Le tecniche della scrittura creativa

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  • 8/18/2019 Le tecniche della scrittura creativa

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    Franco Salerno

    Le tecniche della

    scrittura creativa

    ESIMONEDIZIONI

    Gruppo Editoriale Simone

    DS2/DG

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    Copyright © 2012

    Simone S.p.A.

    Via F. Russo, 33/D80123 Napoli

    Tutti i diritti riservatiVietata la riproduzione anche parziale 

    Le tecniche della scrittura creativa 

    ISBN 978-88-244-4765-2

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    3Introduzione

    INTRODUZIONE

    IL LETTORE NELLA RETE DELLA SCRITTURA

    Che la creatività nell’uso del linguaggio sia innata è probabile;che si possa imparare delle tecniche atte a rendere creativo illinguaggio è certo. Sembra, però, contraddittorio indicare delle“regole” per avvicinarsi alla scrittura: infatti le proposte, che sonofornite nel presente volume, vanno viste non come dettami ferrei eindiscutibili, ma come indicazioni e suggerimenti, che ogni scriven-te può e deve reinterpretare e personalizzare.

    L’obiettivo di fondo è avvinghiare il lettore in una rete di sugge-

    stioni, in modo tale che questo “irretimento” sia visto dal destina-tario come un dolce imbrigliamento. L’attenzione del lettore deverimanere desta, anche dopo un lead folgorante, grazie ad un usosapiente della retorica, alla scelta del vocabolo evocativo, al ricorsoai valori fonico-timbrici. Necessaria è l’alternanza dei registristilistici: da quello dichiarativo a quello allusivo, da quello apodit-tico a quello icastico, tutti finalizzati a catapultare in medias res chilegge, sì che gli sembri di vivere realmente la scena o la situazionedescritta. E, per sentirla viva e facente parte della propria vita, dovrà

    provare il brivido dello straniamento, per cui il mondo gli appariràcome se lo vedesse per la prima volta.Questo libro presenta una serie di esempi pratici che servono ad

    abituare lo scrivente ad esprimersi con uno stile nominale, con unuso del livello metaforico finalizzato a dispiegare significati “altri”,con una conoscenza dei vari sotto-codici, con una capacità di “porsidal punto di vista degli altri”. Una particolare attenzione è rivoltaalla pratica della riscrittura di un testo alla luce di variegate visionidel mondo e di diversi tagli stilistici.

    Franco Salerno

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    INDICE

    Introduzione: Il lettore nella rete della scrittura ....................... Pag. 3

    Capitolo Primo: Il decalogo della scrittura creativa

    1.1 L’incipit o l’incubo dell’inizio................................................. » 51.2 La scrittura «à la manière de» ............................................... » 71.3 La citazione latente-palese o la vampirizzazione .................. » 81.4 Metaplasmi ............................................................................. » 91.5 Metatassi ................................................................................. » 121.6 Metasememi ........................................................................... » 131.7 Metalogismi ............................................................................ » 141.8 Esercizi con i gioghi di parole................................................ » 151.9 Quali termini stranieri scegliere? .......................................... » 171.10 Vedere il mondo per la prima volta: la tecnica dello strania-

    mento ...................................................................................... » 18

    Capitolo Secondo: Il fascino della scrittura noir 

    2.1 Il nero all’origine della scrittura ............................................ » 20

    2.2 Il Mito, la Scrittura, il Mostro ............................................... » 202.3 La scrittura noir : una rivoluzione «cartesiana».................... » 212.4 La comunicazione babelica ................................................... » 222.5 Rimettere l’Ordine dove c’è il Caos ....................................... » 23

    AppendiceProve di scrittura creativa

    e di scrittura saggistica creativa

    Blu o giallo? Guerra tra i pubblicitari ............................................. » 26

    L’amore è un dardo (misterioso) ..................................................... » 28L’imitazione distrugge il modello .................................................... » 30Travolti dal secolo breve .................................................................. » 32Isabella Morra: il fuoco della seconda vista .................................... » 34La Scapigliatura nera: casi di nobile follia ..................................... » 38Gabriele D’Annunzio: il Mistero, il Sangue, la Bestia .................... » 41

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    5Il decalogo della scrittura creativa

    1 IL DECALOGO DELLASCRITTURA CREATIVA

    Catturare il lettore, tenerlo avvinto tra le maglie del nero su bianco ecelare al tempo stesso i segreti di una scrittura ammaliante, eppursfuggente: è questa la chimera di tutti quelli che affidano alla penna o alla

    tastiera le proprie emozioni e i propri grumi di idee. Scrittori o giornalistiche siano, essi sono alla ricerca della «parola scavata nell’abisso», chedica e suggerisca, alluda e proferisca. E, come nell’ariostesco Castello diAtlante, questo miraggio appare e scompare come una cerva imprendi-bile, un’eterea ninfa sempre pronta a dissolversi dietro le quinte dellapagina bianca, quando il momento magico lo consenta.

    In questa affannosa e sorprendente ricerca, tutti gli scriventi sichiedono: «Ma esisteranno delle regole per una scrittura originale ediversa?» O meglio, diciamolo pure: creativa. Parola terribile, per quel

    suo «quid» di divino, che proviamo ad adattare alle facoltà di esserifallibili, quali siamo. Anzi fallibilissimi. E allora, visto che vogliamoprovarci, diciamole queste regole. Che poi sono dei consigli, tratti dalleletture più varie. Qui ne elenchiamo dieci: a mo’ di decalogo, natural-mente non così definitivo e imprescindibile quale quello della Leggemosaica. Anzi flessibile, integrabile, reinterpretabile da parte di tutticoloro che si avventurano nei dedali del Reale e dell’Immaginario.

    1.1 L’ INCIPIT O L’INCUBO DELL’INIZIO

     La prima grande paura dello scrivente è l’angoscia della paginabianca. Sembra paradossale: ma ciò che frena istintivamente lanostra mano nell’impugnare la penna o nel battere i tasti delcomputer è proprio il colore bianco o chiaro della superficie chedobbiamo riempire con la nostra scrittura, la quale è la traduzione

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    non solo di intimi sentimenti, ma anche della diversa connotazionecromatica di essi. Noi sentiamo urgerci dentro il rosso delle nostrepassioni, il verde delle nostre speranze, il grigio della nostra quoti-diana noia, il viola delle nostre sofferenze, il nero dei nostri incubi.

    Cerchiamo allora di catalogare alcuni dei possibili e già previstimetodi per concretizzare l’inizio di un testo, che noi possiamochiamare incipit (se vogliamo intendere solo le prime parole o laprima frase del testo) o ouverture (se alludiamo ad uno squarcionarrativo più ampio e disteso, quasi panoramico).

    La gamma delle possibilità è vastissima. Possiamo spaziare dal-l’«incipit» decisivo ed incisivo, preciso e conciso, in una parola, epidittico («Mara sbadigliò», che è il lapidario inizio del romanzo La ragazza di Bube di Carlo Cassola), all’incipit interrogativo-disviante

    («Vi capita di affrontare a singolar tenzone il vicino-nemico di casa?»esordisce il giornalista Beniamino Placido sul quotidiano «la Repub-blica» del 17/3/92 per parlare poi di tutt’altro argomento, nellafattispecie di «Flash Gordon»). Ma anche dall’incipit rivelatore (deltipo standard «Confessiamolo: di fronte a questo problema siamopresi alla sprovvista», che fa «presa» per la falsa impreparazione delloscrivente) all’incipit esagerato o iperbolico e provocatorio (un articolosulla Befana potrebbe iniziare dicendo «La Befana esiste»).

    Non va inoltre trascurato l’incipit coinvolgente nei confronti del

    lettore (così lo scrittore-giornalista Luca Goldoni inizia un suomagistrale pezzo, dedicato all’«incarognimento degli italiani»: «Forseè accaduto anche a voi. Cerco un buco in cui parcheggiare e a untratto come un dono divino vedo un signore che infila la chiave nellasua auto posteggiata. Mi fermo in seconda fila, ma l’uomo (chechiaramente mi ha visto) se la prende con comodo…».

    Se si volesse poi disporre di un campionario di incipit, chesfociano nell’ ouverture, potremmo tener presenti alcuni inizi dei vari capitoli del Nome della rosa di Umberto Eco. Molto incisivo è,ad esempio, l’«attacco» del Secondo giorno», che, per spiegare ladifficoltà della recita all’alba della preghiera quotidiana da parte deimonaci, si affida a notazioni simboliche: «Simbolo talora del demo-nio, talora del Cristo risorto, nessun animale è più infido del gallo.L’ordine nostro ne conobbe di infingardi, che non cantavano al levardel sole». Ma sicuramente di grande presa è anche un inizio

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    incardinato sull’ineffabilità, cioè su una (falsa) difficoltà a narrare,come capita nell’apertura del «Sesto giorno»: «Mi riesce difficileraccontare quello che accadde nelle ore che seguirono, tra vespro edomenica». Variante del registro dell’ineffabilità è quello impostato

    sulla tecnica della preterizione, in virtù della quale, fingendo di nondire, si finisce poi per anticipare tutto: «Non mi attarderò a dire dicome informammo l’Abate, di come tutta l’Abbazia si risvegliòprima dell’ora canonica, delle grida di orrore, dello spavento e deldolore che si vedevano sul viso di ciascuno» (Quarto giorno).

    1.2 LA SCRITTURA «A LA MANIÈRE DE»

    Esiste una maniera di scrivere che, seriamente o ironicamente,opera unamimesio imitazione dello stile tipico di un grande scrittoreo di una famosa opera letteraria, da cui trae la linfa, alimentandosi.Rimanendo nell’ambito del succitato romanzo Il nome della rosa, nonpossiamo passare sotto silenzio l’articolazione della prima paginache presenta un’ ouverture filosofico-dottrinaria, plasmata sulla fal-sariga della Bibbia (testo che, sia detto per inciso, è, come suggerisceil titolo stesso, il Libro per eccellenza e dunque si impone come lalettura fondamentale di chi voglia apprendere una «scrittura creati- va»): «In principio era il Verbo, e il Verbo era presso Dio, e il Verbo eraDio. Questo era in principio presso Dio e compito del monaco fedelesarebbe ripetere ogni giorno con salmodiante umiltà l’unico immo-dificabile evento di cui si possa asserire l’incontrovertibile verità».

    Naturalmente questa è solo una delle possibilità, teoricamente infi-nite, riservate ad un aspirante scrittore per modulare il proprio dire sullafalsariga di altri registri formali già codificati. A coloro che intendonoimparare una serie di variazioni sul tema, ma anche per addentrarsi inun itinerario completo e divertente nel labirinto del linguaggio, consi-gliamo di «addestrarsi» avvalendosi di un manuale, che fa al caso nostro: Esercizi di stile di Raymond Queneau (1983, tradotto da Umberto Eco).

    Questo libro riscrive in 224 modi diversi un episodio banale: su unautobus, un tizio durante la ressa ha una discussione con un’altrapersona e poi viene visto in un altro luogo, mentre un amico gli fanotare che gli manca un bottone. Riportiamo le frasi fondamentalidel testo-base: «Sulla S, in un’ora di traffico. Un tipo di circa ventisei

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    anni, cappello floscio con un collo troppo lungo […] Il tizio […] siarrabbia con un vicino. Gli rimprovera di spingerlo ogni volta chepassa qualcuno […] Non appena vede un posto libero, vi si butta. Dueore più tardi lo incontro alla Cour de Rome […] È con un amico che

    gli dice: “Dovresti far mettere un bottone in più al soprabito”».Iniziamo a vedere, fra le tante versioni, quella  aulica, «à la

    manière» di Omero: «Quando l’aurora dalle dita di rosa imparte isuoi colori al giorno […] lo sguardo mio di falco rapace mirò l’umandal collo astato […] La Discordia funesta venne a soffiare i miasmisuoi maligni […]». Passiamo alle parole iniziali della versione cheesprime l’atteggiamento problematico-enigmatico di chi scrive, unpo’ «à la Poe»: «Non so bene dove accadesse… in una chiesa, in unabara, in una cripta? … Forse… su di un autobus. E c’era… Cosa

    diavolo c’era? Forse… scheletri? Sì scheletri, ma ancora con lacarne intorno, vivi e vegeti. Almeno temo. Gente su di un autobus».

    E poi Queneau-Eco insegnano a mimare Dante: «Tanto gentile la vettura pare/ che va da Controscarpa a Caimperretto/ che le genti gioiosea si pigiare/ vi van, e va con esse un giovinetto», o un poeta ermetico:«L’autobus/ pieno/ il cuore/ vuoto/ il collo/ lungo/ il nastro/ a treccia/ ipiedi/ piatti/ piatti e appiattiti/ il posto vuoto/ e l’inatteso incontro allastazione dai mille fuochi spenti/ di quel cuore, di quel collo, di quelnastro, di quei piedi/ di quel posto vuoto/ e di quel/ bottone».

    1.3 LA CITAZIONE LATENTE-PALESE O LA VAMPIRIZZA- ZIONE

    Arrivati a questo punto, ci dovremmo chiedere di che lagrime grondi e di che sangue la scrittura? Non è quesito da poco, néperegrino. Né sembri inopportuna la metafora «sangue». Si, perchélo scrivere è anche un atto di suzione del sangue. Per carità, non diquello che scorre nelle vene. Ma di certo, di quello che scorre nellearterie della Vita, del Sogno, della Fantasia, dell’Immaginario. Loscrittore dunque è un vampiro, assetato dal sangue di ciò che è«altro» da sé, ma che finisce per incorporare: di qui anche alcunitraslati, usati dai critici, come «materia di un’opera» o «succo delracconto». Inutile dire che lo scrittore è un vampiro buono. Cioè che

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    non uccide. Anzi dà a sua volta «linfa e sangue» alla vittima della suaaggressione, consumata in ogni luogo ed ogni ora.

    Facciamo degli esempi pratici di espressioni di grandi scrittori,che possono fungere da «campionario», già pronto per l’uso. In un

    contesto di dramma, di sofferenza e di denuncia potrebbe essereindicativa (apposta l’abbiamo usata all’inizio di questo paragrafo)l’espressione foscoliana «Di che lagrime grondi e di che sangue»,che, per la posposizione del secondo termine «sangue», può dareorigine ad una serie di strutture similari, con la sostituzione dei vocaboli. Ma anche l’uso della citazione ungarettiana «Così fredda/Così dura/ Così prosciugata/ Così totalmente disanimata» si prestaa non difficili variazioni sul tema. Da evitare qualunque variazionesul pur bellissimo, ma imitatissimo, verso «Ed è subito sera» di

    Quasimodo, del quale possono essere utilizzate altre fulgide eicastiche espressioni, come «il mio male ha un nuovo verde» o«lievita la mia vita di caduto» per indicare una difficile eppurnecessaria speranza.

    1.4 METAPLASMI

    Per «metaplasmi» intendiamo figure dell’espressione o opera-

    zioni che intervengono sull’aspetto fonologico del testo. Rientranoin questo campo alcune operazioni linguistiche, che incidono sulsuono e sulla pronuncia di una parola. Qui di seguito faremo degliesempi «creativi» di alcuni metaplasmi.

    Dopo un rapido accenno al troncamento («eppur» è senz’altro piùpoetico di «eppure»), iniziamo dalla  allitterazione, che consistenella ripetizione di una medesima consonante nel corpo di unastessa parola o di più parole vicine. È il caso di aggiungere subitoche ogni consonante ha un effetto emozionale diverso e particolare

    su colui che legge o ascolta. Ci avvaliamo dei pertinenti esempiaddotti dallo psicologo Fernando Dogana. Secondo i suoi suggeri-menti, le consonanti occlusive mute («p», «t», «c») o la «z» sonodure, forti e solide, per cui ben rendono concetti aspri («impetra»e «spezzi» sono alcune delle «rime petrose» di Dante), il gruppo «st»evoca ciò che è stabile e ben piantato («Sta come torre ferma»,Dante Alighieri, Purgatorio, V, 14; «batte sul fondo e sta», Alessan-

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    dro Manzoni,  Il Natale); le consonanti nasali, che riproduconosuoni rimbombanti, ben si prestano a simboleggiare la tendenzaall’introspezione e il sentimento della malinconia («Les s anglotsl ongs/ des viol ons/ de l’aut omne/ bless ent m on coeur/ d’une l an-

    gueur/ monot one», Paul Verlaine, Chans on d’automne); la liquida«l» esprime i movimenti fluttuanti («Quali colombe dal disio chia-mate/ con l’ali alzate e ferme al dolce nido/ vegnon per l’aere, dal voler portate», Dante Alighieri,  Inferno, V, 84); la spirante «s»rimanda al movimento veloce e sibilante («Corda non pin se ma da sé saetta/ che sì corre sse per l’aere  snella», Dante Alighieri, Inferno,VIII, 13-14); la vibrante «r», soprattutto se accompagnata dalla «t»,suggerisce un fremito di paura («Chiama gli abitato r  dell’omb r aete r ne/ il r auco suon della ta r ta r ea t r omba;/ t r eman le spaziose at r e

    cave r ne/ e l’ae r  cieco a quel r umo r   r imbomba», Torquato Tasso, LaGerusalemme Liberata, IV, 17-20).

    Anche l’ effetto fonetico delle vocali, per il medesimo studioso,provoca sensazioni particolari. Ad esempio, la «i» evoca l’idea dellaluminosità e della lucentezza («Quale ne’ plenilun sereni / Tri via ridetra le ninfe etterne/ che dipingon lo ciel per tutti i seni, vid’io sopramigliaia di lucerne» (Dante Alighieri, Paradiso, XXIII, 25-28).

    Al contrario, la vocale «u» suggerisce immediatamente sensazio-ni lugubri e funeree. L’esempio più eclatante di tale effetto è dato dai

    famosi versi dei Sepolcri  foscoliani: «Senti raspar…/ la derelittacagna ramingando/ su  le fosse famelica ululando;/ e uscir dalteschio, ove f uggia la luna,/ l’upupa, e svolazzar su per le croci/sparse per la f unerëa campagna/ e l’immortal accusar col luttüoso/singulto i rai di che son pie le stelle/alle obliate sepolture» (vv.78-85).E l’esito è talmente omogeneo, nel suscitare emozioni luttuose, cheFoscolo riesce a trasformare le caratteristiche dell’upupa (uccellograzioso e diurno) in un volatile sgraziato e notturno.

    Più di un secolo dopo, Eugenio Montale, ha «riscritto» questi versi, riconsegnando l’upupa alle sue effettive caratteristiche: «Upu-pa, ilare uccell o, aliger o f  ollett o». Verso questo, il quale, tranne chenel nome del volatile summenzionato, elimina tutti i termini con la«u», avvalendosi invece di parole contenenti la «i» (che, comeabbiamo detto prima, rinvia alla luminosità) e la «o» (che, già perla sua forma, richiama l’idea della circolarità, dunque della perfe-

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    zione e della «chiarezza», come circolare, perfetto e rotondo è, adesempio, il Sole).

    Effetti di attenzione psicologica e mentale ottengono poi altriquattro tipi di metaplasmi, che sono in rapporto di coppia fra loro:

    la consonanza e l’ assonanza, l’ anafora e l’ omoteleuto. La prima è lapresenza di identiche consonanti nella parte finale di due parolemesse vicine o in rima («amare/amore», Corrado Govoni); la secon-da è costituita dalla presenza delle stesse vocali in termini che sitrovino nelle posizioni succitate («terra/testa»).

    L’ anafora invece è data dalla ripetizione di uno stesso vocabolo adinizio frase o verso (tra gli esempi più celebri la ripetizione deltermine «amore» in tre versi successivi nel canto di Paolo e France-sca). L’ omoteleuto  è ottenuto attraverso la scelta di parole che

    terminino con la stessa sillaba o sintagma. Come esempio (anche seportato al parossismo) valga il solito Queneau: «Non c’era venticelloe sopra un autobello che andava a vol d’uccello incontro un giovin-cello dal volto furboncello con acne ed un cappello».

    L’ onomatopea può essere utilizzata non solo per far subitoimmaginare al lettore un certo suono, rumore o verso di animale(«rimbombo», «tuono», «scalpiccio», «sibilo», «miagolare», «fri-nire»), ma per raccordare la trascrizione del suono con altreparole. Un effetto di questo genere è costruito da Pascoli in molte

    sue liriche: il «videvitt» dei passeri è, in Dialogo, la trasformazionein linguaggio animalesco dell’espressione «v’è di voi chi vide» chesta nei precedenti versi, mentre il «finch finch» del fringuello inFringuello cieco si collega idealmente e auditivamente al «finché»seguente.

    E passiamo ad altri due metaplasmi, la cui presenza spessosfugge al lettore medio, ma la cui importanza è determinantesoprattutto in una fase preliminare di esercitazione alla scritturacreativa: il  calembour   e l’ anagramma. Nei  calembours  o «doppisensi» il magico Queneau è maestro indiscusso: «Un bel di’ sultorpedone (non la torre con il pedone) scorsi un tipo (non uncarattere a stampa) di giovinotto (che non era un sette da pococresciuto)…». E del resto con il calembour paronomastico «I likeIke» il generale Eisenhower, detto appunto «Ike», vinse la suacampagna elettorale per la Presidenza degli U.S.A.

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    Concludiamo la carrellata dei metaplasmi, citando gli anagram-mi sorprendenti di alcuni nomi e cognomi di personaggi famosi,che hanno, per così dire, il destino dei medesimi: da «Docile manulla» (Lucia Mondella) a «Prende a la gola (Edgard Allan Poe) a

    «Saliva al rogo romano» (Girolamo Savonarola). Sconvolgente è ilsenso nascosto nella domanda che Pilato rivolge a Cristo (Giovanni,XVIII, 38): «Quid est veritas?» («Che cosa è la verità?), il cuianagramma risulta essere «Est vir qui adest» («È l’uomo che è quipresente», cioè Cristo stesso).

    Fra gli esempi di anagrammi usati in versi famosi da grandiscrittori si può citare il caso di Giacomo Leopardi, che non disde-gnava questi giochi linguistici. Ne vanno annoverati almeno due: ilprimo costituito da un anagramma regolare («Silvia/salivi»), il

    secondo, più complesso, rintracciabile nel v. 104 del Canto nottur-no: «A me la  vita è male». In questo caso, l’anagramma diventaevidente fonicamente, se si pronunciano legati il pronome «me» el’articolo «la» in rapporto all’antipodo «male»; non si trascuri lastrana coincidenza, come nota Maria Teresa Gentile, secondo cui«mela» in latino si dice «malum», che però significa anche «male».

    1.5 METATASSI

    Con il termine «metatassi» intendiamo definire quelle figure disintassi o quelle operazioni che intervengono sulla struttura dellafrase. Partiamo dall’ ellissi che dà luogo a un vero e proprio stileellittico. A volte può essere suggestiva l’assenza del predicato o dellaprincipale. Si veda questa recensione a un brano di Mick Jaggersulla rivista «Deejay Show»: «Quarantaquattro anni e tanta vogliadi suonare. Chitarre secche, batterie tuonanti e una voce ancoratrasgressiva». Oggi l’ellissi, che nel passato era appannaggio dellinguaggio gnomico (delle sentenze universali) o paremiologico

    (dei proverbi), è in forte rilancio a causa del linguaggio giornalisti-co, che, a volte per necessità tipografico-editoriale, altre volte perscelta-vezzo, indulge all’omissione soprattutto del verbo, per otte-nere generalmente una presa più immediata sul lettore. Si vedanotitoli standard come «Incubo a New York» o «Sempre più giù lalira».

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    Fra gli altri interventi, più aulici e calcolati, nel settore «metatat-tico» si tengano presenti il parallelismo («comparve improvvisamen-te e scomparve improvvisamente»: rapporto fra i termini 1-3 e 2-4),il chiasmo («comparve improvvisamente e improvvisamente scom-

    parve»: rapporto fra i termini 1-4 e 2-3), l’ anticipazione dell’aggettivoo della parte nominale («fatidiche prove» o il fitzgeraldiano Tenera èla notte) e la  posposizione  — con effetto di dilazione — comenell’esempio foscoliano «inquiete tenebre e lunghe». Varianti di talitecniche sono la epanadiplosi (rapporto fra la prima e l’ultima paroladi una frase («Il re è morto, viva il re») e la dittologia che è un’accop-piata ben calcolata di due aggettivi (dove magari il secondo è menoforte, come nell’esempio cavalcantiano «sbigottita e deboletta»).

    1.6 METASEMEMI

    Vastissimo è il campo dei «metasememi» (figure di significato ooperazioni tendenti a ottenere uno spostamento di senso). Noiconcentreremo la nostra attenzione su quattro figure particolari: lametafora e la sinestesia, la similitudine e l’ analogia.

    Lametafora, che è l’uso traslato di un termine, è un procedimentofondamentale per una scrittura che voglia aspirare ad essere «cre-

    ativa»: si vedano ad esempio la lucreziana espressione «il cielosorride», che dà un’idea di slargamento dell’orizzonte o quellapavesiana, fortemente splenica, «le sedie si guardano sole».

    Per recepire e interiorizzare il linguaggio metaforico, si possonoleggere utilmente i poeti decadenti francesi. Tra gli innumerevoliesempi ci piace ricordare i versi iniziali de  Il nemico di CharlesBaudelaire: «Giovane, ero tutto un uragano tenebroso/ qua e làattraversato da brillanti soli/ poi tuoni e piogge hanno devastatotutto/ e il mio giardino non ha che qualche frutto rosso». Talvolta ilgioco metaforico può combinarsi con il calembour . È questo l’effet-to che traspare dai versi di Ossessione, un’altra lirica baudelairiana:«il riso amaro — il riso del mare», ancor più evidente nel testofrancese che recita «ce rire amer — le rire de la mer».

    La sinestesia è un tipo particolare di metafora, in quanto consistenell’accoppiamento di due termini relativi a percezioni sensoriali

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    diverse. Ci sembra opportuno fornire gli esempi più significativitratti dalle liriche di un grande poeta italiano del Novecento:Salvatore Quasimodo. Eccoli: «l’urlo preme maligno» (Sul colle),«sillabe d’ombre» ( Latomie), «geme l’acqua» (Sardegna), «ulula

    l’aria» (Una sera), «rombano abissi di luce» (Spazio), «una rete disole» (Vicolo), «il lieve respiro del sangue» (Senza memoria), «dor-me verde l’aria» (Spiaggia), «l’urlo nero» ( Alle fronde dei salici).

    Con le similitudini o paragoni ritornerei a Baudelaire: «Grandiboschi, voi m’atterrite come cattedrali/ Urlate come l’organo»(Ossessione) o «Come lunghi echi che di lontano si confondono/ inuna unità profonda e tenebrosa,/ vasta come la notte e il chiarore,/i profumi, i colori e i suoni si rispondono» (Corrispondenze).

    L’ analogia è a metà strada tra il paragone e la metafora: infatti è un

    paragone «accorciato», cioè privo del «come» e tendente ad effettimetaforici. Se si volesse gustare il livello «analogico» della scrittura,non si dovrebbe prescindere dalla lettura (attenta) di un classico delgenere: Il battello ebbro di Arthur Rimbaud, di cui citiamo una strofacentrale: «Da allora sono immerso nel Poema del Mare/ che, latte-scente e invaso dalla luce degli astri/ morde l’acqua turchese,/ dentrocui, fluttuando,/ scende estatico un morto pensoso e illividito».

     Un esempio più leggero, ma sicuramente efficace è la trasposizio-ne, mediante analogia, sul piano lirico di un tema quotidiano. Si veda

    questo passo di un articolo di Mino Fuccillo su una diva della Tv che,sul «Venerdì» del 3 marzo 1995, recita testualmente: «Occhi di prima- vera, labbra di raso, gote di Romagna. Capelli d’oro colato, broncio dibimba al sapor di nutella, denti di specchio. Voce che scalda come ilsole di maggio, passo di gatto, pelle di luce». Un pot-pourri di metaforee sinestesie lo si ritrova ancora in Queneau da noi qui di seguitoparafrasato: «Ciascun autobus ha il suo gusto particolare: bastaprovare. Quello sapeva di nocciolina tostata. Lì assaporammo il saledella disputa, l’amaro dell’irritazione, l’asprigno della collera».

    1.7 METALOGISMI

    I metalogismi sono fiugre di pensiero o operazioni che modifica-no il significato di una dittologia o di intere frasi. Agiscono su una

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    15Il decalogo della scrittura creativa

    dittologia la litote e  l’ ossimoro, modificano invece il senso diun’intera frase l’ironia e il paradosso.

    La litote è l’affermazione di un concetto ottenuta negando il suocontrario, come nei casi di «non bello» (per non dire «brutto») o di

    «non vedente» (invece di ribadire il duro e quasi discriminanteconcetto di «cieco»). In tal caso essa sfiora il livello dell’ eufemismo(che consiste nell’esprimere con toni più delicati un dato negativo)o nell’understatement (o abbassamento di tono).

    Viceversa l’ ossimoro, creato dall’accostamento di due terminicontrastanti, tende invece a rimarcare un’antitesi stridente: «unadolce amarezza» o un «piccolo-grande problema» o «la morte che vive tra noi» (quest’ultima espressione indica marcatamente, quasisenza via di scampo, il trionfo irreversibile della spietata e nera

    Signora). Un generale registro ossimorico potrebbe sortire effettidirompenti, come nell’«Inno alla Bellezza» di Baudelaire: «Cammi-ni sopra i morti dei quali, o Bellezza, tu ti burli;/ dei tuoi gioielli nonè certo l’Orrore il meno affascinante».

    Effetto contrario si ottiene con il registro dell’ironia. Maestrofinissimo d’ironia era Gadda, che, ad esempio, nel suoPasticciaccio,per indicare la gestualità dell’interrogazione scrive: «Raccolte atulipano le cinque dita della mano destra, altalenò quel fiorenell’ipotiposi digito-interrogativa tanto in uso presso gli Apuli».

    Uno scrittore creativo deve saper, infine, usare saggiamente ilparadosso, che fu la grande scoperta linguistica degli Stoici, i qualiamavano, contro i luoghi comuni, sostenere: «Il dolore non è un male».

    1.8 ESERCIZI CON I GIOGHI DI PAROLE

    Veri e propri esercizi, sicuramente proficui, sono costituiti da quelliche si potrebbero definire, con un calembour , i  gioghi di parole, inquanto consistono nell’«aggiogare», cioè nell’unire, parole ottenendoaltri significati, non impliciti nel messaggio originario. Per addestrarsiconvenientemente, basta seguire i percorsi enigmatici ed enigmisticidi un grande esperto del settore: Stefano Bartezzaghi. Egli consiglia,per affinare la propria creatività linguistica, di sperimentare gli itine-rari più audaci, di cui forniamo qui di seguito quattro tipi.

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    16 Capitolo 1

    Il primo campo di esercitazione può essere quello della ricercadei palindromi. Questo vocabolo letteralmente significa «che correal contrario», più concretamente indica quelle parole che, lette sianel verso giusto da sinistra a destra sia nel verso contrario, danno

    il medesimo nome, come «ossesso» oppure come il misterioso esurrealistico «accavallavacca» (che cosa potrebbe significare? Unmeccanismo per fare accavallare le gambe ad una vacca? O una vacca su un cavallo? O una vacca a cavallo di un’altra vacca?).

    Il secondo esercizio consiste nella compilazione di semi-sciaradeottenute partendo da una definizione concettuale che deve esseretramutata in una espressione ad essa equivalente, la quale a sua volta contiene un rapporto fra due termini non previsti dalladefinizione iniziale. Ad esempio, partendo dalla definizione concet-

    tuale «Riservato ai liquoristi» si ottiene l’espressione equivalente«Pe’ chi nocin à», che contiene il rapporto fra due termini nonprevisti, in questo caso «Pechino/Cina», cioè fra una capitale e la suanazione. Sulla stessa scia si pone l’esempio «Luogo di riposo» chedà «Là van a cubà», frase che, diversamente aggregata, consente dileggere e pronunciare «L’Avana/Cuba».

    Il terzo esercizio di «metamorfosi concettuale» è quello espressodalla tecnica di compilazione dei meta-versi. Esso consiste nelpartire da un verso o da un titolo di opera o da una espressione

    famosa, che, attraverso successive rielaborazioni (ottenute attra- verso l’uso di «falsi sinonimi»), perviene ad un’altra frase celebre,non avente alcun rapporto con quella di partenza. Prendiamo il verso dantesco «Mi ritrovai per una selva oscura»: mutando ogniparola mediante un suo «falso sinonimo», otteniamo «Vidi mestessa in un intrico fosco», da cui, con la stessa tecnica, possiamofar scaturire «Reduplicata in angoscioso thriller» e da questa fraseulteriormente si può pervenire all’approdo finale «La donna che visse due volte».

    L’ultimo esercizio consiste in un vero e proprio aggiogamento di versi diversi, attraverso il quale, unendo versi di vari autori, siottiene un risultato concettuale e poetico dotato di senso. L’esempiofornito da Bartezzaghi è il seguente: «Chiare, fresche e dolci acque/ove il mio corpo fanciulletto giacque/ qui su l’arida schiena/ trafittoda un raggio di sole/ o marina di Pisa, quando folgora il solleone,

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    quante volte diss’io pien di spavento: «Ohimè! Quanto somiglia altuo costume il mio». Un risultato, come si vede, sorprendente, chesembra avere una sua intima coerenza logica; e invece, come tuttipossono capire, è determinato dall’accostamento sapiente di espres-

    sioni liriche di poeti diversi o opere diverse di uno stesso autore: nelnostro caso gli autori dei singoli versi erano, nell’ordine, Petrarca,Foscolo, Leopardi, Quasimodo, D’Annunzio, di nuovo Petrarca eancora di nuovo Leopardi.

    1.9 QUALI TERMINI STRANIERI SCEGLIERE?

    Bisogna servirsene con parsimonia, scegliendo fra quelli meno

    noti o fra quelli usati dai «buoni scrittori». Eccone alcuni. Comin-ciamo dai francesismi: pendant («aspetto simmetrico», Cesarotti,1803), routine («ritmo ripetitivo di vita», Leopardi, 1823),tout court(«brevemente» o «integralmente», Petruccelli, 1826), refrain («ri-tornello», Panzini, 1905), événementiel («che si limita a descriveregli avvenimenti», Rosiello, 1963).

    Passiamo agli anglicismi: dandy («persona elegante e raffinata anchenei gusti, Foscolo, 1817),  performance  («prova di merito», Garollo,1895), affluent society («società opulenta, Galbraith, 1958), input («intro-

    duzione dei dati» o «avvio», Enciclopedia Italiana, 1961), gap («abisso»o «divario», Zingarelli, 1970), status symbol («comportamento o abitu-dine rivelatore dell’appartenenza a una classe sociale elevata», Gucci,1971), background («retroterra culturale», Arbasino, 1977), ghost story(«storia di fantasmi», Grazzini, 1980), patchwork(«cucitura di vari pezzidi stoffa», «ricucitura raffazzonata di frasi o argomenti», Arbasino,1978), coverage («cronaca giornalistica», da «la Repubblica», 1981).

    Non meno suggestivi ed incisivi risultano i germanismi usati daicritici letterari: einstellung («messa a punto, adattamento»), erlebnis(«il complesso delle esperienze di vita che risultano determinanti perla formazione di una persona»), senseit der Dinge («considerazione diun dato in sé e per sé» o «inseità»), sehnsucht («desiderio struggente»), spannung («punto massimo della tensione»), streben («il tendere versouna meta che si allontana sempre»),Weltanschauung («concezione delmondo»), weltschmerz («dolore del mondo» o «tedio della vita»).

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    18 Capitolo 1

    1.10 VEDERE IL MONDO PER LA PRIMA VOLTA: LA TECNI-CA DELLO STRANIAMENTO

    Dello straniamento abbiamo ampiamente parlato nel paragrafo

    2.1 della Parte seconda. Sulla falsariga di questa «visione delmondo» (oltre che modalità stilistica) si può tentare, nell’ambito diuna prova di scrittura originale e personalizzata, di immaginare larealtà attraverso gli «occhi» surrealistici di un animale o di unacosa. Un esempio splendido di tecnica dello «straniamento», ci èbellamente fornito da un grande scrittore-giornalista, Pietro Citati,che, su «la Repubblica» del 29 gennaio 1992, ha immaginato i sognidi un gatto. Ecco uno stralcio del testo.

    «Il gatto s’annoia. Mai nessuno, credo, nemmeno i grandi roman-

    tici della letteratura, consumati dalla noia fino all’intimo dell’orga-nismo, si è annoiato tanto. Che cosa pensa? Che cosa sogna? Checosa desidera? Come Adamo, ha peccato: ha lasciato il suo Edencolorato e selvaggio, in cambio della malsicura e talvolta crudeleprotezione degli uomini. Capite subito che nel sonno egli haattraversato campi estesissimi e compattissimi di noia: che ha vissuto, abitato, penetrato la noia, e si è lasciato penetrare da lei,come si abita l’oceano durante la circumnavigazione del mondo.

    Quando il sonno è giunto, il corpo del gatto lo gode, istante dopo

    istante, nel modo più voluttuoso e profondo. Come i monaci, il gattosa che il sonno non è l’unico rimedio contro la noia. Ce n’è un altroforse più potente: la contemplazione. E se c’è un momento che miaffascina nella sua vita è quando sta davanti alla finestra. Guardanella strada. Come vorrei scorgere quello che vede! Dall’alto, il suosguardo è — o sembra — vuoto: una specie di pupilla cosmica, cheriflette e dissolve in sé tutto ciò che avviene nel mondo.

    Tutti sanno che il gatto è discreto, lontano, irraggiungibile. Ilgatto è uno straniero: si aggira tra noi avvolto da un’atmosfera dielusione e di esclusione; eppure qualche volta, se l’affetto o lanostalgia o il piacere lo guidano, supera la parete di vetro e dormetra le braccia come un figlio.

    La casa del gatto non è, in realtà, la vostra stessa casa. Per ognunodi voi, la casa è ciò che appare: uno spazio di superfici visibili. Ilgatto la trasforma: la casa, per lui, è soprattutto il luogo del

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    19Il decalogo della scrittura creativa

    nascosto. Non c’è nulla che egli ami tanto come ciò che sta celato,protetto, circondato, difeso. Qualche volta, all’improvviso, ruggi-sce. Voi avete l’impressione che egli reciti una parte. Per un quartod’ora, la casa amatissima dove sta rinchiuso, la casa del cibo e del

    segreto, è tornata la foresta primigenia, l’intrico fantastico ditronchi e di rami e di sentieri e di biforcazioni, dove nella mente nonha mai cessato di vivere».

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    20 Capitolo 2

    2 IL FASCINO DELLASCRITTURA NOIR 

    2.1 IL NERO ALL’ORIGINE DELLA SCRITTURA

    Il fascino della  suspence è nell’essenza, nel DNA, nello statuto

    ontologico della scrittura stessa. Come recitava uno dei primidocumenti della letteratura italiana, l’ Indovinello veronese, l’azionedella scrittura è simile a quella di un aratro con il quale si sparge ilnero  seme dell’inchiostro sul bianco prato del foglio, che recaimpresso il segno dello scrivere.

    Il Nero, come si sa, è il colore del Mistero, dell’Orrore, dellaViolazione della norma. Ebbene, sembra strano a dirsi, ma sonoproprio queste direttive «disvianti» che hanno ispirato la scrittura,la quale, dunque, se è così, perde tutto il suo alone sacrale: non

    dimentichiamo che gli scribi delle società antiche erano spessosacerdoti e che «intellettuale» nel Medioevo latino si indicava conla parola clericus, termine che si è conservato nel tempo modernonella sua variatio nel francese clerc.

    2.2 IL MITO, LA SCRITTURA, IL MOSTRO

    Tutti i grandi miti, tramandati o forse inventati dagli scrittori

    antichi, sono fondati su una violazione della norma: Prometeo siribella a Zeus, Elena è sospettata di intesa con il suo rapitore,Clitennestra uccide il marito, Romolo il fratello, per non parlare diEdipo, che, doppio «criminale», uccide il padre e sposa la madre.

    Allo stesso modo i grandi capolavori della letteratura rinvianopalesemente ad un contatto-contiguità con il Male: la Divina Com-media è un Viaggio attraverso il Peccato, Madame Bovary pone in

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    21Il fascino della scrittura  noir 

    primo piano l’adultera Emma, Delitto e castigo è la più potente esconvolgente storia che mai sia stata concepita su un assassino,Moby Dick è imperniato sulla lotta senza esclusione di colpi fra unuomo e un animale.

    Insomma, il Mostro è il tremendo alfiere della scrittura.Naturalmente non nei suoi aspetti reali, bensì metaforici. Datempo i mostri abitano in noi. Scacciati dagli estremi confinidella Terra, hanno eletto come loro dimora i segreti labirintidell’animo dell’Uomo. Ma su di loro la Grande Macchina dellaCiviltà ha dispiegato gli effetti di una lenta metamorfosi. Via ipeli irsuti e le zampe avvinghianti, i denti digrignati e gli occhi difuoco: essi hanno acquistato aspetti e movenze umane. È difficileo scomodo per l’individuo spalancare le porte dell’edificio della

    propria coscienza, non solo nei piani superiori, depurati dallaaerea luce del Sole, ma soprattutto in quelli inferiori, maleodo-ranti di muffa e intricati dalle ragnatele del Tempo. È qui chebivaccano i Mostri del nostro Inconscio e si rincorrono per nome(Edipo, Narciso, Dioniso): nomi nuovi, eppure antichi, comeantica è la Paura, madre nolente di tante nostre azioni, nonsempre ignobili. Ed è proprio la Paura la molla della scritturaavvincente e convincente.

    2.3 LA SCRITTURA NOIR: UNA RIVOLUZIONE «CARTESIA-NA»

    Eppure la Paura, pur essendo il più imprevedibile e irrazionaledei sentimenti, segue una serie precisa di regole ferree. Il Maestrodella scrittura noir , cioè Edgard Allan Poe, ha operato, comesuggerisce Thomas Narcejac, una vera e propria rivoluzione simileo, meglio, della stessa portata di quella di Cartesio. Come infatti ilgrande filosofo francese aveva dimostrato che il pensiero era ingrado di stabilire l’esistenza di Dio, così Poe sostenne e produsse unmodus operandi tale che dimostrasse l’esistenza non solo dellarazionalità della scrittura, ma la sua capacità di scoprire il processodi deduzione logica attraverso cui si giunge alla rivelazione di unenigma.

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    22 Capitolo 2

    «Molti scrittori […] preferiscono far credere che compongonocon una specie di sottile frenesia o estatica intuizione, e certorabbrividirebbero se dovessero consentire al pubblico di dareun’occhiata dietro la scena […] e vedere le ruote e i rocchetti, i

    paranchi per i cambiamenti di scena, le scale e le trappole […] tuttol’equipaggiamento che novantanove volte su cento costituisce laprassi comune dell’ histrio letterario». Parole che, tra l’altro, sono unbell’esempio di scrittura creativa impostata sulla tesi secondo cuinessun particolare nella scrittura noir  e, in senso lato, coinvolgentepuò esser lasciato al caso.

    La scrittura è dunque rivelatrice di un Piano superiore, di unaMente ordinatrice, di un Demiurgo occulto, di un Deus absconditus:in Eureka: the Universe is the plot of the God ( L’ho scoperto: l’Universo è il frutto della trama di Dio) Edgard Allan Poe lascia capire chel’Uomo, attraverso il processo di deduzione che è insito nella praticaletteraria della scrittura, riesce a risalire al suo Principio primo,cioè a Dio stesso. Ecco dunque ricostituita, per altre vie, una sortadi sacralità della scrittura al nero.

    2.4 LA COMUNICAZIONE BABELICA

    Eppure, proprio nel sogno di comunicare con la Parola, gli uominisi scontrano con Dio. Egli stesso, non a caso, viene indicato semprecon un’espressione che ha un qualche rapporto con la Parola. Dionella Genesi  è chiamato il Verbo, cioè appunto «Parola», oppureJahvè, cioè «Colui che è» e che dunque «non può essere nominato».Questo è naturalmente un Mistero, inteso nel senso etimologico deltermine, che deriva dall’indoeuropeomu, indicante il «gesto di porreil dito indice davanti al naso per indicare il silenzio».

    L’Uomo volle, invece, come narra il racconto biblico, innalzareuna costruzione fino al cielo, la famosa Torre di Babele, chedeterminò la reazione da parte di Dio, il quale punì gli uomini noninviando su di essi diluvi o flagelli, bensì confondendo i lorolinguaggi.

    «Dobbiamo congetturare — scrisse Jorge Luìs Borges — che laTorre di Babele sia stata innalzata per essere demolita e perché

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    23Il fascino della scrittura  noir 

    fossero molte le lingue, molti gli strumenti dell’arte […] Si dovrebbeanche sognare che Adamo ed Eva siano stati creati per peccare e peressere cacciati dall’Eden e perché i loro figli fossero le Parche eMacbeth e ciascuno di noi e la persona che più amiamo. Non è

    impossibile che il verbo inglese to babble e il verbo tedesco babbeln,“balbettare” derivino da Babele e non dai primi suoni che articolanoi neonati».

    2.5 RIMETTERE L’ORDINE DOVE C’È IL CAOS

    Se però Babele segnò il trionfo del Caos, la scrittura, e parados-salmente proprio quel tipo di scrittura più apparentemente aperta

    all’Irrazionale, si preoccupò di mettere l’Ordine.Innanzitutto il lettore deve partecipare, nel senso che deve

    essere spinto a formulare anche lui delle ipotesi risolutive: insom-ma il destinatario, assumendo il ruolo del lector in fabula, deveentrare nel contesto del messaggio e mettersi sulla stessa lunghez-za d’onda del codice; inoltre egli deve sentire come vicino a lui lapersona che funge da rivelatore del mistero (i due più famosiinvestigatori della storia della letteratura poliziesca, SherlockHolmes e Nero Wolf, hanno degli aspetti «comuni» e in comune

    con il lettore medio: il primo ripete ossessivamente la banale frase«Elementare, Watson», mentre il secondo coltiva, molto normal-mente, orchidee).

    Il messaggio stesso della scrittura noir  dovrebbe avere alcunielementi topici:— l’avvenimento repentino del fatto violento e misterioso;— la creazione immediata di un enigma, del tipo di quello della

    «stanza chiusa» (come si è potuto verificare il delitto in un

    ambiente non violato dall’esterno?);— l’assunzione di senso di ogni particolare;— inversione cronologica dei rapporti causali (descrivere prima

    l’effetto, poi far intravedere la causa);— creare una serie di indizi disvianti, che equivalgono agli excursus

    narrativi;

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    24 Capitolo 2

    — congegnare un «finale aperto», del tipo lo sparo nella stanza,senza che il narratore non-onnisciente ci abbia detto che cosa sisia verificato: un suicidio o un omicidio?

    Ecco il classico elemento che conferisce fascino alla scritturanoir : la rivelazione. Che, in sostanza, fa precipitare il lettore in unbaratro di incertezza.

    A conclusione di questo capitolo proponiamo un breve esempiodi scrittura creativa, in cui Jorge Luìs Borges rende l’angosciaiterata che scandisce le ultime ore di un condannato a morte.

    «Il primo sentimento di Hladik fu di mero terrore. Pensò che nonl’avrebbero terrorizzato la forca, né l’ascia, né la ghigliottina, mache morire fucilato era intollerabile. Invano si ripeté che il tremen-

    do era l’atto puro e generale del morire, non le circostanze concrete.Non si stancava d’immaginare queste circostanze: assurdamente,cercava di esaurirne tutte le variazioni. Anticipava infinitamente ilprocesso, dall’alba insonne alla misteriosa scarica. Prima del gior-no fissato da Julius Rothe, morì centinaia di morti, in cortili le cuiforme e i cui angoli esaurivano la geometria, mitragliato da soldati variabili, in numero cangiante, che a volte lo finivano da lontano,altre da molto vicino. Affrontava con vero timore (forse con verocoraggio) queste esecuzioni immaginarie, ogni finzione durava

    pochi secondi; chiuso il cerchio, Jaromir interminabilmente torna- va alle tremanti vigilie della sua morte. Poi rifletté che la realtà nonsuole coincidere con le previsioni; con logica perversa ne dedusseche prevedere un dettaglio circostanziale è impedire che essoaccada. Fedele a questa debole magia, inventava, perché nonsuccedessero, particolari atroci; naturalmente, finì per temere chequesti particolari fossero profetici» (1).

    (1) J. L. BORGES, Il miracolo segreto, in Funzioni, Einaudi, Torino

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    APPENDICE

    Prove di scrittura creativa

    e di scrittura saggistica creativa

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    26 Appendice

    BLU  O GIALLO? GUERRA  TRA I PUBBLICITARI

    Muto, eppur eloquente è il linguaggio dei colori. Senza di essi, non èpossibile definire, qualificare, in una parola, comunicare. Proprio a queste

    operazioni nella retina dell’occhio umano sono preposte sei milioni di cellulea cono, che individuano i colori delle cose, della realtà, dei sentimenti stessi.I colori sono, in questi giorni, oggetto di un’accesa disputa tra i pubblicitari:quale sarà il colore del Duemila? Le teste pensanti dell’agenzia inglese Young& Rubicam non hanno dubbi: il futuro è decisamente azzurro o blu, che è unazzurro cupo. Come blu sono gli intramontabili jeans o le bottiglie di plasticacontenente «acqua azzurra, acqua chiara». Dall’altra parte sono scese incampo, altrettanto agguerrite, le falangi del giallo, che, colore tutto orientale,ha un che di imperiale nel suo essere il colore del «Sol Levante».

    Che questa non sia una disputa esprimente un puro puntiglio o un’eserci-tazione retorica lo si capisce dalla posta in gioco: sono in ballo, come ben si

    comprende, l’orientamento del gusto, le scelte del mercato, le campagne dellamoda. Ma forse anche qualcosa di più: la visione stessa del mondo, che siesprime in modo diverso a seconda dei diversi simbolismi assegnati, consa-pevolmente o meno, ai colori.

    Cominciamo dal blu o azzurro. Essendo il colore del cielo e del mare,esprime l’idea della profondità, dell’infinito, dell’immortalità, della corsa verso la dimensione dell’indefinibile Grandezza, che si allontana sempre dipiù rispetto al contatto e allo sguardo. In una parola, è il colore della purezza.E simbolo della purezza era la «pietra azzurra», di cui i popoli dellaMesopotamia pensavano fosse rivestito il Cielo, cioè il lapislazzuli, laddove

    «lazzulo» è deformazione di «l’azzurro», derivazione a sua volta dal persiano«lazwrad», che colloca questo colore in una lontananza esotica e affascinan-te. Ma, al tempo stesso, questa purezza finisce con il coincidere con l’Assolu-to, con la separatezza da qualunque scoria umana, dunque con la freddezza,con la glaciale perfezione geometrica.

    Per questo è il colore dell’eroe puro e invincibile: la tradizione mongola voleva che il grande e imbattibile Gengis Khan fosse nato dall’accoppiamentofra un lupo azzurro e una cerva dal pelo rosso vivo. Eppure l’azzurro, che pursi usa per indicare la nascita del figlio maschio, ha anche un che di femminile, visto che in Polonia si usa infatti di tingere d’azzurro le stanze delle donne da

    marito, come decisamente azzurro o più teneramente celeste è il mantellodelle Madonne «acheropìte», cioè non fatte da mano umana. In tal senso, èil colore della Verità assoluta.

    Passiamo al giallo, che capovolge tutti i valori dell’azzurro. Il giallo portal’attenzione innanzitutto dal Cielo alla Terra: Kandinskij lo considerava «ilpiù terrestre dei colori», dato che richiama l’oro, le cui vene sono situate sottola crosta terrestre, e la luce del Sole che per la Terra è vita. In quanto terrestre,il giallo, che pur ha una sua inconfondibile nobiltà in quanto era il colore di

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    27Prove di scrittura creativa e di scrittura saggistica creativa

    Mitra, Apollo e Vishnu, è legato alla sensazione del tramonto, della consun-zione, della mortalità: «giallume» è chiamata una malattia virale delle piante,gialla diventa la cera che si consuma, gialle sono per i Cinesi le fontisotterranee del Regno dei Morti.

    Questa sensazione della fine però spinge chi crede nella forza del giallo apuntare tutto sul vivere l’attimo fuggente; in tal senso, è un colore ardente eaccecante, come ardenti e accecanti sono il calore e la luce del Sole, l’astrogiallo. E gialli sono gli occhi degli animali, cani e gatti, che con la potenzadella loro vista riescono a squarciare le tenebre, per sfidarne coraggiosamen-te i segreti. Per il gusto della sfida, che vi è implicito, questo colore si connotacome elemento cromatico maschile: esso è perciò, nel Teatro di Pechino, ilcolore dei mantelli di principi e imperatori.

    Giallo però è anche lo zolfo, il cui odore annuncia la presenza di Lucifero,lo sfidante sconfitto, nemico della Verità e simbolo di Falsità. Questopotrebbe giocare a sfavore del giallo, visto che anche i «sindacati gialli» sono

    quelli che fanno i crumiri e i «corporativi». Ma non dimentichiamo lamoderna invenzione delle «pagine gialle», che al contrario segnalano, conuno spirito di corpo (questa volta manageriale), professioni e mestieri,rigorosamente distinte per «corporazioni», che si pongono a disposizionedella comunità. Sottile potenza della società dell’immagine e degli affari! Checon i colori ci gioca, dipingendoci un universo virtuale: tingendoci il futurodi rosa, riversandoci addosso notizie di cronaca nera, facendoci sognare imulini bianchi di un tempo.

    Noi non possiamo prevedere come andrà a finire la sfida fra l’azzurro e ilgiallo. Speriamo soltanto che il partito vincitore ponga sulle sue bandiere

    accanto al colore anche il calore dei valori. Altrimenti, ci farà rimpiangere ilpur sempre elegante grigio, come le foto a colori ci hanno fatto riamare il vecchio-sempre-giovane bianco e nero.

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    28 Appendice

    L’AMORE È UN DARDO (MISTERIOSO)

    Sembrava che dell’Amore fosse stato detto tutto. Credevamo di conosce-re i mille sfuggenti e struggenti volti di questo sentimento delicato e

    prepotente, etereo e corposo, fugace ed eterno. Eppure non è così. L’ultimatrovata che riguarda l’imprevedibile e inesorabile Cupido è stata partoritadalla tecnologia.

    Proprio in occasione della ricorrenza di San Valentino, Protettore degliinnamorati, infatti è stato lanciato sul mercato (brutta parola per l’Amore!)uno strano prototipo di innamorato. Provenienza: Hong Kong, che, ormairientrata nell’ambito della Cina Popolare, fa i conti con una realtà psicologicae sentimentale, che l’Impero fondato da Mao aveva trascurato, anzi rimosso.Nome dello spasimante: My lover . Traduzione: «Il mio amante».

    Si tratta — ci chiederemo — di un nuovo Kamasutra, in versione aggior-nata? No, molto più semplicemente è un nuovo gioco elettronico. Strutturato

    in modo tale che il «possessore» (possessivo, naturalmente: lo dice l’attributostesso del nome, my) possa rivolgergli le sue attenzioni e le sue coccole. Guai,però, a trascurarlo! My lover reagisce come il più classico degli amanti: siadira ed è geloso, protesta e vi pianta in asso. Ma soprattutto è capacemasochisticamente di ammalarsi, cadendo — in modo molto consono aquesti nostri tempi disperati — nel mal du siècle: la depressione.

    Ne prevediamo la diffusione su larga scala, visto che il prezzo (ahi! ahi!concetto disdicevole ed allusivo!) di questo «amante elettronico» è davveroirrisorio: solo 20.000 lire. E così pure è facile prevedere che, entrato in crisil’ormai usato-abusato Tamagotchi, il nuovo giochino andrà a finire in mano

    alle (o ai) teen agers, che, nel vivere la loro «età crudele», di problemi ne hannogià fin tanti.Certo, la colpa dell’eventuale manipolazione di questo angelico-infernale

    marchingegno — ci guardiamo bene dal fare della sociologia spicciola! — èun po’ anche degli adulti, abituati ormai a dare tutti i giochi possibili ai lorofigli, essi che di giochi nella loro infanzia non ne hanno avuti molti o asufficienza, e a impedire, forse per troppo affetto o comunque eccessivasollecitudine, che i loro teneri rampolli si scontrino contro le dure replichedella realtà.

    La virtualità, poi, è cosa concretamente diversa, anche se etimologicamen-

    te similare, rispetto alla virtù, la quale, nelle società tradizionali si misuravanella capacità di superare delle prove, per cui tutte le esperienze, quelle dellostudio, dell’innamoramento, del rapporto con gli altri, esigevano comunqueuna sorta di milizia pratica o, per così dire, di praticantato sorretto da regoleprecise.

    Oggi la «virtualità», che pure ha ampliato le potenzialità della nostramente, sposta sempre più in là fino all’inverosimile i confini della Realtà: tuttoè reale e irreale al tempo stesso, tutto è razionale e contemporaneamente

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    29Prove di scrittura creativa e di scrittura saggistica creativa

    irrazionale. Il fascino dell’Ignoto — nell’ottica virtuale, ma solo in essa — vaperdendo la sua carica dirompente ed  altra, in un mondo che invece varecuperando (secondo sistemi mentali paradossalmente tradizionali) pro-prio il senso del mistero, del prodigioso e del sacro.

    E misterioso, prodigioso e sacro è l’Amore, che conquista ed affermadunque una sua misteriosa «totalità». L’Amore non è, come My lover , unabanale «storia»: altra brutta parola questa, oggi in voga nei talk show e dunquericorrente nel codice del «giovanilese». Una storia, intendiamo, già previstae magari rinunciataria, che sfocia nell’abbandono e nella depressione. Siamoperfettamente d’accordo con chi ha detto invece che il primo avvertir l’Amoredetermina uno stato nascente nell’individuo, che sente tutto come subordina-to alle straripanti sensazioni provate: in questa «condizione di grazia» l’esseresi sente potente, rinnovato, capace di fondare o rifondare prodigiosamente ilMondo.

    E misterioso è anche il Patrono degli innamorati, San Valentino, che, in

    tutta questa discussione, qualche parola la merita. Innanzitutto perché varecuperata, in tempi di padroni e di padrini, la figura del patrono, non persminuire la libertà degli uomini, ma viceversa per avere dinanzi agli occhi deimodelli di persone che incarnano valori e hanno dato un senso alle proprieazioni. E poi, perché, diciamolo, questo San Valentino è davvero simpatico,chiunque egli sia tra i 17 (numero strano per un bel «vissero felici e contenti»!)San Valentino, ufficialmente registrati nella Bibliotheca Sanctorum.

    Sarà il prete romano del III secolo, che, incappato nelle ire di Claudio II,fu da lui mandato al martirio o il Vescovo di Terni, ucciso per aver celebratomatrimoni fra cristiani e pagani convertiti? O ancora qualcun altro? Beh!

    Poco importa. Quel che conta è che si tratta di un comune mortale, che in vitaha lottato, non importa se vincendo o perdendo. Del resto gli eroi sono anchequelli che ammettono la propria debolezza: questa è la loro forza. E di forzaintima, eppur superiore, nell’Amore ce ne vuole. Perciò il mitico Cupido èimmaginato come l’arciere che si insinua con i suoi invisibili-infallibili dardinella carne del cuore.

    Del resto, con il passar del tempo, al sentimento subentrano la riflessione,la valutazione, l’adattamento ad un «miracolo» venuto dall’esterno dellanostra vita e poi insediatosi come un sovrano assoluto nella nostra esperienzaquotidiana. È in questa fase, più lunga e difficile, più variegata e sottile, chel’Amore dimostra la sua forza, radicata nel cuore e nella mente, che deveessere sempre più disposta a capirlo, a razionalizzarlo, a interiorizzarlo.

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    L’IMITAZIONE DISTRUGGE IL MODELLO

    Forse non ce ne stiamo accorgendo, ma l’imitazione sta diventando la prassiquotidiana non solo della nostra società commerciale, tesa a riprodurre un

    bene in forme economicamente sempre più convenienti e dunque sempre piùconsumabili, ma anche della realtà dei nostri media, dove impazzano (conrisultati, peraltro gradevolissimi) geniali imitatori. Insomma, si va facendostrada un’ideologia dell’imitazione, della quale vale la pena di tracciare in brevela storia.

    L’imitazione è stata per secoli nobile fonte di apprendimento, inconfuta-bile sintomo di grandezza, ardente desiderio di confronto con il modello. Lacultura medievale aveva un suo grandioso filone, da cui sono nati Orlando eTristano, il Graal ed Excalibur, chiamato appunto «cortese», per cui siconfigurava come s-cortese colui il quale si poneva fuori delle regole canoni-che dei modelli comportamentistici.

    E così pure, il vero cristiano, dal martire al santo, si prefiggeva quale aurearegola di vita l’imitatio Christi, come recitava il titolo di un’opera mistica,forse scritta da Tommaso di Kempis. E imitatori dei modelli classici furonogli Umanisti, autentici protagonisti di una delle più grandi rivoluzioni dellaStoria. Fu, poi, la cultura romantica europea dell’800 a sancire la finedell’imitazione e il trionfo dell’individualità, dell’originalità, della creatività.

    È stata la nostra società del Duemila a ridare splendore all’imitazione,collocandola naturalmente fuori da obiettivi estetici e artistici e assegnandoad essa il suo magico eppur tremendo trionfo. Oggi tutto è imitabile,ripetibile, riproducibile. Si può riprodurre e incidere su nastro, cassetta e CD

    tutto ciò che si vuole: la voce, l’azione a video, il testo, la tridimensionalità. Pernon parlare della clonazione, che è l’effetto discutibile di tale fenomeno.Anche la moderna masterizzazione di un CD comporta la confezione di un

    modello iniziale o master , da cui poter trarre altre copie conformi. Master , delresto, vuol dire letteralmente «maestro» o modello perfetto, insomma quelloche una volta poteva essere il «mastro», difficilmente imitabile.

    Ma ritorniamo ai masters, nel senso dei «maestri» dell’imitazione che cideliziano dal piccolo schermo, perché la loro azione ci può rivelare anche unrisvolto della nostra cultura. Innanzitutto va detto che l’imitatore coglie nellasua «vittima designata» quel lieve «tic», quello scarto dalla norma, che è per

    certi versi anche il segno della sua singolarità, che contribuisce insomma afare di lui un personaggio. Quel «particolare minimo» viene dall’imitatoreingigantito. Un processo questo, di ascendenza pirandelliana, visto che ilgrande drammaturgo notò che noi spesso veniamo «appesi e condannati perun solo gesto». L’imitazione (ripetiamo, perfetta) degli attuali comici radica-lizza questa ossessione della maschera da cui poi non ci liberiamo più.

    Ancor più interessante è il fatto che l’imitatore sceglie come bersaglioqualcuno che è, nel suo campo, un «primo della classe». Eppure, noi

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    31Prove di scrittura creativa e di scrittura saggistica creativa

    dimentichiamo che questa persona è il «primo» e ci concentriamo sulle lodinei confronti dell’imitatore (il «secondo»), il quale fa in modo che noidimentichiamo il modello. E, quando ci appaiono i veri personaggi, ci vengono subito in mente le figure imitate, per cui, a un certo punto, ci

    convinciamo che il vero personaggio è quello che è il risultato dell’imitazione.Effetto ancor più «straniante» è quello ottenuto allorquando la personaimitata stessa finisce per appiattirsi sul modello proposto dall’imitatore. Lospettatore, pur divertito e appagato, non si è reso conto di essere statocondotto su un piano inclinato, su cui è dolcemente scivolato, smarrendo,come in un gioco di specchi reduplicati all’infinito, l’identità del mondo e, percerti versi, anche di se stesso.

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     T RAVOLTI DAL SECOLO BREVE

    Alla fine del secondo Millennio, quel che è veramente finito è il nostrosecolo, un arco di tempo sottoposto a mille definizioni. Ma una forse è quella

    che meglio lo qualifica, proprio perché è tra le più discutibili: il ‘900 come secolo breve. L’espressione è stata coniata dallo storico inglese Eric J.Hobsbawm, il quale ritiene che il XX secolo inizi con la Prima GuerraMondiale e si concluda con la caduta del «Muro di Berlino».

    Naturalmente questa «brevità» è tutta particolare, perché, pur entroquesta folle corsa verso la consunzione, il ‘900 ha concentrato e (fortunata-mente) esaurito forme varie di totalitarismo (dal fascismo al nazismo alcomunismo) e di sterminio di massa (dall’Olocausto al Gulag), quali mai lasocietà nei secoli precedenti aveva soltanto ipotizzato.

    Certo, anche la «brevità» ha avuto i suoi risvolti positivi, perché il ‘900 hasaputo «abbreviare» le distanze sociali, per cui oggi è più difficile riconoscere

    un rappresentante delle classi medie da uno di quelle alte, ha saputo«abbreviare» la fase temporale del dolore attraverso l’uso degli analgesici, hasaputo «abbreviare» le distanze con il telefono, il fax ed Internet, ha saputo«abbreviare» il divario fra le ideologie contrapposte della Destra e dellaSinistra, della conservazione e del progresso.

    Del resto, il buongiorno si era visto dal mattino. Il ‘900 si era aperto, alivello di storia delle idee, con il Futurismo, che abbreviava, distruggendolodel tutto, il corso del Passato e del Presente, esaltando iperbolicamente (ediscutibilmente) la velocità, sì da giungere a sostenere che «un’automobileruggente, che corre sul filo della mitraglia, è più bella della Nike di Samotra-

    cia».Per anni, anche la cultura tradizionale aveva fatto della brevità il suoinconfondibile vessillo. Fermiamoci solo a considerare alcuni aspetti delladidattica, ufficiale e ufficiosa, della nostra tanto (ingiustamente) vituperatascuola italiana, che si fondava su alcuni esempi classici di brevità: dall’elogiodel riassunto alla necessità di una prosa succinta e compendiosa, dall’incisi- vità del brevissimo motto di arguzia all’aforisma essenziale, dalla insupera-bilità dello stile laconico alla dichiarazione di poetica callimachea del«grande libro, grande danno». Per non parlare del mitico Bignami, a cuianche i più bravi ricorrevano nell’imminenza degli esami. E, a proposito di

    esami, anche il nuovo Esame di Stato prevede, in alternativa al tema,generalmente ampio e talvolta fluviale, la prova denominata appunto «saggiobreve».

    Tutti questi potrebbero essere esempi di moderna «brevità pura»; maaccanto ad essi da tempo si vanno affermando, e con maggior successo pressole nuove generazioni, altri esempi contrapposti, rispetto ai quali, parafrasan-do Kant, potremmo mettere in atto una «critica della brevità impura». Ilmodello principe di tale approccio alla realtà è rappresentato, dalla TV, che

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    non solo suggerisce frenetici e velocissimi zapping, ma ama sempre di più lo spot o lo spezzone del video musicale.

    Gli ingredienti usati per la confezione di questi ultimi sono: il concentratodi una prova canora, il passaggio improvviso e «abbreviato» da un luogo ad

    un altro e da un tempo ad un altro, la posizione generalmente ferma della rockstar dietro la quale o accanto alla quale si svolgono micro-flash di azioni.Lo spettatore è dunque continuamente sorpreso, spiazzato e straniato daquesti «voli pindarici» irrazionali o capaci di indurre una «razionalitàdeformata» e subliminale. Se a tali condizioni si aggiunge un sapiente maingannevole uso del colore bianco e nero, si ha la perfetta sensazione di vivereuna situazione onirica, visto che il sogno si fonda sulla concentrazione e sulladeformazione dei dati. Un sogno, per intenderci, diverso da quello tipo «Viacol vento» (anch’esso disviante nel suo essere sentimentaleggiante), un sognoossessivo che fa perdere i contatti con la realtà e distrugge le categorie dispazio e tempo, le quali restano comunque le coordinate entro cui si sistema

    la nostra conoscenza.È questa una critica totale alla comunicazione mediatica e computeriale?

    No certamente, perché mai come oggi non avrebbe senso essere dei lodatoridel tempo passato. Esiste, ad esempio, pur all’interno della società dell’imma-gine altamente tecnologica, un tipo di comunicazione breve eppur intensa:alludiamo ai CD multimediali, che non a caso stanno diventando unostrumento intelligente di didattica. In essi i dati sono sintetizzati ed espostischematicamente, ma è fatta salva una scoperta fondamentale della culturadel Novecento: la possibilità di stabilire una rete di rapporti fra gli elementidella realtà fino a delinearne la struttura. E così, i rapidi cliccaggi previsti

    dalla navigazione in un CD ci fanno superare la brevità diseducativa delframmento e l’angoscia, per dirla alla Nietzsche, di vivere l’«anarchia degliatomi».

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    ISABELLA MORRA: IL FUOCO DELLA SECONDA VISTA

    IL FANTASMA DELLA DAMA BIANCA

    Se un viaggiatore una notte d’inverno si trovasse per caso ad aggirarsi nei

    pressi del castello di Valsinni, in provincia di Matera, potrebbe avvertire lapresenza misteriosa di una Dama bianca. Molti sostengono che si tratti delfantasma di una grande poetessa rinascimentale, perita di morte violenta:Isabella di Morra (1520-1546). Ma, anche se egli non credesse alla presenzadell’Aldilà, si renderebbe conto, se conosce i 14 componimenti del suoCanzoniere, che Isabella è sempre lì, murata viva nella prigione del suo corpoe trascorre le ore, cadenzate e lente, contemplando dall’alto la vallata,punteggiata di orridi sassi, selve incolte e solitarie grotte. Unici rumori,monotoni e selvaggi, sono l’eco delle ruinose acque del fiume Sinni e il versodelle upupe «indovine» del suo male.

    Lei ha pagato lo scotto di una funesta vicenda, al tempo stesso privata epubblica: il padre, Giovan Michele, feudatario filo-francese, per sottrarsi adun processo politico come fautore del Visconte di Lautrec, si rifugiò nel 1528in Francia, lasciando in Italia, insieme ai suoi fratelli autoritari e feroci, lapiccola Isabella, castellana precoce e precocemente destinata all’isolamentoe alla solitudine.

    Fin qui — dirà il nostro lettore — si tratta di una delle tante vicende diintrighi e di guerre che hanno funestato l’età del Rinascimento, attraversatada una sotterranea corrente dai mille tumultuosi rivoli: le congiure di corte,la spietatezza del Potere, il potenziamento tecnologico delle armi da guerra,la paura della Morte che falcia giovani e vecchie esistenze sui campi dibattaglia e nei luoghi infestati dai banditi.

    LE SEGRETE PIANTE DELLA POESIA E DELLA PASSIONE

    La vicenda si complica se, dopo essere entrati nelle stanze del castello diIsabella, cerchiamo di entrare nella segreta dimora del suo cuore, lì dove ellacoltiva due segrete piante: il furore poetico e il desiderio di un vitalesentimento d’amore. Sembrano due luci nella notte che l’avvolge, due luci chepotrebbero consentirle di vivere o almeno sopravvivere; e invece sono proprioesse che la condurranno — come per una sorta di agognato destino — lungola rapida china dell’autodistruzione e della morte.

    L’azione congiunta dell’Amore e della Poesia prende corpo attraverso unevento per lei tragicamente decisivo: la passione (non sappiamo in qualemodo manifestata) per un nobiluomo spagnolo, avverso dunque per partepolitica ai Morra, anch’egli poeta, di nome Diego Sandoval de Castro, maritodi Antonia Caracciolo.

    Potrebbe questa essere per lei la possibilità di esplorare il mondo deisentimenti e della ricerca poetica ed uscire da quell’isolamento, nel quale

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    invece viene sempre più ricacciata dai fratelli, che sospettano la relazioneamorosa. E non potendo vedere e conoscere la realtà esterna con gli occhifisici del volto, ella finisce per perdere la capacità di delinearla in modooggettivo e per acquistare una seconda vista deformante, ma al tempo stesso

    più ampia e poeticamente suggestiva. Se anche noi vogliamo vedere ciò chela poetessa vede, dobbiamo innanzitutto metterci dall’osservatorio personaledi Isabella.

    SALIRE SUL MONTE, ANDARE VERSO UN ALTROVE

    È la sua stessa posizione, in alto su un monte, a creare le premesse perun’ottica anomala e strana. La montagna è per lei la parte della terra più vicina al cielo; e ogni «ascensione» sui suoi pendii è un superamento dellospazio quotidiano e della condizione umana, per diventare un Viaggio versoun Altrove misterioso.

    Per lei, che è prigioniera nel suo cupo castello montano, anche lo spazioè dunque deformazione. Nel sonetto VII la valle del Sinni è chiamata inferna(per una sua smisurata — agli occhi di Isabella — profondità ed oscurità):l’aggettivo è evidentemente una metafora dettata dalla condizione di chi siappresta a compiere il «passaggio nell’Oltretomba». Il fiume invece, nelmedesimo sonetto è definito alpestre con un’ambigua esagerazione. «Alpe-stre» infatti, oltre a significare «simile per volume d’acqua e rapidità dicorrente ad un fiume alpino», suggerisce anche che il corso del fiume èsmisuratamente lungo, tanto da avere la sua origine dalle Alpi, oppure che lemontagne da cui nasce il fiume diventano, in virtù di questo processodeformante, smisuratamente alte tanto quanto le Alpi.

    MISTICHE ALLUCINAZIONI

    E così, dinanzi alla mente di Isabella, lucida visionaria, che ha probabil-mente letto le vite di alcune mistiche del deserto, si svolge, nella canzone XIII,una lunga sequenza di visioni: sullo schermo gigante di un cielo, che solo perlei si anima di aeree figure, ella vede le scene dell’Annunciazione, della nascitadi Cristo, di Giovanni Battista, di Cristo nel Tempio, di Giovanni l’Evangelistae infine di Cristo che ammonisce la «plebe fera».

    Le caratteristiche che accomunano queste visioni sono due. Innanzituttoesse sono quotidiane e si presentano con un ritmo metodico in ore rituali dellagiornata (aurora, primo mattino, mezzogiorno e tramonto). In secondoluogo, queste visioni sono sempre in rapporto alla luce del sole: ciò è statoriscontrato in varie esperienze sia di mistici visionari (Giovanna d’Arco videin una nube luminosa San Michele e Santa Caterina) sia di istero-epilettici edi soggetti affetti da turbe psichiche (Janet riferisce il caso di un paziente che,in prossimità di un attacco istero-epilettico, vedeva l’immagine di un incen-dio).

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    Le visioni di Isabella hanno quindi un contenuto mistico, ma affondanole loro motivazioni in uno stato isterico-sonnambolico o di  sogno ad occhi aperti tipico delle isteriche. Per una di quelle stranezze della realtà, i cui partisono più raccapriccianti di quelli della fantasia stessa, Isabella sembra

    anticipare le condizioni di Anna O., protagonista di un famoso caso studiatoda Sigmund Freud.Il padre della psicoanalisi, a proposito di questa paziente, ebbe a scrivere:

    «La vita familiare monotona e la mancanza di adeguate occupazioni intellet-tuali lasciavano in lei un eccesso di vivacità ed energie mentali, che trovavasfogo nelle continue attività della sua immaginazione. Ciò la condusseall’abitudine a sognare ad occhi aperti (“il suo teatro privato”); il che gettò lebasi di una dissociazione della sua personalità psichica».

    SCORTATA DA TIMORE E DESIDERIO

    «Dissociata» è Isabella fra le sensazioni espresse da due parole, che sonoi termini-chiave del sonetto IX: «Timor e desio son le mie scorte». Isabella èdunque incerta tra timore e desiderio, cioè fra due condizioni, che, almenosecondo la teoria freudiana, sono tra gli elementi fondamentali del meccani-smo del sogno.

    E nei sogni di Isabella ricorre spesso una presenza femminile che è lachiave di tutto il mistero: la Fortuna. Sì, questa parola astratta, questofantasma che è e non è, che è fuori e dentro di noi, dappertutto e innessun luogo. Ma dietro di lei si celano ben altre persone concrete.Innanzitutto la Morte: infatti dalla guerra contro la Fortuna la poetessaspera di trovare solo «degno sepolcro» e qualcuno «che ‘n saldi marmi laterrà sepolta» (I, 14). E accanto alla Morte compare un’altra figura,familiare e terribile: la Madre. Sono dirette a lei le accuse che Isabellarivolge alla Fortuna.

    L’EMPIA FORTUNA È LA MADRE

    Noi non sappiamo quanta parte di verità stiamo per svelare; certo è cheesiste un’impressionante coincidenza fra il meccanismo universale del «di-stacco» della figlia dalla madre (almeno come è stato descritto da Freud) e lespecifiche motivazioni dell’odio di Isabella per la Fortuna. Andiamo inordine. Freud sostiene che il distacco della fanciulla dalla madre avviene conuna serie di accuse che la figlia rivolge alla genitrice:— di averle dato poco latte;— di averle proibito la soddisfazione dei desideri erotici;— di essere responsabile della propria «evirazione» (cioè di averle «sottratto»

    l’apparato sessuale maschile, che in realtà non ha mai avuto);— di essere divenuta la sua rivale nei confronti del padre.

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    Ebbene, con una precisione sorprendente, Isabella accusa la Fortuna(inconsciamente paragonata alla Madre) di averle sottratto il latte («Così adisciolta briglia,/ seguitata m’hai sempre, empia Fortuna,/ cominciando dallatte e dalla cuna», XI, 20-22), di aver «al bel desir troncate le ali» (XI, 1,

    «troncare» equivale ad «evirare») e di averle sottratto il padre «amato» (XI,37), in quanto la Fortuna/Madre è rivale nei suoi confronti.Se sono vere le equazioni Fortuna = Morte e Fortuna = Madre, ciò significa

    che siamo arrivati al cuore del Mistero: Madre equivale a Morte. E questo sianel senso passivo per cui la Madre stessa sarebbe meritevole di Morte comerivale di Isabella, sia nel senso attivo per cui la Madre stessa sarebbeapportatrice di Morte. Suprema contraddizione questa, dal momento che laMadre in sé è apportatrice di Vita.

    IL MISTERO DELLA MORTE

    E, come tutti coloro che scoprono una verità estrema e vedono ciò che, puravendolo avuto dinanzi agli occhi, si sono illusi di poter allontanare da sé,Isabella sceglie di «punire» il destino sottraendo ad esso l’oggetto dellapersecuzione: cioè il proprio corpo attraverso la morte. E ci vuole arrivareattraverso il martirio, l’auto-punizione, la lenta estinzione della sua vitalità.Nell’attesa di un padre che non verrà mai, di una vela che non apparirà maiall’orizzonte per liberarla dai legami che la avvinghiano, ella sta immobile abruciare nel rogo del Sole, che «uccide i fiori in grembo a primavera».

    Così uccide il profumo del suo corpo e delle sue sensazioni. Eros siallontana, dissolvendosi nel nulla, mentre avanza il lugubre fantasma dellaMorte. Forse Isabella accusa la Sorte di non averla uccisa nel «grembo» dellamadre, tra i fiori di un Paradiso perduto. È questo il suo silenzioso grido, èquesto l’estremo, indiretto, auto-distruttivo grido contro la Fortuna/Madre.Il piano, che ella organizza con Don Diego e con la complicità del pedagogoe che prevedeva la fuga da Taranto su una nave, è solo un pretesto perspalancare le porte alla Morte, la Nera Signora con la falce e con la clessidra.Il delitto viene consumato secondo i canoni classici: i fratelli assassini da unaparte, Isabella con l’amante e il complice dall’altra.

    Isabella ha forse così realizzato finalmente il suo supremo desiderio diessere ridotta a cosa inanimata, destinata a non sentire più niente, stordita daun’ anestesia totale? Non potremo mai rispondere a questo interrogativo: esso

    resta naturalmente un fitto, insondato, fascinoso Mistero.

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    LA SCAPIGLIATURA NERA: CASI DI NOBILE FOLLIA

    Pieni di ingegno, più avanzati del loro tempo, indipendenti «come l’aquiladelle Alpi», disordinati ed eccentrici, travagliati e turbolenti, pronti al bene

    quanto al male, «vero pandemonio del secolo, serbatoio del disordine e dellospirito di rivolta e di opposizione a tutti gli ordini stabiliti». È questo l’auto-ritratto più impietoso e coraggioso dell’artista scapigliato obohémien, fatto daCletto Arrighi, protagonista di una delle più discusse correnti letterarie edartistiche, sviluppatasi in Italia tra il 1860 e il 1870: la Scapigliatura.

    Nomi non notissimi, eppur singolari sono gli appartenenti al movimento: daGiuseppe Rovani, maestro riconosciuto del gruppo, a Iginio Ugo Tarchetti, verointerprete dello spirito dello «sradicato» e morto di tisi a trent’anni nella piùcompleta indigenza, da Emilio Praga, alcolizzato e scomparso a trentasei anni,a Cletto Arrighi, rovinato dal gioco e morto in miseria, a Giovanni Camerana, chesi suicida dopo una carriera di magistrato nel 1905. Gli unici a condurre una vita

    più regolare sono Camillo Boito, architetto e docente universitario, e il fratelloArrigo Boito, autore di fortunati libretti d’opera per Giuseppe Verdi.

    Introversi e stravaganti, miseri e affamati, frequentatori di bettole e degliambienti degli artisti falliti o misconosciuti, inclini alla depressione e all’in- vettiva, gli Scapigliati conducono un tenore di vita che rasenta lo squallore el’emarginazione.  Essi vivono la malattia del loro disagio sia come unacondizione sperimentata personalmente, sia come effetto di una sorta di«eredità naturale»: «siamo i figli dei padri ammalati» scrive impietosamentee quasi masochisticamente Emilio Praga. La realtà per essi non segue unosviluppo lineare e razionale, ma si configura come una massa indistinta di

    fenomeni, dominata dal caos, dal mistero, dalla contraddizione: «son luce edombra, angelica/ farfalla o verme immondo» dice di sé e del suo essere poetaArrigo Boito in Dualismo.

    Sono questi autori, anomali e geniali, ad avere prodotto, nella letteraturaitaliana dell’800, le narrazioni che più compiutamente si ispirano alle coor-dinate tipiche della «cultura del Mistero». Noi ci avventureremo nei territoriancora poco noti delle storie da essi congegnate, cercando di rintracciare unquadro organico di una sorprendente Scapigliatura nera o fantastica, che valela pena di conoscere.

     Iniziamo dalla somatizzazione del rimorso. Questo tema è la chiave di volta

    dell’inizio del secondo capitolo del V libro di Cento anni, romanzo di GiuseppeRovani, pubblicato a puntate a partire dal 1857. Il brano narra come ilprotagonista, il Conte F., sia affetto da uno strano malore, attribuito ad unaforte indigestione, a causa della quale «par che gli manchi il respiro e vogliamorire». Dei tre medici, che sono stati chiamati al suo capezzale, solo unocomprende la verità. Il dolore avvertito allo stomaco e al petto è dovuto a causenon fisiche, bensì psicologiche: il conte è, infatti, ossessionato dal rimorso diaver costretto un suo servo, poi incriminato dalla giustizia, a rubare a un

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    marchese defunto il testamento a suo sfavore. Da questo interscambio framalattia dell’anima e malattia del corpo nasce il filone scapigliato dell’ambigui-tà e della pendolarità, per cui il lettore non capisce quanto ci sia di vero e quantodi fantastico, quanto di accertabile e quanto di indefinibile nelle situazioni

    degli scrittori che prendono le mosse dall’intuizione di Rovani.Giocata tra realtà e fantasia, narrazione oggettiva e sensazione allucina-toria è infatti un’altra storia: quella de L’alfiere nero di Arrigo Boito. Essa èimperniata su una strana gara di scacchi, in cui l’americano Giorgio Andersensta per battere il negro Tom; ma l’alfiere nero di quest’ultimo, benchéspezzato e poi incollato, determina, ipnotizzandolo misteriosamente, lasconfitta dell’americano, che adirato scarica la sua rivoltella contro il poveroTom. Assolto da un tribunale razzista, l’assassino però non vince mai più unapartita, perché, ogni volta che sta per realizzare una mossa vincente, l’alfierenero si muta in fantasma e lo blocca come quella fatidica volta. Si verifica cosìun inaspettato capovolgimento, poiché, nonostante gli alfieri bianchi rappre-

    sentino l’ordine e quelli neri il disordine, come sottolinea lo stesso Boito, èproprio il fantasma dell’alfiere nero, «segnato, insanguinato e risorto», aripristinare l’ordine violato dalla falsa ed erronea giustizia umana.

    Se in questo racconto di Arrigo Boito una cosa inanimata, cioè una pedinada scacchi, è in grado, come se fosse un essere animato, di dare«scacco matto»(espressione persiana che significa «il re è morto»), nel racconto del fratelloCamillo, intitolatoUn corpo, si verifica il processo contrario: un corpo, animatoe peraltro bellissimo, di una fanciulla, è in grado — proprio nel diventareinanimato, dunque privo di vita — di rivelare scoperte scientifiche ad unmedico che opera nella sua lucida assurdità. In questa novella Carlotta, giovane

    e affascinante, «anima di fanciulla e corpo di dea», spaventata dagli anatomisti,conosce e teme Carlo Gulz, un chirurgo specializzato in vivisezioni: egli infattiprevede che la giovane un giorno «riposerà sul suo tavolo di anatomizzatore».

    Di Carlotta si innamora un pittore, voce narrante del racconto, il quale ungiorno apprende dai giornali, con suo grande dolore misto a indicibilesorpresa, che la giovane è caduta nelle acque del Danubio, affogando. Eglitrova poi il corpo della giovane sul freddo tavolo marmoreo del dottore, cheè una sorta di Frankenstein, perché vuole «trarre la vita da questo corpomorto», nel senso che il corpo perfetto della donna è indispensabile perstudiare i segreti della vita umana e la dinamica delle sensazioni. Ma il pittorescopre così un’altra verità: che la donna ha assecondato, scivolando nell’ac-qua, l’irrazionale desiderio della Ragione scientifica.

    La descrizione dei cadaveri, al limite dell’ossessione maniacale non privadi ironia corrosiva e luciferina, compare invece in un reportage sull’ossario diCustoza, in cui Camillo Boito scrive: «Il sacrestano conosceva tutti i crani aduno ad uno, come fosse loro amico da un pezzo […] Uno ha i suoi trentaduedenti così belli che sono un incanto: neanche un puntino bruno,