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LE SOLUZIONI E LE LORO PROPRIETÀ – GLI ACIDI E LE BASI Una soluzione è una miscela omogenea di due o più sostanze, la cui separazione è realizzabile mediante cambiamenti di stato fisico; la sostanza presente in quantità maggiore è detta solvente, quella in quantità minore è definita soluto. Si ha una soluzione indipendentemente dallo stato fisico proprio, in condizioni normali, di ciascun componente, purché le particelle siano uniformemente disperse e le loro dimensioni non superino l’ordine di grandezza molecolare (d < 1 nm). La caratteristica essenziale delle soluzioni è rappresentata dal variare continuo delle proprietà al variare delle proporzioni fra gli elementi che le compongono, entro certi limiti più o meno ampi, ma definiti. Considerando i tre stati di aggregazione della materia (solido, liquido e gassoso) possono originarsi soluzioni fra due elementi che si trovino in uno qualsiasi di tali stati (soluzioni gas – gas, liquido – liquido, solido - solido, gas – liquido, gas – solido e solido – liquido), anche se le più comuni si formano fra un solido ed un liquido o fra due liquidi. I gas sono miscibili tra loro in ogni proporzione, dando luogo alla formazione di sistemi omogenei (es. l’aria che noi tutti respiriamo). Vere e proprie soluzioni solide sono rappresentate dalle leghe metalliche. Nel linguaggio quotidiano, e non solo, il termine soluzione viene utilizzato per indicare un sistema costituito da un solvente liquido e da un soluto solido, liquido o gassoso. Le soluzioni di un solido in un liquido sono sempre possibili, pur di scegliere l’opportuna sostanza liquida. La soluzione che si forma ha normalmente un volume minore della somma dei volumi dei singoli componenti e comporta un lavoro di disgregazione molecolare con relativo scambio di energia tra le diverse componenti del sistema. Affinché si formi una soluzione, devono essere vinte le forze di attrazione tra le molecole del soluto e quelle fra le molecole del solvente: tutto ciò richiede energia. Quando il soluto si scioglie, si instaurano nuove forze di attrazione tra le molecole del soluto e quelle del solvente: questo processo libera energia. La differenza di energia tra i passaggi appena descritti viene definita calore di soluzione. In base al valore di questo parametro, la formazione di una soluzione può avvenire con cessione di energia (NaOH) oppure con assorbimento di energia (NH4NO3). Il processo mediante il quale gli ioni o le molecole di un soluto sono circondati dalle molecole del solvente è detto solvatazione. Se il solvente è l’acqua, la solvatazione è definita idratazione. A seconda delle loro proprietà e della loro struttura, le sostanze si possono sciogliere nell’acqua attraverso tre meccanismi: per dissociazione, per solubilizzazione e per ionizzazione. Fattori che influenzano la velocità di solvatazione Così come per la velocità di reazione, anche la velocità di solvatazione dipende dalla frequenza e dall’energia delle collisioni che avvengono tra le particelle: in questo caso, tra le particelle del soluto e quelle del solvente. I fattori che influenzano la velocità di solvatazione sono: L’area superficiale del soluto: quanto maggiore è l’area superficiale che un soluto possiede, tanto più numerose saranno le collisioni tra le sue particelle e quelle del solvente. Poiché la solvatazione è un processo che avviene sulla superficie dei soluti, la stessa quantità di sostanza può essere solvatata più velocemente se la riduciamo in parti molto piccole piuttosto che in un unico campione di grosse dimensioni (Es. zucchero in polvere vs zolletta di zucchero, sale grosso vs sale fino). C’è nessuno?

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LE SOLUZIONI E LE LORO PROPRIETÀ – GLI ACIDI E LE BASI

Una soluzione è una miscela omogenea di due o più sostanze, lacui separazione è realizzabile mediante cambiamenti di statofisico; la sostanza presente in quantità maggiore è detta solvente,quella in quantità minore è definita soluto.

Si ha una soluzione indipendentemente dallo stato fisico proprio, incondizioni normali, di ciascun componente, purché le particellesiano uniformemente disperse e le loro dimensioni non superinol’ordine di grandezza molecolare (d < 1 nm).La caratteristica essenziale delle soluzioni è rappresentata dalvariare continuo delle proprietà al variare delle proporzioni fra glielementi che le compongono, entro certi limiti più o meno ampi,ma definiti.

Considerando i tre stati di aggregazione della materia (solido, liquido e gassoso) possonooriginarsi soluzioni fra due elementi che si trovino in uno qualsiasi di tali stati (soluzioni gas –gas, liquido – liquido, solido - solido, gas – liquido, gas – solido e solido – liquido), anche se lepiù comuni si formano fra un solido ed un liquido o fra due liquidi. I gas sono miscibili tra loroin ogni proporzione, dando luogo alla formazione di sistemi omogenei (es. l’aria che noi tuttirespiriamo). Vere e proprie soluzioni solide sono rappresentate dalle leghe metalliche.Nel linguaggio quotidiano, e non solo, il termine soluzione viene utilizzato per indicare unsistema costituito da un solvente liquido e da un soluto solido, liquido o gassoso.

Le soluzioni di un solido in un liquido sono sempre possibili, pur di scegliere l’opportunasostanza liquida.La soluzione che si forma ha normalmente un volume minore della somma dei volumi deisingoli componenti e comporta un lavoro di disgregazione molecolare con relativo scambio dienergia tra le diverse componenti del sistema. Affinché si formi una soluzione, devono esserevinte le forze di attrazione tra le molecole del soluto e quelle fra le molecole del solvente: tuttociò richiede energia. Quando il soluto si scioglie, si instaurano nuove forze di attrazione tra lemolecole del soluto e quelle del solvente: questo processo libera energia. La differenza dienergia tra i passaggi appena descritti viene definita calore di soluzione. In base al valore diquesto parametro, la formazione di una soluzione può avvenire con cessione di energia (NaOH)oppure con assorbimento di energia (NH4NO3).

Il processo mediante il quale gli ioni o le molecole di un soluto sono circondati dalle molecoledel solvente è detto solvatazione. Se il solvente è l’acqua, la solvatazione è definitaidratazione.A seconda delle loro proprietà e della loro struttura, le sostanze si possono sciogliere nell’acquaattraverso tre meccanismi: per dissociazione, per solubilizzazione e per ionizzazione.

Fattori che influenzano la velocità di solvatazione

Così come per la velocità di reazione, anche la velocità di solvatazione dipende dalla frequenzae dall’energia delle collisioni che avvengono tra le particelle: in questo caso, tra le particelledel soluto e quelle del solvente.

I fattori che influenzano la velocità di solvatazione sono:

L’area superficiale del soluto: quanto maggiore è l’area superficiale che un solutopossiede, tanto più numerose saranno le collisioni tra le sue particelle e quelle del solvente.Poiché la solvatazione è un processo che avviene sulla superficie dei soluti, la stessa quantitàdi sostanza può essere solvatata più velocemente se la riduciamo in parti molto piccolepiuttosto che in un unico campione di grosse dimensioni (Es. zucchero in polvere vs zollettadi zucchero, sale grosso vs sale fino).

C’è nessuno?

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L’agitazione della soluzione: mescolando continuamente, aumentiamo l’energia cineticadelle particelle del soluto e del solvente e, di conseguenza, le collisioni dovute ai moti caotici.Tutto ciò facilita la solvatazione dei solidi nei liquidi, mentre diminuisce quella dei gas, i quali,a causa dell’agitazione, hanno l’energia sufficiente per allontanarsi dalla soluzione.

La temperatura alla quale si forma la soluzione: un aumento della temperatura ha lostesso effetto dell’agitazione meccanica.

SOLUBILITÀ E CONCENTRAZIONE

La solubilità di una sostanza in un dato solvente è definita come la quantità massima(espressa in grammi o moli) che si scioglie, in condizioni di equilibrio con il corpo di fondo(particelle disperse, sospese, non sciolte), in un volume definito di solvente ad una datatemperatura.Spesso ci si riferisce alla solubilità come la massima quantità di soluto chesi può sciogliere in 100 g di un dato solvente ad una data temperatura.

Conoscere la solubilità di una sostanza ci aiuta a classificare le soluzioni inbase a quanto soluto contengono. Le soluzioni, a seconda delle quantità disoluto, sono classificate come sature, insature o sovrassature. Unasoluzione si dice:

Satura: se, ad una data temperatura ed in una certa quantità disolvente, non è possibile sciogliere ulteriore soluto. Quando unasoluzione è satura, se aggiungiamo altro soluto questo non si scioglie,ma si deposita come corpo di fondo.

Insatura: se, ad una data temperatura ed in una certa quantità disolvente, la quantità di soluto disciolto è minore della quantità necessariaaffinché la soluzione sia satura. In questo caso possiamo aggiungerulteriore soluto fino al raggiungimento della concentrazione disaturazione.

Sovrassatura: se, ad una data temperatura ed in una certa quantità disolvente, la quantità di soluto disciolto è maggiore della quantitànecessaria affinché la soluzione sia satura. Le soluzioni sovrassature sonoinstabili e tendono a raggiungere lo stato di soluzioni sature separandosoluto allo stato puro.

La solubilità di un certo soluto in un certo solvente dipende, oltre che dallecaratteristiche delle due sostanze, anche dalla temperatura e dalla pressione.

Proprietà del soluto e del solventeLa celebre frase "Il simile scioglie il simile" attribuita agli alchimisti medievali trovaspiegazione nella polarità ed apolarità delle molecole (ma vi sono anche i casi dicomplessazione, che richiedono trattazione a parte).Sostanzialmente un soluto è tanto più solubile in un solvente quanto più sono forti i legamiintermolecolari che forma con le molecole del solvente. Se i legami sono più deboli di quelliche il solvente forma con sé stesso esso sarà poco solubile o insolubile, mentre se sono piùforti sarà solubile, molto solubile o addirittura infinitamente solubile (ossia solubile inqualunque proporzione). Da ciò consegue che, in linea di principio, sostanze polari sarannosolubili in sostanze polari poiché i legami intermolecolari solvente - soluto sono più forti (o diforza comparabile) dei legami solvente - solvente e soluto - soluto. Lo stesso vale per lesostanze apolari.Quindi la condizione sufficiente, in prima approssimazione, per determinare la solubilità di unsoluto in un solvente è che i legami soluto - solvente non siano più deboli di quelli che ilsoluto od il solvente formano con sé stessi. Se, per esempio, abbiamo un sale ad alta polaritàsi potrà pensare che esso sarà solubile in acqua, dato che anche questo solvente è polare.

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Ma se i legami intermolecolari che il sale forma fra le sue molecole sono molto forti, ed inparticolare più forti di quello che forma col solvente, esso rimarrà legato con sé stesso (e quisi potrebbe considerare le probabilità relative che i legami di diversa forza hanno dirompersi).Esistono anche molecole che presentano caratteristiche sia polari che apolari (è il caso deglieteri) e che possono essere pertanto solubili in una certa misura sia in sostanze polari che insostanze apolari.

Aumento della temperaturaIn generale, all'aumento della temperatura aumenta lasolubilità delle sostanze solide, mentre diminuisce quelladelle sostanze gassose.Basti pensare ai mari tropicali, più caldi, che sono più"salati" di quelli glaciali, oppure alle diverse quantità dizucchero che si sciolgono nello stesso volume di acqua adiverse temperature. Non tutte le sostanze, però, hannocomportamenti analoghi riguardo alla dipendenza dellasolubilità dalla temperatura: ad esempio, la solubilità delcarbonato di litio in acqua diminuisce con l'aumentaredella temperatura.

Aumento della pressioneL'aumento di pressione provoca un aumento della solubilità, ma solamente nei gas. Secondola legge di Henry, infatti, la quantità di un gas che si scioglie in un liquido è proporzionalealla pressione parziale del gas a temperaturacostante.Nelle bevande gassate fino a quando la bottiglia èsigillata la maggior pressione interna permetteall'anidride di rimanere in soluzione, quando labottiglia viene aperta la diminuzione di pressionecomporta la rapida gassificazione dell'anidridedisciolta con la conseguente formazione dellebollicine.

La concentrazione di una soluzione è la quantità di soluto sciolto in una determinata quantitàdi solvente.La concentrazione può essere espressa in diversi modi:

percentuale in volume (% V/V) = (volume di soluto/volume di soluzione) 100

perc in massa su volume (% m/V) = (volume di soluto/volume di soluzione) 100

percentuale in massa (% m/m) = (massa di soluto/massa di soluzione) 100

molarità (M) = moli di soluto/volume di soluzione (L)

PROPRIETÀ COLLIGATIVE DELLE SOLUZIONI

Una soluzione molto diluita, nella quale non si manifestano interazioni fra molecole di soluto emolecole di solvente, si dice soluzione ideale; in questo caso si assume che il mescolarsidelle molecole di soluto e di solvente avvenga senza cambiamenti di volume e di contenutotermico.Per le soluzioni ideali valgono le cosiddette proprietà colligative: proprietà fisiche di unasoluzione che non dipendono dalla natura del soluto ma solo dal numero delle particellepresenti nella soluzione. Sono proprietà colligative di una soluzione l’abbassamento relativodella tensione di vapore, l’innalzamento ebullioscopico, l’abbassamento crioscopico e lapressione osmotica (Nei gas ideali sono proprietà colligative la pressione ed il volume).

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Le leggi che regolano queste proprietà sono valide per tutte quelle soluzioni diluite, in cui sianopresenti soluti non volatili che non si dissociano in ioni e non danno soluzioni solide con isolventi; spesso, però, sono anche utilizzate per ottenere risultati approssimati relativi asoluzioni reali, le quali vengono confrontate con le prime per valutarne il maggiore o minorescostamento dalle leggi valide nel caso teorico.

La legge di Rault

Anche in una soluzione ideale, la tensione di vapore (La pressione esercitata dalla fase divapore in equilibrio con la fase condensata) non è nulla e cambia al variare della composizionedella soluzione a temperatura costante.Indichiamo la frazione molare del solvente con X1 e con P°1 la tensione di vapore del solventepuro alla temperatura dell’esperimento. Quando X1 tende a zero (La miscela è costituita quasisoltanto da soluto puro), la tensione di vapore del solvente P1 deve anch’essa tendere a zero,poiché il solvente è praticamente assente. Dunque, al variare di X1 da 1 (solvente puro) a 0(soluto puro), la tensione di vapore del solvente passa da P°1 a 0.Il chimico francese Francois Marie Rault ha trovato che, per alcune soluzioni, il grafico dellatensione di vapore del solvente in funzione della frazione molare del solvente stesso èapprossimabile ad una retta, rappresentata dall’equazione:

P1 = X1 P°1

che è nota come legge di Rault. Le soluzioni che vi obbediscono sono dette soluzioni ideali,mentre quelle che si discostano da essa sono definite soluzioni non ideali. Queste ultimepossono mostrare sia deviazioni in positivo (Hanno tensioni di vapore maggiori di quellepreviste dalla legge) che in negativo (Con tensioni di vapore inferiori a quelle teoriche). Ledeviazioni negative sono dovute al fatto che le molecole di solvente e di soluto si attraggonocon particolare forza, ostacolando il passaggio alla fase di vapore del solvente; le deviazionipositive derivano da cause opposte: una ridotta attrazione tra soluto e solvente.La legge di Rault è alla base dell’interpretazione di tutte e quattro le proprietà colligative.

Abbassamento della tensione di vapore della soluzione rispetto al solvente puro

Secondo la legge di Rault, la tensione di vapore P di una soluzione ideale contenete le sostanze1, 2, 3, 4 ..., ad una data temperatura, è data dalla relazione:

P = X1P°1 + X2P°2 + X3P°3 + X4P°4 + ...

cioè dalla somma dei prodotti delle tensioni parziali delle sostanze pure per le rispettive frazionimolari.

Nel caso di una soluzione contenente un unico soluto nonvolatile la tensione di vapore coincide con quella del solvente:

P1 = X1P°1

Poiché , per una miscela a due componenti X1 = 1 – X2, lalegge di Rault può anche essere scritta come:

ΔP1 = P1 - P°1 = X1P°1 - P°1 = P°1(X1 – 1) = -X2 P°1

dalla quale risulta che la variazione della tensione di vapore èproporzionale alla frazione molare del soluto ed il segnonegativo indica un abbassamento della tensione di vapore.

Nelle soluzioni diluite, infatti, la tensione di vapore è sempre inferiore a quella del solventepuro.

Innalzamento ebullioscopico

La temperatura di ebollizione di un liquido puro

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o di una soluzione è la temperatura alla quale la tensione di vapore del liquido uguaglia lapressione esterna.Dal momento che l’aggiunta di un soluto ad un solvente puro ne abbassa la tensione di vapore,la temperatura di ebollizione di una soluzione risulterà maggiore rispetto a quella del solventepuro. Questo fenomeno viene definito innalzamento ebullioscopico ed è proporzionale allaconcentrazione molale (m = moli di soluto/kg di solvente) del soluto:

ΔTe = kem

ke è una costante che dipende esclusivamente dal solvente. Esso può essere spiegato ancheattraverso la maggiore energia richiesta per vincere le interazioni che si instaurano tra soluto esolvente e che si vanno ad aggiungere a quelle presenti nel solvente puro tra le sue stessemolecole.

Abbassamento crioscopico

La temperatura di solidificazione o di fusione è la temperatura alla quale la fase solida e quellaliquida coesistono, il che equivale a dire che le tensioni di vapore delle due fasi devono essereuguali al punto di fusione/solidificazione.

Dal momento che l’aggiunta di un solutoad un solvente puro ne abbassa latensione di vapore, anche la temperaturadi solidificazione/fusione di una soluzionerisulterà inferiore rispetto a quella delsolvente puro. Questo fenomeno vienedefinito abbassamento crioscopico ed èproporzionale alla concentrazione molale(m = moli di soluto/kg di solvente) delsoluto:

ΔTc = kcm

Kc è una costante che dipendeesclusivamente dal solvente. Esso puòessere spiegato come la difficoltà che il

solvente incontra a trasformarsi in solido a causa delle interazioni tra soluto e solvente, checompetono con l’instaurarsi di quelle tra le molecole del solvente e che sono necessarie perchéavvenga il passaggio di stato.

Pressione osmotica

Quando una soluzione è separata dal suo solvente mediante una membrana semipermeabile(Una membrana che permette il passaggio delle molecole di solvente ma non le molecole o gli

ioni del soluto) si verifica un flusso, attraverso lamembrana, di molecole di solvente verso lasoluzione. Questo fenomeno si chiama osmosi.La pressione che deve essere esercitata sullasoluzione per impedire il passaggio del solventenella soluzione si chiama pressione osmotica.Nel 1887 Jacobus Van’t Hoff scopri una relazionetra la pressione osmotica π, la concentrazione c ela temperatura assoluta T:

π = cRT da cui πV = nRT

IL PRODOTTO IONICO DELL’ACQUA ED IL pH DELLE SOLUZIONI ACQUOSE

Tutte le sostanze che, sciolte in acqua, formano ioni, sia per dissociazione sia per ionizzazione,

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sono definite elettroliti ed, a causa della presenza di ioni (cioè entità chimiche dotate dicarica), le soluzioni acquose di elettroliti conducono la corrente elettrica.Gli elettroliti sono classificati in forti e deboli a seconda che siano molto o poco dissociati e lacostante che regola il loro equilibrio è detta costante di dissociazione.

Allo stato puro l’acqua presenta una bassissima conducibilità elettrica, sintomo della presenzadi ioni al suo interno seppur in piccolissima quantità. L’acqua, infatti, è caratterizzata dalseguente equilibrio di dissociazione

H2O H+(aq) + OH-

(aq)

in cui viene mostrato come le molecole di acqua si dissocino in ioni idrogeno (H+) ed idrossido,od ossidrile, (OH-). Questa espressione, però, non è del tutto corretta, in quanto lo ioneidrossido non può esistere libero in presenza di acqua, poiché l’acqua lo cattura per formare loione idronio H3O+:

2 H2O H3O+(aq) + OH-

(aq)

Per ragioni di semplicità, spesso, si utilizza la prima espressione, sebbene imprecisa.La costante di equilibrio per il processo di dissociazione dell’acqua è data dall’equazione:

Keq = [H3O+] [OH-] / [H2O]2

Per le reazioni acquose, dato che la frazione di molecole d'acqua che all'equilibrio è allo statodissociato è piccolissima (soltanto due molecole di acqua su un miliardo), si considera costante(a 25°C e 1 atm) la concentrazione delle molecole di acqua non ionizzate. Quindi, si puòsemplificare l'equazione precedente moltiplicando entrambi i membri per tale concentrazioneed ottenere una costante di equilibrio che va sotto il nome di prodotto ionico dell'acqua (ocostante di ionizzazione o costante di dissociazione o costante di semiionizzazione),ed è espresso dalla relazione:

Kw = Keq [H2O]2 = [H3O+] [OH-] = 1,0 10-14

Il prodotto ionico dell’acqua è costante in tutte le soluzioni acquose. Questo significache, in una soluzione acquosa, all’aumentare della concentrazione degli ioni H3O+, si ha unadiminuzione degli ioni OH- e viceversa.Così, nota la concentrazione degli ioni H3O+ presenti in una soluzione acquosa è semprepossibile calcolare la concentrazione degli ioni OH-, e viceversa ovviamente, dalla relazione[H3O+] [OH-] = 1,0 10-14.

Concludendo, possiamo affermare che: in ogni soluzione acquosa esistono sempreconcentrazioni di ioni [H3O+] ed [OH-] tali da conservare il prodotto ionico dell’acqua.

Diremo inoltre che una soluzione acquosa è: neutra se le concentrazioni di [H3O+] ed [OH-] sono uguali ([H3O+] = [OH-] = 1,0 10-7); acida se la concentrazione degli ioni [H3O+] è maggiore di quella degli ioni [OH-]; basica se la concentrazione degli ioni [H3O+] è minore di quella degli ioni [OH-].

Poiché la concentrazione degli ioni H3O+ espressa mediante le potenze del 10 è scomoda dausare, i chimici preferiscono impiegare una scala logaritmica, nota come scala del pH, cheassume valori da 0 a 14:

pH = -log10 [H3O+]

Poiché il prodotto ionico dell’acqua deve rimanere costante, minore è il valore del pH, maggioresarà la concentrazione degli ioni H3O+ presenti in soluzione; viceversa, maggiore è il valore delpH, minore sarà la concentrazione degli ioni H3O+ presenti in soluzione. Questi ragionamentipossono essere fatti al contrario utilizzando la misura della concentrazione degli ioni OH-.Da quanto appena illustrato ricaviamo che le soluzioni acquose possono essere definite:

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neutre se il valore del pH = 7; acide se il valore del pH < 7; basiche se il valore del pH > 7.

L’EVOLUZIONE DEL CONCETTO DI ACIDO E DI BASE

Acidi e basi sono classi di composti chimici strettamente correlate che combinandosi dannoorigine ai sali. Precedentemente abbiamo definito l’acidità e la basicità facendo riferimento amisure sperimentali relative alla concentrazione degli ioni idronio ed ossidrile ([H3O+] e [OH-]);vediamo ora come, a livello teorico, si è evoluto il concetto di acido e di base.

Teoria acido – base di Arrhenius

La prima e più semplice definizione, sebbene incompleta, stabilisce che: gli acidi siano sostanze che in soluzione acquosa si dissocino liberando ioni idrogeno (H+); le basi siano sostanze che dissociandosi liberano ioni ossidrile (OH-).

Questa distinzione risale al chimico svedese S. A. Arrhenius (1859 – 1927), che la formulò aconclusione di studi riguardanti la dissociazione elettrolitica (cioè la scissione in ioni) deicomposti chimici in soluzione acquosa. Essa fà riferimento all’acqua ed al suo equilibrio didissociazione, descritto nel paragrafo precedente. L’acqua viene considerata neutra edebolmente dissociata; la distinzione tra acidi e basi risulta direttamente legata alladeterminazione del prodotto ionico della soluzione acquosa della sostanza in esame (il pH ècompreso tra 0 e 7 per gli acidi, da 7 a 14 per le basi).Questa teoria spiega come si possa ottenere una soluzione neutra mescolando in opportuneproporzioni un acido con una base. Spiega inoltre l’acidità degli acidi e la basicità degli idrossidiin base alle reazioni di dissociazione:

HCl → H+ + Cl- NaOH → Na+ + OH- H2SO4 → 2 H+ + SO42- Mg(OH)2 → Mg2+ + 2 OH-

Ma non spiega affatto la basicità dell’ammoniaca (NH3), che non avendo ossigeno non puòliberare ioni OH-, né l’acidità del diossido di carbonio (CO2), che non avendo idrogeno non puòliberare ioni H+. in seguito, queste osservazioni furono spiegate come conseguenza dellereazioni del composto acido o basico con l’acqua, ma tale spiegazione era valida solo se il

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solvente era l’acqua. Secondo l’entità maggiore o minore di dissociazione/ionizzazione in soluzione acquosa, acidi ebasi possono essere distinti in forti e deboli, rispettivamente: acidi e basi forti si presentano in soluzione acquosa completamente, o quasi, dissociati; acidi e basi deboli sono presenti in soluzione acquosa prevalentemente indissociati.

Gli acidi si distinguono in acidi ossigenati (contenenti ossigeno: es. HNO3) ed idracidi (prividi ossigeno: es. HCl). In base al numero di atomi di idrogeno ionizzabili, si possono dividere inmonoprotici (es. HClO) e poliprotici (H2SO4 è diprotico, mentre H3PO4 è triprotico).Analogamente le basi si possono classificare secondo il numero di OH- che rilasciano insoluzione.

Le titolazioni

Una titolazione è un’operazione chimica effettuata nell’analisi quantitativa allo scopo dideterminare la quantità di sostanza contenuta in una soluzione (concentrazione o titolo).Consiste nell’aggiungere alla soluzione con concentrazione incognita del componente che sivuole dosare, una soluzione a concentrazione nota di un opportuno reattivo, scelto in modo chereagisca stechiometricamente e rapidamente con la sostanza da dosare e la sua aggiunta cessiesattamente alla fine della reazione, nel cosiddetto punto di equivalenza (volume disoluzione titolante che contiene esattamente lo stesso numero di grammi equivalenti dellasoluzione di cui vogliamo individuare la concentrazione), spesso reso più evidente dall’impiegodi indicatori (sostanze in grado di subire una reazione che comporta un notevolecambiamento di colore, viraggio, facilmente apprezzabile dall’analista, non appena vieneraggiunto il punto di equivalenza).Dalla conoscenza della reazione che ha avuto luogo e misurando il volume di reattivo aggiunto,si risale con facilità, attraverso il calcolo stechiometrico, alla quantità di sostanza da dosare.Poiché, in definitiva, è necessario compiere la misura basandosi su volumi, tutta la brancadell’analisi chimica che si basa sulle titolazioni prende il nome di volumetria.

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REAZIONI CHIMICHE ED EQUAZIONI CHIMICHE

Una reazione chimica è un processo di trasformazione della materia nella qualegli atomi, pur restando inalterati, si legano o si distribuiscono in modo diverso daquello originario, formando così sostanze diverse da quelle di partenza. In unareazione chimica, le sostanze presenti prima che la reazione abbia luogo sonochiamate reagenti, mentre quelle che si formano sono dette prodotti.In generale, si dice che una sostanza sta partecipando ad una reazione chimicaquando si trasforma in un’altra.

Per poter capire che cosa sia una reazione chimica, prima di tuttodobbiamo essere in grado di descriverla. Una buona descrizione diuna reazione chimica deve raccontare quali sostanze sono presentiprima della reazione e quali dopo. Ciò è reso possibile dall’impiegodi simboli e di numeri che vengono ordinati come in un’equazionematematica, definita equazione chimica. Il primo ad utilizzarequesto tipo di rappresentazione fu Antoine Lavoisier.Un’equazione chimica è una notazione utilizzata per descrivereuna reazione chimica, fornendo una relazione tra le quantità dellesostanze che vi partecipano. Essa esprime il principio, o legge, diconservazione della massa: “Il numero di atomi o di moli dellesostanze che si trovano a sinistra del segno di uguaglianza deveessere uguale al numero di atomi o di moli che si trovano a destra.”Ciò equivale a dire che “In ogni procedimento chimico la quantità dimateria prima e dopo il procedimento rimane la stessa.”Le reazioni chimiche vengono rappresentate mediante equazioni del tipo

aA + bB cC + dD

alla sinistra compaiono le sostanze (A, B) che prendono parte alla reazione (reagenti) ed alladestra le sostanze (C, D) che si formano nella reazione (prodotti);

le lettere a, b, c, d indicano il numero di molecole o di atomi o di moli che prendono partealla reazione e sono definite coefficienti stechiometrici;

tra i reagenti ed i prodotti viene interposta una freccia ( ) o, più raramente un segno diuguale (=), indicante il verso di svolgimento della reazione;

nel caso in cui le reazioni chimiche siano reversibili, possano cioè procedere in entrambi iversi, si interpongono due frecce ( ) tra reagenti e prodotti.

Un’equazione chimica, in cui compaiono a sinistra del segno di reazione le formule dei reagentied a destra quelle dei prodotti, ha un significato qualitativo: indica cioè che i reagenti sitrasformano, in determinate condizioni sperimentali, nei prodotti della reazione.Perché l’equazione chimica acquisti anche un significato quantitativo è necessario far precederele formule chimiche dagli opportuni coefficienti stechiometrici, affinché sia rispettata la legge diconservazione della massa, cioè, l’equazione chimica deve essere bilanciata. Questosignifica che i coefficienti stechiometrici devono essere tali che il numero di atomi di ciascunelemento sia lo stesso sia a destra sia a sinistra dell’equazione; essi, inoltre, devono esserenumeri interi ed i più piccoli possibili; il rapporto tra di essi è definito rapportostechiometrico.I coefficienti stechiometrici in una reazione chimica rappresentano il numero minimo dimolecole che possono prendere parte alla reazione.

Regole per bilanciare correttamente equazioni chimiche

Esaminiamo, come esempio, la reazione di combustione del butano in presenza di ossigeno performare il diossido di carbonio e l’acqua.

Scrivere correttamente le formule molecolari dei reagenti e dei prodotti.

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CH3CH2CH2CH3 + O2 CO2 + H2O

Assegnare 1 come coefficiente di una specie, preferibilmente a quella più complessa con ilnumero più alto di elementi (Il coefficiente unitario, generalmente, non viene indicato).

1CH3CH2CH2CH3 + O2 CO2 + H2O

Identificare, in sequenza, gli elementi che appaiono in una sola specie di cui non è statodeterminato il coefficiente e scegliere il valore che bilancia il numero di atomi (moli di atomi)di quell’elemento; proseguire fino ad identificare tutti i coefficienti.

1CH3CH2CH2CH3 + O2 4CO2 + H2O (bilanciamento degli atomi di carbonio)1CH3CH2CH2CH3 + O2 4CO2 + 5H2O (bilanciamento degli atomi di idrogeno)

1CH3CH2CH2CH3 + 13/2O2 4CO2 + 5H2O (bilanciamento degli atomi di ossigeno)

Moltiplicare tutta l’equazione per il più piccolo numero intero che elimina ogni coefficientefrazionario.

2CH3CH2CH2CH3 + 13O2 8CO2 + 10H2O

Durante il bilanciamento dei coefficienti stechiometrici, non bisogna mai modificare gli indicidi formula dei composti (I pedici ai simboli degli elementi), perché cambiarli significherebbecambiare l’identità dei reagenti e dei prodotti.

Di seguito sono elencati alcuni esempi di bilanciamento di equazioni chimiche:

Li + O2 Li2O 4Li + O2 2Li2O Al + O2 Al2O3 4Al + 3O2 2Al2O3

Al2O3 + H2O Al(OH)3 Al2O3 + 3H2O 2Al(OH)3

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LA STRUTTURA ATOMICA

L’atomo [dal greco ἄτομος - àtomos -, indivisibile, unione di ἄ - a –(alfa privativo) + τομή - tomé – (divisione)] è la più piccola parte di unelemento che conserva le proprietà chimiche dell’elemento stesso. Allostato attuale della conoscenza, l’atomo rappresenta l’unità base dellamateria ed è costituito da un nucleo denso e carico positivamente,posto al centro, circondato da una nuvola di elettroni carichinegativamente. Tutte le sostanze sono costituite da atomi che si uniscono tra di loro in molecole; lastraordinaria varietà della materia è dovuta alla combinazione di poche specie atomiche (glielementi conosciuti sono 118).

Il concetto di atomo come entità indivisibile, da cui il nome, venne elaboratonell’antica Grecia in ambito filosofico. I filosofi greci proposero due teorie per spiegare lamateria su scala microscopica: Secondo Empedocle (Agrigento, 490 a.C.

circa – 430 a.C. circa), Platone (Atene, 428a.C. – Atene, 348 a.C.) ed Aristotele (Stagira,384 a.C. – Calcide, 322 a.C.), gli elementi(fuoco, aria, acqua, terra), di cui è costituitala materia, sono delle qualità continue che simescolano, con l'aiuto delle forze dell'Amore edell'Odio, per formare le sostanze con le loroproprietà. Questo punto di vista considera lamateria divisibile senza limiti.

L’altro punto di vista, sostenuto dai filosofi Leucippo (Mileto, inizio-prima metà del V secoloa.C. – terzo quarto del V secolo a.C.), Democrito (Abdera, 460 a.C. – 360 a.C.) ed Epicuro(Samo, 341 a.C. – Atene, 271 a.C.) (definiti per tale motivo “atomisti”), ipotizza l’esistenzadegli atomi come limite inferiore oltre il quale la materia non può essere suddivisa.Secondo questi filosofi esistono numerosi atomi, ciascuno con specifiche caratteristiche, incontinuo movimento, dalla cui unione traggono origine la materia e la vita e dalla cuiseparazione deriva la degradazione della materia e la morte.

I filosofi greci, tuttavia, rimasero fermi alla formulazione delle ipotesi senza procedere alla loroverifica sperimentale.

Affinché vengano mossi i primi passi verso la comprensione della naturamicroscopica della materia bisogna attendere il XVIII ed il XIX secolo. Ilvero progresso poté essere realizzato solo dopo che l’utilizzo dellabilancia, per controllare le masse dei reagenti e dei prodotti di unareazione chimica, divenne una prassi comune, grazie al chimico franceseAntoine Lavoisier (Parigi, 26 agosto 1743 – Parigi, 8 maggio 1794). Egli scaldò del mercurio in una beuta sigillata contenente anche dell’aria.Dopo alcuni giorni si era prodotta una sostanza rossa, l’ossido di mercurio(HgO). La massa del gas rimasto nel recipiente era minore ed esso nonera in grado di sostenere una combustione o la vita: una candela accesasi spegneva e gli animali messi a contato con esso soffocavano. Oggi

sappiamo che il gas residuo era azoto e che l’ossigeno presente nell’aria aveva reagito con ilmercurio. Lavoisier prese una quantità accuratamente pesata della sostanza rossa e poi lascaldò. In seguito, pesò il mercurio liquido ed il gas che si era prodotto e riuscì a dimostrareche la somma delle loro masse era identica a quella dell’ossido iniziale. Dopo ulterioriesperimenti Lavoisier poté formulare la legge della conservazione della massa:

“In ogni procedimento chimico la quantità di materia prima e dopo il procedimento rimane lastessa.” Ciò equivale a dire che “in una reazione chimica la massa non può essere né creata nédistrutta”.

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Lavoisier fu anche il primo ad utilizzare un’equazione algebrica per rappresentare una reazionechimica. Nell’esempio sopra descritto abbiamo:

2HgO 2Hg + O2

Sempre un chimico francese, Joseph Proust (Angers, 26 settembre 1754 – Angers, 5 luglio1826), formulò la fondamentale legge delle proporzioni definite:

“In un dato composto chimico i rapporti in massa degli elementi di cuiesso è costituito sono costanti, indipendentemente dall’origine delcomposto o dal modo di preparazione.” Questo è vero perché “quandodue sostanze si combinano/reagiscono per formare un composto, le loromasse si combinano in proporzioni definite e costanti”.

Proust giunse a questa legge osservando che quando si facevano reagiredue sostanze, se una delle due era presente in eccesso, l’andamento dellareazione non cambiava; la massa in eccesso non reagiva e si trovava allafine della reazione, insieme al prodotto di reazione. Tale eccesso si

formava solo quando uno dei due reagenti aveva reagito completamente. Da ciò egli stabilì cheil rapporto tra le masse dei reagenti, detto rapporto di combinazione, dovesse essere costanteindipendentemente dalle quantità iniziali dei reagenti stessi.

Gli studi dello scienziato inglese JohnDalton (Eaglesfield, 6 settembre 1766 –Manchester, 27 luglio 1844) fornironol’evidenza sperimentale dell’esistenza degliatomi, così come avevano ipotizzato oltreduemila anni prima i filosofi greci definitiatomisti. Egli riuscì a dimostrare che lerelazioni tra le masse osservate da Lavoisiere Proust potevano essere interpretate inmodo semplice postulando l’esistenza degliatomi dei vari elementi. Nel 1808, eglipubblicò il testo “Un nuovo sistema difilosofia chimica”, all’interno del quale sonoracchiusi i principi della teoria atomicadella materia secondo Dalton:

tutta la materia è costituita da particelle singole chiamate atomi che non possono esseresuddivise in porzioni più piccole;

tutti gli elementi sono composti da atomi; tutti gli atomi dello stesso elemento hanno la stessa massa e le stesse proprietà e gli atomi

di elementi diversi hanno masse e proprietà diverse; i composti contengono atomi di uno o più elementi; in un particolare composto, gli atomi si combinano sempre nello stesso modo; gli atomi sono indistruttibili e mantengono la loro identità nelle reazioni chimiche; non

possono essere né creati né distrutti e nemmeno essere trasformati gli uni negli altri. in questo modello gli elementi sono rappresentati come sfere solide, caratterizzate da una

massa ben precisa e diversa dalle altre.

Dalton notò che due elementi possono combinarsi tra loro secondo rapporti differenti, dandoorigine a due o più composti differenti, sebbene costituiti dagli stessi elementi. Per esempio,quando il carbone brucia e si combina con l’ossigeno dell’aria in un ambiente chiuso, si produceun gas molto velenoso, il monossido di carbonio (CO); se invece il carbone brucia all’ariaaperta, si forma un gas con caratteristiche diverse, il diossido di carbonio detto anche anidridecarbonica (CO2). Analogamente esistono diversi ossidi di ferro (FeO, Fe2O3), rame e così via.

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In base a queste osservazioni, Dalton enunciò una regola generale che estende il campo diapplicazione della legge di Proust a tutti i composti; essa è nota come legge di Dalton olegge delle proporzioni multiple:

“Le masse di un dato elemento, che si combinano con la stessa quantità di un altro elementoper dare origine a composti diversi, stanno tra loro in un rapporto che è espresso da numeriinteri, generalmente piccoli.”

Negli esempi precedenti abbiamo per CO ed FeO che O/C ed O/Fe è uguale ad 1; per CO2 O/Cè uguale a 2. Nel caso di Fe2O3 il rapporto O/Fe è uguale ad 1,5 ma essendo gli atomiindivisibili si dovranno moltiplicare per 2 entrambi i coefficienti.Da ciò deriva la possibilità di rappresentare la molecola di un composto con una formulachimica, oppure mediante un modello a sferette in cui ogni sferetta rappresenta un atomo.Una formula chimica è la rappresentazione schematica della composizione qualitativa equantitativa di un composto chimico. Nelle formule chimiche gli elementi contenuti nellamolecola sono indicati con i loro simboli, affiancati da un numero, in basso a destra, cheesprime il numero degli atomi di quell’elemento presenti nella molecola del composto. Questeformule sono anche dette formule brute, grezze o molecolari in quanto non dannoinformazioni sulla reale disposizione degli atomi nel composto.

Il modello atomico di Thomson

Se un gas è posto in un tubo di vetro sigillato tra due placche conduttrici(anodo e catodo) e tra esse viene applicata una differenza di potenzialeelettrico sufficientemente alta, si osserva un passaggio di corrente elettrica trale due placche metalliche (analogamente alla scarica elettrica di un fulmineattraverso l’aria).Il fisico britannico Joseph John Thomson (Cheetham, 18 dicembre 1856 –Cambridge, 30 agosto 1940) condusse una serie di esperimenti volti a capireda dove si originasse la corrente elettrica osservata e le proprietà delle entitàche la trasportavano da un punto all’altro dello spazio. Egli osservò che imisteriosi trasportatori della carica, chiamati raggi catodici, viaggiavano

secondo traiettorie rettilinee e producevano un punto luminoso dove urtavano nel tubo divetro. I raggi catodici venivano deviati sia da forze elettriche (erano allontanate da una placcacarica negativamente ed attratte da una carica positivamente) che magnetiche ed erano ingrado di scaldare, fino all’incandescenza, un foglio di metallo contro cui venivano “sparate”. Inbase a tali evidenze sperimentali Thompson concluse che i raggi catodici erano dovuti ad unflusso di cariche negative, provenienti dall’interno degli atomi di metallo, che furono chiamateelettroni. Questi esperimenti fornirono la prima prova del fatto che gli atomi sono costituiti da particellepiù piccole. Da ciò egli propose un nuovo modello atomico, formulato nel 1898, in cui siammetteva che l'atomo, piuttosto che la sferetta solida e compatta ipotizzata da Dalton,fosse un aggregato di particelle più semplici. Alla luce dei pochi dati sperimentali in suopossesso, J.J.Thomson ipotizzò che l'atomo fosse costituito da una sfera omogenea

carica positivamente incui gli elettroni eranodistribuiti in manierauniforme e senza unadisposizione spazialeparticolare (come gliacini di uvetta in unpanettone). Tale modelloè conosciuto anche come“modello a panettone”.

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Il modello atomico di Rutherford

Nel 1899 lo scienziato neozelandese Ernest Rutherford (Brightwater, 30agosto 1871 – Cambridge, 19 ottobre 1937) scoprì che l’uranio emettevaparticelle veloci con carica positiva, che chiamò particelle alfa.Un decennio più tardi, egli chiese ad un suo studente, Ernest Marsden, distudiare che cosa accadeva quando queste particelle venivano utilizzate perbombardare una sottile lamina d’oro; uno schermo rivelatore indicava poi ipunti di arrivo della particelle alfa, permettendo quindi di stabilirne latraiettoria dopo il passaggio attraverso la lamina.

Se fosse stato valido il modello di Thomson, cioè se l'atomo avesse avuto una strutturaomogenea, la particelle alfa avrebbero dovuto comportarsi tutte nello stesso modo, perché inqualunque punto avessero colpito la lamina metallica avrebbero trovato situazioni equivalenti.In realtà, le particelle alfa si comportarono in modo diverso: per la maggior parte passaronosenza subire nessuna deviazione, ma alcune vennero deviate secondo vari angoli e alcunevennero addirittura respinte. In base a questi dati Rutherford ipotizzò che: Poiché le particelle α nella maggior parte dei

casi oltrepassavano la lamina d'oro senzasubire deviazioni, significava che nonincontravano alcun ostacolo sul propriocammino e che quindi, l'atomo dovevaessere formato prevalentemente daspazio vuoto.

Poiché in qualche caso le particelle α venivanodeviate ed in rarissimi casi venivano riflesse,l'intera carica positiva (protoni)dell'atomo doveva essere concentrata inun "nocciolo" piccolissimo e centrale: ilnucleo.

Gli elettroni negativi dovevano muoversilungo orbite circolari. Il diametro delnucleo doveva essere molto più piccolodel diametro dell'atomo.

Questo modello atomico è detto “modelloplanetario”, poiché ricorda, in miniatura, ilSistema Solare in cui il sole rappresenta ilnucleo dell'atomo e i pianeti gli elettroni, che si muovono, lungo le proprieorbite attorno al sole (nucleo dell'atomo).Anche se geniale, il modello atomico di Rutherford non teneva conto di unimportantissimo dato sperimentale della fisica: una particella inmovimento elettricamente carica perde incessantemente energia. Poichéciò deve valere anche per l'elettrone (carico negativamente), essoperdendo via via energia avrebbe finito per muoversi lungo orbite semprepiù piccole, fino a cadere sul nucleo.

Il modello atomico di Bohr

Niels Bohr (Copenaghen, 7 ottobre 1885 – Copenaghen, 18 novembre1962), un fisico danese che lavorò con Rutherford alla comprensione dellastruttura atomica, partendo dal precedente modello planetario, concentrò isuoi studi sugli elettroni cercando di fornire una descrizione di come essi sidisponevano intorno al nucleo, senza però contraddire le leggi della fisica.Egli esaminò le emissioni elettromagnetiche dell'atomo di idrogeno quandostimolato chimicamente, notando che l'idrogeno emetteva una serieparticolare e ben definita di onde luminose. Studiando il valore energeticodelle emissioni si accorse che queste erano "quantizzate" (cioè la quantità di

energia emessa assumeva valori ben definiti), esattamente come descritto da Planck nei suoi

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lavori. Poiché tali variazioni energetiche venivano attribuite ai cambiamenti di energia deglielettroni, significava che gli elettroni potevano presentare solo "livelli di energia" ben definiti.Da questo Bohr dedusse che l'atomo di idrogeno poteva avere solo orbite ben definite, allequali attribuire un particolare livello energetico.Secondo la sua teoria, fornendo sufficiente energia all'elettrone (uno o più quanti di energia),esso può saltare verso una orbita superiore assorbendo l'energia ricevuta, per poi ritornaredopo un certo tempo alla sua orbita originaria, rilasciando però l'energia assorbitaprecedentemente, sotto forma di onda elettromagnetica (in questo caso luce, quanti di luce).

A seguito dei suoi studi Bohr presentò nel 1913, al Consiglio Solvay, la sua teoriaquantistica dell'atomo che si rifaceva al modello atomico di Rutherford, ma con alcunemodifiche essenziali: L' atomo consiste in un nucleo di carica positiva

intorno al quale ruotano gli elettroni di caricanegativa che percorrono orbite stazionarie, nonequidistanti da esso. L'elettrone non può ruotaresu orbite qualsiasi ma su orbite fisse privilegiate,corrispondenti ai vari livelli di energia; ci sonoinfiniti livelli possibili.

Se l'elettrone persiste nel ruotare su queste orbiteprivilegiate non emette energia nonostante la suaaccelerazione e la frequenza di rotazione.

L'elettrone può saltare spontaneamente, oppure inseguito ad assorbimento di energia, da un livelloenergetico all'altro.

La frequenza della radiazione emessa o assorbitanel salto è legata al "quanto" di energia dallaformula:

E = h

dove “h” è la costante di Planck (6,62617610-34

Js) e “” è la frequenza della radiazione emessa oassorbita.

Le proprietà chimiche dell'atomo sonodeterminate dal numero di elettroni che occupanoil livello energetico più esterno.

Da questo momento in poi il modello atomico inizia ad essere modificato e completato secondola nascente meccanica quantistica.

La scoperta del neutrone avvenne nel 1932 per opera del fisico inglese SirJames Chadwick (Bollington, 20 ottobre 1891 – Cambridge, 24 luglio1974). Essa rappresentò un passo molto importante nello studio dei nucleiatomici. Chadwick bombardando sottili lamine di berillio (Be) con particelle αemesse dal polonio (Po), scoprì che dal berillio venivano emesse delleradiazioni secondarie che non risentivano né di un campo elettrico né di uncampo magnetico. Ripetendo l'esperimento su molti altri materiali, dimostròche tali raggi erano costituiti da particelle aventi tutti la stessa massa,indipendentemente dal materiale usato, ma prive di carica elettrica e,pertanto, dette neutroni.

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Il modello della nuvola elettronica

Come i modelli precedenti, anche il modello di Bohr è stato modificato grazie a scopertescientifiche successive. Bohr nel suo modello, aveva introdotto l'ipotesi della quantizzazione,ma per il resto aveva trattato l'elettrone come una particella classica, che si muove su orbiteben determinate, stazionarie, il cui raggio può essere calcolato in base a sempliciconsiderazioni meccaniche sulle forze in gioco.La fisica classica è in grado di descrivere la realtà solamente ad un livello approssimato. Taleapprossimazione è impercettibile quando le dimensioni dei sistemi descritti sono ordinarie,cioè, macroscopiche, ma diventa inaccettabile quando si cerca di descrivere sistemi aventidimensioni atomiche o subatomiche. Questo è il motivo per cui la limitatezza delle leggi dellafisica classica è emersa solo in tempi relativamente recenti, dopo che le tecniche sperimentalisi sono evolute al punto da consentire lo studio di sistemi microscopici, come gli atomi e lemolecole. In seguito alle fondamentali scoperte avvenute negli ultimi cento anni, la meccanicaclassica ha lasciato il posto alla meccanica quantistica (vedi scheda di approfondimento). La meccanica quantistica si distingue in maniera radicale dalla meccanica classica inquanto si limita a esprimere la probabilità di ottenere un dato risultato a partire dauna certa misurazione, rinunciando così al determinismo assoluto proprio della fisicaprecedente. Questa condizione di incertezza o indeterminazione non è dovuta ad unaconoscenza incompleta, da parte dello sperimentatore, dello stato in cui si trova ilsistema fisico osservato, ma è da considerarsi una caratteristica intrinseca, delsistema e del mondo subatomico in generale.

Oggi gli scienziati sanno che gli elettroni non si comportano come lecose che ci sono familiari nel nostro mondo macroscopico e che quandodevono prevedere la posizione ed il movimento di un elettronepossono farlo solo in termini probabilistici.Gli scienziati, infatti, per descrivere quali sono le posizioni più probabili incui si può trovare un elettrone che si muove intorno ad un nucleo,utilizzano il modello della nuvola elettronica, secondo il quale glielettroni non si muovono lungo orbite lineari e stazionarie ma, taleconcetto deve essere sostituito con quello di distribuzione(stazionaria) di probabilità: un elettrone si può, cioè, trovare con una determinataprobabilità in ogni punto attorno al nucleo e le zone dello spazio dove la probabilità èmaggiore corrispondono alle orbite; la descrizione matematica di tali distribuzioni spazialiè fornita da equazioni matematiche molto complesse (equazione di Schrödinger) definitefunzioni d’onda.

La nuvola elettronica, che circonda il nucleo di un atomo,rappresenta l’insieme degli orbitali di quell’atomo, dove perorbitale si intende uno spazio, caratterizzato da formaed energia caratteristiche, all’interno del quale èmassima la probabilità di trovarvi l’elettrone.

Gli elettroni non si sistemano casualmente nei livellienergetici e negli orbitali poiché ogni livello energeticoha un determinato numero di orbitali. Ogni livelloenergetico è identificato da un numero intero positivo,detto numero quantico principale “n”, che assumevalori positivi 1, 2, 3, 4, ...

Il valore di n = 1 corrisponde al livello più interno, ad energia più bassa, che è il livellofondamentale. All’aumentare del valore di n aumenta l’energia che l’elettrone deve avere perrimanere nel corrispondente livello.Ciascun livello energetico può essere ulteriormente suddiviso in diversi sottolivelli,caratterizzati da orbitali di diverse forme e valori di energia; tali orbitali vengonoindicati con le lettere s, p, d, f, ...Quelli di tipo s hanno simmetria sferica intorno al nucleo atomico e per ogni livello energeticone esiste solo uno; quelli di tipo p, sono tre per ogni livello energetico, si presentano con duelobi (uno positivo ed uno negativo) e possono avere gli assi di simmetria in tre direzioni tra

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loro ortogonali, per cui vengono indicati come orbitali di tipo px, py, pz; quelli di tipo d sonocinque e quelli di tipo f sette.

Per quanto riguarda la distribuzione deglielettroni negli orbitali, valgono tre regolefondamentali: Principio di esclusione di Pauli: ogni

orbitale può contenere al massimo dueelettroni; poiché gli elettroni ruotano sul loroasse, all’interno dell’orbitale essi sidispongono in maniera tale da ruotare uno inun verso e l’altro in quello opposto.

Principio dell’aufbau: gli elettroni tendonoad occupare gli orbitali liberi riempiendoli conun elettrone alla volta, cominciandodall’orbitale a più bassa energia.

Regola di Hund: quando sono liberi piùorbitali a parità di energia, gli elettroni, acausa della repulsione elettrostatica, sidispongono il più lontano possibile l’unodall’altro, in maniera tale che in ogni orbitaledello stesso livello energetico sia presente unsolo elettrone; in queste condizioni glielettroni tendono a disporsi con lo stessoverso di rotazione. Solo quando in ogniorbitale dello stesso livello energetico saràpresente un elettrone i rimanenti inizieranno asaturare gli orbitali, partendo sempre daquello a più bassa energia.

La configurazione elettronica di un elementoesprime il modo in cui gli elettroni di quell’elemento si dispongono nei suoi orbitali. Essa siottiene indicando tutti i suoi orbitali e rispettando le regole descritte sopra. Per rappresentareun singolo orbitale, si deve indicare prima il livello energetico, cioè il numero quantico n, poi iltipo di sottolivello al quale appartiene (s, p, d, f, ...) ed infine quanti elettroni (uno o due)l’orbitale contiene.

e non

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Il guscio elettronico più esterno (caratterizzato dal massimo valore di n per un certo atomo)viene detto guscio di valenza ed i suoi elettroni, elettroni di valenza. Gli elettroni dei guscipiù interni sono in media più vicini al nucleo ed hanno energie più basse degli elettroni divalenza; essi vengono definiti elettroniinterni o di core. Un atomo a gusciochiuso presenta il guscio più esternocompletamente pieno di elettroni, percui ogni eccitazione richiede una grandequantità di energia; conseguentemente,tali atomi risultano molto stabili (es. igas nobili). Come si può notaredall’immagine accanto, nellaconfigurazione elettronica dei varielementi, gli elettroni interni vengonorappresentati con il simbolo del gasnobile del periodo precedente.La configurazione elettronica più stabileè quella in cui gli elettroni si sistemanonegli orbitali a più bassa energia.Quando tutti gli elettroni di un atomohanno la più bassa energia possibile, sidice che l’atomo è nel suo statofondamentale.Se un atomo, nel suo statofondamentale, assorbe una quantità dienergia sufficiente (E = h), uno deisuoi elettroni può spostarsi verso unorbitale di un livello energetico adenergia più alta e la configurazioneelettronica risultante è detta statoeccitato. Uno stato eccitato è molto meno stabile di uno stato fondamentale e l’atomo tenderàa ritornare nella condizione più stabile. Quando un elettrone passa da uno stato eccitatoad un livello energetico più basso viene emessa energia (E = h) sotto forma diradiazione elettromagnetica.

Le proprietà chimiche degli atomi possono essere spiegate completamente dalcomportamento degli elettroni dello strato esterno, cioè di quello che ha un legame piùdebole con il nucleo. Sono infatti gli elettroni di valenza che partecipano alla formazionedei legami tra gli atomi di una molecola costituendo nuovi orbitali, definiti orbitalimolecolari, che interessano più nuclei anziché uno soltanto.In ogni atomo il guscio di valenza non possiede mai più di otto elettroni; gli elementiche ne hanno otto (ottetto completo) o eccezionalmente due (come nel caso dell’elio) sono icosiddetti gas nobili (elio, neon, argo, cripto, xeno, rado), i quali sono zerovalenti, ossiareagiscono molto raramente.

Gli atomi degli altri elementi hanno sempre la tendenza ad assumere una strutturaelettronica analoga a quella dei gas nobili, cioè ad ospitare nel loro guscio più esternootto elettroni (“Regola dell’ottetto”); questo è possibile perché, in opportune condizioni,gli atomi tendono a cedere o ad acquistare elettroni.In seguito a questi movimenti di elettroni, l’equilibrio degli atomi coinvolti viene perturbato dalmomento che la carica elettrica positiva del nucleo resta invariata. Ciò può determinare lapolarizzazione degli atomi, ovvero la comparsa di una carica elettrica positiva o negativa sudi essi a seconda della loro capacità di attrarre gli elettroni coinvolti nel legame chimico. Allimite, gli atomi possono trasformarsi in unità indipendenti, con carica (positiva o negativa)pari a quella dell’elettrone o multipla di essa; queste nuove entità vengono definite ioni. Gliioni, a loro volta, possono essere distinti in anioni (se hanno acquistato elettroni e quindi sonocorichi negativamente) o cationi (se hanno perso elettroni e di conseguenza hanno una caricapositiva).

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Nelle pagine precedenti abbiamo visto come, nel corso dei secoli, le conoscenze sulla strutturadell’atomo siano divenute sempre più ampie e ci abbiano condotto al modello attualmentericonosciuto e brevemente descritto all’inizio del capitolo. Alla luce di questo “viaggio nellastoria”, possiamo ora vedere e comprendere meglio quella che si ritiene essere la strutturaatomica. Sulla base delle informazioni a nostra disposizione, l’atomo, che in passato era vistocome la particella più piccola ed indivisibile, è oggi considerato come costituito daparticelle ancora più piccole. Queste sono di tre tipi:

i neutroni, dotati di massa ma privi di caricaelettrica;

i protoni, dotati di massa quasi uguale a quella deineutroni e di carica elettrica positiva;

gli elettroni, particelle di massa molto piccola (circa1/1840 della massa dei protoni), con carica elettricauguale a quella dei protoni, ma di segno opposto,quindi negativa.

Tra di essi solo gli elettroni, allo stato attuale delle nostre conoscenze, sono considerateparticelle elementari (cioè non ulteriormente divisibili), mentre protoni e neutroni sonocomposti da altre particelle elementari, i cosiddetti quark.

Il modello a cui facciamo riferimento vede l’atomo come costituito da un nucleocentrale composto da protoni e neutroni, quindi elettricamente positivo, attorno alquale si muovono, a determinate distanze e con una determinata energia, glielettroni.

ParticellaMassa(kg)

Carica elettricaelementare

Carica elettrica(C)

Neutrone 1,674954310-27 0 0Protone 1,672648510-27 + 1 + 1,602189210-19

Elettrone 9,10953410-31 - 1 - 1,602189210-19

Il diametro esterno dell’atomo ha dimensioni comprese tra 210-10 m e 510-12 m; privandol’atomo dei suoi gusci di elettroni il diametro del nucleo risulta però di 10-14 m soltanto. Èperciò evidente che considerare l’atomo come una sfera compatta non è corretto, anzi nel suocomplesso l’atomo è essenzialmente vuoto e soltanto il nucleo è relativamentecompatto. Poiché, però, la meccanica quantistica dimostra che gli elettroni non possonodistribuirsi a distanze qualsiasi rispetto al nucleo, ma devono assumere posizioni particolari erigidamente determinati, l’atomo può essere considerato, con un’approssimazionesufficiente nella maggior parte dei fenomeni chimici e macroscopici, come una sferacompatta.

Il numero di protoni presenti nel nucleo è importante perché determina lecaratteristiche chimiche dell’elemento al quale l’atomo appartiene e permette didistinguere un elemento da un altro; esso viene definito numero atomico ed indicato con lalettera Z. Gli atomi dello stesso elemento hanno tutti lo stesso numero atomico.I neutroni sono presenti nel nucleo in quantità variabile, ma molto spesso in numero uguale aquello dei protoni. Non avendo carica elettrica, i neutroni non influiscono sulle proprietàelettriche dell’atomo e neppure sulla sua natura chimica, ma solo sulla sua massa.Una seconda caratteristica degli atomi, oltre al numero atomico, è il numero di massa;indicato con la lettera A, rappresenta il numero complessivo dei protoni e dei neutroni,N, che costituiscono il nucleo di ogni determinato elemento (A = Z + N).A causa della loro carica elettrica, i protoni dovrebbero respingersi, provocando l’esplosione delnucleo, ma questo non avviene, perché neutroni e protoni sono saldamente legati da una forzaattrattiva molto intensa, la forza nucleare forte. Essa agisce solo a brevissima distanza,quindi la sua azione si sente solo all’interno del nucleo e non riguarda gli elettroni che sitrovano nella parte periferica dell’atomo. A differenza di neutroni e protoni, gli elettroni sono

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molto più liberi di muoversi, essendo trattenuti da una forza più debole che li attira verso ilnucleo, la forza elettrostatica.

In condizioni normali, ogni atomo ha una specifica massa atomica,quindi si può stabilire il numero di neutroni che esso contiene.Esistono, tuttavia, anche atomi dello stesso elemento, quindicaratterizzati dallo stesso numero di protoni, che però hanno undiverso numero di neutroni e, conseguentemente, un diversonumero di massa; essi sono chiamati isotopi.Per distinguere i vari isotopi (detti anche neuclidi) si è soliti indicareogni elemento con il suo simbolo, scrivendo accanto al simbolo, inbasso a sinistra il numero atomico ed in alto a sinistra il numero di

massa. Ad esempio, per l’idrogeno abbiamo: 11H (prozio 99,98%), 2

1H (deuterio), 31H (trizio).

Ciascun elemento, in natura, è costituito da una miscela di isotopi (di cui quello predominanteè l’isotopo rappresentativo inserito nella tavola periodica) in percentuale sempre costante. Ilcarbonio naturale contiene il 98,892% di 12C e l’1,108% di 13C in massa; in aggiunta a questiisotopi stabili, esiste un isotopo radioattivo (14C o radiocarbonio) e quindi, instabile, presente inpiccolissime percentuali; quest’ultimo viene impiegato nella datazione dei reperti archeologici.Se un elemento è costituito da n isotopi in cui lo imo isotopo ha massa Ai ed una percentuale inatomi pi, allora la massa atomica media, detta anche peso atomico, dell’elemento è data da:

A = A1p1 + A2p2 + ... + Anpn

Le masse degli atomi misurate in kilogrammi o in grammi sono valori molto piccoli. Non èconveniente, da un punto di vista pratico usare numeri così piccoli. È più conveniente infattiusare masse atomiche relative (o pesi atomici relativi), cioè masse atomiche che sonorapportate ad una grandezza di riferimento. Nel 1961, con un accordo internazionale, si decisedi usare come riferimento la massa del 12C. le masse atomiche relative non hanno unità dimisura essendo esse rapporti di due masse. La massa molecolare relativa di un composto èdata dalla somma delle masse atomiche relative degli elementi costitutivi moltiplicate per ilnumero di atomi dell’elemento presenti nella molecola.L’unità di massa atomica (che abbrevieremo in u) viene definita come 1/12 esatto dellamassa del 12C.

Il numero di Avogadro (N0) è definito come il numero di particelle contenute esattamente in12 g dell’isotopo 12C. Attualmente gli si attribuisce il valore di N0 = 6,0220451023 ma potrebbeessere modificato a seguito di nuove evidenze sperimentali.Pertanto, la massa di un singolo atomo di 12C viene ricavata dividendo 12 g per N0, ottenendoun valore pari a 1,992648·10-26 kg.

Per misurare la quantità di sostanza è utile raggruppare gli atomi e le molecole in unità,multipli e sottomultipli di N0; questa unità è la mole (dal latino moles, quantità). Una mole disostanza è la quantità di materia contenuta in un numero di Avogadro di particelle, lacui tipologia deve essere sempre specificata. Per esempio, dire una mole di ossigeno èambiguo, si deve dire o una mole di atomi di ossigeno oppure una mole di molecole diossigeno.La massa, in grammi, di N0 atomi di ogni elemento, cioè la sua massa molare, ènumericamente uguale alla sua massa atomica relativa, adimensionale, e la stessa cosa valeper le molecole.Da ciò deriva che per calcolare il numero di moli di una certa sostanza è sufficiente dividere ilvalore della sua massa per la sua massa molare. Ad esempio, il numero di moli contenuto in uncampione di ferro di 8,232 g è dato da:

n° di moli di ferro = grammi di ferro/massa molare del ferro = 8,232 g/55,847 g mol-1 = 0,1474 mol