa”.

“E Dani?! Come diavolo hai fatto con Dani?!”

“Lì è stata un po’ più casuale, ricordi l’altra sera, in pizzeria, quando sei andato a

pagare il conto?! Ti giuro, lo so che è una cosa da bambini, e lo sai che non sono

così…ma me lo sono trovato davanti il nome, è così equivoco…”

“Equivoco? Il nome? Non capisco”

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“Andre il nome su cellulare – intervenne Daniele – ti ricordo che sul tuo cellulare io

sono memorizzato come “Amore patatone” e che solo io e te sappiamo che non sei

gay. Così Liliana si è insospettita del fatto che tu potessi avere già un’amante solo tre

giorni dopo che vi eravate fidanzati, si è segnata il numero, mi ha chiamato, ha

scoperto questa voce tenebrosa, affascinante, azzarderei sexy quale è la mia. Le ho

garantito che non sei gay ed abbiamo organizzato la trasferta”.

“Wow – dissi stupito come un bambino davanti al gioco più desiderato – e con Pablo

come hai fatto?!”

“Con lui è stata un po’ più dura, ma alla fine ha si è convinto” disse beffarda mentre si

inginocchiava ad abbracciarlo e lui la riempiva come a suo solito di zampate,

sbausciate ed affetto puro.

Non c’era bisogno di parole con mia madre, di quello che era successo forse sapeva

tutto, forse non sapeva nulla, ma più cosa importava?!

L’importante era il nostro sguardo, ritornato vivo;

il nostro dialogo, ritornato vivo;

la nostra voglia di crescere assieme, ritornata viva.

Volevo solo vivermi quella felicità perché la sentivo conquistata, sudata, meritata.

Andarono tutti a rinfrescarsi, dato che il viaggio era stato molto lungo.

Rimanemmo soli io e lei, in quel piazzale che mi aveva visto bambino, poi ragazzo, poi

uomo, poi abbandonato ed ora forse ancora bambino.

Mi sembrava di rivedere, attorno a noi due, tutti i miei “io” che mi salutavano, quando

un pallone ti salvava un pomeriggio. Si dice che quando una persona ha 10 anni…ha

10 anni. Ma quando una persona ha 20 anni…non ne ha dentro di sé solo 20, ne ha 20

ma ne ha anche 10, anche 16, anche 5. Io avevo riscoperto, con questo viaggio, ogni

età che i miei 23 anni contenevano. Un pallone era tornato a salvarmi un pomeriggio,

ma avevo anche voglia di lei; un tramonto mi donava i brividi, ma avevo anche voglia di

viaggiare per il mondo.

“Lo sai che sarò sempre in debito con te, vero?”

“Eh lo so si, mi hai lasciato da sola in una spiaggia deserta” fece lei da finta arrabbiata.

“Eh ma l’olio, Tonino, Cumpà se recco disturbo…”

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“Liliana?”

“Si?”

“Io ti amo”

“Andrea?”

“Si?”

“Io ti amo”

Io baciai lei, e il sole baciò noi, quasi intimorito da quanto quella nostra prima

dichiarazione brillasse nel cielo più di lui.

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Il sole che ci inghiottiva

Mia madre si distese sul letto per riposarsi dal viaggio.

Mio padre mi disse: “Preparo due spaghetti per tutti?”. Mi venne il magone a quella

frase, da quanto tempo mio padre non cucinava per me.

“Ok, ti aiuto io” dissi con le lacrime agli occhi.

Preparammo un onestissimo pomodoro fresco e basilico, che fa sempre la sua porca

figura e riscosse infatti il consenso di tutti.

Mentre sparecchiavamo presi da parte mio padre e gli dissi: “Pà, volevo chiederti un

favore, anche se so che non sarà facile.”

“Dimmi, Andrea”

“Questa sera, al tramonto, possiamo andare tutti insieme a fare un giro in barca al

tramonto?”

“Mmm, non lo so…l’assicurazione in questi mesi non ci copre, non ricordo se ho qui le

chiavi dei motori e prima di uscire bisogna sempre far fare la manutenzione. Non si

può, Andrea, mi dispiace”.

Ore 18:00

Aiutai Pablo a salire dalla scaletta. Povero, era un misto di agitazione, paura e felicità.

“Daniii, l’hai presa la macchina fotografica?”

“Si, amo!”

I gabbiani ci diedero il benvenuto.

Si accesero i motori.

Quando sono insistente, so diventare talmente logorroico che la gente, per

disperazione, cede.

A nessuno avevo detto perché volessi tanto fare quell’uscita, ma si vede che dai miei

occhi ne avevano capito l’importanza.

Costeggiammo Vieste, proseguendo poi per l’isolotto, Mattinata, baia delle Zaghere e

Pugnochiuso.

Mentre ci godevamo il paesaggio da quella visione privilegiata, mi avvicinai a mia

madre.

La mia scelta stava per esserle comunicata. Avevo paura. Ma dovevo dirlo.

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“Mamma?”

“Si, Andrea?”

“Io avrei deciso…ecco si, diciamo, per ora non è definitivo, però…”

“Di rimanere qui.”

“Mah…tu…come fai a saperlo? Hai parlato con Liliana?”

“No, qui Liliana non centra, l’ho capito…perché sono tua madre, l’ho capito dai tuoi

occhi, da come ammiri quel piazzale, da come hai tenuto in ordine le piante in queste

settimane. L’ho capito dalla gioia dei tuoi occhi.”

“E a te non ti dispiace?”

“Sarei un’ipocrita a dire di no. Mi dispiace, ma tu hai ritrovato qui la tua felicità e qui la

devi tutelare. Non pensare che sia tutto risolto, Andrea. La vita ti metterà sempre

davanti ad ostacoli, sempre più impervi. Ma tu ora sei felice e quando lo sei tu, lo

divento anch'io.”

“Grazie” le dissero i miei occhi.

“E di cosa ti occuperai?”

“Ti ricordi -Il trabucco-, quel ristorante sugli scogli a Peschici in cui eri andata con papà

la sera in cui io non potevo venire?”

“Si, ricordo”.

“Il proprietario è lo zio di Liliana. È un ristoratore atipico, un amante dell’arte e della

musica jazz. Ma dato che lui è troppo preso dalla gestione del ristorante, sta cercando

un “consulente musico-gastronomico” per fare il marketing, la pubblicità del ristorante e

la programmazione musicale. Liliana le ha parlato dei miei studi e del mio lavoro e lui

mi ha proposto subito l’assunzione”.

“Bene! Sono proprio contenta per te, e poi ora, con i voli low cost...una volta possiamo

scendere noi, una volta salire voi”.

“Grazie, mamma!” E l’abbracciai. E lei capì che io avevo capito. Avevo capito che lei

aveva accettato Liliana. Lei sa bene della mia caratteristica di non lasciare scontato

nulla in un dialogo, tale da farmi sempre questo giochetto. Con quel “Voi” lei intendeva

me e Liliana, intendeva che era una brava ragazza, che ci avrebbe volentieri preparato

la cena anche se il nostro volo fosse arrivato a Milano a mezzanotte e che avevo fatto

la scelta giusta.

Intendeva tutto questo ma per dirmelo usò una parolina di tre lettere nascosta in una

frase che parlava di un altro argomento.

La magica intesa, mai svanita, con la mia mamma.

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Mi avvicinai a mio padre e gli presi il volante dalle mani. Le nostre dita per un attimo si

sfiorarono. Non accadeva da anni. Guardavo le nostre mani stringersi per un solo

istante.

In quell’attimo lui mi passava il testimone, la sua esperienza ma anche la sua fatica. La

barca era il nostro unico mezzo per poter galleggiare in una vita che sognavamo libera

come il mare.

Ripensai a Napoli, a quel porto da cui iniziò il mio viaggio. Ora quella barca non mi

faceva più paura, era diventata la mia alleata per guidare tutte le persone che più

amavo verso il mare della libertà.

Volevo quell’uscita, per donare a loro anche un solo attimo della libertà che sgorgava

dentro di me.

Invertii la rotta e puntai verso il mare aperto.

Accelerai e misi la prua verso il sole calante che tramontava sul confine tra cielo e

terra, tra vita e morte, tra gioia e dolore. Sembrava così accogliente che pareva

volesse inghiottirci nella sua pace eterna.

“IO VI SFIDO, STELLEEEEEEEEEEEEEEEEEEEEEE!!!” urlai più forte che potevo,

alzando le braccia al cielo e chiudendo gli occhi, con gli schizzi di acqua salata che

erano portati via dal mio viso dal vento della velocità.

“Andrea nella tua vita è mai esistito un momento in cui hai realizzato, magari anche per

un solo istante, di essere veramente felice?” mi chiese Liliana.

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“Si.

Ora,

amore mio,

ora”.

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Per l’istante

Stai apparecchiando l’ultimo tavolo.

Immensa nella tua semplicità.

Non devo più usare il passato remoto nei verbi, non più.

Siamo ad ora, presente, istante.

Zio Salvo è talmente contento di come sta andando l’attività che, a poco a poco, la sta

lasciando totalmente a noi. Quanto sono distanti le mail, i sorrisi di facciata, le finte

strette di mano, i mal di testa lancinanti.

Qui la vita è schietta, nel bene e nel male.

La fede che porti al dito fa un gioco di luce col sole che si riflette nel mare.

Il nostro matrimonio è stato come lo avevamo sognato: a San Francesco a

mezzanotte, celebrato da Don Antonio, sospesi tra un giorno e l’altro, iniziato il sabato

e concluso la domenica. Così avremo due anniversari da festeggiare!

Come previsto, pochi intimi, ma quelli bastavano.

Daniele chiaramente mio testimone.

“Liliana, siediti, finisco io. Ricordi cosa ti ha detto il medico? Non devi affaticarti”.

Da quattro mesi Liliana porta in grembo il sogno della mia vita.

Tra pochi mesi saremo in tre.

Provo paura, emozione, agitazione, esaltazione. Esattamente come Pablo prima di

salire in barca ma, in fondo, anche per me si tratta di una prima volta.

La vita è piena zeppa di prime volte.

Come ogni sera, sono seduto sugli scogli a gustarmi il tramonto.

Ti stai avvicinando con lo sguardo mai banale di chi sta chiedendo una cosa mai

banale.

“Andrea, secondo te sarà per sempre?”

“Liliana, facendomi questa domanda è come se mi servissi un assist a porta vuota. Ma

è troppo scontato per me segnare. Potrei dirti di si, come farebbe chiunque altro, ed

abbracciarti davanti a questo immenso.

Ma sarei ingiusto.

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Io non posso sapere se sarà per sempre. La vita è una matassa così imprevedibile. Hai

visto con noi cosa ha riservato, te lo saresti immaginata mai tre anni fa di essere in

questa situazione?!

Io non ti posso dire che sarà per sempre, ma ti prego di non rimanere delusa da questa

mia frase, perché dicendoti il contrario mancherei di rispetto al nostro amore,

promettendoti una cosa che non posso sapere.

Io ti dico che sarà per l’istante, non per sempre, ma per l’istante.

Ovvero, in ogni istante lotterò per noi, con noi, attraverso noi. Sperando che l’infinita

somma dei miei -per l’istante- porti al -per sempre- che ti aspettavi io dicessi.”

“Andrea”

“Si?”

“Per l’istante è la risposta che sognavo mi dessi”

“Liliana”

“Si?”

“Noi, immensi, per l’istante”

“Andrea”

“Si?”

“Noi, immensi, per l’istante”

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Leggi Roma al contrario

Ora questa è realtà. Non domani, non ieri, ma ora.

Ora, il nostro tempo.

Luna e sole della nostra terra ci proteggono, mentre paiono così distanti ai nostri occhi

ma così vicini nei loro intenti.

Avete presente quando alla fine di alcuni film fanno scorrere tutto all’indietro alla

velocità della luce per riportarvi ad un fatto? E farvi capire, solo ora, che in realtà avete

già avuto ai vostri occhi quell’anello mancante senza la quale prima non tornavano i

conti?

Solitamente avviene nei gialli. Qui non ci sono omicidi, ma forse ci sono dei moventi,

delle mancanze e delle risoluzioni.

Questa infatti è la storia di una persona che stava male ed ha fatto tutto un giro, nella

sua mente o nell’Italia poco cambia, per stare bene. E ora sta bene. Punto.

E’affascinante quanto le cose possano essere così maledettamente complicate e cosi

tremendamente semplici allo stesso tempo.

Basta cambiarne l’angolo di lettura.

Basta cambiarne lo spirito di lettura.

Basta cambiarne la lettura.

Bene, rimandate indietro le immagini che vi siete creati in queste pagine alla velocità

della luce.

Ci sono io, sdraiato su una poltrona. Il mio migliore amico ha il pollice attaccato al

citofono per convincermi ad uscire.

Ci sono io che non voglio uscire perché per me uscire o non uscire non fa alcuna

differenza. Mangiare carne o pesce quella sera non fa alcuna differenza. Impegnare a

costruirmi un angolo di felicità o deprimermi non fa alcuna differenza.

Ma il fondo esiste e quando lo tocchi il tuo corpo, meno male per Dio, ti dà un allarme;

e un allarme è figlio di un pericolo. Qui il pericolo è di non sapere più cosa sei, dove

vai, ma soprattutto se dove vai sia la direzione giusta.

Si procede a tentoni, si guida al buio.

Tu aspetti al semaforo, in mezzo ad altre persone. Le noti e ti accorgi che non c’è più

differenza tra i loro vestiti ed i tuoi, ma non c’è più differenza nemmeno tra i loro sogni

e i tuoi. Tu sei ognuno di loro, ma ognuno di loro è te.

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Scatta il verde, corri senza ricordare più nemmeno dove devi andare, né perché stai

correndo.

Alzi gli occhi, vedi il cielo che sembra volerti domandare qualcosa.

In quel preciso istante tu capisci che non sai più chi sei.

Bene, ora invece c’è un uomo, che poi sarei ancora io, seduto su una poltrona, che

potrebbe essere la stessa di prima.

Davanti a sé non ha più come prima un televisore quarantaquattro pollici, ma una

scogliera. Addosso non ha una camicia da centoottanta euro ma una maglietta della

Lazio non originale comprata da un ambulante in spiaggia e con dietro il nome del suo

idolo: Fernando Couto, uno che tra la caviglia ed il pallone sceglieva sempre la prima.

Quella persona è sulla stessa poltrona, in meno ha molti beni materiali, in più ha molta

voglia di vivere.

Qual è l’anello mancate di cui parlavamo prima che ha cambiato i giochi?

Non lo so. Giuro, non lo so.

Io vi ho raccontato una storia, ma non sono in grado e non sta a me spiegarvi perché

sia andata così. Il fatto che poi la storia fosse la mia, non fa alcuna differenza.

Facciamo così: scopritelo voi.

Scopritelo voi nelle facce di chi aspetta il verde al semaforo di Lunedì mattina, ma non

sa più chi è.

Scopritelo voi negli occhi di chi lascia un lavoro sicuro per seguire la sua passione, ma

proprio lì capisce chi è.

Scopritelo voi e poi venite qui al Trabucco a spiegarmelo. Tranquilli, offro io!

“Vorrei fare un viaggio” mi dice una voce ovattata come se la sentissi da sott’acqua.

E’ Liliana, che mi fa uscire dall’ennesimo viaggio mentale in cui mi ero immerso.

“Dove vorresti andare?”

“Roma” fa lei secca e decisa.

“Roma, come mai?”

“Perché a volte per essere stupiti basta ripensare ad una cosa di sempre e cambiarne

l’angolo di lettura.

Basta cambiarne lo spirito di lettura.

Basta cambiarne la lettura.

Leggi Roma al contrario”.