Le verità altrui

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Un uomo condannato alla verità. Un passato angosciante che lo ha traumatizzato al punto da renderlo speciale, dolorosamente unico. Un individuo che vive a stretto contatto con i propri incubi e che si trova costretto a fare i conti con il mondo che lo circonda. Una storia di dolore, di rivelazioni e di amore. Alla fine, l'unica domanda che ci spaventa è: siamo pronti per la verità?

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SALVATORE SCARCIGLIA

LE VERITÀ ALTRUI

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LE VERITÀ ALTRUI Copyright © 2013 Zerounoundici Edizioni

ISBN: 978-88-6307-577-9 In copertina: Immagine Shutterstock.com

Prima edizione Luglio 2013 Stampato da

Logo srl Borgoricco - Padova

A Luca e Andrea

La verità non è fatta di tante piccole rivelazioni. Essa è unica e indivisibile,

senza compromessi né interpretazioni. Altrimenti si tratta di menzogna.

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I - L'interrogatorio Tuoni e fulmini come sassi lanciati in un barile vuoto scintillavano nella notte. Lampi improvvisi squarciavano un cielo senza stelle ricoperto di un manto di nubi pesanti e grigie. Esplosioni lucenti interrompevano solo per alcuni istanti l'incessante rumore della pioggia che fitta e copiosa si riversava ovunque creando rivoli sguscianti. I canali erano stracolmi e non facevano che tracimare a ogni curva. Intorno a ogni ostacolo. Si trattava a tutti gli effetti solo di un desolante acquazzone, ma testardo e imperturbabile come solo i temporali estivi sanno essere. Pioveva fin dal mattino presto, da molto prima dell'alba. Aveva cominciato a notte fonda. Se mai quel giorno il sole era sorto, nessuno in paese se ne era accorto. I marciapiedi erano spariti sotto centimetri di acqua piovana che, fuoriuscendo dai tombini straripanti, faceva defluire per le arterie cittadine tutto quello che le fogne comunali erano incapaci di trattenere. I pochi impavidi che per necessità si avventuravano per strada non potevano che arrendersi alla furia del vento che sferzava l'aria a velocità sostenuta. All'approssimarsi delle folate più forti sembrava che le gocce arrivassero dal basso invece che dal cielo, così che gli ombrelli risultavano, più che altro, scomodi e tristemente inutili. Nessuno osava tenere le finestre delle case o dei negozi completamente chiuse a causa della temperatura interna che era pur sempre quella di un'estate soffocante, una calura accumulatasi nel susseguirsi di afose giornate e umide nottate. Né ci si poteva avventurare in aperture straordinarie senza incorrere in un inevitabile allagamento della propria abitazione. Coloro che si vantavano di avere un dio in cielo temevano fosse

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arrivato il giorno del giudizio universale, tutti gli altri li compativano aspettando con pazienza che quel trambusto passasse così come era arrivato. In ogni casa si era dovuta accendere la luce artificiale fin dal mattino e non la si era più spenta per l'intera giornata; qualcuno ogni tanto tirava fuori la testa per gettare uno sguardo al cielo, ma l'unica cosa che si riusciva a scorgere era un tappeto grigio uniforme che aveva sostituito l'azzurro limpido di agosto. Il tetto del mondo pareva essersi abbassato. Più vicino alla terra. Opprimente. Gli oggetti non avevano ombra perché non ricevevano luce. Alcuni alberi, i più deboli o quelli piantati da poco, non avevano potuto fare altro che cedere alla furia del vento ed erano stati sradicati. Le piante più forti, che forse nella loro esistenza avevano già vissuto esperienze di quel genere, sapevano come reagire e accompagnavano la direzione delle correnti d'aria senza opporre troppa resistenza. Su tutto, incessante, il rumore della pioggia. Le gocce cadevano violente sui tetti delle case, sui parabrezza delle automobili, sui soffitti in plastica delle autorimesse, provocando un assordante colonna sonora di sottofondo. Un incessante baccano naturale al quale difficilmente ci si abitua. Scrosci improvvisi e folate di vento. Ululati innaturali e fantasmi. Paura e curiosità. La curiosità che tutto accende e tiene vivi. Prima o poi sapeva che sarebbe arrivato quel giorno. Non la pioggia, no. Quella poteva sopportarla, anzi quel frastuono che in molti incute timore e innato rispetto per le eccezionali manifestazioni della natura, in lui provocava un inspiegabile rasserenamento. Ma ora non più. Un uomo solo che non è più solo. Come un albero nel vento che all'improvviso si stacca dal terreno, le sue radici cedono e si ritrova steso a terra, incredulo. Continuava comunque a piovere e nessuno poteva udire le voci dei due uomini, né immaginare quanto stesse accadendo tra loro in quegli istanti perturbati.

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«Adesso lei mi deve dire tutto quello che sa.» «Mi spiace, ma gliel'ho già spiegato. Solitamente non parlo per primo, ma rispondo alle domande.» «Guardi che non stiamo giocando!» «Lo so.» «E allora cominci!» «Mi faccia una domanda e, se posso, risponderò.» «Se può?!» «Già.» «Lei non capisce la situazione.» «Sono desolato, ma purtroppo è lei che non può comprenderla.» «Ma che diavolo, vuole farmi saltare i nervi?!» «Assolutamente no.» «Ma almeno lo sa perché si trova qui?» L'uomo chiuse gli occhi per un interminabile istante, trasse un lungo sospiro e poi rispose. «Certo che lo so.» «E allora cominci a raccontare tutto fin dal principio.» «Ancora una volta non posso, mi chieda quello che vuole sapere.» «Cosa?» «Mi chieda ciò che vuole sapere.» Le ultime parole erano state scandite forse in modo eccessivo, quasi stesse parlando con una persona incapace di comprendere anche i concetti più semplici. L'ispettore Schuldig rimase per un attimo interdetto. Quella frase, pronunciata con disarmante tranquillità e rassegnata pacatezza, fece vacillare momentaneamente la sua integrità mentale fino a indurlo a credere che stesse sognando. Un sogno assurdo e opprimente, di quelli in cui, pur sforzandosi al limite delle proprie energie, non riusciva mai a raggiungere l'obiettivo che aveva dinnanzi. C'era poi il profondo disagio provocato dal sudore e dall'afa estiva che si sommava implacabilmente alla stanchezza accumulata negli ultimi giorni; una stanchezza dovuta a notti

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insonni cui doveva aggiungere la spossatezza fisica derivante dal dover interpretare mille indizi, ascoltare differenti versioni della stessa storia e seguire improbabili percorsi che sembrava si perdessero d'un tratto nel nulla. Almeno fino a quel giorno. Fino all'incontro con quell'individuo così strano e per certi versi incomprensibile. Aveva di fronte a sé un uomo che dimostrava all'incirca cinquant'anni o forse più, all'apparenza un coetaneo, che però ne dichiarava dieci di meno. Indossava pantaloni grigio scuro, scarpe nere, una camicia che sembrava sporca d'unto, ma poteva anche essere sudore stantio, sotto a una giacca stropicciata e malconcia. La pelle era rugosa e scura, quasi fosse stata cotta al sole, ed emanava un cattivo odore. Molto più che sudore. Sembrava essenza di dolore, sofferenza allo stato puro. Fastidioso e nauseante, come solamente un uomo solo sa essere. Ci vollero alcuni secondi di silenzio assoluto affinché Schuldig potesse lucidamente tornare in sé. Si guardò intorno incredulo, quasi a cercare un appiglio cui sostenersi. Poi, con le vene del collo pronte a esplodere da un momento all'altro, si rivolse al suo interlocutore con l'aria di chi sta offrendo l'ultima possibilità di salvezza a un condannato a morte. La salvezza, inevitabilmente, arriva dal basso. «Io voglio sapere tutto, tutto! Ha capito?» gli urlò in faccia. «Certo.» «Certo?» «Sì, certo che ho capito.» L'ispettore alzò lo sguardo al cielo dando sfogo alle ultime gocce di pazienza che ancora risiedevano nel suo spirito di investigatore e cercò in qualche modo di calmare i propri nervi spostando lo sguardo altrove. Diede un'occhiata al grande orologio grigio appeso al muro e si accorse che erano quasi le dieci di sera. Soppesò mentalmente la situazione e si rese conto che per l'ennesima volta avrebbe dovuto telefonare a casa e avvertire la famiglia che sarebbe tornato tardi. Che mangiassero senza di lui,

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ancora una volta. Al suo ritorno avrebbe consumato i soliti avanzi freddi e cenato in compagnia di sedie vuote. L'ispettore Shuldig e l'uomo si guardarono l'un l'altro negli occhi. Vi fu un intenso scambio di emozioni nel silenzioso ronzio della lampadina gialla appesa al soffitto. La stanza dell'interrogatorio era quasi vuota. Vi si trovava proprio al centro un uomo seduto su di una sedia di plastica nera, le mani poggiate su un tavolino freddo e lucido, e di fronte un esponente delle forze dell'ordine. E fuori la pioggia. Era già capitato altre volte in quel locale di dover torchiare qualcuno per estorcergli una testimonianza o, nel migliore dei casi, una confessione, ma mai in ventidue anni di carriera l'ispettore si era trovato così a disagio nel compiere il proprio dovere. «Va bene» proruppe in tono magnanimo. «Voglio venirle incontro. Ha detto che devo limitarmi a fare domande, giusto?» «Corretto.» «Va bene. Cominciamo dalla prima. Lei sa perché si trova qui questa sera?» Un nuovo lungo sospiro precedette la risposta quasi scontata. «Sì.» «Lei sa che è stata uccisa una ragazza?» «Sì.» «Sa anche di chi si tratta?» «Certo.» «Me lo vuole dire?» «E' la figlia del sindaco Kriv.» «Perfetto. Forse cominciamo finalmente a intenderci.» L'uomo non replicò a quel cenno d'intesa che gli aveva regalato l'ispettore, quasi a sottolineare la propria volontà di rispondere solo a domande dirette. Schuldig si scostò lievemente dalla posizione che aveva mantenuto durante gli ultimi minuti per prendere una sedia e sistemarla di fronte al suo interlocutore. I loro visi si trovavano ora alla medesima altezza, distanti solo una decina di centimetri tanto che, probabilmente, per qualche minuto

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respirarono la stessa aria. Entrambi si sentirono fastidiosamente intimi in quello scambio di odori provenienti da cibo masticato male e digerito peggio. «Le devo confessare che non ho voglia di perdere troppo tempo con questa storia» sussurrò l'ispettore. «Bene.» «Ora le farò una domanda che per me, e per lei, ha un'importanza vitale. Mi ascolti bene.» Nonostante quest'ultima raccomandazione, il volto dell'uomo non cambiò espressione né sembrò interessato all'imminente quesito più di quanto non avesse dimostrato di esserlo per quelli che lo avevano preceduto. La stessa considerazione non sfuggì all'occhio esperto del suo inquisitore che non mancò di indispettirsi ulteriormente. «Lei sa chi ha ucciso la ragazza?» Il petto dell'uomo si gonfiò nuovamente per poi tornare alla situazione di partenza, svuotandosi lentamente. Inspirare ed espirare sembravano essere i meccanismi segreti che mettevano in moto le sue corde vocali. L'ennesimo sospiro precedette ancora il responso. «Certo che lo so.» L'ispettore riuscì a nascondere abbastanza bene la naturale inquietudine provocata da quella risposta e decise di deviare il senso della propria domanda su aspetti all'apparenza secondari rispetto alle informazioni che avrebbe voluto ottenere. «Cosa vuol dire “certo che lo so”? Perché dovrei dare per scontato che lei conosce il colpevole?» «Vede che avevo ragione» fece rassegnato il suo interlocutore «lei non ha ancora capito.» «Cosa? Dio mio, cosa?» «Lei non ha capito che io fornisco le risposte, quindi si preoccupi di formulare le giuste domande. E' sempre stato così.» L'uomo aveva un po' mentito. Ma nessuno oltre a lui poteva saperlo.

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«Lei invece non ha compreso che deve rispondere a tutte le mie domande, è qui per questo!» «No. Io non rispondo alle sue domande, io rispondo a tutte le domande.» «Questo è molto gentile da parte sua.» Schuldig cercava di sdrammatizzare, più per sé stesso in realtà, quella situazione assurda che si era venuta a creare nella minuscola stanza senza finestre del commissariato. Mentre i due uomini continuavano in quella sfida fatta di parole non dette e domande non fatte, all'esterno cadde un fulmine che fece vacillare per un attimo la lampadina appesa al soffitto. Entrambi guardarono verso l'alto per poi tornare a fissarsi nuovamente negli occhi. Fu l'uomo che approfittò per primo di questo gesto, apparentemente banale, che li aveva avvicinati per un istante. «Non mi prenda in giro, ispettore. Non merito anche questo.» «Anche questo?» sottolineò Shuldig. «Già.» «Va bene. Torniamo alla domanda principale.» «Bene.» «Lei sa chi ha ucciso la figlia del sindaco Kriv?» «Glielo ripeto, sì.» «E come fa a saperlo?» Questa volta fu l'uomo a irrigidirsi. Non si sentiva adirato con l'ispettore che lo stava interrogando oramai da più di due ore, ma lo infastidiva la futilità, a suo modo di vedere, di quelle domande. La loro inconsistenza. Sarebbe stato così facile ottenere la verità. Bastava chiedere. «Mi spiace ispettore. Ma non posso rispondere a questa domanda.» «E perché mai?» «Non posso rispondere punto e basta. Mi chieda qualcos'altro ma non questo.» «Ah bene!» sbottò Shuldig. «Siamo al punto che lei mi

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suggerisce le domande?» «La prego, questo rifiuto mi costerà molto caro, ma le ripeto che non posso rispondere.» «Certo che le costerà caro. Rischia di andare in galera per un bel po' se tace sulla provenienza di queste informazioni, lo sa?» L'uomo guardò l'ispettore negli occhi sfoderando un sorriso ironico, disegnando sull'angolo sinistro della bocca un arco simile a una smorfia di dolore. Un consapevole dolore auto inflitto. «Ispettore» disse con pacatezza «non è quello il genere di punizione che mi spaventa.» L'ispettore non riusciva più a comprendere bene quanto stesse accadendo. La sua pazienza aveva superato ogni limite. Si alzò di scatto dalla sedia facendola cadere all'indietro. Il rumore che ne derivò fece accorrere nella stanza gli agenti che piantonavano la porta d'ingresso. Al loro apparire, un altro fulmine cadde nei campi bagnati, un po' più vicino questa volta. Con il volto a pochi centimetri da quello dell'uomo, Schuldig gli rivolse violentemente alcune brevi, inutili domande. «Ha ucciso lei la ragazza?» Sospiro. «No.» «Ma sa chi è stato?» Sospiro. «Sì.» «E non vuole dirmi come fa a saperlo?» Sospiro. «Non posso.» «Non può?» «Già.» Con le ultime energie che gli erano rimaste in corpo Shuldig si rivolse ai due uomini in divisa che avevano assistito allo strano scambio di domande e risposte, e ordinò loro di liberarlo in fretta da quella situazione inconsistente. «Riportatelo in cella.»

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L'uomo si alzò senza opporre resistenza e si fece accompagnare fuori, non prima però di avergli rivolto una strana e inaudita richiesta. «Mi faccia tornare a casa» pronunciò con un filo di voce impercettibile. «La prego.» Shuldig fissò l'uomo e si rese conto che quella preghiera era sincera e disperata. L'uomo capì che la sua richiesta non poteva essere esaudita e, senza insistere, si abbandonò al suo destino. L'ispettore scosse il capo. «Non riesco proprio a capire dove voglia arrivare» borbottò nel vuoto. L'ispettore Schuldig, ora che l'interrogatorio era terminato, sembrava rammaricato di aver trattato a quel modo un uomo che, in fin dei conti, considerava innocente. Sì, perché lui non aveva mai creduto che l'individuo che stava trattenendo avesse nulla a che fare con tutta quella storia. Ma il suo lavoro pretendeva professionalità, certezze, anche temporanee ma certezze. Mentre il terzetto usciva dalla stanza l'ispettore, quasi a voler coinvolgere qualcuno nel proprio turbamento, si lasciò sfuggire alcune considerazioni personali ad alta voce. Una tacita richiesta di aiuto per i minuti a venire che lo avrebbero visto ripiombare in un’intima solitudine personale. «Quanto riuscirò ancora a resistere così? Quanto ancora, mi chiedo?» Tutti avevano sentito quelle parole disperate, ma solo uno trasse un lieve sospiro e, nel silenzio di passi furtivi che si allontanavano, aveva provato a fornire una risposta. «Ancora sei mesi, ispettore. Abbia pazienza ancora sei mesi.» Uno dei due agenti aveva intuito qualcosa, ma provò ugualmente a far finta di niente. L’altro invece si rivolse per la prima volta all'uomo che stavano scortando. «Ha detto qualcosa?» «Sì.» «Posso sapere cosa?»

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Sospiro. «No. Meglio di no.» L'ennesimo fulmine e poi ancora la pioggia.

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II - Il dolore Lo sapeva con certezza assoluta: la punizione giungeva sempre di notte. Aveva smesso di andare a letto proprio per quel motivo. Aspettava con rassegnata disperazione che lo sfinimento si impadronisse del suo corpo sul divano. Non aveva mai capito quale fosse il momento esatto in cui il sonno prendeva il sopravvento e lo scaraventava oltre il varco che delimita il confine tra realtà e sogno, ma sapeva che ciò avveniva invariabilmente ogni sera. Non c'era modo di evitare il tracollo. La maggior parte delle volte il televisore restava acceso sull'ultimo canale guardato, trasmettendo inutili programmi che nessun altro in quella casa avrebbe più visto. Televendite, improbabili cartomanti e incredibili predicatori infestavano la programmazione notturna. Aveva imparato a conoscere quelle trasmissioni e ne aveva memorizzato ogni singolo minuto. Non c'era più nessuno là fuori quando perdeva i sensi. Nessuno a dargli la buona notte. Nessuno ad augurargli di trascorrere un sonno sereno. Non poteva contare più su qualcuno che lo amasse o che si preoccupasse di lui. Quanto erano distanti i giorni felici dell'ultimo bacio prima di andare a dormire, prima del “sognidoro”. Stanchezza e tristezza lo possedevano senza pietà nel giro di pochi minuti. Inutile resistere. Alcune ore nel buio completo di un riposo senza incanto e poi giungeva il supplizio a risvegliarlo. Non si trattava di un risveglio improvviso, ma lento e penoso. Dopo qualche minuto di stordimento, cosparsi di lievi miraggi e soffici abbagli, cominciava la punizione. Quanto sarebbe durata dipendeva da come si era comportato durante l'intera giornata, da quante verità

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aveva tenuto per sé. A quante persone aveva taciuto le proprie risposte trasformando poi quei silenzi in dolore e desolazione. Tutto aveva inizio ogni volta allo stesso modo. Avvolto dal caldo sonno notturno cominciava lentamente a contorcersi tra abiti sudati e freddi. Spasmi violenti gli bloccavano l'intestino, i dolori che provava gli parevano pugnalate inferte con violenti colpi da un folle che avesse deciso di sventrarlo vivo senza un valido motivo. L'intervallo tra una fitta e l'altra durava solo pochi minuti, giusto il tempo di tamponare il sudore e provare ad assumere una nuova posizione nella speranza vana di alleviare quell'afflizione. Non poteva però pregare che avesse fine perché sapeva di cosa si trattava, ed era conscio di essere lui l'artefice e il responsabile di tanta sofferenza. Ad un certo punto il dolore allo stomaco si alleviava e quasi scompariva. Lo abbandonava lasciandolo piegato in due, per poi manifestarsi in altre forme e in altre parti del corpo. Spesso si trasformava in febbre e tremori. Sentiva la testa che iniziava a scaldarsi e nel medesimo istante tutto il corpo cominciava a irrigidirsi fino a palpitare con violenza quasi stesse ricevendo una scarica elettrica. Sporadicamente aveva sperimentato il metodo di tenere il cuscino in bocca in modo da placare il desiderio di urlare al mondo tanta sofferenza. Altre volte non era stato in grado di resistere dando sfogo a tutto il suo tormento con grida terrificanti che non avevano nulla di umano. Questo era uno dei motivi che lo avevano spinto a scegliere una vita solitaria lontano il più possibile dai suoi simili. Per chi gridare? Non poteva reagire in alcun modo a quella tortura. Qualsiasi tentativo di lenire l'angoscia gli procurava all'istante terrificanti crampi che dalle mani salivano lentamente verso il collo. Il dolore, impossessandosi del suo corpo, gli impediva di reagire. Le dita si contraevano in smorfie selvagge finché la disperazione era tanta da procurargli irrefrenabili conati di vomito. Con i pugni serrati in dolorose morse strisciava sul pavimento cercando di

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raggiungere il bagno dove avrebbe potuto dare di stomaco senza sporcare il pavimento della sua piccola abitazione. Ma l'indolenzimento generale era tale che non accadeva troppo spesso che questo tentativo andasse a buon fine, e testimonianza di ciò erano le terribili macchie acide disperse un po' ovunque lungo il corridoio antistante il bagno, ma soprattutto l'inconfondibile odore rancido che dominava in tutta la casa. Un odore a cui aveva fatto l'abitudine, ma che avrebbe tenuto lontano anche il più misericordioso degli amici. Per certi aspetti vomitare gli dava un po' di sollievo. Quasi potesse con quel gesto espellere ciò che aveva tenuto dentro di sé e che, lui lo sapeva, era all'origine dello strazio. Non si poteva parlare di tormento, di pena o di martirio senza tenere presente l'origine di quanto stava accadendo. Si trattava forse più di un sacrificio, di una espiazione. Con tutti gli arti indolenziti e lo stomaco sottosopra, cercando di combattere la nausea residua e le vertigini, faceva un ultimo sforzo per ritornare al divano e qui, ogni sera, ogni notte, alla stessa ora, piangeva per sé stesso e per tutto ciò che aveva perso. Versava lacrime amare per quello che il destino, senza alcuna spiegazione, gli aveva tolto. Il malessere pian piano lo abbandonava e così riusciva a rimettere insieme i cocci della sua vita. L'unica cosa che gli impediva di farla finita, ironia della sorte, era proprio il suo dolore. Si era spesso detto che doveva provare tutto quel male per un motivo. Un motivo ben preciso. Un'unica grande ragione ancora sconosciuta. Nella solitudine della pena si sentiva il collettore di uno strazio che, colpendo solo lui, doveva necessariamente lasciare in pace le anime degli innocenti. Pregava. Piangeva molto e pregava ancora. Dalla sua bocca uscivano sempre gli stessi nomi. Sempre le stesse carezze nel vuoto su visi che solo lui poteva vedere. Parole dolci, d'amore. Un abbraccio che si risolveva in sé stesso, nel vuoto di un'assenza

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terrificante. Frasi rassicuranti. Lacrime copiose gli rigavano il volto gettandosi nel vuoto di un sentimento oramai sterile. Sentiva il liquido salato sulle labbra, lo raccoglieva con la lingua per assaggiare il sapore amaro delle disgrazie da cui proveniva e sentirsi ancora vivo. D'improvviso sveniva. Perdeva i sensi e si abbandonava allo sfinimento. Solitamente, quando ciò accadeva mancavano poche ore all'alba e prima di addormentarsi riusciva già a distinguere gli oggetti della propria abitazione, illuminati dal chiarore esterno proveniente dalle finestre non perfettamente sigillate. Gli restava sempre un fatuo ricordo degli ultimi pensieri prima di accasciarsi. La vista gli si annebbiava lentamente e le ultime sensazioni erano colme di calore, di sudore, di vestiti incollati alla pelle umida e di cattivo odore. Odore di sudore, di rigurgito, di dolore. Esalazioni di vita e di morte.

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III - L'innocente L'uomo uscì dalla piccola casa di legno, che si trovava all'estremità del giardino esterno, con in mano una vanga e un secchio. In quest'ultimo si trovavano un paio di guanti da giardinaggio logori e sporchi, delle cesoie poco affilate e una bottiglia piena d'acqua. Prima di scrutare il cielo e respirarne la fragranza, chiuse gli occhi e ne sentì il profumo fresco proveniente da nord. Entro pochi giorni avrebbe sicuramente cominciato a piovere. C'era nell'aria un odore d'erba umida, di rugiada mattutina, e la sensazione che quello sarebbe stato un giorno perfetto per curare le zucchine e i pomodori che aveva seminato qualche settimana prima. Il sole era sorto da poco all'orizzonte e i suoi raggi non riuscivano ancora ad asciugare le minuscole gocce di brina che tempestavano come piccoli diamanti le foglie verdi della grande pianta di cocomero. La luce debole del mattino proiettava ombre delicate sulla campagna circostante risvegliando piante e animali con un soffio di vento leggerissimo. Inspirò quella frescura a pieni polmoni e, indossati i vecchi guanti gialli, cominciò con calma a pulire la terra sotto i due piccoli alberi di pere che delimitavano l'angolo a sud est della sua proprietà. Ogni tanto si fermava per bere un sorso d'acqua o per addentare un frutto caduto nella notte, forse a causa di un uccello che aveva tentato di servirsene per sfamare la propria prole. Di solito lavorava senza sosta fino a mezzogiorno e, quando il sole raggiungeva il punto più alto del cielo, abbandonava il giardino per rientrare in casa e preparare uno spuntino. C'erano comunque dei giorni particolari in cui gli capitava di interrompere quella routine per poche ore. Succedeva al lunedì,

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quando aveva l'abitudine di recarsi presso l'ufficio postale, anticipando il portalettere, per verificare di persona se fosse arrivata della corrispondenza a suo nome, e il mercoledì, giorno in cui scendeva in paese al mercato per rifornire di cibo la dispensa. Di frutta e verdura ne coltivava in abbondanza, ma ogni tanto sentiva il bisogno di mettere sotto i denti un po' di carne o del pesce, così faceva sempre la stessa strada fino al secondo banchetto che vendeva pollame e affettati o al quarto che offriva pesce fresco. Qui acquistava il necessario senza fermarsi a discutere con i venditori che oramai avevano imparato a conoscerlo e non lo disturbavano con futili domande sul tempo o la salute. L'ultima tappa di quel breve viaggio gli consentiva di fare scorta di vino. Da quando il dolore era iniziato il vino era l'unico antidolorifico che aveva conosciuto come efficace. La sua abitazione si trovava alla periferia nord del paese, dove la strada provinciale che viene da sud e attraversa in linea retta l'intera cittadina incrocia la statale tredici che porta, qualche chilometro più avanti, alla grande autostrada. Da un paio d'anni la giunta comunale aveva fatto costruire un percorso alternativo a questa via di comunicazione, di modo che turisti di passaggio e soprattutto grossi automezzi non dovessero necessariamente intasare la viabilità interna del paese, ma potessero, invece, oltrepassare agevolmente l'abitato sfruttando una sorta di piccola tangenziale esterna. Da quel giorno il numero di coloro che transitavano davanti a casa sua, anche solo per errore, era diminuito drasticamente. Tra la sua casa e le prime costruzioni si trovava un grande campo incolto, che veniva utilizzato da alcuni ragazzini del paese per giocare a pallone nei pomeriggi primaverili o la domenica mattina, anziché andare in chiesa. Più di una volta qualche adolescente timoroso aveva bussato alla sua porta per farsi restituire la palla lanciata involontariamente da qualcuno della compagnia nel suo giardino. In quel frangente non sembrava affatto infastidito dalla presenza di tutti quei giovani nelle

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vicinanze della propria abitazione, anzi spesso ne godeva le urla e rideva indirettamente degli scherzi che gli uni facevano agli altri, o delle stupide battute che solo gli adolescenti in gruppo sanno pronunciare. Gli bastava recarsi dietro la casetta degli attrezzi, avvicinare il volto alla rete metallica che delimitava il perimetro del giardino e restare in ascolto. Da qui li osservava senza essere notato all'ombra di un vecchio albero. Quel giorno il pallone rimbalzò a pochi metri da dove stava lavorando, terminando la sua corsa nelle vicinanze del vecchio pozzo; nel giro di pochi minuti un ragazzo si fece avanti per recuperarlo e, pur accorgendosi della sua presenza, non mostrò alcun timore, soprattutto perché tra i due vi era comunque la rete metallica. Con suo grande stupore il giovane lo salutò gentilmente. «Buongiorno.» «Buongiorno a te, ragazzo.» Quel modo di fare così diretto e semplice tranquillizzò l'adolescente che si sentì in qualche modo incoraggiato a proseguire la discussione con lo sconosciuto. «Lei abita qui?» «Sì.» «Non le spiace se giochiamo a calcio qui vicino?» «Per niente.» Il ragazzo gettò lo sguardo al secchio che l'uomo aveva vicino ai piedi e che era colmo di frutti multicolore appena raccolti. In particolare le pere verdi si facevano notare per dimensione e quantità. «Non sono un po' troppo acerbe per essere raccolte?» L'uomo fissò il secchio e poi rispose con calma. «No, sono dolcissime.» «Le ha assaggiate?» «Ancora no.» «E allora come può dire che sono dolci? Secondo me ce ne sono alcune un po' troppo verdi per essere mature.»

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L'uomo prese un frutto e, senza alcun preavviso, lo lanciò al ragazzo oltre la rete che li divideva. Questi riuscì a prendere al volo quell'improvviso dono e rimase per qualche istante a fissarlo, incerto sul da farsi. Non sapeva se ringraziarlo o fuggire alla svelta. Fu l'uomo che ruppe il suo imbarazzo esortandolo a gustare quel frutto. «Dalle un morso, vedrai se non ho ragione.» «Grazie.» Il giovane addentò la pera che risultò tanto verde quanto succosa e dolce. Non ci fu bisogno di esprimere a parole il piacere provato nell'assaggiare una siffatta prelibatezza. Nel frattempo da lontano i compagni di gioco del ragazzo iniziarono a reclamare la sua attenzione in modo insistente, aumentando sempre più il tono dei loro richiami. Uno fra tutti dava l'impressione di essere il leader indiscusso del gruppo visto che si permetteva di alzare la voce più degli altri non curandosi troppo della presenza dell'uomo. «Winny! passa la palla.» Il fanciullo si voltò per un attimo e poi rivolse nuovamente le sue attenzioni all'uomo che lo interrogò senza dare troppa importanza a quelle grida. «Ti chiami Winny?» «Sì.» «Quanti anni hai?» «Tredici.» «E lui?» L'uomo indicò con la testa il ragazzo che si stava sbracciando con veemenza avvicinandosi con fare brusco al luogo in cui loro due si stavano intrattenendo. «Lui ne ha...» A quel punto l'amico lo interruppe bruscamente. «Allora Winny, vuoi sbrigarti o no? Ti stiamo aspettando.» «Scusa, ma stavo parlando con...» Il ragazzo spazientito gli strappò di mano la palla e fece per

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andarsene. «Se vuoi restare qui a parlare con quel vecchio sei libero di farlo, ma restituisci il pallone.» L'uomo aveva osservato la scena e non poté fare a meno di intervenire sopperendo agli imbarazzati silenzi di Winny. «Ehi ragazzo» gli disse richiamandone l'attenzione «quanti anni hai?» Il giovane girò su se stesso con aria superba. «E a lei che gliene importa?» L'uomo sorrise. Il ragazzo si innervosì e tornò sui suoi passi. «Senti un po' nonno, ma tu lo sai chi sono io?» «Certo che lo so.» «Ah davvero?» «Già.» «E sentiamo, chi sarei?» L'uomo sospirò e rispose, non prima però di aver lanciato uno sguardo al ragazzino con la pera in mano che stava assistendo taciturno alla discussione. «Sei il più giovane dei Berdosa, figlio del capitano Berdosa, comandante della stazione di polizia di questo paese.» Il ragazzo rimase per un istante senza parole. Così che l'uomo poté continuare. «Hai due fratelli più grandi e l'anno scorso a scuola sei stato bocciato.» L'ultimogenito del capitano Berdosa non riusciva a proferir parola. «E hai sedici anni.» Il giovane arrogante e Winny si guardarono interdetti. Quest'ultimo fece una smorfia del viso come a dire 'io non gli ho detto nulla', ma il ragazzo più grande non gli credette e lo mandò a quel paese lasciando l'uomo e l'amico in fretta e furia. L'uomo raccolse il secchio e si rivolse per l'ultima volta al ragazzino rimasto. «Arrivederci Winny!»

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Tentennando, il giovane ricambiò il saluto. «Arrivederci.»

Fine anteprima

Continua...