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INdICE
Introduzione (di Riccardo Mazzeo) 7
Capitolo 1Dalla Rivoluzione francese all’Olocausto: plus ça change, plus c’est la même chose 23
Capitolo 2Il rispetto e la benevolenza 29
Capitolo 3La ragione, una fabbrica di potenza 35
Capitolo 4Il mistero dell’unde malum: come le persone buone diventano cattive 43
Capitolo 5La banalità del male 49
Capitolo 6L’uomo irriflessivo 59
Capitolo 7La nozione di «dormiente» 65
Capitolo 8Una «vittima collaterale» 75
Capitolo 9Il fenomeno della «sindrome Nagasaki» 81
Capitolo 10L’abitudine che desensibilizza 91
Capitolo 11Al di là dei poteri immaginativi umani 97
Capitolo 12Il complesso di Prometeo 103
Bibliografia 109
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Hannah Arendt, forse la più importante por-tavoce di questo modo di pensare che si oppone nettamente e inflessibilmente alla riduzione dei fenomeni sociali alla psiche individuale, os-servava che il vero genio tra i seduttori nazisti era Himmler, il quale — pur senza provenire dalla bohème come Goebbels, senza essere un pervertito come Streicher né un avventuriero come Goering e neppure un fanatico come Hit-ler o un pazzo come Rosenberg — «organizzò le masse in un sistema di dominazione totale» grazie alla sua assunzione (corretta!) che nella loro assoluta maggioranza gli uomini non sono né vampiri né sadici bensì lavoratori e padri di famiglia. Dove questa osservazione l’avrebbe condotta alla fine lo abbiamo appreso dal libro Eichmann a Gerusalemme. La più citata fra le
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conclusioni di Hannah Arendt è di gran lunga il suo succinto verdetto della banalità del male. Ciò che Hannah Arendt intendeva, nel pronun-ciarlo, era che le mostruosità non hanno bisogno di mostri, che gli oltraggi esistono senza che vi siano personaggi oltraggiosi, e che il problema, a proposito di Eichmann, era precisamente nel fatto che secondo le valutazioni dei luminari su-premi della psicologia e della psichiatria lui, e insieme a lui numerosissimi suoi compagni di malefatte, non era né un mostro né un sadico ed era invece esorbitantemente, terribilmente, spaventosamente «normale». Littell ha solo in parte aderito alla insistita conclusione di Han-nah Arendt secondo cui Eichmann non era altro che un «robot senza volto e senz’anima». Fra gli studi più recenti che hanno seguito questa linea, L’effetto Lucifero di Philip Zimbardo, pubblicato nel 2007, si distingue per il fatto di essere uno studio raccapricciante e snervante incentrato su una serie di ragazze e ragazzi americani buoni, normali, simpatici e popolari che si trasforma-rono in mostri una volta giunti in una sorta di «terra di nessuno», nel lontano Paese dell’Iraq, e investiti della custodia di prigionieri imputati di cattive intenzioni e sospettati di appartenere a una marca inferiore di esseri umani, o di essere forse qualcosa di meno che umani.
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Come sarebbe sicuro e confortevole il mon-do, quanto sarebbe gradevole e amichevole se a perpetuare azioni mostruose fossero dei mo-stri e soltanto dei mostri. Contro i mostri siamo protetti piuttosto bene, e se fosse così potremmo sentirci garantiti da tutte le azioni delittuose di cui i mostri sono capaci e che minacciano di compiere. Disponiamo di psicologi per indivi-duare psicopatici e sociopatici, possiamo conta-re su sociologi in grado di dirci dove è probabile che si propaghino e si riuniscano, abbiamo giu-dici per condannarli e imprigionarli isolandoli, e poliziotti e psichiatri per esser certi che riman-gano in condizione di non nuocere. Ma, ahimè, le ragazze e i ragazzi americani di cui ci parla Zimbardo non erano né mostri né pervertiti. Se non fossero stati assegnati alla sorveglianza de-gli ospiti di Abu Ghraib, non avremmo mai sa-puto (né supposto, almanaccato, fantasticato) le cose spaventose che sono stati capaci di escogi-tare. Non sarebbe capitato di immaginare a nes-suno di noi che il volto sorridente della ragazza seduta alla cassa potesse, una volta assegnata oltremare, eccellere nell’inventare artifici sem-pre più creativi e fantasiosi, e al tempo stesso malvagi e perversi, per molestare, tormentare, torturare e umiliare le persone che le erano state affidate. Nel suo paese natale e in quelli dei suoi
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compagni, i loro vicini rifiutano di credere an-cora oggi che quegli amabili ragazzi e ragazze, che hanno conosciuto fin dalla loro più tenera età, siano le stesse persone ritratte come mostri nelle foto scattate nelle stanze della tortura di Abu Ghraib. Ma lo sono.
Nelle conclusioni che trae alla fine del suo studio psicologico di Chip Frederick, il sospetto leader e guida della banda di torturatori, Philip Zimbardo scrive che:
[…] non c’è assolutamente nulla nelle testi-monianze e nel suo passato, per quanto io sia riuscito a scoprire, che lasciasse prevedere che Chip Frederick avrebbe assunto qualunque forma di comportamento sadico o di abuso. Al contrario, tutta la sua storia precedente sug-gerisce che, qualora non fosse stato costretto a lavorare e a vivere in una situazione così anor-male, avrebbe potuto campeggiare sul mani-festo con cui l’esercito americano promuove nuovi reclutamenti.
In realtà, Chip Frederick avrebbe supera-to a pieni voti ogni test psicologico che sia dato immaginare, così come qualunque esame comportamentale routinariamente richiesto nella selezione di chi si candida alle occupazioni più
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responsabili e moralmente sensibili, come quelle dei tutori ufficiali e in uniforme della legge e dell’ordine. Nel caso di Chip Frederick e della sua più vicina e notoria compagna, Lyndie En-gland, potreste insistere (ancorché in modo con-trofattuale) che essi avessero agito obbedendo a un ordine e che fossero stati costretti a commet-tere atrocità che detestavano e aborrivano — che fossero insomma agnelli mansueti e non lupi pre-datori. In questo caso la sola accusa che potreste approvare nei loro confronti sarebbe quella di codardìa o di esagerato rispetto dei superiori; al massimo, quella di aver abbandonato troppo facilmente, senza nemmeno un mormorìo o una protesta, i principi che li avevano guidati nella loro vita «ordinaria» a casa loro. Ma che cosa si dovrebbe dire allora di chi si trovava in cima alla piramide burocratica? Di chi avrebbe dato gli ordini, costretto all’obbedienza e punito chi si era ritratto? Persone del genere devono essere state per certo dei mostri?
L’inchiesta sulle violenze di Abu Ghraib non ha mai raggiunto i vertici del comando militare americano; affinché gli alti gradi potessero essere trascinati in tribunale e processati per crimini di guerra, sarebbe stato imprescindibile che si tro-vassero dal lato degli sconfitti nella guerra che avevano intrapreso, il che non era… Ma Adolf
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Eichmann, che governava strumenti e procedure della «soluzione finale» del «problema ebraico» e che impartiva ordini ai suoi sottoposti, lui sì si trovava dal lato degli sconfitti, era stato cat-turato dai vincitori e portato davanti a un tribu-nale. C’era quindi un’occasione di sottoporre la «ipotesi del mostro» a un esame della massima accuratezza, finanche della più accanita metico-losità, e da parte dei membri più celebrati delle professioni psicologiche e psichiatriche. La con-clusione finale della più vasta e attendibile ricer-ca condotta risultò se non altro ambigua. Eccola, nelle parole di Hannah Arendt:
Mezza dozzina di psichiatri lo ha certifica-to come «normale» — «più normale, in ogni caso, di quanto non lo sia io stesso dopo averlo esaminato», si disse che uno degli esaminatori avesse esclamato, mentre un altro aveva rileva-to che il suo profilo psicologico globale, il suo atteggiamento verso la moglie e i figli, il padre e la madre, le sorelle e gli amici fosse «non solo normale ma il più desiderabile».
Il problema, occupandoci di Eichmann, era esattamente che così tanti altri che si erano macchiati di questi crimini fossero come lui e che non risultassero più perversi o sadici dei
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loro esaminatori poiché erano terribilmente, spaventosamente normali. Dal punto di vista delle nostre istituzioni giuridiche e del nostro criterio morale di giudizio, questa normalità era molto più inquietante di tutte quelle atro-cità messe assieme.1
Questa dev’essere stata la più agghiacciante delle scoperte: se non sono autentici orchi ma persone normali (sarei tentato di specificare: «persone come voi e come me») a commettere atrocità e a essere capaci di agire in modo per-verso e sadico, allora tutti i vagli che abbiamo inventato e utilizzato per distinguere i «porta-tori di disumanità» dal resto della specie umana sono stati menomati nella loro messa in pratica o malconcepiti fin dall’inizio — e sono certamente inefficaci. E quindi noi ci ritroviamo, per farla breve, privi di protezione (si sarebbe tentati di aggiungere: indifesi contro la nostra condivisa capacità morbosa). Impiegando la loro ingenuità al massimo grado e tentando con tutte le loro for-ze di «civilizzare» le modalità umane e i modelli di cui gli umani si valgono per stare insieme, i nostri progenitori, e anche coloro che fra noi
1 In italiano, si veda Hannah Arendt, Le origini del totali-tarismo, Torino, Einaudi, 2004.