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PAPER CISL FP Novembre/Dicembre 2014 11 LE RAGIONI DELLA PROTESTA dopo un anno di promesse mancate

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Novembre/Dicembre 2014 11LE RAGIONI DELLA PROTESTAdopo un anno di promesse mancate

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Dopo un anno Di promesse mancate

Un anno fa abbiamo inaugurato la collana Paper Cisl FP con l’intento di offrire una lettura critica dei cambiamenti e dei processi di rinnovamento in atto nel mondo del lavoro pubblico. Negli ultimi dodici mesi, la PA e i lavoratori del pubblico impiego sono stati protagonisti di un acceso dibattito mediatico, accelerato dalla schizofrenia di un esecutivo che si era presentato al Paese come portatore di una grande innovazione nei servizi pubblici, nel segno della semplificazione, della trasparenza, della qualità. Salvo poi riproporre ancora, sotto nuove vesti, le tradizionali ricette di austerity.Cosa è cambiato rispetto ad un anno fa? Quale seguito hanno avuto le promesse del governo, snocciolate nella lettera in 44 punti rivolta ai dipendenti pubblici? Quali cambiamenti hanno prodotto per la PA e per il Paese? In continuità con la manifestazione unitaria dell’8 novembre, che aveva visto sfilare 100 mila lavoratori dei servizi pubblici, il 1° dicembre scorso la Cisl ha indetto uno sciopero e ha dato vita nelle principali città italiane a decine di manifestazioni, con l’obiettivo di chiedere il rinnovo dei contratti nazionali, fermi dal 2010, e l’apertura di un vero dialogo su riorganizzazione e innovazione in tutta la PA e nel sistema dei servizi ai cittadini. Perché questa nuova iniziativa di protesta?Ripercorrendo i temi affrontati nella collana durante questo ultimo anno, vogliamo restituire al lettore la cronistoria di un periodo che si chiude purtroppo con l’amarezza per una “innovazione mancata”, ma anche con la speranza di un cambiamento che la Cisl Fp (insieme ai lavoratori che rappresenta) continua ad auspicare e proporre concretamente nelle piazze, nei luoghi di lavoro e in tutte le sedi istituzionali. Le ragioni della protesta del 1° dicembre scorso sono molte. Sono quelle che denunciano, ormai da sei anni, le falle e le distorsioni di un sistema pubblico volutamente lasciato alla deriva e la sfiducia crescente e sempre più manifesta dei cittadini nei confronti dello Stato e della sua

“presenza” nella vita quotidiana delle persone. Una “presenza” fatta di richieste pressanti e risposte mancanti. In particolare, ai lavoratori del pubblico impiego si chiede di promuovere e portare l’innovazione nei posti di lavoro. In cambio, si impongono loro norme, restrizioni, promesse, anziché il rinnovo del loro contratto, fermo da sei anni. Quanto tempo ancora si potrà continuare su questa strada?Riassumiamo, dunque, le ragioni del dissenso che accomuna tutti i lavoratori pubblici nei confronti dell’attuale governo.

La mancata riorganizzazione delle infrastrutture istituzionali

Una burocrazia moderna, adatta ai tempi, connessa strettamente ai cambiamenti in atto nel resto dell’Europa; e una amministrazione efficiente e dinamica, come insieme coordinato di tante amministrazioni che si sono prefissate obiettivi concreti e funzioni coerenti con tali obiettivi: sono queste le due grandi scommesse di una moderna società. Che ancora, in Italia, non sono state vinte. E’ il quadro generale dentro il quale si possono attuare tutte le altre riforme, ma senza il quale ogni altro processo di innovazione, anche parziale, perde la sua stessa ragione d’essere. Tutti i tentativi di riordino attuati finora si sono rivelati inefficaci perché hanno obbedito ad una logica emergenziale, nell’affannosa ricerca di realizzare risparmi, con logiche di tipo ragionieristico. Il ragionamento che ha portato a tali tentativi di riforma deriva da una concezione della macchina pubblica come “costo” sociale, non come “investimento”, perdendo cioè il riferimento alle sue funzioni. Dopo il decentramento avviato negli anni Novanta e proseguito con le modifiche costituzionali del 2001, le duplicazioni dei livelli di governo, dei compiti e delle funzioni loro assegnati hanno di fatto trasformato le amministrazioni in una sommatoria di identità scoordinate e non comunicanti fra loro. A questo problema la riforma della

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PA promossa dall’attuale esecutivo non è riuscita a dare una risposta, né con il dl 90/2014 (inerente questioni più attinenti ai rapporti di lavoro, quali mobilità, turn over, ricambio generazionale), né con il ddl A.S. 1577 “Riorganizzazione delle amministrazioni pubbliche”, attualmente incardinato in Commissione Affari costituzionali del Senato. Allo stato attuale, quello del governo appare un intervento di manutenzione della facciata, che non entra nel cuore del problema, non elimina i danni di una cattiva programmazione e gestione; quindi una ennesima riforma per apparati, non per politiche e servizi, per “costo”, non per “asset” e funzioni. Visione che peraltro preclude, quasi ideologicamente, la possibilità di implementare gli strumenti per programmare e gestire la spesa. Se a monte non si blocca lo sperpero causato dalle duplicazioni, dai servizi inutili, dalla concorrenza, dalla frammentazione dei processi decisionali e dei centri di responsabilità, dagli sprechi di una cattiva gestione, ecco tornare, “facile”, la ricetta dello “strozzare”, a valle, tutti gli strumenti atti a valorizzare economicamente e professionalmente i lavoratori, causando loro una nuova penalizzazione. Nonostante sia evidente l’errore di impostazione metodologico, anche l’attuale governo persiste su questa strada. Quando arriverà il giorno in cui la PA sarà considerata un volano di sviluppo sul quale investire, come nei grandi Paesi europei, Francia e Germania in testa, che in una amministrazione efficace ed efficiente vedono uno dei pilastri su cui basare lo sviluppo della Nazione?Posto che l’obiettivo deve essere un “progetto” di ammodernamento della PA, un valido punto di partenza dovrebbe essere quello di decidere quali funzioni debba svolgere il settore pubblico, a chi (a quale ente, a quale soggetto, pubblico o privato) affidarle e con quali risorse (anche con la compartecipazione di soggetti privati); a quali esigenze della comunità dare

una risposta, a partire dall’evoluzione sociale ed economica in atto nel nostro Paese; ed infine, come conciliare i servizi pubblici con la loro sostenibilità economica. Tutto questo richiede un progetto complessivo, che è ben altra cosa rispetto all’elencare piccoli dettagli di contenuto, sui quali, per inciso, non si può che essere d’accordo, come ad esempio “superare l’uso della carta”, “conciliare i tempi di vita e di lavoro”, “avvicinare la PA al cittadino”. A parte il fascino che possono esercitare certi facili proclami, ciò che sorprende è la totale mancanza di un’idea lungimirante di PA, semplice e al tempo stesso innovativa e sfidante; di un piano coraggioso, coerente, organico di riorganizzazione. E’ un’anomalia tutta italiana quella di non voler effettuare una programmazione di medio-lungo periodo, e di giocare sempre “in difesa” cercando soluzioni estemporanee a problemi antichi, che continuano ciclicamente a riproporsi con la forza di un fiume in piena, appena arginato da dighe precarie. Anziché, per restare nella metafora, pianificare il suo corso, innalzando dighe laddove necessario (per contenere i principali fattori di improduttività, quali corruzione, trasparenza solo formale, sistemi di misurazione della performance che non funzionano) e far saltare quelle che non servono (liberando così le energie inespresse).Riorganizzare le infrastrutture istituzionali del Paese significa costruire reti territoriali di servizi, in base alle quali ripensare tutta la geografia istituzionale, dal centro alla periferia, passando per le 62.297 unità locali della PA (Cfr. Tab. 1, Le unità locali della Pa) e le 8.000 società a partecipazione pubblica considerate nel Piano Cottarelli. In particolare, i dati Istat registrano circa 5.600 unità distaccate per Ministeri e Presidenza del Consiglio, 2.100 per le Province e 1.778 per le Regioni, dati questi che rendono plasticamente l’idea di un progetto federalista fallito; di un policentrismo caotico e incontrollato che ha generato un numero esponenziale di strutture

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parallele e inutili; di una scarsa chiarezza circa la responsabilità delle funzioni e l’allocazione delle competenze. Dalla metà degli anni ‘90, il perimetro della spesa pubblica si è allargato: il numero delle pubbliche amministrazioni, compresi gli enti strumentali (enti, agenzie, Ato, consorzi, unioni) e i soggetti partecipati, è aumentato del 30%. Ma la gran parte delle risorse è destinata al funzionamento, anziché ai servizi. Il ddl A.S. 1577 non considera lo stato dell’arte, e affronta il nodo della riorganizzazione delle amministrazioni centrali come un tema a sé, decontestualizzato dalla geografia istituzionale dei territori. Non rileva, inoltre, le evidenti interconnessioni esistenti tra livelli di governo (regioni, province, comuni), soggetti a loro volta a processi paralleli di ristrutturazione, affidati a provvedimenti che hanno tempistiche e iter attuativi differenziati

(legge 56/2014, riforma del Titolo V Cost.). Già l’art. 1 del dl 138/2011 ha previsto l’adozione di un programma “per l’integrazione operativa delle agenzie fiscali, la razionalizzazione di tutte le strutture periferiche dell’amministrazione dello Stato e la loro tendenziale concentrazione in un ufficio unitario a livello provinciale, il coordinamento delle attività delle forze dell’ordine, l’accorpamento degli enti della previdenza pubblica, la razionalizzazione dell’organizzazione giudiziaria civile, penale, amministrativa, militare e tributaria a rete, la riorganizzazione della rete consolare e diplomatica”. Occorre accelerare e portare a compimento i processi di riorganizzazione già previsti, come è avvenuto, ad esempio, con l’accorpamento degli enti previdenziali, stabilito dal dl 78/2010. Tale accorpamento doveva essere accompagnato dalla costituzione di poli

Forma giuridica Numero di unità locali

Presidenza del Consiglio/ Ministeri/ Agenzie statali 5.648

Regioni 1.778

Province 2.110

Comuni/Comunità montane e Unioni di Comuni 36.849

SSN 8.329

Enti di ricerca 494

Camere di Commercio 296

Ordini/Collegi/ Consorzi di diritto pubblico 2.495

Enti non economici ed Enti parco 2.967

Altra forma giuridica 1.331

TOTALE 62.297

Fonte: Sole 24 Ore, “La rivoluzione della Pa in tre mosse”, 19 maggio 2014, su dati ISTAT, Censimento delle Amministrazioni pubbliche, 2011

Tab. 1 – Le unità locali della Pa

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logistici integrati di tutte le amministrazioni del welfare, per ridurre i costi di funzionamento degli uffici periferici; ma tali disposizioni sono rimaste sulla carta, mancando (ancora una volta) una visione organica e coordinata dell’architettura istituzionale che si voleva imprimere al Paese. L’attuale esecutivo non sfugge ai limiti dei governi che lo hanno preceduto. Il ddl A.S. 1577, di fatto, propone uno “snellimento” (la parola riduzione ricorre frequentemente nel testo) delle strutture che presidiano le funzioni pubbliche, non una “riorganizzazione” delle funzioni stesse, basata su un modello di servizi pubblici a rete, con adeguate soluzioni di interazione e ristrutturazione per linee orizzontali, e non verticistico-gerarchiche.Dunque? Quale idea innovativa sostiene l’esecutivo? Sarebbe stato sufficiente accelerare e portare a compimento i processi di riorganizzazione già previsti da leggi vigenti, ma rimasti sulla carta.Invece (ancora una volta), si spaccia per “nuovo” il “vecchio”. Emblematica in tal senso è la vicenda del riordino delle Provincie. Il Governo afferma di aver attuato una riforma della pubblica amministrazione a costo zero per i lavoratori pubblici, garantendo, nel Protocollo del 19 novembre 2013, un riordino territoriale a “tutela dei livelli occupazionali”. Salvo poi sconfessare se stesso e sacrificare servizi e professionalità sull’altare della finanza pubblica. Infatti, l’illusione di una nuova architettura istituzionale per il Paese si infrange di fronte ai 3 miliardi di tagli disposti dalla Legge di stabilità, da qui al 2017, sui bilanci delle Province e delle Città metropolitane. Una richiesta che condanna inesorabilmente al dissesto finanziario enti formalmente disegnati come enti di area vasta, responsabili di funzioni fondamentali (scuole, viabilità, tutela ambientale, servizi all’impiego, supporto ai comuni), ma privati “per legge” della possibilità di erogare livelli minimi di servizi afferenti a quelle funzioni. A pagare l’incapacità del Governo “innovatore”,

ancora una volta, sono i cittadini e i lavoratori pubblici. Gli uni destinati a sopportare una crescente pressione fiscale, gli altri minacciati da procedure di esubero che segnano la rinuncia definitiva a quel patrimonio professionale che avrebbe dovuto costituire l’ossatura del riordino. Un riordino tentato più volte, dal 2010 ad oggi, e mai riuscito perché privo proprio di una infrastruttura istituzionale funzionale al Paese.D’altronde, in assenza di un’idea di PA come produttrice di valore, di un progetto complessivo, sfidante, culturalmente fondato, innovativo e proiettato al futuro, non rimangono che la riduzione numerica e la semplificazione, decise con criteri da aritmetica elementare. L’Europa chiede certezze sulla stabilità dei conti pubblici: il governo, ancora una volta, risponde utilizzando le “forbici”.

Una PA scollata dal Paese reale

Una nuova architettura istituzionale è necessaria per dare risposte veloci e di qualità alle domande reali espresse dal tessuto sociale ed economico del Paese. Mancando una lettura preventiva dei bisogni, e di conseguenza un nesso forte tra la domanda economica-sociale e il modello organizzativo, non vi può essere vera innovazione. L’errore metodologico di fondo, il vero nodo critico del ddl A.S. 1557, è proprio questo: l’aver anteposto gli strumenti al programma, le strutture alle loro funzioni. E’ la differenza tra un Paese moderno che offre i servizi che servono alla società e un Paese arretrato che non riflette i bisogni reali, e continua ad offrire servizi che non servono più, perché non ha ancora aggiornato il modello di risposta rispetto alle mutate richieste sociali. Un cambiamento profondo e strutturale della PA pone le condizioni per avvicinarsi alle reali esigenze dei cittadini e porta alla crescita e alla coesione sociale. Molti sono i motivi che spingono all’innovazione: la necessità che la “macchina” dello Stato

pesi meno sulla fiscalità generale;

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la sofferenza di fasce sociali sempre più ampie;

le opportunità offerte dallo sviluppo delle tecnologie digitali e l’evoluzione culturale apportata dai nativi digitali, con forti implicazioni nei processi di innovazione;

la transizione demografica, che impone un ripensamento di tutti i sistemi di welfare;

le emergenze, i disastri naturali (e non) che esigono uno sradicamento di tutte le forme di inerzia, il superamento di vecchie modalità organizzative e risposte più veloci e sicure da parte dello Stato;

la necessità che la PA risponda in maniera sempre più pertinente ed efficace alla domanda di sicurezza, prosperità, benessere della società;

il diritto alla partecipazione e alla trasparenza dei processi decisionali.

Su quest’ultimo punto occorre fermarsi. Alla ricerca di un avvicinamento tra PA e cittadini concorre in elevata misura l’aumento di trasparenza, dinamicamente intesa quale risorsa e precondizione per liberare l’azione amministrativa da ogni forma di opacità, che è l’eredità più pesante del nostro sistema pubblico. La trasparenza, se è vera, non è solo una rendicontazione piatta dei bilanci, ma è lo strumento che porta a scoprire la fumosità che spesso avvolge i numeri, le attività, le procedure, portando a conoscenza il funzionamento effettivo di un ente, i risultati raggiunti rispetto agli obiettivi prefissati. Essa presuppone infatti un rovesciamento culturale, un atto di responsabilità che rovescia il tradizionale rapporto tra PA e cittadini, ridando ad essi la centralità di cui hanno diritto (art. 1 della Costituzione) e la possibilità di valutare le scelte gestionali, lo stato di salute di un ente e l’operato del management.

Gli ostacoli all’innovazione

Il d.l. 90/2014 e il ddl A.S. 1577 “Riorganizzazione delle amministrazioni pubbliche”, nelle intenzioni del governo,

si presentano come un progetto organico di riforma anche per quanto concerne la digitalizzazione e la semplificazione procedimentale, con l’intento di favorire strumenti atti a sbloccare una burocrazia vittima dei suoi stessi meccanismi. Nel merito, il ddl intende dare maggiore impulso alla digitalizzazione, come strumento di semplificazione. Tuttavia, la scelta di operare in questo settore così complesso “per legge” appare più un tentativo di dare visibilità e parvenza di autorità a un enunciato, che non un intervento efficace e duraturo, in discontinuità con prassi già esistenti.Inoltre, le misure indicate nei due testi in materia di digitalizzazione e semplificazione sembrano essere le une indipendenti dalle altre, addirittura con evidenti aree di sovrapposizione. Ancora una volta, quindi, figlie non tanto di un progetto complessivo di riordino, ma di una sommatoria scoordinata di enunciati, sui cui pesano già in partenza alcune contraddizioni (e molto ha colpito l’opinione pubblica il fatto che, mentre a livello internazionale si discute l’opportunità di offrire alla consultazione i testi dei provvedimenti normativi già quattro o sei settimane prima della loro discussione, questi atti siano stati resi noti al pubblico solo molto giorni dopo la loro approvazione da parte del Consiglio dei ministri, con la scusa di dovervi operare dei faticosi aggiustamenti).Inoltre, mentre il d.l. 90/2014 costituisce un tipico esempio di provvedimento omnibus, che rende ancora più caotica e illeggibile la produzione normativa. La stessa relazione di analisi di impatto, che accompagna il d.d.l, appare un documento privo di contenuto valutativo, quasi che lo stesso governo Renzi sia scarsamente fiducioso nell’utilizzo uno strumento di controllo ex ante dei nuovi atti normativi. Una semplificazione che si concentra solo sullo stock di norme pregresse rischia così di diventare una tela di Penelope.Un’altra ombra proiettata sulle politiche di semplificazione è quella del ricorso a

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norme straordinarie, quali quelle contenute nel d.l. Sblocca Italia, per accelerare l’iter di alcuni interventi di rilievo nazionale. Queste misure, per quanto opportune in una difficile congiuntura economica, hanno ricadute nefaste sull’imparzialità e il buon andamento dell’azione amministrativa. Gli interventi eccezionali e derogatori che si continuano ad attuare sono di fatto il segnale più chiaro di un sistema amministrativo bloccato.Il primo passo da compiere sarebbe quello di rendere operative le norme di semplificazione già in vigore da anni (e mai attuate!), non quello di adottarne altre, con un impatto effettivo sulla vita dei cittadini e sulla crescita economica.

La battagliacontro i corpi intermedi

L’urgenza del cambiamento e la “fretta” del cambiamento non sono la stessa cosa. La necessità di intraprendere un riordino complessivo dell’architettura istituzionale convince tutti. Troppe farraginosità, troppi centri di spesa, troppe incoerenze. Ma quando si tratta di incidere su funzioni e servizi, non si può agire con decretazioni d’urgenza. La riuscita di una partita così decisiva e impegnativa richiede una gestione condivisa del progetto, evitando approcci pregiudiziali e generalizzazioni. Proprio quello che non è accaduto. La Costituzione (art. 39) riconosce un valore insopprimibile ai corpi sociali intermedi, ovvero alla società civile organizzata, intermedia tra il cittadino e le istituzioni politico-statali. Rappresentanze che, provenendo da tradizioni di lunga data, diventano, nella società attuale - altamente differenziata, complicata e intrisa di individualismo espressivo - un elemento imprescindibile per governare la società e favorire l’inclusione e il riconoscimento di tutti gli interessi e le visioni che formano il corpo

sociale. Sembra “dimenticarlo” il modello decisionale impositivo dell’attuale governo, che, cercando il rapporto diretto con i cittadini (un esempio ne sono i “questionari on line”) e scavalcando continuamente prassi acquisite da tempo dalla democrazia partecipativa, arretra su fondamentali conquiste di civiltà (che hanno anche aumentato l’efficacia delle leggi), facendo allontanare il nostro Paese dal modello sociale europeo. La compressione del ruolo del sindacato – basata su un assunto facilmente spendibile nell’attuale clima, ovvero che l’esistenza stessa del sindacato porti all’appesantimento procedurale di una macchina già di per sé lenta e farraginosa - equivale ad una compressione della democrazia, a livello teorico e pratico, privando i settori pubblici dell’unica leva possibile di riorganizzazione e rilancio della produttività. Quale il ruolo di un moderno sindacato, oggi, dopo il processo di forte ridimensionamento normativo dell’intero sistema delle relazioni sindacali, operato dal 2009 in poi, e alla fine di un quinquiennio di blocco contrattuale? E’ quello di proporre concretamente le modalità di una svolta, mostrando, per ogni amministrazione, strade concrete e percorribili di razionalizzazione dei costi e miglioramento dei servizi.

La sfiducia del governo nelle professioni del pubblico impiego

La mancanza di un disegno organico di innovazione nella PA influisce negativamente sulla valorizzazione del capitale umano. Il limite più grande della riforma proposta dal governo è proprio la sua aprioristica mancanza di fiducia, più volte professata, nella capacità del settore pubblico di auto-rigenerarsi, facendo leva sulle migliori energie e capacità di cui dispone. Il nuovo blocco della contrattazione è la prova più evidente della rinuncia ad investire su queste energie vitali. Difronte a tale netta

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chiusura del governo, il nostro sindacato, con la manifestazione del 1 dicembre, ha ribadito che, per uscire dalla spirale recessiva blocco della produttività – diminuzione della competitività – aumento delle disuguaglianze sociali, si deve tornare ad investire sulle persone, creando le condizioni perché chi lavora per migliorare i servizi pubblici possa essere riconosciuto e premiato. Ma le modifiche normative di singoli istituti contrattuali a nulla valgono se prima non è chiaro quali siano, oggi, le competenze di cui dispone la PA, con quali punti di forza e di debolezza; e quali siano le competenze di cui necessiterà nei prossimi anni, per rispondere adeguatamente alle richieste dei cittadini, delle imprese, delle istituzioni nazionali ed europee. Prima di ragionare dei singoli istituti contrattuali, quindi, occorre: costruire un “piano demografico”

del pubblico impiego, per conoscere anticipatamente sia i profili professionali che andranno rimpiazzati (per ragioni anagrafiche), sia le mansioni che andranno sostituite con altre, più favorevoli ad innovazioni di processo e servizio;

stimolare un sistema di incontro domanda-offerta per profili specifici, altamente specializzati;

attivare una staffetta generazionale, anche attraverso percorsi di apprendistato, non solo per attuare un rimpiazzo numerico, ma per favorire una trasmissione del patrimonio di competenze acquisite;

introdurre strumenti innovativi di flessibilità interna (tabelle di equiparazione intercompartimentale e incentivazione alla mobilità delle alte professionalità) per far circolare le abilità e l’esperienza professionali.

La razionalizzazione delle strutture organizzative implica una maggiore consapevolezza del know how interno. Questo comporta che: la tradizionale gestione del personale

della PA, fino ad oggi centrata sull’analisi

dei ruoli e delle posizioni organizzative, vada aggiornata, mediante una analisi non quantitativa, ma qualitativa delle risorse umane. Dando cioè importanza non tanto a quanto un soggetto “deve fare”, in termini di posizione di lavoro, ma a quanto “sa e vuole fare”, sulla base delle competenze agite in servizio o acquisite negli iter formativi individuali;

fabbisogno di servizi e fabbisogno professionale debbano procedere parallelamente. Se si richiede ai lavoratori un ruolo nuovo, di “promotori e portatori di innovazione”, non si possono mantenere contratti, declaratorie, modalità di accesso e di carriera tradizionali.

Il blocco della naturale dinamica contrattuale

Il blocco della contrattazione è la riprova concreta della volontà di attuare una innovazione servendosi però di assetti organizzativi obsoleti, fortemente inadeguati a soddisfare il fabbisogno di servizi espresso dal Paese reale.Il rilancio della produttività, così spesso invocato, può derivare da una struttura organizzativa desueta? Si può continuare a chiedere alle amministrazioni pubbliche di migliorare la qualità del servizio con risorse sempre più scarse? Occorre operare una razionalizzazione interna attraverso la leva contrattuale. Del resto, che si possa attuare in tutti gli ambiti lavorativi una revisione dei processi di lavoro orientata al rilancio della produttività - grazie al coinvolgimento dei lavoratori e mediante una responsabile azione di rappresentanza sindacale - lo dimostra proprio il settore privato, che è riuscito, nonostante gli effetti perduranti della crisi economica e finanziaria, a rinnovare i contratti nazionali con novità significative in tema di flessibilità organizzativa, retribuzione della produttività, funzioni della contrattazione aziendale, ecc.

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Rinviando ulteriormente la tornata contrattuale nel settore pubblico, l’esecutivo dimostra di guardare con malcelata sfiducia nella stessa possibilità di un suo rinnovamento. Considerare le sedi negoziali come un costo da contenere, anziché come un bacino di opportunità e soluzioni organizzative dal quale attingere, significa rinunciare a priori ad intraprendere la strada della modernizzazione. Lo dimostra l’art. 13 del ddl, per il quale la gestione dei contratti diventa un affare politico-tecnocratico in un’azione di accentramento datoriale, che allontana ancora di più le sedi decisionali da quelle produttive.La decisione di bloccare ulteriormente il rinnovo dei contratti pubblici ha conseguenze molto negative. infatti: aggrava il danno economico subito da 3

milioni di lavoratori (la perdita retributiva media di cinque anni di blocco contrattuale è pari a 3.300 euro a lavoratore) (Cfr. Tab. 2, Perdite retributive medie);

comprime il ruolo e lo spazio d’azione della rappresentanza sindacale, presupposto non soltanto di una sana dialettica

Tab. 2. Perdite retributive medie per mancati rinnovi (in euro)

COMPARTO Perso

al primo rinnovo contrattuale

Perso anni 2013-2014

Totale persoper mancati rinnovi

scuola 1.829,57 1.009,39 2.838,96

ist. form.ne art.co mus.le 2.484,46 1.370,70 3.855,16

ministeri 1.986,17 1.095,79 3.081,97

presidenza consiglio ministri 3.576,82 1.973,37 5.550,18

agenzie fiscali 2.485,31 1.371,17 3.856,48

enti pubblici non economici 3.020,17 1.666,26 4.686,43

enti di ricerca 2.448,80 1.351,03 3.799,83

università 1.894,55 1.045,24 2.939,79

servizio sanitario nazionale 2.126,99 1.173,48 3.300,47

regioni ed autonomie locali 2.002,38 1.104,74 3.107,12

regioni a statuto speciale 2.335,54 1.288,54 3.624,08

autorità indipendenti 4.671,57 2.577,35 7.248,92

enti art.70-co. 4 - d.lgs165/2001 3.628,13 2.001,67 5.629,80

enti art.60 -co. 3- d.lgs165/2001 2.060,60 1.136,85 3.197,45

Elaborazione su dati Mef - Rgs

democratica all’interno del Paese, ma anche di una maggiore stabilità sociale (con ovvie ricadute sulla produttività);

impedisce di sancire un nuovo patto tra il Paese e i 584 mestieri del settore pubblico. Il contratto è un diritto, è un patto tra datore di lavoro e lavoratori. Bloccare il contratto significa bloccare la motivazione al cambiamento e l’incentivazione a tramutare i servizi per renderli veloci, innovativi, di qualità. Rivendicare il diritto ad un contratto è una battaglia di giustizia sociale ed è l’unico modo per continuare a garantire ed accrescere la qualità dei servizi alla cittadinanza.

UNA PROTESTA COSTRUTTIVA

La protesta nelle piazze e le manifestazioni che si sono svolte in questi ultimi giorni sono il segno della determinazione a non voler rinunciare all’obiettivo di liberare il Paese dagli sprechi di gestione e dalla mancanza di innovazione e qualità che i cittadini esigono dalla pubblica amministrazione. Il lavoro

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Dopo un anno Di promesse mancate

pubblico è una risorsa svilita, compressa, non riconosciuta a causa di interessi crescenti, contro i quali il governo si è arenato, cercando il consenso, non il bene del paese.La protesta è nata e continuerà, nelle città e nei posti di lavoro, come un’operazione-verità. Perché i lavoratori pubblici hanno diritto ad avere un contratto con il proprio “datore” di lavoro, non un “Bonus”; i risparmiatori, i lavoratori e i pensionati devono pagare meno tasse; la professionalità e la competenza devono essere misurate, contro il proliferare

di privilegi e disorganizzazione di Enti, Aziende, Ministeri e Agenzie; la formazione e la produttività vanno promosse e incentivate; la trasparenza deve diventare rendicontazione responsabile; i giovani di talento devono poter trovare un’occasione di crescita nelle pubbliche amministrazioni; la PA, governata dalle competenze e non da farraginosi meccanismi procedurali, deve saper intercettare e trasformare le istanze del Paese in occasioni di sviluppo sociale, culturale ed economico. Sono tante, troppe, le ragioni della protesta.

Page 12: LE RAGIONI DELLA PROTESTA · (legge 56/2014, riforma del Titolo V Cost.). Già l’art. 1 del dl 138/2011 ha previsto l’adozione di un programma “per l’integrazione operativa