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LA DOMENICADIREPUBBLICA DOMENICA 10GIUGNO 2012
NUMERO 380
CULT
La copertina
ODIFREDDI e ZELLINI
Così internetha creato il mitodella mente“collettiva”
La recensione
PAOLO MAURI
Il diariodella bella vitadi Isherwoode Auden
All’interno
L’intervista
ANTONIO MONDA
David Eagleman“Il mio al di làstorie ironichedopo la morte”
Opera
ANGELO FOLETTO
Miller alla Scalacosì il Verdi firmato Martone sfiducia la famiglia
Il libro
ALESSANDRO BARICCO
Una certaidea di mondo:“Vivere e riderecon Eggers”
Da Seattle al mondoil grunge raccontatoda quelli che c’erano
Spettacoli
GIUSEPPE VIDETTI
Ortese e Morantestoria di un’amiciziaattraverso le lettere
L’inedito
ENZO GOLINOe ANNA MARIA ORTESE
Icombattimentidurarono meno di un mese. Ma era da un se-colo e mezzo che gli inglesi non ne volevano sapere di chia-mare “Malvinas” quelle isole sperdute nell’Atlantico meri-dionale. Così, il 21 maggio 1982, sbarcarono dall’altra partedel mondo. E le riconquistarono dopo che i generali golpi-sti argentini, piantata lì la loro bandiera, avevano costretto
alla resa i marines della guarnigione britannica. Il 14 giugno ditrent’anni fa le isole ripresero il nome che avevano fin dal 1833:Falkland.
È stata una guerra brevissima e apparentemente assurda, sem-pre raccontata poco e male, uno dei tanti conflitti dimenticati delVentesimo secolo: 649 i morti argentini e 255 quelli inglesi. Unaguerra finita e mai finita. Senza bombe e senza assalti, una guerrache continua ancora. A colpi di manovre aeronavali e denunce le-gali per mettere le mani su quello che c’è intorno all’arcipelago di-stante appena 450 chilometri dalla Patagonia: il petrolio.
(segue nelle pagine successive)
ATTILIO BOLZONI
DelleFalkland dobbiamo tenere bene a mente tre co-se, perché gli scherzi che il tempo gioca con la me-moria del passato ci rendono indifferenti al presen-te. La prima è che queste isole, denominate ancheMalvinas, sono de facto isole britanniche. La partepiù importante di questa affermazione è “de facto”:
non vi è infatti alcun trattato ufficiale a livello di comunità interna-zionale che stabilisca con chiarezza la proprietà legale di questo ar-cipelago. Gli stati pertanto tendono a assumere una posizione inmerito sulla base dei loro rapporti con l’Argentina e il Regno Uni-to: gli Stati Uniti — intimi alleati del Regno Unito, ma al contempoanche membri dell’Organizzazione degli Stati americani, e inte-ressati a instaurare buone relazioni con i paesi dell’America Lati-na — hanno ripetutamente chiesto ai due paesi di firmare un’inte-sa, e nel frattempo riconoscono la sovranità britannica de facto, manon come un diritto acquisito.
(segue nelle pagine successive)
JOHN LLOYD
FalklandRAPPORTOTOP SECRET14 giugno 1982: finisce la guerra-lampoMa per cosa si è davvero combattuto?Nei dossier riservati torna una parola: petrolio
LA DOMENICA■ 28DOMENICA 10 GIUGNO 2012
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Esattamente trent’anni fa, il 14 giugno 1982, la bandiera britannica tornavaa sventolare sulle Isole Falkland. La guerra era durata meno di un meseda quando l’Argentina dei militari aveva cercato di “riprendersi”quelle che chiama tuttora Malvinas. Ma dietro la questione coloniale ce n’era un’altra più importante e segreta. Come rivelano i rapportimai visti del Foreign Office che pubblichiamo in esclusiva
La copertina
(segue dalla copertina)
Questa storia lontana, rimasta quasi die-tro le quinte, oggi possiamo ricostruir-la attraverso decine di fascicoli ritrova-ti negli Archivi britannici di Kew Gar-dens, alle porte di Londra. Documenti“confidential” e “secret” rintracciati in
Inghilterra proprio mentre nelle Falkland — in que-sti mesi — sono acquartierati milletrecento uominidelle forze armate di Sua Maestà, tutti difesi da navi,sottomarini e cacciabombardieri di ultima genera-zione. È un avamposto coloniale che il governo con-servatore di David Cameron non vuole mollare, loprotegge a qualunque costo e malgrado le violenteproteste di Buenos Aires alle Nazioni Unite. DaSouthamtpon, poche settimane fa, è salpata anche laDauntless, una fregata costata un miliardo di sterlinee destinata a presidiare un arcipelago che Londraconsidera da sempre suo. L’obiettivo è uno solo: ga-rantirsi le straordinarie risorse minerarie dell’Antar-tide e degli abissi circostanti. Ormai è ufficiale: a norddelle isole, la multinazionale petrolifera RockhopperExploration ha scoperto enormi quantità di greggio
a 2.700 metri di profondità. Si comincerà a estrarlonel 2016, produzione stimata in 120mila barili al gior-no già dal 2018. È una frenetica corsa al petrolio co-minciata, come rivelano ora le carte conservate aKew Gardens, oltre quarant’anni fa. Il primo docu-mento risale al 1968 (6 dicembre, fascicolo Powe63/408) e circola riservatamente tra i funzionari delministero dell’Energia britannico: «H. L. Falcon, uncapo geologo della Bp negli anni 1955-1965, ora inpensione, ci ha allertati sulla possibilità che vi sia delgreggio nella piattaforma continentale delle Falk-land».
Così, neanche due anni dopo, il governo inglesedecide di avviare ufficialmente un’indagine «sul po-tenziale petrolifero delle aree sottomarine attornoalle isole». Al ministero dell’Energia sono scettici.Scrivono in un dispaccio interno del 13 marzo 1970:«È improbabile che si trovi del greggio, lo indicanotutti i dati in nostro possesso». Nel gennaio del 1976,però, a Londra cambiano idea (Fco 7/3234) e inizia-no a coltivare il progetto: «Vi è la possibilità che laGran Bretagna ottenga benefici diretti dagli sviluppipetroliferi nelle Falkland». Anche il Foreign Office, aluglio (Fco 46/1397), è in fibrillazione: «Potremmoavere vantaggi sul lungo periodo».
Mentre Londra riflette su come muoversi, a Bue-
nos Aires si danno da fare. E alla fine degli Anni Set-tanta, al ministero degli Esteri inglese arriva un rap-porto confidenziale (19 luglio 1979, Fco 96/919) sul-le strategie intorno a quelle isole popolate da pochiuomini e tante pecore: «È probabile che gli argentiniprendano l’iniziativa di esplorare i fondali sottoma-rini delle Falkland [...] Le aree di ricerca più promet-tenti si trovano al largo della Terra del Fuoco». Lo scri-ve anche il Times, a dicembre: «Le Falkland gioche-ranno un ruolo cruciale nei futuri sviluppi della ri-cerca petrolifera. I giacimenti di greggio potrebberoessere nove volte superiori a quelli del Mare delNord».
È solo a quel punto, dopo tante indecisioni, che gliinglesi decidono d’intervenire. E in fretta. Un altro re-port di Londra (Fco 7/3806), nel marzo del 1980 pas-sa da una scrivania all’altra: «Il dicastero dell’Energiareputa importante l’accesso del nostro paese al pe-trolio o al gas che fossero eventualmente individuatinelle acque delle Falkland». Ma ormai è troppo tardiper iniziare a trivellare al largo delle coste del sub-continente sudamericano. Il generale LeopoldoGualtieri, nell’aprile del 1982, ha già ordinato l’inva-sione delle Malvinas «perché sono parte integrantedel territorio nazionale argentino».
La reazione degli inglesi è immediata. Il primo mi-
RICOGNIZIONEIl primo foglioin bassoè un documentosegretodel 1978in cui si parladella naveinglese HmsEndurancee dei suoi futuriutilizzi al largo delle costeargentine
OBIETTIVOA destra,dispaccioconfidenzialesui primisopralluoghidei fondaliTrovare nuovigiacimentipetroliferi vienedefinita“questione di sopravvivenza”
MAPPEIn basso,tre delle cartinegeografichee strategicheritrovate insiemeai documentiche mostranole suddivisioniterritorialie le diversegiurisdizionidelle IsoleFalkland
ATTILIO BOLZONI
I DOCUMENTIConsultabili in copia digitale pressol’Archivio Casarrubea di Partinico
(www.casarrubea.wordpress.com)i documenti pubblicati in queste pagine
sono stati selezionati da Mario J. Cereghino
negli Archivi nazionali britannicidi Kew Gardens (Surrey)
Per la Regina e per il petrolio
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nistro Margaret Thatcher, la “Lady di ferro”, invia na-vi da guerra, sottomarini nucleari, aerei e truppe chein ventitré giorni si riprendono le isole. È l’inizio del-la fine per il regime dei generali. E per la Gran Breta-gna si apre una frontiera nuova. Le operazioni mili-tari sono ancora in corso quando al ministero degliEsteri britannico circola un documento datato mag-gio 1982 (Fo 973/240) sulla ricchezza ormai certa se-polta sotto quel mare. Il titolo è tutto un programma:«Il potenziale economico delle Falkland e del Conti-nente antartico». Così scrivono le teste d’uovo del Fo-reign Office: «L’invasione delle Falkland e dei territo-ri circostanti da parte dell’Argentina ha focalizzatol’interesse sul potenziale economico (petrolio e gas)di quelle aree e dei territori britannici nel Continen-te antartico. Sono terre molto distanti dalle Falklande non esiste al momento alcuna tecnologia in gradodi sfruttare gli idrocarburi in Antartide, sebbene siagià in fase di sviluppo». E ancora: «Un accordo saràpresto discusso dai paesi firmatari del Trattato An-tartico. Ma anche in caso di intesa, l’estrazione di pe-trolio, gas e minerali avrebbe verosimilmente iniziosoltanto nel Ventunesimo secolo».
Non sono solo le isole il luogo della contesa. C’è an-che il Polo Sud. E le fortune nascoste sotto migliaia dichilometri quadrati di ghiaccio millenario. Conclusa
la guerra lampo della Thatcher nell’Atlantico meri-dionale, i sondaggi riprendono. Negli Anni Novantaè la Shell, su mandato del governo britannico, ad an-dare a caccia del greggio. Poi però getta la spugna.Troppi i soldi da investire dall’altro capo della Terra.Bisogna aspettare il 2010 per cominciare a fare sul se-rio, quando arriva la Rockhopper Exploration con lesue piattaforme galleggianti offshore dotate di pode-rose e moderne attrezzature. Poi, altre cinque impre-se petrolifere iniziano a scandagliare i fondali atlan-tici anche a est e a sud delle Falkland, tutte autorizza-te dal governo di Londra. Sono la Desire Petroleum,la Bhp Billiton, la Falkland Oil & Gas Ltd, la Borders &Southern Petroleum, la Argos Resources Limited.Tutte denunciate due mesi fa dal ministero degliEsteri argentino dinanzi alla Borsa di New York «per-ché operano in maniera illegittima nella piattaformasottomarina argentina, nell’ambito della ricerca diidrocarburi».
È un conflitto senza fine quello iniziato quasi duesecoli fa, quando gli inglesi s’impadronirono per laprima volta di quelle terre desolate e battute dai ventipolari. Con Buenos Aires che le ha sempre rivendica-te come una legittima eredità dell’impero spagnolo.In nome del petrolio, laggiù la pace non si trova mai.
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(segue dalla copertina)
La controversia è complessa. In epochediverse, tra il Diciassettesimo e il Di-ciannovesimo secolo, tutte le quattro
grandi potenze marinare — Olanda, Francia,Spagna e Regno Unito — hanno rivendicatola loro sovranità su queste isole. Ora è rimastal’Argentina a sostenere che nel 1816 la Spagnacedette i propri diritti di proprietà delle isoleal nuovo stato dell’America Latina. Secondoil Regno Unito, invece, sin dal 1833 è Londrala potenza che regna su quelle isole, e la po-polazione di circa tremila abitanti, formataper lo più da discendenti dei coloni gallesi escozzesi, vuole che le isole restino britanni-che. La seconda cosa da tenere a mente è chela guerra combattuta nel 1982 fu vinta dai bri-tannici e indirettamente arrecò vantaggi al-l’Argentina. L’attacco era stato lanciato dalladittatura militare di allora, guidata dal gene-rale Leopoldo Galtieri. Sottoposto a forti pres-sioni a causa della grave crisi economica, Gal-tieri decise di invadere le isole, convinto che ibritannici non avrebbero mandato oltreAtlantico le loro truppe e che gli Stati Uniti loavrebbero appoggiato. Entrambe questesupposizioni si rivelarono errate: con l’ap-poggio pressoché unanime del Parlamentoinglese, Margaret Thatcher inviò nell’arcipe-lago una task force navale e anche se sembròche gli Stati Uniti rivestissero il ruolo di arbi-tro tra i due paesi, in realtà appoggiarono ilprimo ministro britannico. I commandos e imarines conquistarono le isole con una guer-ra lampo che provocò centinaia di morti (perlo più argentini) e ne riprese il controllo. ABuenos Aires Galtieri rassegnò le dimissioni.La giunta militare fu sostituita da un governocivile ed ebbe inizio la disgregazione di un re-gime che aveva fatto migliaia di morti e neaveva torturati altrettanti.
La terza cosa da rammentare è che se equando gli abitanti delle Falkland decidesse-ro di diventare argentini, la Gran Bretagna sene andrebbe. Le molteplici piccole comunitàche in tutto il mondo sono ancora oggi bri-tanniche testimoniano quello che fu un tem-po un immenso impero: tuttavia, quando levecchie colonie hanno scelto l’indipendenzaa partire dall’ultima Guerra mondiale, in nes-sun caso Londra ha respinto tale opzione.Quando per esempio la Gran Bretagna pro-pose alla Spagna di condividere la sovranitàsu Gibilterra — che Madrid rivendica — gliabitanti protestarono così a gran voce cheLondra ritirò immediatamente l’offerta.
Quest’anno ricorre il trentesimo anniver-sario della guerra e la presidente dell’Argenti-na Cristina Fernandez ha voluto dare nuova-mente grande rilievo alla questione, tornan-do a sostenere che le isole appartengono di di-ritto all’Argentina. Ciò accade perché come lamaggioranza degli argentini la presidente èveramente convinta che le cose stiano così,perché il paese vive di nuovo una recessioneeconomica e perché nelle acque circostantil’arcipelago vi sono vasti giacimenti di petro-lio e di gas. Il tempo porterà forse una solu-zione: una sovranità congiunta, il disinteres-se da parte dell’Argentina, o ancora un cam-biamento di idee da parte degli abitanti delleisole. In ogni caso, però, ciò richiederà moltotempo.
Traduzione Anna Bissanti
L’ultima missionedell’Impero
JOHN LLOYD
MANOVRENella fotogrande, militariargentinisi addestranoper la missioneIn copertina,la folla salutala portaereiHms Hermesche lasciail porto direttaalle Falkland
CAMPAGNAA sinistra,manifestantiargentinia Buenos Airessostengonol’operazionenelle MalvinasA destra,l’esplosionedella naveinglese HmsAntelopeil 23 maggio;militari britanniciissanola Union Jack a Port Howard
GEOLOGIIn basso,telegrammadel 1969con l’elencodi espertiche hannoesploratole isole, senzariscontrarepossibiliinteressieconomiciper gli inglesi
RESAAccanto,la firmache segnala sconfittaargentinaSono le 23.59del 14 giugno1982:le IsoleFalklandrimangonoinglesi
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OXFORD
La chiatta è ormeggiata su un canaledel Tamigi, non lontano dalla citta-della universitaria. Sul ponte ci sonodue biciclette, vasi di gerani, seggio-
le spaiate, un tavolino zoppicante, attrezzi da la-voro alla rinfusa, vecchie canne da pesca, un tu-bo di gomma per innaffiare. Un ponticello di le-gno collega l’houseboat alla terraferma. I piedi diAung San Suu Kyi lo percorreranno tra poco piùdi una settimana: una madre vuole sempre vede-re dove abita il figlio. Specie se non gli ha fatto vi-sita per ventiquattro anni. Tenuta agli arresti do-miciliari in patria quasi ininterrottamente dal1988 al 2010, la dissidente premio Nobel per lapace ha dovuto affrontare il più doloroso dei di-lemmi: il proprio Paese o la propria famiglia. Re-stare prigioniera a Rangoon per portare la demo-crazia in Birmania o emigrare per sempre perraggiungere i suoi cari. Ha scelto di dare la prece-denza al proprio Paese e ha vinto, o almeno stavincendo la battaglia politica: un trionfo per ilsuo partito alle ultime elezioni, un seggio da de-
putato per sé in attesa di quello di premier o pre-sidente, la prospettiva di potere strappare defini-tivamente il potere alla dittatura militare e di re-stituire piena libertà al suo popolo.
Ma l’esito della battaglia personale, privata, èstato pesante. Suo marito è morto di tumore sen-za poterla rivedere. Il figlio maggiore è fuggito lon-tano, in America, e non sembra per ora intenzio-nato a rivederla. Resta solo l’altro, il minore, quel-lo che vive come un bohémien nella casa galleg-giante ormeggiata su un canale del Tamigi, aOxford. Il 21 giugno sua madre terrà un discorso alparlamento di Westminster, onore mai riservatoprima a qualcuno che non è (almeno non ancora)capo di stato, vedrà il primo ministro e la regina,visiterà la Borsa e la Banca d’Inghilterra, ma il cloudel suo viaggio sarà attraversare quel ponticello dilegno e salire sulla chiatta del figlio.
«Sarà un incontro profondamente emozionan-te», predice Malavika Karlekar, amica del cuore edex-compagna di studi di Aung al St. Hugh College.«Nell’estate del 1988 lei riempì una borsa con po-chi indumenti per recarsi brevemente dalla ma-dre malata a Rangoon, diede un bacio al marito eai figli, fece una carezza al cane, disse “ci vediamopresto”, e non è mai più tornata indietro. Oxfordsarà piena di ricordi per lei. L’ho sentita al telefo-no qualche giorno fa, ma non ho avuto il coraggiodi chiederle cosa provasse. Parlarne la fa staretroppo male». C’è qualcosa di omerico nel suo ri-
LA DOMENICA■ 30DOMENICA 10 GIUGNO 2012
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Il ciliegio all’ombra del quale amava leggere è ancora làCome pure uno dei suoi due figli, Kim, e i compagni di corsoAttendono di riabbracciarla da donna finalmente libera,dopo ventiquattro anni passati a dedicare tutta se stessa alla BirmaniaMa per l’eroina che lasciò Oxford e la sua famigliaquello dei prossimi giorni sarà il viaggio più difficile
L’attualitàRitorni
torno a casa: un eroe che torna vincitore, dopo unalunga guerra. Ma la sua odissea è ben più mesta diquella di Ulisse. «Sapevo che ci sarebbero statiproblemi», disse una volta riguardo al suo atrocedubbio. «Ma una volta che decidi di entrare in po-litica devi essere disposto ad accettarne le conse-guenze». E lei, in un luogo in cui la politica è un’at-tività nobile e coraggiosa, le ha accettate.
Il sacrificio, del resto, ce l’ha nel sangue. Suo pa-dre fu assassinato poco dopo essere stato l’artefi-ce dell’indipendenza della Birmania dall’Imperobritannico, alla fine della Seconda guerra mon-diale e al tramonto del colonialismo. Rimasta ve-dova, sua madre ha raccolto l’eredità paterna egliel’ha trasmessa. La sua vita è stata quella di unagirovaga, in una fuga senza fine che l’ha portata aDelhi, in Inghilterra, negli Stati Uniti e poi di nuo-vo a Oxford. Dove conobbe il suo futuro marito,Michael Aris, insigne accademico di cultura tibe-tana e buddista, e dove sono nati i suoi figli,Alexander e Kim. Finché la breve visita alla madremalata, nel 1988, è diventata l’inizio di una lottanon-violenta, all’insegna del suo modello, il paci-fismo di Gandhi, per liberare la Birmania dalla ti-rannia. I generali di Rangoon hanno usato la suafamiglia come un’esca, per attirarla fuori dal Pae-
se e non ammettercela più. Lei, proclamavano, eralibera di partire, ma al marito e ai figli non conce-devano il visto d’ingresso in Birmania. Aung hapreferito restare agli arresti domiciliari, in patria,da sola, piuttosto che ritrovarsi al fianco della fa-miglia, ma in esilio.
La dittatura insinuava che nella sua ostinazio-ne ci fosse crudeltà, il tradimento dell’amore filia-le e coniugale. «Non era così, naturalmente», af-ferma Ann Pasternak, altra sua compagna di studia Oxford e nipote dell’autore del Dottor Zivago(pure quella una storia di amori divisi dalla guerrae dal destino). «Quando ho potuto farle visita aRangoon, ho visto che sforzo faceva per non com-muoversi, per non sciogliersi, al ricordo della fa-miglia». Il marito ebbe il permesso di andare da leiuna volta soltanto: «I pochi giorni che ho trascor-so con lei in quella occasione», scriverà prima dimorire, «sono i ricordi più felici del nostro matri-monio, sebbene allora non potessi immaginareche non l’avrei più rivista». Si amavano tenera-mente, risolutamente, assicura la nipote di Pa-sternak, ma resta che Michael morì solo, ucciso dalcancro in tre mesi: le sue ceneri sono in un’urna inun tempio tibetano in Scozia, chissà se San Suu Kyivorrà fare una tappa anche lì.
I figli sembravano altrettanto uniti nei confron-ti della madre. «Mia madre viene spesso descrittacome una dissidente politica», osservò Alexander,il più grande, nel discorso con cui accettò per con-to di lei il premio Nobel per la pace nel 1991, «mafaremmo bene a comprendere che la sua è innan-zi tutto una lotta spirituale. La rivoluzione supre-ma, come ci ha insegnato lei stessa, avviene den-tro di noi, e per vivere pienamente occorre avere ilcoraggio di assumersi anche la responsabilità deibisogni degli altri». Si riferiva alla scelta di restareseparata dai familiari più stretti, di portare dentrodi sé il proprio e l’altrui dolore? Nell’aula del No-bel, a Oslo, scese il silenzio. «Ascoltando Alexan-der, mi venne in mente il giorno in cui Suu mi rac-contò di quando cuciva il nome dei due figli sullecamice dell’uniforme scolastica, a Oxford, e poi gliocchi le si riempirono di lacrime», racconta MaThanagi, la sua assistente di fiducia. Eppure poiAlexander se n’è andato negli Usa, ha preso la cit-tadinanza americana, è sparito: neppure in que-st’ultimo anno, in cui la madre ha riacquistato lalibertà e si è avvicinata a coronare il suo sogno luisi è mostrato in pubblico.
Sono ferite difficili da rimarginare. Kim, il figliominore, è andato dalla madre a Rangoon e ora l’a-
spetta nella casa galleggiante sul Tamigi. Ma nonparla. Come se avesse fatto il voto del silenzio, co-me se in lui aleggiasse la determinazione dei mo-naci tibetani di cui sapeva tutto suo padre. Kim ta-ce, dopo un’esistenza raminga che lo ha visto tira-re avanti con lavoretti da carpentiere, dopo unmatrimonio e un divorzio con una ragazza porto-ghese che gli ha dato due figli e poi se li è portati inPortogallo («Suu non ha mai visto i suoi nipotini,sarebbe bello se fossero anche loro a Oxford per in-contrarla», si augura la sua vecchia amica Kar-lekar). Non passa più davanti alla casa di ParkTown, dove vissero tutti insieme, lei, il marito, idue figli e il cane, che esiste ancora ed è anzi fontedi pellegrinaggio di militanti birmani: ora vale duemilioni e mezzo di sterline e appartiene a un ban-chiere russo, «suonano il campanello, chiedono difare una foto, gentili e carini», commenta il nuovoproprietario. Lì di fronte c’è St. Hugh College, l’u-niversità in cui il Nobel si laureò in filosofia e poli-tica, e che adesso sarebbe ben lieta di offrirle unacattedra o almeno di ricevere una visitina: «Muo-veremmo il cielo e la terra, per averla un minutoqui da noi», s’accalora il rettore Andrew Dilnot.
Davanti alla casa è rimasto in piedi anche l’al-bero di ciliegie sotto la cui ombra Aung San SuuKyi sedeva a leggere, un quarto di secolo fa, primadi essere costretta a fare la scelta che ha segnatola sua vita.
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ENRICO FRANCESCHINI
I GENITORIFiglia del generale comunista Aung San,(ucciso nel 1947,quando lei avevadue anni), seguela madre ambasciatricein India. In seguitosi laureerà a Oxford
L’ARRESTONel 1988 si trasferiscea Rangoone fonda la Legaper la democraziaRifiutandosi di lasciarela Birmania subiscegli arresti domiciliarifino al 2010
IL NOBEL Tutto il mondone chiedela liberazioneNel 1991 le vieneassegnato il Nobelper la paceIl maggiore dei figliritira il premio
LA LIBERAZIONEIl 13 novembre 2010il regime militarela rimette in libertàAung ottieneun seggioal parlamento birmanoe la possibilitàdi tornare a viaggiare
LE TAPPE
La prima vitadi Aung San Suu Kyi
“Muoveremmo il cieloe la terra per averlaun minuto, questaè la sua università”
“Riempì la borsadi poche cose. Ci vediamopresto, disseMa non fu così”
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IL PRIMOGENITO. Aung San Suu Kyi con il marito Michael Aris e il loro primo figlio, Alexander, che da tempo vive in America e non sembra intenzionato a rivedere la madre
IL MATRIMONIO. Aung col marito e i figli a Oxford negli anni ’80. Accanto, il giorno delle nozze A RANGOON. 1995, Aung saluta la folla insieme al secondo figlio, Kim, che da allora non l’ha più rivista
IL PICNIC. Insieme alla famiglia della sorella a Grantown-on-Spey, nel 1979 IL PARTY. L’anno è il ’75: la festa nella casa dei suoceri nell’elegante quartiere londinese di Belgravia
Erala Regina degli incantamenti, funesti o amorevoli, orgo-gliosi o pudichi, assoluti o contraddittori, veementi o som-messi, imposti o subiti, timorosi o sprezzanti: un groviglio
esistenziale non solo autobiografico documentato in alcune pa-gine memorabili e che fin dal titolo dell’opera prima — Angelicidolori — sembra indicare le spine del suo carattere e della suascrittura. «È il mio gastigo, quando mi metto a vivere: non so vi-vere», confessa Anna Maria Ortese (Roma 1914 — Rapallo 1998).Un cruccio che la opprime, ma resiste così: «Ogni volta che vo-glio vivere scrivo». Oltre alle opere strettamente letterarie e al la-voro giornalistico, la corrispondenza è un altro percorso — for-se il più immediato e istintivo, privo di filtri professionali — do-ve la Ortese si apre all’esercizio pratico e faticoso della vita, par-lando di sé, tessendo il filo di rapporti che magari non duranomolto. E dalla sparsa esistenza di presumibili epistolari ineditiemergono le lettere a Elsa Morante (Roma 1912-1985) pubblica-te in queste pagine insieme a quella — già nota — a Pietro Citatiche in gran parte la riguarda, scritta dopo la morte di lei e con me-no enfasi rispetto a quando era in vita.
Nella nota che presenta i materiali morantiani sulla rivista IlGiannone da lui diretta, Antonio Motta ricostruisce gli esordi diuna conoscenza fra le due scrittrici. Sono entrambe a Roma nelgiugno 1937 alla Festa del libro, ed è la Ortese che da lontano ve-de la Morante, accanto a Moravia, nello stand allestito da Bom-piani, ma non ha il coraggio di avvicinarsi (racconta a StefanoMalatesta in una intervista per Repubblica, 16 settembre 1986).Si seguono più o meno, da lontano, la stanziale Elsa e la nomadeAnna Maria: ma quando nel 1965 da Vallecchi esce L’iguanal’ac-coglienza di pubblico e critica è deludente, e vende appena mil-le copie. Nelle successive edizioni quella Adelphi 1986 è forse lapiù fortunata e suscita la rivalutazione del romanzo — effettoAdelphi? — persino da parte di alcuni sodali del Gruppo 63 la cuiidea di avanguardia letteraria non contemplava la scrittrice.
Ma l’occhiuta Morante, fin dall’anno della pubblicazione, erastata molto decisa nel definire L’iguana un capolavoro segna-landone qualche «stridore» nel finale. Se ne accorgono in pochi,ammette la Ortese, che però ne terrà conto — precisa Motta —quando Rizzoli ristamperà il testo. D’altronde, altre occasioninon solo epistolari rivelanoquanto alta e appassionatafosse l’ammirazione di AnnaMaria che nuovamente simanifesta per La Storia, il di-scusso romanzo del 1974, let-to l’anno successivo.
Calore e partecipazione di-stinguono la lettera del 16maggio 1975 interamente de-dicata al libro, oggetto di ade-sioni favorevoli e di polemi-che violente, tra le quali l’in-tervento di Nanni Balestrini,Elisabetta Rasy, Letizia Pao-lozzi, Umberto Silva sul Ma-nifesto (18 luglio 1984). Le parole chiave adoperate dalla Ortesenell’interpretazione della vicenda e dei personaggi di La Storiasono «stima umana», «persona umana», «dolore più vicino», «VI-VENTE libro», «emozione», «vita»: un apparato di sentimenti eun impianto lessicale che le sono congeniali. Trascurato invece,e lo afferma con forza, dai lettori di professione ai quali riserva labotta finale: «E solo la vita — a umiliazione dei critici — è forma».Nella sua estetica incombe il dolore, scolpito in frasi lapidarie co-me slogan: «la musica funebre della gioia che finì». Nelle tre righedel Post Scriptum riesce persino a disegnare un miniautoritrat-to psicologico: esaltazione e negazione del proprio narcisismo.
Ancora il dolore: muore Carina, secondogenita di Aracoeli,protagonista dell’omonimo romanzo morantiano. Il forsenna-to dolore materno attira l’interesse della Ortese, in sintonia conquel dolorismo — l’ideologia del dolore — che in misura diver-sa accomuna le due scrittrici. Ma non sa quando le scrive il suo«giudizio penetrante», così definito da Motta, che pochi giorniprima dell’invio epistolare la destinataria ha tentato il suicidio.Informata del triste episodio, qualche settimana dopo le man-da una letterina, ultimo atto di una amicizia che non l’ha schio-data dalla consuetudine di darle del Lei, ovviamente con l’enfa-tica maiuscola.
E proprio in questa lettera affiora il ricordo della visita di AnnaMaria a Elsa nella casa di via dell’Oca, a Roma, attigua a Piazzadel Popolo, probabilmente nel 1965 come arguisce Motta sotto-lineando l’aura leggendaria che già circondava l’autrice di Men-zogna e sortilegio (Premio Viareggio 1948), L’isola di Arturo(1957), per di più ritenuta da uno studioso di rilevanza interna-zionale come György Lukács «uno dei massimi talenti di scritto-re che io conosca». Spicca in quell’incontro l’accenno a un par-ticolare gastronomico piuttosto ardito: «arance con la panna».Anna Maria le avrà gradite?
Lo stesso destinonon saper vivere
ENZO GOLINO
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LA DOMENICA■ 32DOMENICA 10 GIUGNO 2012
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La prima volta che si incontrano la giovane autricedi “Angelici dolori” non ha il coraggio di parlarle:troppo grande la soggezione per quella donna accantoa Moravia. Ma in seguito, pur continuando a darsi del Lei,nascerà un’amicizia che durerà tutta la vitaCome testimoniano le lettere ritrovate
L’ineditoAffinità elettive
Roma, 16.5.75
ara Elsa Morante,un mese fa ho letto La Storia. Ho esita-to a scriverLe, non sapendo se Lei ha dime stima umana. Penso che una lodepossa valere solo in questo caso. La sti-ma che io ho di Lei, persona umana, èmolto alta. Come scrittore, solo pocheSue pagine di scura bellezza mi eranonote. Alla fine ho letto La Storia, e sonoandata avanti tutta la notte, e poi il gior-no dopo, e poi un altro giorno. Ero sba-lordita. Si aprivano dovunque i cielidella più grande tradizione italiana.Con un dolore più vicino. Dopo il primogiorno mi è accaduto questo: non ave-vo più memoria di tutte le cose — ancheimmense — finora lette. Ancor menomi ricordavo di me. Pensavo — seguen-do la disperazione senza luce di soccor-so della madre di Ida: qui siamo tutti —è detto tutto. È resa giustizia a tutti noiche fuggiamo. — Quando dico noi, di-co un’umanità, semplicemente. La
grazia e purezza del bambino! Ma Nino,poi, quando torna — morto nel pensie-ro della madre — e non vuole morire, èimmenso. Qui tornava quella primasensazione «è stata resa giustizia».
Voglio ricordare qua e là, di questoVIVENTE libro, la luce in cui si muove— colorando le strade, la gioia di Usep-pe. I piccoli interni familiari. La polverepovera, tutta voci. I rossi orrori che ac-cadono all’uomo, di epoca in epoca.Quando il libro è finito, resta il sensodell’epoca. Siamo un po’ cambiati. Del-la letteratura non ci ricordiamo, e que-sto è bene. Ma sì del dolore umano. Equesto dolore, che è intramontabile,diviene l’ombra che va avanti, la musi-ca funebre della gioia che finì, ma ineterno porrà quesiti alla ragione.
Non so di strutture e di altro. So diemozioni. Queste sole dicono che in unracconto, o in una letteratura, è passa-ta la vita. E solo la vita — a umiliazionedei critici — è forma.
Mille auguri per il domani!
ANNA MARIA ORTESE
“Cara Elsa Le scrivo”
Ortese
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AL LAVOROA sinistra, ElsaMorante mentre scrivenel 1950. A destra,la Ortese in un disegnodi Tullio Pericoli
LA STORIAA destra, il frontespiziodella lettera inviatada Anna Maria Ortesedopo aver lettoLa Storianel maggio del 1975
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© RIPRODUZIONE RISERVATA
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Stia bene! Sua Anna Maria Ortese
[P. S.]Non ho letto prima,
perché volevo essere solacol mio giudizio. Non le do
il mio indirizzo, perchéspero che non mi ringrazi.
Siamo già tanto umiliati daimmagine false e scambi di
grazie o inchini. Il mio omag-gio a Lei, almeno, sia libero.
Rapallo 12.4.83
Cara Elsa Morante,In Aracoeli, la breve vita di Carina è
una delle pagine più alte della lettera-tura italiana di ogni tempo. Dissi, adamici, quanto questo libro, per me, fos-se importante — coraggio e tristezzacosì rari in questi anni di nulla — madissi soprattutto di quel ritratto: che persapienza ricorda — e non a me sola —
l’oro di sogno di Las Meninas. Labreve quiete — nel vivere — di Ca-
rina, la sua infinita preziosità e dolcez-za — sono davvero cosa immortale.
Sia contenta, dunque, cara Elsa Mo-rante, di quanto ha avuto in dono — eancora cerchi, nel suo giardino, quantoè nascosto. Pazienza, col proprio cor-po, e anche con la propria anima. Vi sa-ranno “risposte”, sulla pagina; vi saran-no altri doni, per cui Lei non potrà diregrazie, agli Dei o al Dio della Bellezza,che ricordando le proprie catene. Allo-ra le saranno meno pesanti.
E poi, non è detto che non possanoallentarsi da sole. Il mondo non è cheun grande prodigio. Non vedere che siaprodigio, non muta la sua natura di fia-ba.
Un abbraccio. Un grazie. Un auguriodi gioia
Sua A. Maria Ortese
© 2012 Il Giannone© RIPRODUZIONE RISERVATA
PAGINESotto, gli originalidelle lettere della scrittricetra il 1975 e il 1983 ritrovate da Antonio Motta
LA RIVISTALe lettere ineditedi Anna Maria Ortesea Elsa Moranteche pubblichiamo in queste paginesono una breveanticipazione trattadal numero in uscitadomani de Il GiannoneLa rivista è pubblicata dal CentrodocumentazioneLeonardo Sciasciadi San Marco in Lamisin collaborazionecol liceo PietroGiannone
LA DOMENICA■ 34DOMENICA 10 GIUGNO 2012
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SpettacoliRiscoperte
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ANIMA FRAGILEIn alto, Kurt Cobaindurante un concerto dei Nirvanaa Seattle il 22 settembre 1990
RETURN TO OLYMPUSMalfunkshun,Loosegroove, 1995
GIUSEPPE VIDETTI
Quando Seattlesalvò il mondo
Giugno 1992: il regista Cameron Crowe termina il montaggio di Singles,il film ambientato nella Seattle del grunge che esce il 18 settembre diquell’anno. Gli attori principali sono Bridget Fonda e Matt Dillon, maintorno a loro ruotano molti dei protagonisti della nuova scena rockdella città: Pearl Jam, Alice in Chains, Soundgarden, Tad. Alcune scenedel film sono state addirittura girate quando Jeff Ament e Eddie Ved-
der, che ancora non avevano formato i Pearl Jam, suonavano nei Mookie Blaylock. Ch-ris Cornell, il cantante dei Soundgarden, ha una particina e sul finale del film cantaBirth Ritual, che in città è un piccolo classico. Gli Alice in Chains, band venerata primaancora di Pearl Jam e Nirvana, eseguono It Ain’t Like That e Would?.
Crowe è un fanatico del rock, giornalista del quindicinale Rolling Stonee ora registarispettato, nessuno ha osato dir-gli di no. Ma Singlesè una com-media sentimentale poco insintonia con il furore primiti-vo del grunge, la sua uscitascatena un putiferio tra gli in-tegralisti dell’hardcore punk.Persino Kurt Cobain, il leaderdei Nirvana, la band di puntadella scena di Seattle, vomita im-properi contro i Pearl Jam, «venduti» a una major discografi-ca e all’establishment. È un film piacevole, non un capolavoro —Cameron Crowe è il primo a prendere atto che Seattle è la città che stastrappando il primato del rock a New York, Los Angeles e San Francisco;non più piovoso e negletto avamposto del Pacific Northwest, ma polo d’at-trazione di tutto il Midwest.
Nel nichilismo del grunge trovano un’identità migliaia di ragazzi che cercano il ri-scatto dal tedio e dal conformismo dell’America profonda; è violento, liberatorio, dis-sacrante, totalmente libero dai condizionamenti dell’industria. Come il punk, è rocknudo e crudo nato per restare nell’underground, nei garage e nelle cantine, nei vecchimagazzini di Pioneer Square, nei club di Capitol Hill frequentati dalla popolazione uni-versitaria. Nessuno pensa che finirà in classifica, tantomeno che cambierà le sorti, illook e la visibilità di una città che fino ad allora veniva citata negli annali del rock soloper aver dato i natali a Jimi Hendrix. Singles è il primo tradimento, ma non l’ultimo.Quella musica è nata con un dispositivo di autodistruzione innescato. Troppo poten-
te per rimanere fenomeno regionale, troppo contagiosa per non essere notata dallemajor, troppo caratteristica per non influenzare mode e costumi (come già il flowerpower e il punk). È questa la realtà che emerge da Grunge Is Dead — Storia orale delgrunge, il libro di Greg Prato che esce ora in Italia per Odoya, che attraverso le parole dichi c’era (artisti, giornalisti rock, discografici indipendenti, pubblicisti, fotografi, gra-fici, tour manager) racconta la consapevolezza di aver rinnovato la scena con un’e-nergia che il rock non conosceva da decenni e l’angoscia di aver tradito la nuova Bib-bia nel momento stesso in cui il grunge da musica underground diventa fenomeno dimassa («Prima di accettare il contratto con una major, decidemmo di incidere un al-tro album con la Sub Pop, la nostra etichetta indipendente», dice Kim Thayil, il chitar-rista dei Soundgarden, che suona quasi come: «Prima di suicidarci, decidiamo di pro-lungare il sogno»).
La comunione tra i fan e i nuovi eroi è totale. Per un’anima fragile come Kurt Cobain,ogni accusa è una coltellata. Eddie Vedder e gli altri Pearl Jam discutono per ore e gior-ni sulla linea da seguire per non... tradire. Di quel disordine creativo che sfocia in crisiesistenziale qualcuno inevitabilmente paga — complice l’eroina — un prezzo altissi-mo. Andrew Wood, cantante dei Mother Love Bone, muore di overdose a 24 anni il 19marzo del 1990 — prima ancora che il grunge diventi fenomeno planetario grazie a Ne-vermind dei Nirvana e Ten dei Pearl Jam. Mark Arm dei Mudhoney entra e esce dallecomunità terapeutiche. Kurt Cobain diventa il martire del grunge quando il 5 aprile1994, a 27 anni, si spara in faccia con un fucile nel garage della sua villa di Seattle; lasciaun biglietto dove, parafrasando una canzone di Neil Young, scrive: «Meglio bruciareche spegnersi lentamente». Layne Staley, la voce degli Alice in Chains, prolunga l’ago-nia, e dopo una battaglia con l’eroina durata dieci anni viene trovato morto a casa suail 19 aprile del 2002; ha 34 anni.
«È la scena più eccitante prodotta da una singola città, come non accadeva dai tem-pi della Londra punk», dice Everett True, il giornalista che ha coniato il termine grunge.Nel ’92, dopo l’uscita di Singles, i rocker hanno una nuova divisa: camicie di flanella ascacchi e pantaloni di velluto a coste. Marc Jacobs (oggi stilista di culto e direttore crea-tivo di Louis Vuitton), che allora lavorava per Perry Ellis, ci si ispira una collezione. Altracoltellata al movimento. Ci guadagna la città, che in pochi anni, e grazie a un radicalerestyling, risorge. Seattle, che un tempo aveva solo le officine della Boeing a salvarla dal-la depressione, diventa meta turistica e con l’esplosione di Internet (la Microsoft ha se-de nella vicina Redmont) diventa la città simbolo della new economy: vanta un prima-to nei vari settori delle telecomunicazioni — Amazon.com, RealNetworks, AT&T Wi-reless e T-Mobile Usa — ed è la sede di tre prosperose multinazionali del caffè: Star-bucks, Seattle’s Best Coffee e Tully’s. Paul Allen investe parte dei ricavi della Microsoftnella costruzione dell’Experience Music Project, un museo del rock, il più suggestivo espaziale del mondo, affidato all’estro dell’architetto Frank Gehry. Seattle diventa la cittàpiù vivibile degli Stati Uniti, tollerante roccaforte democratica (per i gay è la nuova Fri-sco), con un’attenzione particolare per l’ambiente. Trendy al punto che molte serie te-levisive (Dark Angel, Grey’s Anatomy, The Killing) vengono ambientate in città. Primadel punk, Londra era Londra. Prima del grunge, Seattle era soltanto Seattle.
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Un sacco di gentesi fece un’overdosedurante quel finesettimana —in quel periodogirava eroina pocobuona a SeattleAndrew Woodnon morì subito,ma rimase attaccatoalle macchineper un paiodi giorni, disseroche aveva avutoun aneurismaindotto dalla drogaVorrei non averlovisto là conciatoin quel modo, cosìpallido e gonfioÈ un ricordotremendo
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Nacque per riscattare il rock dal conformismo americanoCrebbe con i NirvanaMorì insieme a Kurt Cobain
Ma prima cambiò la moda,contribuì alla new economy e trasformò una città. Ecco le parole dei protagonisti
GRUNGE
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SUPERUNKNOWNSoundgarden, A&M,1994
DIRTAlice In Chains,Columbia, 1992
TENPearl Jam, Columbia, 1991
IL LIBROEsce ora anche in Italia Grunge Is Dead — Storia orale del grunge di Greg Prato,traduzione di Stefano Focacci (Odoya, 530 pagine, 24 euro) Qui accanto, alcuni oggetti diventati simbolo dello stile grunge
TEMPLE OF THE DOGTemple Of The Dog,A&M, 1990
COME ON DOWNGreen Rover,Positive Music, 1985
NEVERMINDNirvana, Geffen, 1991
Dal vivo eravamouna gran bella bandAvevamo un saccodi energia, e Layneera un frontmaneccezionaleIo, Mike e Seaneravamo come diavolidella Tasmania —facevamoheadbanginge piroettavamoper tutto il cazzodi palco. Avevamoun atteggiamento alla “chi cazzo se nefrega”, nel sensoche accettavamoanche gli ingaggi che nessuno volevaNon ci fregava niente di che stile musicalefosse il nostro: se c’era da suonare, noi c’eravamo
Chiunque abbiaun problema di drogaè fatalmente fuoridi testa, chiusoin se stesso e stranoLa mia posizionein materia è semprestata che se uno vuoledrogarsi ha tutto il diritto di farlo; non gli facevamopressione perchésmettesse, davveroIn tour Mark Armera a posto, soloi primi giorni eranoun disastro, perchéstava male; il problema sorgevaquando stavamo a Seattle, perché lui spariva. Una volta gli dicemmo che o sidisintossicava o nonavremmo finito il tour
I Nirvana fecerodegli show all’OKHotel — che eraproprio nella stessastrada della cantinadove andavoa dormire —e in qualche modoriuscii a entrareal primo. Mi pareche quella fula prima volta che suonarono“Smells Like TeenSpirit”. La gente si passava le lacche del loro discoTutti ne avevano unaIn qualsiasi ufficiosentivi quel disco —tutti erano entusiastidelle canzoni Ed era mesi prima che l’album venissepubblicato
Quando andammoin tour con i GunsN’Roses,ci alienammoun po’ del favoredei nostri fanSubPop/punkrock/indie Dicevano: ormaisono passati dall’altraparte del confineMa non era veroIn quell’epoca, con chi saremmodovuti andare in tour? I Nirvana non eranoancora diventati più famosi di noi
Ricordo che dopol’uscita del primodisco dei Pearl Jamtornai nel mioappartamentonei pressi del SeattleCenter, in un quartieredove c’era una piccolacaffetteriaImprovvisamentetutto era diversoEro stato via per qualche mese e ricordo che andai a prendere un caffé;mentre me ne stavo làseduto e bere e a leggere il giornale,mi resi conto che tuttimi stavano fissando
Le majorci corteggiavano,ma noi decidemmoche volevamo fareun altro discocon un’etichettaindipendenteRegistrammoqualcosa qui a Seattle,in un magazzinoabbandonato, con un’unità mobile,poi andammoa Newberg,nell’Oregon, in una speciedi studiofatto in casaAvevamo un paiodi settimaneper finire tutto
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LA DOMENICA■ 36DOMENICA 10 GIUGNO 2012
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NEW YORK
«America significa Inno-vazione», ha detto Ba-rack Obama nel suoultimo discorso sulloStato dell’Unione. Èdifficile dargli torto
quando si vive in un mondo dominato da unvortice di cambiamenti che provengono quasisempre da qui: targati Apple o Google, Face-book o Amazon, germinati spesso negli stessicampus universitari della Silicon Valley. Masarà così anche in futuro? La formula magica esi-ste, la Fabbrica delle Idee ha avuto un nome e unindirizzo: chi volesse provare ad emularla, devepartire da quel modello.
Si tratta dei laboratori di ricerca della compa-gnia telefonica AT&T, i Bell Labs. La loro avven-tura ha inizio nel 1909 quando l’AT&T decide di
FEDERICO RAMPINI
1927 SEGNALE TVA LUNGA DISTANZAL’immagine di HerbertHoover fu trasmessatramite linee telefonicheda Washingtona New York
1927 AMPLIFICATORECON RETROAZIONENEGATIVARiduce le distorsionie aumentala larghezza di banda
1925 FACSIMILEEffettuata la primadimostrazionenegli Stati Unitidi trasmissione di un fax
1932 RADIO ASTRONOMYPrima rilevazionedelle onde radioemesse dalla Via Lattea
1932 RIPRODUZIONI AUDIOI segnali furono trasmessiin tre direzioniPrima le antenneerano bidirezionali
1933 TRASMISSIONEDI UN SUONO STEREOUn concerto sinfonicoviene trasmesso su linee telefonichein direttada Philadelphiaa Washington
1946 TELEFONIA MOBILEPer la prima voltauna chiamata da un telefonosenza fili. L’apparecchiopesa 36 chili
1947 CELLE ESAGONALIModulo matematicoper rendere rintracciabileun dispositivo telefonico
1937 SINTETIZZATORE VOCALERiproduce il linguaggio umano
1939 PRIMO CALCOLATORE Eseguite operazionimatematiche in forma binariaIn 30 secondi si riescea determinare il quozientedi due numeri di otto cifre
1943 SIGSALYPrimo sistemadi comunicazione radiocifrata usata dagli alleatidurante la Secondaguerra mondiale
1947 TRANSISTORL’invenzione piùimportante, premiatanel 1956 conil premio Nobelper la Fisica
1925 REGISTRAZIONEDEL SUONOViene estesala gamma di frequenzeaudio che possonoessere riprodotte
1958 LASERIn un articolo Schawlowe Townes descrivonoil laser per la primavolta. Tra gli usi:comunicazione,medicina e tecnologia
1957 MUSICPrimo programmaper computer a suonaremusica elettronica
1956 CAVO TELEFONICOTRANSATLANTIC0 (TAT-1)Collegò la Scoziaa Terranova, avevatrentasei canali
1951 SENZA OPERATOREChiamate interurbanefatte senza operatore
1954 CELLE SOLARIRealizzata la primacellula fotovoltaicache converte energiasolare in elettrica
1962 SEGNALI VOCALITrasmissione digitaledi segnali vocali multipli
1960-62 COMUNICAZIONISATELLITARIEcho e Telstar sonoi primi satelliti artificialiPoi utilizzati per la tv
1965 RADIAZIONE COSMICAScoperta la radiazioneprodotta dal Big Bang
1963 TELEFONO A TONICodifica numeri sottoforma di suoni. Da quisi arriverà alla segreteriatelefonica e ai call center
1969 CHARGE-COUPLEDDEVICECircuito di semiconduttoriche accumulano caricaelettrica. Importanteper le fotocamere digitali,le televisioni hd e in medicina. Nobel nel 2009
Next
1920 1930 1940 1950 1960
Dal transistor alla nanomacchinacostruire la prima linea telefonica interconti-nentale per collegare New York a San Francisco.Occorrono dei prodigi di ingegneria, ma anchedei progressi sul piano della scienza pura: degliamplificatori del segnale elettrico che gli impe-discano di indebolirsi dopo pochi chilometri. Ècosì che AT&T si convince a costituire un’orga-nizzazione di ricerca interdisciplinare, riunen-dovi dei fisici teorici, degli esperti di materiali,degli ingegneri, e infine i propri tecnici del te-lefono. È l’inizio di un esperimento che darà agliStati Uniti un ruolo leader per un secolo. Lo rac-conta Jon Gertner nel saggio The Idea Factory.Bell Labs and the Great Age of American Innova-tion. Un’altra grande firma del giornalismo tec-nologico americano, Walter Isaacson (celebrenel mondo per la sua biografia di Steve Jobs)riassume così la lezione dei Bell Labs: «Questeinnovazioni avvengono quando persone condiversi talenti, diverse conoscenze, diversementalità, vengono riunite insieme possibil-mente in una vicinanza fisica, in modo da po-
tersi incontrare spesso». I Bell Labs prendono forma in modo definiti-
vo, a partire dal 1925, nella loro prima sede sul-la West Street a Manhattan. Tra i gruppi di ricer-ca che si formano lì dentro, uno si occupa deglistudi sulla conduttività dei diversi materiali inbase alle rispettive strutture atomiche. Così na-sce il primo transistor, nel 1947, tassello di baseper un’ondata di applicazioni che segnerannol’era della televisione, poi attraverso il salto neisemiconduttori quella del computer. Da quelmomento i Bell Labs collezionano una serie im-pressionante di invenzioni nei settori più dispa-rati: la prima cella solare al silicio da cui verran-no tutti i dispositivi per generare energia solare;il primo brevetto del laser; il primo satellite pertelecomunicazioni; il primo sistema di telefoniacellulare; i primi cavi a fibre ottiche. Perfino i lin-guaggi elementari dei software per computer,Unix e C, nascono in quei laboratori. Non man-cano gli incidenti di percorso, come lo scandaloche ha travolto il ricercatore Hendrik Schoen,
smascherato alla fine degli anni Novanta peraver falsificato dei dati sui transistor di dimen-sione molecolare. Ma nell’insieme il bilancio èimpressionante, e si riassume nell’elenco deipremi Nobel vinti da scienziati che lavorarononei Bell Labs: nel 1937 il riconoscimento va aClinton Davisson per aver dimostrato che lamateria «ha la natura di onde»; nel 1956 il Nobelpremia i tre inventori del transistor WilliamShockley, John Bardeen e Walter Brattain; nel1977 e 1978 tocca a Philip Anderson (strutturaelettronica del vetro e dei materiali magnetici) ead Arno Penzias con Robert Wilson (radiazionicosmiche a micro-onde). L’attuale ministrodell’Energia di Obama, Steven Chu, vinse il No-bel nel 1997 per le sue ricerche ai Bell Labs suimetodi per “catturare atomi” con i raggi laser.L’anno successivo tre suoi colleghi lo vinsero nelcampo della fisica quantistica.
Ma torniamo alla domanda iniziale, quellache interessa il nostro futuro: la ricetta? L’uo-mo-chiave per capire il successo dei Bell Labs
Esiste una formula per trovare l’invenzione che cambierà il mondo. La scoprirono cent’anni fa i Bell Labs, l’ha adottata oggi la Apple. E domani? Il primo che riuscirà a copiarla...
Eureka
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fondatore di Apple nel corso delle sue intervistefinali con Isaacson aveva spiegato che «la cosapiù difficile non è creare un prodotto innovati-vo, ma mettere in piedi una grande organizza-zione che possa partorire continuamente deiprodotti innovativi». Jobs aveva a modo suo re-plicato il modello dei Bell Labs unendo «dei ge-ni creativi insieme con degli esperti di prodottoe dei grandi ingegneri, in modo da collegare fraloro la tecnologia e l’immaginazione».
Ma c’è qualcosa di più, che fa la grandezza deiBell Labs e li distingue da tanti emuli successiviincluso lo stesso Jobs. Le squadre che inventa-rono il transistor, il laser e le celle solari non ave-vano il profitto come obiettivo. Erano spessoscienziati spinti dalla passione del sapere e del-la conoscenza, anche se in seguito le loro sco-perte vennero sfruttate da altri e diedero la na-scita ad interi settori industriali che prima nonesistevano neppure. Il modello dei Bell Labs èuna straordinaria conferma dell’importanzadella ricerca pura. «Se un’idea partorisce una
scoperta — spiega Gertner — e dalla scopertanasce l’invenzione, l’innovazione è quella lun-ga trasformazione che parte dall’idea originariae arriva ad un prodotto con utilizzazioni di mas-sa. Per definizione non può esserci una singolapersona, neanche un singolo gruppo, dietrol’intera innovazione». Un’altra lezione dei BellLabs riguarda il modello di capitalismo. AT&Tgodette per molti decenni di un monopolio nelservizio telefonico. Ma poiché questo privilegiole era accordato dalla discrezionalità dello Sta-to, era parte di un patto implicito: AT&T dovevarestituire alla collettività dei benefici. Le inven-zioni dei Bell Labs dovevano essere a disposi-zione di altri, le applicazioni dovevano essereaperte su licenza. I progressi scientifici dei BellLabs erano considerati «di interesse pubblico» ecosì li amministrava la sua proprietaria teorica.Senza quest’idea dell’interesse pubblico l’Ame-rica non avrebbe avuto un capitalismo capacedi dare vita alla rivoluzione elettronica, poi aquella informatica e digitale. Oggi, non solo è
difficile scorgere all’orizzonte una singola na-zione in grado di replicare questa formula con lostesso successo degli Stati Uniti, ma perfino laSilicon Valley nelle gesta più recenti di Apple,Facebook e Google sembra aver imboccato unastrada molto più “proprietaria” rispetto al vec-chio e deprecato monopolista AT&T. Del restola stessa storia dei Bell Labs dimostra che la Fab-brica delle Idee si può anche distruggere. È quelche è accaduto da quando Alcatel-Lucent è su-bentrata all’AT&T nella proprietà di questo cen-tro di ricerca. I nuovi padroni hanno deciso di ri-tirarsi dalla ricerca pura per focalizzare i BellLabs solo su «aree che hanno applicazioni dimercato». Un caso di «miopia che ridimensionail potenziale d’innovazione», secondo il durogiudizio della rivista specializzata Wired. Che ci-ta il precedente del Global Positioning System oGps: non sarebbe nato senza l’orologio atomi-co, a sua volta un “sottoprodotto” della ricercanella fisica pura.
durante mezzo secolo, è il fisico Mervin Kellydella University of Chicago, che dal 1925 al 1959è presidente del centro di ricerca e vi imprime lasua concezione. Kelly è convinto che un «centrodi creatività tecnologica» ha bisogno di una«massa critica» di persone di talento, «costrette»a interagire fra loro. È lui che impone la prossi-mità fisica: parlarsi al telefono non può bastare.Inventa una forma di «promiscuità dei saperi»senza precedenti: vuole che gli scienziati fisiciincontrino gli ingegneri; che i teorici si confron-tino con i tecnici della produzione. La stessa ar-chitettura degli uffici è pensata in funzione diciò, con lunghi corridoi stretti dove è inevitabi-le transitare e impossibile non incontrarsi. An-che gli operai devono essere nelle vicinanze,perché alla fine saranno loro a dover trasforma-re le idee in oggetti. Secondo la battuta di Gert-ner, i Bell Labs «sono una torre d’avorio, con unafabbrica al pianterreno». Le officine sono incol-late ai laboratori. È un modello che aveva benpresente Steve Jobs. Prima della scomparsa, il
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1978 RETE CELLULARELa prima viene installata a Chicago
1979 PROCESSORE CHIP (DSP)A segnale digitale, essenzialeper i cellulari, modem e videogame
1980 CELLULARE DIGITALEQualità del suono migliorea costi inferiori
1982 EFFETTO HALLQUANTISTICO FRAZIONARIOEffetti delle interazionitra elettroni. Nobel nel 1998
1976 FIBRA OTTICATestato in Georgia il primosistema in fibra otticaL’informazione vieneconvertita in impulsiluminosi
1994 LASER A CASCATAQUANTICANel team anche un italiano:Federico Capasso
1990 WAVELANSviluppata la prima retesenza fili
1997 RAFFREDDAMENTO ATOMISteven Chu riceve il Nobelper la Fisica per la sua tecnicache raffredda e immobilizza atomicon raggio laser
1998 MODEM 56KBrevettata da Dagdevirenla tecnologia dei modem 56K
2000 MACCHINA DI DNAPrimi prototipi di nanomacchinecostruite a partire dal Dna
1969-72 UNIX E CSistema operativo portabileper computer. Nel 1970viene sviluppato il linguaggiodi programmazione C
Condivisione della conoscenza tra più persone che entrano in relazione tra loro e interagiscono
Intelligenzacollettiva
Universo di reti digitali che vengono usate per immagazzinareinformazioni e metterein relazione i computerdi tutto il mondo
Cyberspazio
Modello di business per cui un’aziendaaffida la realizzazionedi un progetto a un insieme di utenti in Rete
Crowdsourcing
Software utilizzati per rendere proficuoed efficaceil lavoro condivisoda più gruppidi persone
Groupware
Deroghe alle leggi sul diritto d’autore che rendono possibilifruizione e condivisionedi un’idea o di un’operadi intelletto
Creativecommons
GLO
SSA
RIO
1970-1980 1990-2000
CELLULARI
MUSICA
INTERNET
SPAZIO
TELEFONO
RADIO
TELEVISIONE
LA DOMENICA■ 38DOMENICA 10 GIUGNO 2012
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I saporiTropicana
Tamarindo e cherimoya, guava e maracuja: ottimi per succhi e cocktail. Ma si possonoutilizzare anche per cucinare piatti coloratie leggeri dal risotto con il lattedi cocco al gelato di papaya.Come? Ormai non è piùsoltanto un segreto da grandi chef
«Bevila perché è tropicana,yeah!», cantava nei primianni Ottanta il Gruppo Ita-liano. Il mito del succo eso-tico attraversava l’Italia delNome della rosa e dei primi
cd: la frutta tropicale raccontata e consumata comesimbolo dell’estate senza pensieri, ananas e datteriinglobati nei menù quotidiani, dopo essere stati alungo iscritti nell’elenco dei piccoli lussi gastronomi-ci. Trent’anni dopo, difficile pensare ancora alla frut-ta esotica come alla frutta degli altri, malgrado la geo-grafia agricola la collochi in molti casi ben distantedalle nostre coltivazioni. Arriva da lontano, ma la trat-tiamo come fosse roba nostra, in un crescendo diconfidenza gastronomica che azzera diffidenza eignoranza alimentare: merito dei trasporti che avvi-cinano e dell’irresistibile fascino del viaggio che —superata l’astinenza da spaghetti — stimola la curio-sità culinaria e la voglia di ritrovare quei gusti nuovi eoriginali una volta tornati a casa.
Così, succo dopo succo, macedonia dopo mace-donia, abbiamo scoperto che il cesto virtuale delmondo è affollato di prelibatezze meravigliose, me-no inaccessibili del temuto. In alcuni casi conoscia-mo i frutti solo per certe proprietà e poco nel loro in-tero. Il tamarindo, per esempio. Lo sciroppo è tra i piùamati da grandi e piccini: dissetante, lievementeastringente, molto piacevole. La sua salsa d’elezione— la celeberrima worcestershire — è la conditio sinequa non per preparare il Bloody Mary. Ma del frutto,che in India è usato per la zuppa di lenticchie e nelleFilippine cura la malaria, sappiamo poco o nulla. Op-pure il mangostano, originario delle isole Molucche,dagli spicchi piacevolmente agrodolci eppure semi-sconosciuti, mentre il succo è gettonatissimo comeantiossidante e antinfiammatorio.
La pacifica invasione di avocado &co. attinge adangoli sempre più sperduti del pianeta. Da una par-te, la necessità per chi viene a vivere qui di recupera-re, lontano dalla terra d’origine e dagli affetti, almenole proprie radici alimentari. Dall’altra, il piacere deicuochi, soprattutto i più giovani e svegli, di allargaregli orizzonti culinari, giocando con gli ingredienti escompigliando la tavolozza di sapori e ricette impor-tati. A loro il merito di aver disvelato il piacere setosodel risotto “tirato” col latte di cocco o dell’insalata digamberi e mango. In bilico tra il gusto della frutta eso-
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LICIA GRANELLO
tica, il piacere etico di aiutare il sud del mondo im-portandone i prodotti (a patto che arrivino dal com-mercio equo e solidale, per evitare di alimentaresfruttamento e devastazioni ambientali) e il dispia-cere per l’impronta ecologica derivata dal trasporto,oggi abbiamo una possibilità in più. Complici il ri-scaldamento climatico e le migliorate tecniche agri-cole, infatti, Sicilia e Calabria hanno avviato coltiva-zioni esotichea tutto tondo, dai litchi al mango, a chi-lometro zero o quasi e con ottimi risultati. Se non visentite ancora pronti per addentare cherimoye e al-chechengi, regalatevi un weekend gastro-ballerino aMilano, dove il 21 giugno comincia il festival LatinoAmericando. Tra una lezione di merengue e un gela-to alla papaya vi sembrerà di stare a Copacabana.
Frutta“Hey mango”Il ritmodell’estate
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Passion fruitVarietà Maracuja (violetto) e Granadilla (giallo) per il frutto originario del Rio delle Amazzoni Trasformato in gelato è vitaminico e dissetante
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CherimoyaIl “frutto dai semi freddi” (in lingua quechua)è una pigna dalla bucciavellutata e il cuore bianco,profumato, cremoso, dall’alto contenuto zuccherino
MangoSi colora dal verde al rossomaturo, il frutto brasiliano dalla polpa dolce, succosa,cedevole, compagno sfizioso dell’insalata di pollo e gamberi
GuavaPolpa bianco-rosatapuntinata di semi per il frutto latino-americano dal gusto dolciastroI succhi sono potentissimi fornitori di vitamina C
LitchiConsistenza carnale, gusto acidulo e profumodi rosa, il frutto del ciliegiocinese, di tradizionemillenaria, è utilizzatoper cocktail e gelatine
Dove comprare
FRANCHINO EXOTIC FRUITSMercato Comunale Porta TicinesePiazza XXIV MaggioMilanoTel. 389-8835644
IPER PORTELLOPiazzale Accursio
MilanoTel. 02-392591
MERCATO DI PORTA PALAZZOPiazza della RepubblicaTorino
ORTOPAOLOVia Fossata 74TorinoTel. 011-2489852
MERCATO DELLE ERBEVia Ugo Bassi 23BolognaTel. 051-230186
MERCATO CENTRALE DI SAN LORENZOVia dell’ArientoFirenze
MERCATO ALIMENTAREDI PIAZZA VITTORIORoma
MERCATOMONTESANTOVia Pignasecca Napoli
MERCATO BALLARÒPiazza BallaròPalermo
MERCATO CIVICO SAN BENEDETTOVia Francesco Cocco OrtuCagliari
I luoghi
Al mercato dei nuovi italiani
Rape, verze, cetrioli: chiamiamoli così, anchese non sono proprio rape, non proprio verzee neanche proprio cetrioli. Ma tanto i nomi
veri a ripeterli li sbagli e se provi a trascriverli ci vuo-le un quarto d’ora. E poi anche i colori non sono pro-prio color rapa, verza o cetriolo. Ma, soprattutto,quello che conta non è quel che si vede, e neppure illinguaggio. Quello che conta sono le istruzioni.
Sotto la favolosa tettoia in ferro al “Mercato deicontadini” di Porta Palazzo, Torino, conta losguardo attento che ti riserva la coltivatrice cinesementre ti spiega, come a un alieno un po’ ottuso,come lavare l’ortaggio che hai appena scelto daisuoi plateau, come tagliarlo, eventualmente sbuc-ciarlo. Se rileva in te un segno di intelligenza, pro-segue paziente, con le istruzioni sulla cottura. È ilmistero del cavolo cinese che diventa conversa-zione la soglia di un mondo fatto di bancarelle di-sadorne, affollate di merci mai viste. Disordinatocome un giardino spontaneo, niente a che vederecon la variopinta arte della disposizione che i lavo-
ranti marocchini importano dai mercati francesi.Qui sono coltivatori diretti, nuovi italiani che nonparlano la nostra lingua, ma hanno trovato un lem-bo di terra nella provincia e la fanno fruttare con se-mi di continenti lontani. Domina la menta magre-bina, a mazzi, cresciuta sulla collina torinese, frut-ti di colori improbabili, foglie carnose tipo “Man-giami prima che io mangi te”, e un intero sistemadi cetrioli slavi, almeno quaranta specie che ispira-no uno stupore simile a quello di quando scopriche gli islandesi usano ottanta parole diverse perdefinire la neve. Ci sono spezie e frutta secca, pro-fumi al confine con il miasma, c’è il mondo alla so-glia di casa. I contadini del mondo, sempre più fa-cili da trovare sotto la tettoia torinese, o nei merca-ti di periferia chiacchierano, danno appuntamen-to: «Ha lo zenzero?». «Non lo prendo più a voi ita-liani non piace», «Ma io lo uso contro la nausea, sai farmaci...». È questo che conta. Il resto sono solorape cinesi e cetrioli bulgari.
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LA RICETTABanana e ananas con riso al latte di cocco, gelato al curry, salsa thai
Per il riso100 g. di riso Carnaroli200 g. di acqua20 g. di zucchero3 g. di sale300 g. di latte di cocco1 pizzico di semidi vaniglia
Cuocere il riso 15 minutie raffreddare
Per il gelato500 g. di latte 75 g. di panna15 g. di zucchero100 g. di glucosio3 g. di sale75 g. di latte magro in polvere4 g. di curry
Portare panna e lattea ebollizione, con zuccheroe sale, sciogliendo con la frustaFuori dal fuoco aggiungereil curry, poi mantecare in gelatiera
Per la salsa thai200 g. di acqua10 g. di lemon grass10 g. di zenzero a fette10 g.di lime(fettina)100 gr di coccopastorizzato
Bollire acqua, speziee lime, filtrare,aggiungere il coccoe qualche goccia di lime
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Moreno Cedroni è il PeterPan dell’alta cucina italianaDalla “Madonnina del Pescatore”, affacciatasul mare di Senigallia,escono piatti affascinanti,come la ricetta ideataper i lettori di Repubblica
KumquatIl più piccolo agrumedel mondo, coltivato in Cinae Giappone, ha buccia dolce e polpa acidula Ottimo crudo o cotto al forno con l’anatra arrosto
AvocadoUno scrigno di calorie e grassi salvacuoreLa sua polpa — spruzzata di lime perché non annerisca— è alla base della salsamessicana guacamole
StarterCocktail di fruttaesotica con gamberetti
TamarindoProvengono dal Madagascar i baccelli del dattero d’india, semi scuri e polpa giallastra, con cui si ottengono lo sciroppo e la salsaWorcester
PapayaColtivata dall’Australiaal Centro America, ha polpaarancione, consistenza soda, sapore dolceFermentata, è un potenteantiossidante
AlchechengiMatrice asiatica per il frutto della Physalis Alkekengi, avvolto in un ciuffo di fogliesecche e chiuse da girareal contrario prima di tuffarlonel cioccolato
LUCA RASTELLO
Ingredienti per 4 persone
LA DOMENICA■ 40DOMENICA 10 GIUGNO 2012
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Da quasi vent’anni vive in esilioma il successo della sua graphicnovel “Persepolis” e il progettosul “Profeta” di Gibran la ripaganodella nostalgia per l’Iran. L’artista
che da bambinacomprava al mercatonero i dischi degli IronMaiden non ha smesso di lottare per la libertà,anche in Occidente:
“Essere emancipate non vuoldire farsi fare delle grandi tettedal chirurgo plastico”
ROMA
Torrenziale. Vulcanica.Passionale. Gli aggettiviche descrivono MarjaneSatrapi suonano forti,
quasi eccessivi. Sintomi di una vitalitàfuori dal comune, di un entusiasmoche rischia sempre di straripare. Perfi-no quando rivela le sue occupazionipiù ordinarie, lo fa con un’energiaspiazzante: «Adoro stare ore da soladavanti al computer, a cantare le can-zoni a squarciagola col karaoke. Poi mipiace fare le faccende domestiche, co-me pulire la casa o stirare. Ah, dimen-ticavo: passo giornate intere su Youtu-be, a cercare filmati sugli animali buffie strani…». Detto dalla pittrice, fumet-tista e cineasta adorata dai critici duri epuri, dalla regista quarantaduenne difilm cult come il cartoon Persepolis,dall’intellettuale simbolo del suo pae-se d’origine, l’Iran, può risultare sor-prendente.
Lei però è una donna così poco pre-vedibile e così sicura della propria in-telligenza da ammettere tranquilla-mente questi lati da casalinga dispera-ta. Dettagli che emergono da una lun-ga conversazione nel cortile di un hotelromano in cui Marjane — gonna a pie-ghe, maglietta nera, cerchietto doratoper contenere la massa dei capelli neri— fuma una sigaretta dietro l’altra, be-ve svariate tazze di tè, parla a ruota li-bera di tutto ciò che le interessa, che lesuscita ammirazione. Ad esempio, il ci-nema italiano anni Cinquanta: «Il miomito è Sophia Loren, simbolo di unabellezza femminile avvolgente e pienadi calore». O la musica: elemento cen-trale della sua prima pellicola con atto-ri in carne e ossa, Pollo alle prugne, trat-ta dalla sua omonima graphic novel, euscita recentemente nelle nostre sale.Una storia iraniana d’epoca che si svol-
ge al ritmo di sonorità tradizionali. Nel-la vita reale i suoi gusti sono molto di-versi: «Altro che sufismo, o roba simile:io da bambina e da ragazza ascoltavogli Iron Maiden, gli Ac/Dc. Sono grup-pi come questi che mi hanno segnato.Da noi erano vietatissimi, compravo lecassette al mercato nero. Ancora ades-so adoro quelle band scatenate: mihanno regalato un’anima rock che so-pravvive in me».
E che ha accompagnato la sua esi-stenza fuori dal comune: infanzia inpatria, a Teheran; liceo a Vienna, dovei suoi la spediscono per farla sfuggire aisegnali di fondamentalismo religioso;poi il ritorno in Iran; infine l’abbando-no definitivo del suo Paese. Un percor-so che ha raccontato, prima a fumetti epoi — con la potenza dell’animazione— su grande schermo, nel capolavoroPersepolis. «Mia madre era una iper-femminista, mio nonno un comunistarivoluzionario. Nella mia famiglia (chediscende per parte materna da Nasser-al-Din Shah, Scià di Persia nel Dician-novesimo secolo) nulla era all’insegnadelle regole codificate. La personalitàdominante era mia mamma. Quandoa quindici, sedici anni ottenevo da miopadre il permesso di andare a una fe-sta, lei veniva da me e con aria dura midiceva: “L’autorizzazione la devi chie-dere a me”. I miei genitori non mi han-no mai chiesto di essere bella o di tro-varmi un marito, ma di studiare, di rag-giungere l’indipendenza economica.Ora il mio Paese vive una svolta con-servatrice. Ma le donne vogliono an-cora le stesse cose che volevamo noi:istruzione, emancipazione».
Un cambiamento, quello del regi-me iraniano, che alla Satrapi è costatoun prezzo alto: l’esilio. L’impossibilitàdi tornare in patria, dove le protestesono represse e registi e intellettualivengono messi in carcere. Ma la partefemminile della società non si arrende:«Capisco che a voi europee le donnedel mio Paese sembrino particolar-mente forti, coraggiose. La differenza èche qui avete da tempo coscienza deivostri diritti, mentre loro devono sem-pre combattere. Attenzione però alconcetto di indipendenza delle so-cietà occidentali: essere emancipatenon vuol dire farsi fare delle grandi tet-te dal chirurgo plastico. E poi la libertàè un valore assoluto, non ha a che farecol sesso a cui appartieni: che libertàera quella delle soldatesse americane,andare a uccidere civili in Iraq?»
Quanto a lei, malgrado l’amarezzadi non poter tornare nel luogo in cui ènata e cresciuta, evita il vittimismo:«Certo, ho nostalgia. Ma mi ritengofortunata: vivo a Parigi, il più bel postodel mondo, ho preso anche la cittadi-nanza. Tutte le sere vedo i miei amici alcaffè. Mio marito, Mattias Ripa, è sve-dese, e attraverso lui sono entrata incontatto con il meglio della culturascandinava. In qualsiasi paese, se par-lo con la gente, mi sento in famiglia:tutto il mondo è casa mia».
La ferita del distacco dalle originisembra rimarginata. Anche perché so-no passati già diciotto anni da quandoMarjane, subito dopo il fallimento delsuo primo matrimonio (con un con-nazionale), si trasferisce definitiva-mente in Francia. Un cambio di cultu-ra che, all’epoca, arricchisce e fa matu-rare definitivamente il suo talento: einfatti le sue opere letterarie, le graphicnovel — in Italia, oltre a Pollo alle pru-
gne e Persepolis, Lizard ha pubblicatoIl sospiro e Taglia e cuci — hanno qua-si sempre ambientazione orientale,ma con forti influssi europei, nello sti-le e nell’approccio. «È vero — ammet-te lei — solo a Parigi ho cominciato amettere a frutto le mie capacità. Ma ètutta la vita che disegno. Ho comincia-to piccolissima, come tutti i bambini.La stragrande maggioranza smette in-torno ai dieci anni: io non ho mai smes-so. Da ragazza avevo altri progetti, vo-levo diventare ingegnere. La svolta èstata quando un conoscente mi hachiesto di scrivere una storia per la ra-dio. L’ho fatto ma ascoltandola ho ca-pito una cosa importante: non mi sod-disfaceva, perché non c’erano imma-gini. E all’improvviso ho compreso chelavorare con l’immagine per me eraqualcosa di vitale. Ho sempre proce-duto così, per tentativi ed errori. Ancheil passaggio al cinema è avvenuto perimpulso. Così come il salto dal cinemad’animazione a quello live action, unaliberazione: Pollo alle prugnel’ho gira-to in sei settimane, contro i due-tre an-ni di preparazione di Persepolis. Ma sulpiano generale la mia vera passione èla pittura: sto organizzando una gran-de mostra dei miei dipinti».
Film, fumetti, quadri: prodotti arti-stici che hanno in comune una dimen-sione ancora artigianale. La necessitàdi sporcarsi in qualche modo le mani.«Per me l’elemento fisico del lavoro èfondamentale — conferma la Satrapi— così come la comunicazione, il con-tatto con gli altri. Vero contatto, noncome su Facebook o Twitter: non è cheti conosco perché vedo una foto inbikini che hai postato, o leggo la tua da-ta di nascita sul profilo. Ti conosco per-ché adesso sto parlando con te, sentola tua voce, vedo il tuo sorriso o i tuoigesti. Certo, per i movimenti di libera-zione in Iran o in Siria i social networksono stati uno strumento di diffusionedelle informazioni; ma poi si sono ri-torti contro chi li ha utilizzati, perché èproprio grazie alla presenza sul webche i regimi hanno individuato i ribel-li, e li hanno sbattuti in galera».
In questo mare di idee forti, l’am-missione di una debolezza: il terrore diannoiarsi, che le provoca una sorta diallergia al riposo. «Non posso staresenza fare nulla — confessa — anche acasa devo sempre darmi da fare: dai la-vori domestici al karaoke, mi ci butto acapofitto». Il concetto di vacanza è offlimits: «Qualche mese fa me ne sono
presa una e sono andata con amici aCordoba, in Spagna: ma ho finito pergirare lì un film low budget, in cui reci-to anche. Si chiama Las Jotas, un roadmovie psichedelico-poliziesco (appe-na presentato al Mercato del Festivaldi Cannes). Mi è costato diciannove-mila euro ma ne è valsa la pena». Nonsolo progetti a basso costo, però.Marjane è un’autrice di serie A nel pa-norama cinematografico mondiale. Econ la candidatura all’Oscar di Perse-polis nel 2008 è diventata celebre aHollywood: «Ricordo quel periodopassato a Los Angeles prima della ceri-monia per la consegna degli AcademyAwards come un incubo. Per tre mesinon ho potuto fare nulla da sola, miavevano affibbiato dodici assistentiincollati addosso che mi toglievanol’aria. Per la Notte delle stelle mi man-darono una make-up artist che mi dis-se “ti farò diventare bellissima”. Madopo il suo trucco ero orrenda, sem-bravo un pavone. Anzi, un incrocio traun pavone e una tigre. Io non vogliotrasformarmi nell’animale di uno zoo!E così quando sono tornata a casa, perreazione, ho preso gli stracci e ho co-minciato a pulire ovunque. E ho stira-to tutti i miei vestiti».
Ma la parentesi hollywoodiana le haconsentito anche di stringere amicizieinteressanti. Come quella con SalmaHayek, che le ha commissionato il suoprossimo progetto da grande scher-mo: «Una trasposizione animata delProfeta di Gibran, a cui sto lavorandoin questi mesi. Ne sono felice perché lapoesia è un aspetto fondamentale del-la mia vita».
Per dimostrarlo, conclude recitan-do i suoi versi preferiti in assoluto,composti nell’Undicesimo secolo dal-lo scrittore e matematico iranianoOmar Khayyam: «Bevi vino, ché nonsai da dove sei venuto / Sii lieto, chénon sai dove andrai».
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L’incontroNuove Sherazade
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“In qualsiasi Paese,quando parlocon la gente,mi sentocome se fossiin famiglia:tutto il mondoè casa mia”
Marjane Satrapi
CLAUDIA MORGOGLIONE
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