LEGGE 4 NOVEMBRE 2010 N - uglcredito.com Collegato Lavoro.pdf · Il Decreto Legislativo 15 marzo...

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1 VENERDÌ 13 MARZO 2011 HOTEL CONTINENTAL UDINE, VIA TRICESIMO N. 71 -SALA MANIN- LEGGE 4 NOVEMBRE 2010 N. 183 - “COLLEGATO LAVORO” A cura di dott. Maurizio Gorza Responsabile Ufficio Legale UGL CREDITO UDINE Segreteria Provinciale 33100 UDINE ; Via Rovigno,17 Tel/Fax0432-507459. e mail [email protected]

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VENERDÌ 13 MARZO 2011

HOTEL CONTINENTAL

UDINE, VIA TRICESIMO N. 71 -SALA MANIN-

LEGGE 4 NOVEMBRE 2010 N. 183 - “COLLEGATO LAVORO”

A cura di

dott. Maurizio Gorza

Responsabile Ufficio Legale

UGL CREDITO UDINE

Segreteria Provinciale 33100 UDINE ; Via Rovigno,17 Tel/Fax0432-507459. e mail [email protected]

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Il 24 novembre 2010, dopo un iter particolarmente lungo a travagliato, è entrata

in vigore la Legge 4 novembre 2010 n. 183, pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale del

9 novembre 2010, ormai nota agli operatori con la locuzione “Collegato Lavoro

2010” o, ancora più brevemente “Collegato Lavoro”.

Il provvedimento si compone di 50 articoli che intervengono su diversi

istituti del diritto del lavoro con il prevalente utilizzo di una tecnica legislativa

purtroppo abusata che consiste in interventi su testi normativi vigenti mediante

l’introduzione di modifiche sporadiche – un’operazione di “taglia e/o incolla” – che crea non pochi problemi

interpretativi e di coordinamento.

Tornando al “Collegato Lavoro 2010”, è utile fornire una breve e sommaria indicazione degli

argomenti trattati nel provvedimento, seguendo l’ordine della legge stessa:

Art. 1 Delega al governo per l’emanazione di norme sulla disciplina dei lavori usuranti ai fini del

conseguimento del diritto alla pensione.

Art. 2 Delega al governo per l’emanazione di norme di norme sulla riorganizzazione degli enti

sottoposti a vigilanza da parte dei ministeri del lavoro e delle politiche sociali e dal ministero

della salute.

Art. 3 Composizione della commissione per la vigilanza ed il controllo sul doping e per la tutela della

salute nelle attività sportive. Si tratta di una norma che riguarda una materia del tutto estranea

al diritto del lavoro e costituisce un esempio classico del deprecato modo di legiferare di cui

sopra si è fatto cenno.

Art. 4 Sanzioni per l’utilizzo di lavoratori irregolari e lotta al lavoro sommerso.

Art. 5 Adempimenti formali delle pubbliche amministrazioni relative all’instaurazione di rapporti di

lavoro subordinato nonché di collaborazione in forma coordinata e continuativa.

Art. 6 Autorizzazione all’ esercizio della loro attività di medici ed operatori sanitari extracomunitari

presenti sul territorio nazionale al seguito di delegazioni sportive in occasione di competizioni

sportive.

Art. 7 Modifiche delle sanzioni previste per il mancato rispetto delle norme sull’orario di lavoro, sul

riposo giornaliero e sulle ferie annuali.

Art. 8 Modifiche relative all’ elettorato passivo per le cariche accademiche e gli organi collegiali delle

università. Anche in questo caso si tratta di una norma che non riguarda propriamente il diritto

del lavoro.

Artt. 9- 12 Norme sulle università.

Art. 13 Mobilità del personale delle pubbliche amministrazioni.

Art. 14 Trattamento dei dati personali dei dipendenti pubblici.

Art. 15 Conferimento di incarichi temporanei a dirigenti pubblici.

Art. 16 Modifiche alla possibilità di trasformare rapporti di lavoro nella pubblica amministrazione da

tempo pieno a tempo parziale.

Art. 17 Applicazione del contratto collettivo di lavoro del comparto della presidenza del consiglio dei

ministri al personale ad essa trasferito.

Art. 18 Possibilità concessa ai dipendenti pubblici di essere collocati in aspettativa per un periodo

massimo di 12 mesi senza assegni e senza decorrenza dell’anzianità per avviare attività

professionali e imprenditoriali.

Art. 19 Riconoscimento della specificità del lavoro svolto dagli appartenenti alle forze armate, di

polizia e vigili del fuoco nella determinazione dei criteri per la definizione del lavori usuranti

Art. 20 Disposizioni sul lavoro prestato a bordo di navi dello stato e risarcimento per danni patiti dai

lavoratori imbarcati.

Art. 21 Pari opportunità per i pubblici dipendenti

Art. 22 Età pensionabile dei dirigenti medici.

Art. 23 Delega al governo per il riordino della disciplina relativa a congedi, aspettative e permessi.

Art. 24 Permessi per assistenza di persone portatrici di handicap – modifiche alla legge 104/1992

Art. 25 Trasmissione telematica dei certificati di malattia

Art. 26 Aspettativa per conferimento incarichi a dirigenti pubblici

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Art. 27 Disposizioni relative al personale dell’amministrazione delle difesa

Art. 28 Personale dei gruppi sportivi delle forze armate.

Art. 29 Concorsi per alcune figure della Polizia dello Stato

Art. 30 Certificazione dei rapporti di lavoro

Art. 31 Conciliazione ed arbitrato

Art. 32 Decadenze in materia di contratto di lavoro a tempo determinato

In realtà la rubrica dell’articolo è sbagliata perché l’articolo riguarda anche i contratti di lavoro

a tempo indeterminato: il termine per impugnare il trasferimento - art. 2103 c.c è fissato il 60 gg

anche per i lavoratori con contratto a tempo indeterminato !

Art. 33 Accesso ispettivo, potere di diffida e verbalizzazione unica

Art. 34 Indicatore situazione economica equivalente ISEE

Art. 35 Sostegno alle aziende commerciali in crisi

Art. 36 Modifiche alla disciplina al sostegno dei lavoratori disoccupati

Art. 37 Divieto di pignoramento dei fondi di pertinenza del Ministero del Lavoro

Art. 38 Modifiche alla procedura per rendere esecutivi i provvedimenti assunti a seguito del

procedimento di conciliazione monocratica

Art. 39 Versamento ritenute previdenziali

Art. 40 Contribuzione figurativa per i periodi di malattia ai fini della determinazione dell’importo dei

sussidi di sostegno al reddito.

Art. 41 Azioni di recupero delle indennità corrisposte ad invalidi civili a carico di chi ha provocato il

danno e/o della compagnia di assicurazione.

Art. 42 Comunicazione all’ INPS dei dati per consentire l’esercizio dell’azione di rivalsa per infermità

provocate da terzi

Art. 43 Efficacia delle domande di iscrizione e cancellazione dall’albo delle imprese artigiane.

Art. 44 Norme sui pignoramenti a carico degli istituti di previdenza

Art. 45 Contribuzione figurativa per periodo di infortunio

Art. 46 Proroga dei termini per l’esercizio della delega conferita al Governo in materia di

ammortizzatori sociali ecc.

Art 47 Indennizzi per complicanze di tipo irreversibile a causa di vaccinazioni obbligatorie

Art. 48 Autorizzazioni ad operare alle agenzie del lavoro, aumento delle sanzioni per omesso

versamento di contributi, finanziamenti alle attività formative, possibilità di assolvere l’obbligo

di istruzione fino a 16 anni effettuando nell’ultimo anno (dal 15° al 16° anno) attività lavorativa

in qualità di apprendista.

Art. 49 Nomina di componenti di comitati presso l’INPS

Art. 50 Disposizioni in materia di conversione di contratti i collaborazione coordinata continuativa in

contratti di lavoro subordinato. In sostanza si limita il risarcimento del danno al collaboratore se

il datore di lavoro offre di sostituire il contratto di collaborazione coordinata continuativa in

contratto di lavoro subordinato da 2,5 a 6 mensilità nel caso in cui di accerti che il rapporto era

effettivamente un rapporto di lavoro subordinato.

Con questo modo di modo di legiferare i rischi di sviste ed incidenti di percorso sono

notevoli, un esempio per tutti: con il Decreto Legislativo 13 dicembre 2010 n. 212 sulla

semplificazione normativa e abolizione di norme obsolete è stato inopinatamente abrogato,

sembra per mero errore informatico, anche il Regio Decreto 20 luglio 1934 n. 1404 con il

quale erano stati istituiti i tribunali per i minorenni! All’errore si è posto rimedio con la

pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale del 7 gennaio 2011 di un provvedimento rettificativo. Ci si chiede cosa

sarebbe accaduto se la norma erroneamente abrogata fosse una legge penale. Non è un’ipotesi di scuola, anche

qui la realtà supera la fantasia perché sembra sia stato effettivamente abrogato anche il reato di banda armata!

Il Decreto Legislativo 15 marzo 2010 n. 66, entrato in vigore il successivo 9 ottobre, contiene ben 1.085

disposizioni normative. La disposizione n. 297 abroga il D.L. 14 febbraio 1948 n. 43 che puniva con il carcere

da 1 a 10 anni i promotori, i dirigenti e gli aderenti ad associazioni di carattere militare organizzate per

compiere azioni di violenza o minaccia. In questo caso non ci sono state correzioni ed anche se la norma

penale abrogata venisse in futuro ripristinata, chi ha compiuto il delitto previsto e punto dal D.L. 14 febbraio

1948 n. 43 può dormire sonni tranquilli perché non può più essere perseguito in base al principio

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dell’irretroattività delle norme penali ed anche se già condannato può comunque beneficiare dell’abrogazione

del reato. In base a quanto stabilito dall’ art. 2 commi 2 e 3 del codice penale nessuno infatti può essere punito

per un fatto che secondo una legge posteriore non è più reato e se vi è stata sentenza di condanna ne cessano

gli effetti e l'esecuzione!

Idem per la Legge 283/62 sulla repressione delle frodi alimentari, salvata all’abrogazione solo per un

cavillo: in epigrafe alla legge c’è la locuzione “testo unico” e solo per questa “circostanza fortuita” si salva

dall’abrogazione!

Non essendo possibile in questa sede un esame completo delle nuove disposizioni recate dalla Legge

183/2010, mi limiterò ad alcune riflessioni su 5 argomenti che a mio avviso costituiscono i punti salienti della

riforma:

1. Conciliazione

2. Arbitrato

3. Nuovi termini di decadenza per impugnare il licenziamento ed il

trasferimento

4. Limiti al risarcimento dei danni in caso di nullità del termine apposto a

contratti di lavoro a tempo determinato

5. Limitazioni ai poteri del giudice in materia di interpretazione e

qualificazione di clausole contrattuali.

1.CONCILIAZIONE

La conciliazione è uno degli istituiti giuridici che consente la composizione bonaria delle controversie

insorte tra soggetti, senza ricorso ad una pronuncia giudiziale (sentenza) o ad una procedura arbitrale (lodo). Il

contratto nel quale è trasfuso l’accordo raggiunto tra le parti è denominato con espressione tecnica

“transazione”. La transazione è espressamente disciplinata nel codice civile, nel libro IV che tratta delle

obbligazioni, agli articoli 1965 – 1976. La definizione giuridica del contratto di transazione è data dall’ art.

1965 c.c. che dispone: “La transazione è il contratto con il quale le parti, facendosi reciproche concessioni,

pongono fine ad una lite già insorta o prevengono una lite che può insorgere tra loro”. L’accordo transattivo

può essere raggiunto direttamente tra le parti in contrasto oppure può essere il frutto nell’ intervento di terzi

che aiutano gli interessati ad accordarsi.

L’elemento che caratterizza la procedura di conciliazione è rappresentato dalla circostanza che

la controversia è risolta proprio per accordo della parti e non in base ad una

decisione assunta da un organo esterno (giudice o altra figura). Se la decisione è

assunta da un organo esterno ci troviamo allora di fronte ad una procedura

giurisdizionale (processo – giudice) o ad una procedura arbitrale (una persona o un

collegio di persone che decidono al controversia).

Della procedura arbitrale si tratterà successivamente, per il momento esaminiamo

la conciliazione.

L’accordo può essere raggiunto prima ed al di fuori di un processo oppure anche dopo l’inizio del

processo e nell’ambito del processo medesimo. L’art 185 c.p.c consente espressamente alle parti in causa di

chiedere al giudice del processo di esperire un tentativo di conciliazione. Se il tentativo riesce, il contenuto

dell’accordo è formalizzato nel verbale di udienza e costituisce titolo esecutivo. Il particolare nel processo del

lavoro il tentativo di conciliazione da parte del giudice è obbligatorio alla prima udienza di comparizione art

420 c.p.c.

La conciliazione e la transazione, sia nell’ambito di un processo pendente, ma anche al di fuori del

processo sono meccanismi ben noti e visti con assoluto favore dall’ordinamento giuridico. L’ultima riforma

del processo civile segue questa direzione e reca tutta una serie di norme volte a favorire il ricorso alla

conciliazione. Basti pensare che ora nell’atto di citazione in giudizio è necessario che l’avvocato faccia

sottoscrivere al cliente che rappresenta una dichiarazione nella quale il cliente prende atto che aveva la facoltà

di adire una procedura di mediazione e conciliazione con risparmio di spese (Decreto legislativo n. 28/2010).

In materia di diritto del lavoro vi sono tuttavia dei meccanismi di tutela del lavoratore – considerato

parte debole – che limitano la sua facoltà acconsentire a rinunce o transazioni su diritti considerati inderogabili

dalla legge o dalla contrattazione collettiva. La conciliazione e la transazione nell’ambito del diritto del lavoro

– per essere efficaci ed incontestabili – devono avvenire attraverso procedure regolamentate, assicurando al

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lavoratore adeguata assistenza e tutela. La conciliazione e la transazione non sono quindi libere, ma

necessitano di forme precostituite e definite. Ciò vale ovviamente per quanto riguarda la soluzione delle

controversie al di fuori del processo perché invece nel processo l’assistenza al lavoratore è garantita prima di

tutto dalla presenza del suo legale di fiducia che lo assiste e rappresenta innanzi al giudice e poi dallo stesso

giudice che vigila sulla procedura di conciliazione.

Affinché la conciliazione delle controversie di lavoro sia valida, si devono seguire determinate

procedure che la Legge 183/2010 richiama e ribadisce.

Abbiamo stanzialmente tre tipi di procedure conciliative: la conciliazione amministrativa e la

conciliazione sindacale che operano al di fuori del processo e la conciliazione giudiziale che opera nell’ambito

di un processo già iniziato.

Prima di tutto è necessario richiamare l’attenzione su una importante novità introdotta dalla

Legge 183/2010: il tentativo di conciliazione preliminare ora è solo facoltativo e non più obbligatorio,

tranne nel caso del ricorso avverso la certificazione di una rapporto di lavoro. Prima della riforma, il

lavoratore o il datore di lavoro che volevano proporre un ricorso in sede giudiziale per una controversia

riguardante un rapporto di lavoro avevano l’obbligo di esperire preventivamente un tentativo di conciliazione

con le procedure previste dalla contrattazione collettiva di lavoro oppure davanti alla commissione di

conciliazione presso la Direzione Provinciale del lavoro. Solo dopo il fallimento della procedura conciliativa

era possibile adire l’autorità giudiziaria. L’obbligatorietà del tentativo di conciliazione stragiudiziale era

confermata e rafforzata dall’ obbligo imposto al giudice del lavoro che fosse stato adito prima

dell’esperimento del tentativo di conciliazione di sospendere il processo e assegnare alle parti il termine

perentorio di 60 giorni per l’avvio della procedura di conciliazione stragiudiziale (art. 412 bis c.p.c.).

Oggi il ricorso alla conciliazione preventiva non è obbligatorio, ma solo facoltativo, tranne che per le

controversie relative alla certificazione di rapporti di lavoro. Quale sia il motivo di questa eccezione non è

dato sapere. Si tratta comunque di un’eccezione espressamente formulata dal legislatore.

A) Conciliazione Giudiziale

Nella nuova formulazione dell’art. 420 c.p.c. è confermato il tentativo di conciliazione che il Giudice è tenuto

a compere nel corso della prima udienza di comparizione. La novità è rappresentata dall’obbligo imposto

al Giudice di formulare una proposta di transazione. Le parti devono esprimersi sulla proposta ed in caso

di rifiuto devono fornire le ragioni del rifiuto. Se il rifiuto non è sorretto da un valido motivo, il Giudice ne

tiene conto in sede di decisione della causa. Sostanzialmente la norma inciderà sulla ripartizione delle spese

processuali. Il giudice porrà a carico della parte che non ha accettato la proposta transattiva le spese legali

relative alla prosecuzione del processo. C’è da osservare tuttavia che alla prima udienza le prove non sono

state ancora assunte e pertanto potrebbe essere difficile formulare una proposta transattiva ed esprimersi sulla

proposta stessa. Esempio: ammontare di un danno da quantificare dopo una consulenza tecnica medico legale

ecc..

B) Conciliazione Amministrativa presso le Direzioni Provinciali del Lavoro

Le commissioni di conciliazione sono istituite presso ogni Direzione Provinciale del Lavoro e sono composte

dal Direttore dell’Ufficio o da un suo delegato in qualità di Presidente e da 4 rappresentanti effettivi e 4

supplenti designati rispettivamente dalle organizzazioni sindacali maggiormente rappresentative dei lavoratori

e dalle organizzazioni dei datori di lavoro.

La richiesta del tentativo di conciliazione deve essere sottoscritta dalla parte interessata va consegnata o

spedita alla Commissione a mezzo lettera raccomandata con avviso di ricevimento. Copia della richiesta deve

essere spedita sempre a mezzo di lettera raccomandata con avviso di ricevimento anche alla controparte.

La richiesta deve contenere:

le generalità delle parti,

il luogo dove è sorto il rapporto di lavoro o dove è prestata l’attività di lavoro (o dove era svolta

la prestazione di lavoro se il rapporto risulta interrotto al momento del ricorso – esempio

licenziamento) oppure ancora la sede del datore di lavoro;

il domicilio del ricorrente dove devono esser fatte le comunicazioni relative alla procedura;

l’esposizione dei fatti e delle ragioni a sostegno dell’ istanza.

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Se la controparte intende accettare la procedura conciliativa, deposita presso la Commissione – nei successivi

20 giorni – la sua memoria di replica. Se la controparte non deposita la memoria entro i 20 giorni, il tentativo

di conciliazione fallisce e le parti devono far valere le loro ragioni in altra sede. Se invece la controparte

convenuta deposita la sua memoria, entro 10 giorni dal deposito la Commissione fissa l’udienza di

comparizione entro il termine massimo di 30 giorni. Nel procedimento di conciliazione il lavoratore può farsi

assistere, oltre che la proprio avvocato di fiducia, anche da un’organizzazione sindacale alla quale conferisce il

mandato.

Nel corso dell’udienza di comparizione, la Commissione effettua un tentativo di conciliazione. Se la

conciliazione riesce viene redatto apposito verbale che pone fine alla vertenza. La parte che vi ha interesse può

procedere al deposito del verbale che certifica l’accordo raggiunto presso la Cancelleria del Tribunale ed il

Giudice lo dichiara esecutivo con decreto. In ogni caso la Commissione deve presentare alle parti una proposta

di conciliazione sulla quale i litiganti sono chiamati ad esprimersi.

Se la conciliazione non riesce perché un accordo non è raggiunto e non è stata accettata la proposta di

transazione avanzata dalla Commissione, viene redatto un verbale di mancata conciliazione nel quale è

riportata la proposta di conciliazione formulata dalla Commissione e le motivazioni espresse dalle parti in

ordine alla mancata accettazione della proposta. Anche in questo caso, come nella conciliazione giudiziale, la

parte che senza apprezzabile motivazione non ha accettato la proposta di conciliazione formulata dalla

Commissione potrà essere chiamata nel futuro eventuale giudizio al rimborso delle spese nel caso in cui la

sentenza andasse a recepire sostanzialmente il contenuto della proposta transattivi presentata dalla

Commissione. Con la redazione del verbale di mancata conciliazione si esaurisce la procedura.

C) Conciliazione Sindacale

L’art. 411 c.p.c menziona la procedura di conciliazione sindacale senza fornire alcuna

particolare regolamentazione. Il verbale di accordo sottoscritto dal lavoratore, dal

datore di lavoro e dal rappresentate sindacale deve essere depositato presso la

Direzione Provinciale del Lavoro e da questa trasmesso alla Cancelleria del Tribunale.

La parte interessata può poi chiede al Giudice l’emanazione del decreto che rende

esecutivo il verbale stesso. La contrattazione collettiva può indicare particolari forme

di conciliazione sindacale. Il contratto collettivo nazionale di lavoro del credito

prevede all’ art. 9 la procedura di conciliazione ed anche di arbitrato. Si fa cenno a Commissioni paritetiche di

conciliazione, seguendo comunque sostanzialmente le disposizioni dell’art. 411 c.p.c.

D) Collegio di conciliazione ed arbitrato

Il nuovo art. 412 quater c.p.c. prevede il nuovo organismo di conciliazione ed arbitrato. La parte ha facoltà di

attivare questa procedura notificando all’atra un ricorso con l’indicazione del proprio arbitro e la

specificazione dei motivi della controversia. L’altra parte può accettare provvedendo alla nomina del proprio

arbitro. I due arbitri nominati dalle parti devono poi accordarsi per la nomina di un terzo arbitro che farà da

presidente del collegio di conciliazione ed arbitrato così istituito. In caso di mancato accordo, il terzo arbitro –

che sarà chiamato a presiedere il collegio arbitrale - è nominato dal presidente del Tribunale. Anche in questa

procedura, se la conciliazione riesce, si deposita il verbale di accordo alla Direzione Provinciale del lavoro

come per la conciliazione sindacale. Se la conciliazione non riesce, si passa alla fase arbitrale e la

Commissione deciderà la controversia con un lodo. In base alla formulazione dell’art. 31 del Collegato

Lavoro, l’arbitrato sarà irrituale in quanto il lodo è impugnabile solo ai sensi dell’art. 808 ter c.p.c. Il

Presidente del collegio arbitrale è remunerato con il 2% del valore della controversia che deve essergli

corrisposto dalle parti mediante assegni circolari (ciascuna parte versa l’1%). Ciascuna parte deve poi

compensare con l’1% del valore della controversia il proprio arbitro.

Attenzione: il passaggio dalla fase di conciliazione a quella dell’arbitrato è automatico in caso di

mancata conciliazione. Oltre all’ onere di dover corrispondere il compenso agli arbitri, la procedura presenta

l’inconveniente di introdurre l’arbitrato irrituale che composta diversi rischi, come sarà precisato nel prossimo

capitolo.

E) Conciliazione presso le Commissioni di certificazione dei contratti di lavoro

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E’ confermata la possibilità di esperire procedure conciliative innanzi alle Commissioni di Certificazione dei

contratti di lavoro, anche su questioni estranee alla sola certificazione e qualificazione dei contratti di lavoro.

Fonti normative. Art. 76 Decreto Legislativo 276/2003 e art. 31 comma 12 della Legge n. 183/2010.

F) Conciliazione monocratica

Rimane ferma la previsione della conciliazione monocratica con l’intervento del servizio ispettivo delle

Direzioni provinciali del Lavoro alle quali il lavoratore può rivolgersi con una richiesta di conciliazione

preventiva. La procedura è discrezionale: il Dirigente dell’ufficio Provinciale del lavoro può ammette o meno

la procedura conciliativa.

A conclusine possiamo dire che a vario titolo ci sono quindi 6 procedure di conciliazione ! Questo

dimostra l’assoluta volontà del legislatore di favorire il ricorso a procedure diverse rispetto alla

soluzione giudiziale delle controversie.

Ricordiamo nuovamente le caratteristiche della procedura conciliativa che prevede l’accordo tra le

parti – sicuramente favorito e mediato dai vari organi di conciliazione – ma comunque sempre volontario. Si

ribadisce quindi che la soluzione della controversia non è costituita da una decisione assunta da terzi, ma da

una volontà comune delle parti. Se l’accordo non viene raggiunto, la procedura di conciliazione fallisce ed

esaurisce la sua funzione.

2. ARBITRATO

L’arbitrato è una procedura risoluzione delle liti affidata alla decisione di

soggetti diversi dall’autorità giudiziaria. Le parti tra le quali è insorta una

controversia ne affidano la decisione ad un organo che loro stesse provvedono

a designare. La decisone di questo organo giudicante è vincolante per le parti e

tecnicamente viene designata come lodo arbitrale.

L’arbitrato è disciplinato dal codice di procedura civile negli articoli 806 e seguenti.

Il codice di procedura civile consente il ricorso alla procedura arbitrale in materia di diritto del lavoro

solo se ciò è previsto dalla legge o dai contratti collettivi di lavoro. Fino all’ entrata in vigore della Legge

183/2010 tuttavia era sempre data facoltà alle parti – a controversia insorta – di non optare per l’arbitrato, ma

di adire l’autorità giudiziaria (art. 5 Legge 533/1973) ed in ogni caso l’arbitro doveva decidere la controversia

applicando le norme inderogabili di legge e del contratto collettivo. La mancata applicazione delle norme di

legge e della contrattazione collettiva poteva essere motivo di impugnazione del lodo innanzi all’ autorità

giudiziaria (art. 829 c.p.c.).

Nel diritto del lavoro era quindi consentito solo l’arbitrato rituale e rimaneva quindi escluso il ricorso

all’arbitrato irrituale che è una procedura di soluzione delle controversie dove gli arbitri determinano una

soluzione contrattuale della lite, imponendo alle parti una statuizione che ha forza appunto di contratto (art.

808 c.p.c.). L’arbitrato irrituale consente agli arbitri di intervenire molto elasticamente, potendo inserire nella

decisione qualsiasi clausola che le parti avrebbero potuto pattuire liberamente in un contratto. La possibilità di

impugnare il lodo emesso a seguito di un arbitrato irrituale sono molto limitate: l’art. 808 ter del c.p.c.

consente l’annullamento del lodo da parte del giudice solo se la convenzione di arbitrato non è valida, se ci

sono stati vizi nella nomina degli arbitri, se gli arbitri non si sono attenuti ai limiti loro imposti specificamente

dalle parti e se non è stato rispettato il contraddittorio nel corso della procedura arbitrale.

Ora la Legge 183/2010 amplia le ipotesi di arbitrato ed introduce anche la possibilità di ricorrere

all’arbitrato irrituale! La nuova formulazione dell’art. 420 c.p.c. consente alle parti di chiedere che la

controversia venga decisa secondo equità, nel rispetto dei principi generali dell’ordinamento e dei principi

regolatori della materia, anche derivanti da obblighi comunitari.

E’ opportuno riflettere sui pericoli del ricorso alla procedura arbitrale e soprattutto se si tratta di

arbitrato irrituale.

La prima perplessità (ed è la meno grave) attiene alla scelta degli arbitri. Quale garanzia di terzietà e di

indipendenza possono dare gli arbitri? Se la procedura arbitrale è condotta presso la Direzione Provinciale del

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lavoro, la decisione in pratica è affidata al presidente della Commissione che è un pubblico dipendente, quindi

soggetto ad un rapporto di dipendenza gerarchica da una pubblica amministrazione e quindi non vi sono

garanzie di indipendenza da pressioni politiche ecc.

Lo stesso dicasi per arbitri scelti tra professionisti e tra docenti di diritto del lavoro. I professionisti

potranno essere più sensibili alle pressioni dei datori di lavoro che hanno la possibilità di affidare loro

incarichi professionali e consulenze.

La seconda e più grave perplessità attiene all’opportunità di consentire agli arbitri la decisione secondo

equità e in applicazione dei principi generali dell’ordinamento. Le clausole sono troppo elastiche e si prestano

ad abusi. Un collegio arbitrale potrebbe ritenere equo ad esempio un compenso inferiore a quello previsto nei

contratti collettivi di lavoro o un risarcimento danni più limitato. Per questa via potrebbe inoltre essere forse

portato un attacco decisivo all’effettività della tutela contro i licenziamenti illegittimi da parte delle imprese

non piccole. Non è difficile ipotizzare che un collegio arbitrale chiamato a decidere su una controversia in

materia di licenziamento possa giungere a considerare “equa” nel caso concreto una tutela per il lavoratore

diversa dall’obbligo di riassunzione. Non possiamo infatti considerare l’art 18 dello statuto dei Lavoratori

espressione di un principio generale dell’ordinamento giuridico interno perché non si applica a tutti i

lavoratori, ma solo ai lavoratori dipendenti da aziende non piccole e l’obbligo di riassunzione del lavoratore

ingiustamente licenziato non è un principio sancito dal diritto comunitario.

La decisione di ricorrere alla procedura arbitrale può essere assunta in due momenti: Prima

dell’insorgere della controversia con la stipulazione di una clausola compromissoria che impegna le

parti a ricorrere alla procedura arbitrale anziché all’autorità giudiziaria; Dopo l’insorgere della

controversia

Clausola Compromissoria

La clausola compromissoria obbliga le parti a ricorrere alla procedura arbitrale

per la definizione di tutte le controversie future che sorgeranno in relazione ad

un contratto o ad un rapporto intercorrente tra loro.

La Legge 183/2010 prevede la possibilità di stipulare clausole compromissorie purché

siano rispettati i seguenti requisiti:

1) il ricorso a procedure arbitrali dovrà essere previsto nella contrattazione

collettiva di lavoro, con l’avvertenza però che nel caso in cui la contrattazione collettiva di lavoro –

entro 18 mesi dall’entrata in vigore della legge – non preveda la possibilità del ricorso a procedure

arbitrali, il Ministero del lavoro, decreto ministeriale, potrà regolamentare la materia.;

2) la clausola compromissoria potrà essere stipulata decorsi 30 giorni dalla data di inizio del rapporto di

lavoro e dovrà essere soggetta a certificazione presso la commissione di certificazione dei contratti di

lavoro oppure dovrà essere stipulata con l’assistenza di una legale o di un rappresentante sindacale;

3) la clausola compromissoria non può riguardare controversie relative alla risoluzione del rapporto di

lavoro. Precisazioni: si parla di risoluzione del rapporto di lavoro, non ci cessazione del rapporto per

scadenza (esempio per decorso del termine di durata del rapporto) e bisogna tener presente che

comunque a controversia insorta è possibile devolvere ad arbitri anche le vertenze di risoluzione del

rapporto di lavoro.

Il problema si pone per le nuove assunzioni. Per chi è già assunto con contratto di lavoro a tempo

indeterminato si sconsiglia caldamente l’adesione a clausole compromissorie.

E’ inoltre opportuno che in sede di contrattazione collettiva si presti la massima attenzione nella disciplina

del ricorso all’arbitrato, evitando di introdurre la possibilità del ricorso all’ arbitrato irrituale per non incorrere

nei pericoli sopra indicati e lasciare comunque aperta la possibilità di un controllo giudiziale sulla applicazione

delle norme inderogabili nella decisione della controversia. C’è da dire che molto probabilmente la parte

datoriale non sarà disponibile ad accettare troppi vincoli e preferirà forse attendere le disposizioni del

Ministero del Lavoro che negli ultimi tempi non ha mai fatto mancare il proprio sostegno alla parte

imprenditoriale. (Non mancano i precedenti in materia).

Per le assunzioni con contratti di lavoro a tempo determinato o contratti di formazione lavoro la situazione

è molto più delicata. E’ ben vero che la Legge 183/2010 prevede la possibilità di stipulare clausole

compromissorie solo dopo 30 giorni dalla data di inizio del rapporto di lavoro e richiede che la clausola sia

sottoposta a certificazione dalla Commissione competente a certificare i rapporti di lavoro o che sia sottoscritta

con l’assistenza di un legale o di un rappresentante sindacale, ma la possibilità di ricatto rimane !! Con la crisi

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occupazionale in atto – il tasso di disoccupazione giovanile supera il 30% - verosimilmente a chi non accetterà

la sottoscrizione della clausola compromissoria non sarà rinnovato il contratto, quindi la posizione del

rappresentante sindacale chiamato ad assistere il lavoratore si fa molto delicata !!!

Per concludere questo argomento possiamo quindi dire che ormai per i nuovi assunti il danno è fatto! In

concreto possiamo solo cercare di salvare chi ha già un contratto di lavoro a tempo indeterminato.

Rimane tuttavia aperta ancora una possibilità: una clausola arbitrale che impedisse comunque di

ricorrere al giudice ordinario potrebbe presentare profili di incostituzionalità per violazione dell’art. 24

della Costituzione che garantisce a tutti il diritto di ricorre all’autorità giudiziaria. C’è chi ha osservato

che fortunatamente la Legge 183/2010 – forse per mero “errore” – non ha espressamente modificato

l’art. 5 della Legge 533/73 che permette il ricorso all’arbitrato irrituale nei soli casi previsti dalla legge e

dai contratti con la precisazione che “ciò deve avvenire senza pregiudizio delle parti di adire l’autorità

giudiziaria”. Su questa ultima argomentazione non possiamo fare troppo affidamento: considerato

infatti che la Legge 183/2010 è successiva alla Legge 533/1973 è facile sostenere che ci troviamo innanzi

ad un caso di abrogazione tacita per incompatibilità tra la norma precedente e quella successiva.

Ricorso all’arbitrato dopo l’insorgere della controversia.

Dopo che la controversia è insorta, le parti possono chiedere che la vertenza sia devoluta agli arbitri,

anche con arbitrato irrituale, per tutte le controversie di lavoro.

Le procedure di arbitrato attualmente previste sono le seguenti:

A. Arbitrato amministrativo presso le Direzione Provinciale del Lavoro.

In qualsiasi momento le parti possono chiedere che la procedura di conciliazione attivata con le

modalità indicate nel precedente paragrafo dove si è trattato di “conciliazione” sia trasformata in

arbitrato, anche irrituale. In questo caso non ci sono limitazioni per materia: per tutte le vertenze, di

qualsiasi natura è possibile chiedere la soluzione arbitrale, anche se nella contrattazione collettiva

l’arbitrato non è previsto! Poiché l’accesso alla procedura arbitrale è determinato dalla concorde

volontà delle parti, è possibile devolvere agli arbitri solo alcune delle questioni controverse (arbitrato

parziale) ed è anche possibile chiedere agli arbitri di pronunciare secondo diritto, non secondo equità.

Si può quindi optare per l’arbitrato rituale che consente poi eventualmente di chiedere un controllo

giudiziale più penetrante in sede di impugnazione.

B. Arbitrato sindacale

Se la contrattazione collettiva nazionale lo prevede, le parti posso ricorre all’ arbitrato zincale, come

previsto appunto dalla contrattazione. Così dispone l’art. 412 ter c.p.c., nella nuova formulazione

introdotta dalla Legge 183/2010.

C. Collegio di conciliazione e di arbitrato

Si tratta di un nuovo organismo previsto dall’ art. 412 quater c.p.c. dopo le modifiche introdotte dalla

Legge 183/2010, di cui si è parlato nel capitolo dedicato alla conciliazione. Anche in questa sede

l’arbitrato può essere irrituale ed è esperibile per qualsiasi tipo di controversia.

D. Collegio arbitrale presso le Commissioni di certificazione dei contratti di lavoro

L’art. 31 comma 12 della legge 183/2010 prevede la possibilità di istituire camere arbitrali presso le

Commissioni di certificazione dei contratti di lavoro. La procedura arbitrale è ammessa per ogni tipo di

controversia ed ha i caratteri dell’ arbitrato irrituale perché viene fatto espresso riferimento all’ art. 808

ter c.p.c. che disciplina per l’appunto l’arbitrato irrituale.

E. Arbitrato rituale ex art. 806 e seguenti c.p.c.

La Legge 183/2010 non ha inciso sulla procedura di arbitrato rituale prevista dal c.p.c. e pertanto tale

procedura può essere attivata in materia di lavoro solo se l’arbitrato è previsto dalla contrattazione

collettiva e deve trattarsi di arbitrato rituale, pertanto opera la garanzia prevista dall’ art. 829 c.p.c. : si

può impugnare il lodo innanzi all’autorità giudiziaria per violazione di legge o di norme dei contratti

collettivi.

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3. NUOVI TERMINI DI DECADENZA PER IMPUGNARE IL

LICENZIAMENTO ED IL TRASFERIMENTO

Prima dell’ entrata in vigore della Legge 183/2010 non era fissato un termine

di decadenza per impugnare il licenziamento per i contratti a termine. c’era una vera

scadenza entro la quale impugnare un contratto a termine per chiedere la conversione

del contratto a termine in contratto di lavoro a tempo indeterminato. La riforma ha

invece fissato il termine di 60 giorni dalla scadenza del termine apposto al contratto. Il

termine di decadenza di 60 giorni si applica anche ai contratti in essere. Per i contratti

scaduti, i 60 giorni decorrono dalla data di entrata in vigore della legge e quindi il 23.01.2011. Nel decreto

“Milleproroghe” è stato tuttavia inserito un emendamento che sospende fino al 31/12/2011 l’entrata in

vigore dei nuovi termini di decadenza di 60 giorni per impugnare i licenziamenti. Il decreto è stato

convertito nella Legge n, 10/2011, pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale n. 47 del 26 febbraio 2011,

pertanto per tutto il 2011 potranno ancora essere impugnati i licenziamenti secondo la vecchia

normativa. E’ bene comunque intervenire sempre tempestivamente !

Per licenziamenti individuali dei lavoratori assunti con contratto a tempo indeterminato, la Legge

604/1966 prevede già il termine di 60 giorni per impugnare il licenziamento stesso. Se tuttavia il

licenziamento era non solo illegittimo, ma radicalmente nullo perché - per esempio - motivato da ragioni di

credo politico, fede religiosa o dalla partecipazione ad attività sindacali (art. 4 Legge 604/1996), non vi erano

termini di decadenza per proporre l’impugnazione. La giurisprudenza applica lo stesso trattamento anche al

licenziamento inesistente perché intimato in forma orale. Il principio è esposto senza incertezze dalla Corte di

Cassazione a Sezioni Unite nelle sentenze n. 5394 del 18/10/1982 e n. 1236 del 21/02/1984. Ora il termine di

decadenza di 60 giorni di applica a qualsiasi tipologia di licenziamento o interruzione del rapporto di lavoro.

Attenzione: dopo l’entrata in vigore della Legge 183/2010 non basta più la semplice

impugnazione del licenziamento entro 60 giorni con una inequivoca manifestazione di volontà del

lavoratore portata a conoscenza del datore di lavoro, ma è anche necessario – sempre a pena di

decadenza – che entro 270 giorni dalla comunicazione dell’impugnazione del licenziamento venga

notificato al datore di lavoro il ricorso giudiziale innanzi al giudice del lavoro o la richiesta del tentativo

di conciliazione o di arbitrato. Nel caso in cui si faccia ricorso a procedure conciliative o arbitrali, è poi

necessario notificare il ricorso giudiziale entro 60 giorni dall’eventuale esito negativo della procedura di

conciliazione o dal rifiuto della procedura arbitrale.

E’ opportuno inoltre precisare che i termini sopra descritti sono termini di decadenza e quindi ad essi

non sono applicabili le cause di sospensione ed interruzione previste per la prescrizione (impossibilità di agire

tempestivamente per incapacità malattia ecc.) e gli atti di impugnazione sono tecnicamente qualificabili come

“atti recettizi” con la conseguenza che essi dispiegano la loro efficacia solo nel momento in cui sono portati a

conoscenza del datore di lavoro. Quindi l’impugnazione deve pervenire al datore di lavoro nei termini sopra

indicati: non fa fede la data di spedizione della lettera raccomandata, ma la data di ricezione, non fa fede la

data di deposito della richiesta di conciliazione o arbitrato, ma la data di notifica della richiesta di apertura

della procedura stragiudiziale al datore di lavoro; ancora: non basta depositare il ricorso alla cancelleria del

giudice del lavoro, ma è necessario che il ricorso sia notificato entro il termine fissato( 60 o 270 giorni).

Per concludere sul punto ripetiamo che dopo la riforma, a partire dal 1/1/2012 per effetto della

sospensione introdotta dalla legge di conversione del decreto “milleproroghe” (Legge n. 10/2011), si

applicheranno a tutte le tipologie di licenziamento i termini di 60 e 270 giorni che abbiamo illustrato per i

licenziamenti relativi ai contratti a tempo determinato.

Analoghi termini di 60 e 270 giorni sono ora fissati anche per l’impugnazione del trasferimento

illegittimo. Qui non è intervento il decreto “milleproroghe, pertanto i nuovi termini di decadenza sopra

indicati sono già in vigore.

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Osservo che fortunatamente il termine di decadenza non si applica per l’impugnazione del

provvedimento di assegnazione del lavoratore a mansioni meno qualificanti rispetto a quelle a cui era

precedentemente adibito o rispetto a quelle per le quali era stato assunto ( art. 2103 c.c.).

4. LIMITI AL RISARCIMENTO DEI DANNI IN CASO DI NULLITA’ DEL TERMINE APPOSTO

A CONTRATTI DI LAVORO A TEMPO DETERMINATO

Il contratti di lavoro sono tendenzialmente a tempo indeterminato, i contratti di lavoro a termine

possono essere stipulati sono nei casi previsti dalla legge. Qualora venga impugnato

il termine apposto ad un contratto di lavoro a tempo determinato perché nel caso

specifico non ricorrevano le condizioni previste dalla legge per l’instaurazione di un

contratto di lavoro a tempo determinato ed effettivamente si riscontri la fondatezza

dell’ opposizione, il contratto di lavoro a tempo determinato è trasformato in

contratto di lavoro a tempo indeterminato. Per meglio dire verrà accertato con

sentenza o lodo arbitrale che il contratto stipulato a tempo determinato in realtà è un

contratto a tempo indeterminato, con la logica conseguenza che l’interruzione del rapporto di lavoro per

scadenza del termine apposto al contratto è illegittima ed inefficace. La conseguenza necessaria è che il

lavoratore dovrebbe essere risarcito di tutti i danni patiti per l’interruzione del rapporto di lavoro, subiti nel

periodo intercorrente tra l’illegittima sospensione della prestazione lavorativa ed il momento della

riassunzione in servizio. Tutti sappiamo che i tempi della giustizia non sono brevi e che una pronuncia

definitiva potrebbe giungere solo dopo molti anni.

. La Legge 183/2010 art. 32 commi 5 – 7 fissa ora un limite all’importo del risarcimento disponendo che il

risarcimento sia compreso tra 2,5 e 12 mensilità dell’ultima retribuzione globale. L’ammontare del

risarcimento come sopra fissato è inoltre ridotto a metà se nei contratti collettivi applicabili sono previste

graduatorie per l’assunzione di lavoratori a tempo indeterminato. Il Collegato Lavoro 2010 qualifica

espressamente il risarcimento come “onnicomprensivo”, pertanto il dipendente illegittimamente licenziato,

oltre al risarcimento come sopra quantificato, non spetterebbe neppure il diritto ai contributi previdenziali

relativi al periodo nel quale non ha prestato l’attività di lavoro !

La norma ha efficacia retroattiva e si applica a tutte le controversie pendenti alla data di entrata in vigore

della Legge 183/2010.

Diciamo subito questa norma che penalizza fortemente i lavoratori perché sostanzialmente pone

a loro carico l’onere della durata del processo è di dubbia costituzionalità. La Corte di Cassazione

Sezione Lavoro, con Ordinanza n. 2112 del 28/1/2011 ha dichiarato non manifestamente infondata la

questione di legittimità costituzionale dell’art 32 Legge 183/2010 e pertanto sulla questione dovrà ora

esprimersi la Corte Costituzionale.

Abbiamo motivo di ritenere, condividendo l’opinione della Corte di Cassazione Sezione Lavoro - che

effettivamente questa disposizione della Legge 183/2010 violi la Costituzione perché appunto pone a carico

della parte vittoriosa il giudizio l’onere della durata del processo, mentre l’art 111 della Costituzione fissa il

principio della ragionevole durata del processo. Infatti, essendo predeterminato l’ammontare massimo del

risarcimento, il datore di lavoro ha tutto l’interesse ed il vantaggio a prolungare il processo per il maggior

tempo possibile!

5. LIMITAZIONI AI POTERI DEL GIUDICE IN MATERIA DI INETRPRETAZIONE E

QUALIFICAZIONE DI CLAUSOLE CONTRATTUALI.

Con la Legge 183/2010 è stato introdotto un limite al potere del giudice di interpretare le clausole

contrattuali inserite nei contratti di lavoro certificati e un obbligo per i giudice di attenersi alle tipizzazioni di

giusta causa e giustificato motivo eventualmente presenti nei contratti di lavoro individuali e certificato ovvero

collettivi per decidere sulla legittimità dei licenziamenti.

Il giudice, nella qualificazione del contratto di lavoro certificato dalle apposite commissioni di

certificazione e nell’interpretazione delle clausole del contratto di lavoro certificato non può discostarsi dalla

valutazione espressa dalle parti in sede di certificazione. Nel caso in cui si desideri sottoporre al giudice

l’interpretazione di un contratto certificato sarà necessario impugnare la certificazione per vizi del consenso in

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relazione a quanto stipulato tra le parti e quanto accertato in sede di certificazione, altrimenti il giudice sarà

vincolato al tenore della certificazione !

Si ricorda comunque che in ogni caso il contratto individuale di lavoro – anche se certificato – non può

prevedere clausole peggiorative per il lavoratore rispetto a quanto previsto nella contrattazione collettiva e

deve rispettare i diritti inderogabili riconosciuti dalla legge al lavoratore.

Il datore di lavoro può chiedere la risoluzione del contratto di lavoro a tempo indeterminato solo per

giusta causa e per giustificato motivo oggettivo e soggettivo.

La sussistenza in concreto della giusta causa e del giustificato motivo doveva essere verificata dal

giudice tenendo conto della gravità dei fatti, dell’intenzionalità della condotta del lavoratore e della

proporzionalità tra colpa e sanzione. La Legge 183/2010 impone ora al giudice di tener conto delle tipizzazioni

di giusta causa e giustificato motivo eventualmente presenti del contratto individuale di lavoro certificato e nel

contratto collettivo di lavoro. E’ quindi evidente il vincolo che la legge impone al libero apprezzamento del

giudice perché se nei contratti di lavoro venisse descritto un comportamento o una serie di comportamenti ai

quali fosse riconducibile come conseguenza la legittimità del licenziamento, il giudice non potrebbe trarre

conclusioni diverse da quanto indicato nei contratti. E’ necessario pertanto prestare la massima attenzione

per evitare l’inserimento nei contratti di clausole con tipizzazioni molto specifiche dei comportamenti ai

quali può essere ricondotta la sanzione del licenziamento.