Le radici di un’eresia - ASSOCIAZIONE LAVORATORI ... · nelprecipitare dell’autunno caldo...

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Novembre 1969, il Pci radia il «manifesto». Una rivista, ma soprattutto una critica di sinistra al capitalismo e al socialismo reale I l 24 novembre del 1969 si riuniva a Ro- ma in via Botteghe Oscure il Comitato centrale del Partito comunista italiano per radiare Aldo Natoli, Luigi Pintor e Rossana Rossanda. Natoli era stato un antifa- scista processato nel 1936 e poi dirigente della federazione romana; Pintor era il più brillante giornalista dell’Unità e Rossanda aveva diretto la sezione culturale del partito. «Radiati» vole- va essere meno grave che «espulsi», come ne- gli altri partiti comunisti, con l’accusa di tradi- mento o comunque di indegnità morale. Noi eravamo accusati di aver costituito una «frazio- ne»; in realtà non avevamo costituito nessuna frazione, non eravamo per nulla clandestini né avevamo cercato sotterranei contatti con al- tri gruppi di compagni; ma avevamo fatto for- se di peggio: pubblicavamo dal giugno prece- dente un mensile di cultura politica che al pri- mo numero aveva venduto oltre cinquantami- la copie, era diretto da Lucio Magri e da me, e firmato da Luigi Pintor, Vittorio Foa, Ninetta Zandegiacomi, Daniel Singer, Enrica Collotti Pischel, Edgar Snow e K.S.Karol, Michele Rago e Lucio Colletti. Ci era stato richiesto di chiuderlo o modifi- carne la direzione, e avevamo rifiutato. A quelle del Comitato Centrale seguirono la radiazione di Magri e Luciana Castellina, nonché di quelli che avevano diretto e firmato la rivista e dei membri di diverse federazioni che, quando la questione del manifesto era stata discussa, ci avevano appoggiato. Raramente il Pci si risolveva a espellere, se non chi fosse stato pescato con le mani nella cassa o simili; l’ultima volta per il Comitato Centrale erano stati i deputati Aldo Cucchi e Valdo Magnani, accusati di essere seguaci di Tito, il dirigente jugoslavo scomunicato dal partito comunista dell’Unione Sovietica. In un partito che si figurava come un esercito in guerra, la discussione era ammessa all’interno di una singola istanza e in presenza di un rap- presentante delle istanze superiori, dopo di che si votava a maggioranza e tutto rientrava nell’ordine. Questo sistema, il «centralismo de- mocratico» era un metodo di comando che consentiva alle istanze superiori non solo un controllo ma di capire che cosa avevano nella testa quelle inferiori, stabilendo il limite delle eventuali mediazioni. La vera discussione, fi- no ad autentici scontri, avveniva nella direzio- ne, senza che ne uscissero e tanto meno fosse- ro sottoposte al Comitato Centrale e alla base le linee di divisione, che si potevano soltanto intuire dai diversi accenti che i membri della direzione mettevano nei loro discorsi e com- portamenti. La virtù più elogiata, di buono o cattivo grado, era la lealtà, forma onorevole di obbedienza. L’uscita della rivista, e il suo clamoroso succes- so, spezzavano, lealmente ma fuori di ogni disci- plina, questo meccanismo. La nostra scommes- sa era di legittimare nel Partito una discussione di fondo sui temi che erano maturati nel decen- nio Sessanta, culminati nel ‘68 degli studenti e nel precipitare dell’autunno caldo del ‘69. Una divergenza era venuta alla luce nel grup- po dirigente con la morte di Togliatti, nell’ago- sto del 1964. Non che fossero mancati scontri precedenti al vertice, sulla natura del «partito nuovo», quindi sulla svolta repressiva del 1948 all’est e nel 1951 con il rifiuto di Togliatti di la- sciare l’Italia e spostarsi sul Cominform come chiedeva Stalin, quindi sull’esplodere della in- surrezione ungherese del 1956 e nel X congres- so del Partito che la seguì. Il punto era sostan- zialmente lo stesso: quale tipo di partito dove- va essere quello italiano e a quale legame era tenuto di fronte non più alla III Internazionale, sciolta nel 1943, ma alla funzione di «guida» del partito dell’Urss? Fin dall’arrivo in Italia, nella primavera del 1943, Togliatti aveva affermato che non si sa- rebbe seguito il modello sovietico. Poteva pare- re un’astuzia, ma era sua persuasione che si sa- rebbe dovuto costituire, nella zona del mondo che gli accordi di Yalta lasciavano sotto influen- za occidentale, un partito di massa, non un gruppo leninista di «professionisti della rivolu- zione»; un partito democratico e progressista, cioè socialmente avanzato e costituzionale, che avrebbe cercato la maggioranza per far compiere alla nostra società una trasformazio- ne di fondo. Una «rivoluzione»? Non nel senso di presa del potere e conseguente dittatura del proletariato, anche se fino al 1956 questo «no» non venne argomentato come né necessario né possibile in un paese a capitalismo maturo. Il partito si dichiarava «marxista e leninista», ma sulla sua natura concreta Togliatti si era scontrato sia con i «vecchi» compagni sia con quella parte della resistenza che non accettava quella che avevano digerito come una tattica, un «per ora», utile anche a Stalin, l’Unione so- vietica essendo uscita dalla seconda guerra mondiale con 22 milioni di morti e terribili ur- genze di ricostruzione. E infatti la stretta del 1948 e 1949 nel campo dell’est, con i conse- guenti processi ed esecuzioni, non era stata contestata dal Pci, né la condanna di Tito, an- che se in quella occasione si verificò la prima grossa perdita di iscritti. Il Pci tacque anche sul- la prima sanguinosa repressione operaia nella Germania del 1953. La polemica su «quale partito» parve risolta nel 1954 con l’allontanamento di Pietro Sec- chia dalla responsabilità dell’organizzazione, dove aveva costituito «per ogni eventualità» una rete clandestina, ma lo scontro si riaprì nel 1956 e percorse per la prima volta anche la ba- se con l’insurrezione ungherese e poi l’invasio- ne sovietica del novembre 1956. Era evidente la richiesta di una democrazia negata. SEGUE A PAGINA 2 Le radici di un’eresia comunista Rossana Rossanda, Luciana Castellina

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Novembre 1969, il Pci radia il «manifesto».Una rivista, ma soprattutto una criticadi sinistra al capitalismo e al socialismo reale

Il 24 novembre del 1969 si riuniva a Ro-ma in via Botteghe Oscure il Comitatocentrale del Partito comunista italianoper radiare Aldo Natoli, Luigi Pintor e

Rossana Rossanda. Natoli era stato un antifa-scista processato nel 1936 e poi dirigente dellafederazione romana; Pintor era il più brillantegiornalista dell’Unità e Rossanda aveva direttola sezione culturale del partito. «Radiati» vole-va essere meno grave che «espulsi», come ne-gli altri partiti comunisti, con l’accusa di tradi-mento o comunque di indegnità morale. Noieravamo accusati di aver costituito una «frazio-ne»; in realtà non avevamo costituito nessunafrazione, non eravamo per nulla clandestininé avevamo cercato sotterranei contatti con al-tri gruppi di compagni; ma avevamo fatto for-se di peggio: pubblicavamo dal giugno prece-dente un mensile di cultura politica che al pri-mo numero aveva venduto oltre cinquantami-la copie, era diretto da Lucio Magri e da me, efirmato da Luigi Pintor, Vittorio Foa, NinettaZandegiacomi, Daniel Singer, Enrica CollottiPischel, Edgar Snow e K.S.Karol, Michele Ragoe Lucio Colletti.

Ci era stato richiesto di chiuderlo o modifi-carne la direzione, e avevamo rifiutato. A quelledel Comitato Centrale seguirono la radiazionedi Magri e Luciana Castellina, nonché di quelliche avevano diretto e firmato la rivista e deimembri di diverse federazioni che, quando laquestione del manifesto era stata discussa, ciavevano appoggiato.

Raramente il Pci si risolveva a espellere, senon chi fosse stato pescato con le mani nellacassa o simili; l’ultima volta per il ComitatoCentrale erano stati i deputati Aldo Cucchi eValdo Magnani, accusati di essere seguaci diTito, il dirigente jugoslavo scomunicato dalpartito comunista dell’Unione Sovietica. In unpartito che si figurava come un esercito inguerra, la discussione era ammessa all’interno

di una singola istanza e in presenza di un rap-presentante delle istanze superiori, dopo diche si votava a maggioranza e tutto rientravanell’ordine. Questo sistema, il «centralismo de-mocratico» era un metodo di comando checonsentiva alle istanze superiori non solo uncontrollo ma di capire che cosa avevano nellatesta quelle inferiori, stabilendo il limite delleeventuali mediazioni. La vera discussione, fi-no ad autentici scontri, avveniva nella direzio-ne, senza che ne uscissero e tanto meno fosse-ro sottoposte al Comitato Centrale e alla basele linee di divisione, che si potevano soltantointuire dai diversi accenti che i membri delladirezione mettevano nei loro discorsi e com-portamenti. La virtù più elogiata, di buono ocattivo grado, era la lealtà, forma onorevole diobbedienza.

L’uscita della rivista, e il suo clamoroso succes-so, spezzavano, lealmente ma fuori di ogni disci-plina, questo meccanismo. La nostra scommes-

sa era di legittimare nel Partito una discussionedi fondo sui temi che erano maturati nel decen-nio Sessanta, culminati nel ‘68 degli studenti enel precipitare dell’autunno caldo del ‘69.

Una divergenza era venuta alla luce nel grup-po dirigente con la morte di Togliatti, nell’ago-sto del 1964. Non che fossero mancati scontriprecedenti al vertice, sulla natura del «partitonuovo», quindi sulla svolta repressiva del 1948all’est e nel 1951 con il rifiuto di Togliatti di la-sciare l’Italia e spostarsi sul Cominform comechiedeva Stalin, quindi sull’esplodere della in-surrezione ungherese del 1956 e nel X congres-so del Partito che la seguì. Il punto era sostan-zialmente lo stesso: quale tipo di partito dove-va essere quello italiano e a quale legame eratenuto di fronte non più alla III Internazionale,sciolta nel 1943, ma alla funzione di «guida»del partito dell’Urss?

Fin dall’arrivo in Italia, nella primavera del

1943, Togliatti aveva affermato che non si sa-rebbe seguito il modello sovietico. Poteva pare-re un’astuzia, ma era sua persuasione che si sa-rebbe dovuto costituire, nella zona del mondoche gli accordi di Yalta lasciavano sotto influen-za occidentale, un partito di massa, non ungruppo leninista di «professionisti della rivolu-zione»; un partito democratico e progressista,cioè socialmente avanzato e costituzionale,che avrebbe cercato la maggioranza per farcompiere alla nostra società una trasformazio-ne di fondo. Una «rivoluzione»? Non nel sensodi presa del potere e conseguente dittatura delproletariato, anche se fino al 1956 questo «no»non venne argomentato come né necessarioné possibile in un paese a capitalismo maturo.

Il partito si dichiarava «marxista e leninista»,ma sulla sua natura concreta Togliatti si erascontrato sia con i «vecchi» compagni sia conquella parte della resistenza che non accettavaquella che avevano digerito come una tattica,un «per ora», utile anche a Stalin, l’Unione so-vietica essendo uscita dalla seconda guerramondiale con 22 milioni di morti e terribili ur-genze di ricostruzione. E infatti la stretta del1948 e 1949 nel campo dell’est, con i conse-guenti processi ed esecuzioni, non era statacontestata dal Pci, né la condanna di Tito, an-che se in quella occasione si verificò la primagrossa perdita di iscritti. Il Pci tacque anche sul-la prima sanguinosa repressione operaia nellaGermania del 1953.

La polemica su «quale partito» parve risoltanel 1954 con l’allontanamento di Pietro Sec-chia dalla responsabilità dell’organizzazione,dove aveva costituito «per ogni eventualità»una rete clandestina, ma lo scontro si riaprì nel1956 e percorse per la prima volta anche la ba-se con l’insurrezione ungherese e poi l’invasio-ne sovietica del novembre 1956. Era evidentela richiesta di una democrazia negata.

SEGUE A PAGINA 2

Le radicidi un’eresiacomunista

Rossana Rossanda, Luciana Castellina

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SEGUE DALLA PRIMA

Ora il nostro gruppo dirigente, dopo avere van-tato il XX congresso del Pcus, che con la tesi dellacoesistenza pacifica pareva andare nella nostradirezione, aveva ricevuto un duro colpo dal cosid-detto «rapporto segreto» sullo stalinismo, ma dife-se ugualmente l’intervento armato, pur evitandosanzioni disciplinari contro chi aveva protestato.Fu un turbamento profondo che male era sche-matizzato nel «rivoluzione subito» o «rivoluzionemai»: si schematizzava assai quel che poteva onon poteva fare un partito comunista in occiden-te. Di più, ma sottotraccia, quel che il gruppo diri-gente trovava auspicabile che fosse e facesse: lostalinismo poteva essere avallato come dura ne-cessità per la Russia ma non ne derivava necessa-riamente, per chi l’aveva conosciuto, che fosseauspicabile per la società italiana. Ma il discorsonon poteva essere aperto con questa brutalitàsenza rompere con l’Urss e in piena guerra fred-da. Soltanto dal seguente X˚ congresso, alquantotormentato, e nella forma delle «vie al sociali-smo» proprie a ciascun paese uscì vincente la li-nea di Togliatti, che condannava ogni «duplici-tà»: in Italia il socialismo sarebbe stato raggiuntocon lotte sempre più estese di massa e una cresci-ta della partecipazione in grado di produrre pro-fonde «riforme di struttura». E dopo la levata anti-fascista dell’estate del ’60, si giunse per un mo-mento a parlare ai giovani di una «rivoluzione ita-liana» che tornava all’ordine del giorno (1961).

La crescita impetuosa del Pci, assieme al nuo-vo protagonismo giovanile, andava inoltre in pa-rallelo con l’ammodernamento del paese: la ri-conversione postbellica era stata dura ma avevaveduto grandi lotte, le migrazioni dalle campa-gne del sud alle industrie del nord ne cambiava-no la fisionomia, l’entrata delle donne nel lavorocominciava a mutare la struttura familiare. E ne-gli stessi anni parve ridursi la stretta della guerrafredda: Kennedy parlava di «nuova frontiera», laChiesa si apriva al Concilio Vaticano II˚. E la Dcdoveva accettare, dopo quindici anni di dominioincontestato, un governo di centrosinistra.

Si apriva una fase riformista? E se sì, quale erala collocazione che il Pci doveva assumere in que-sto scenario? Esso avrebbe favorito un avanza-mento del movimento operaio o costituiva un pe-ricolo di assorbimento delle masse fino alloracombattive? Il capitalismo italiano restava vec-chio, miope e fascisteggiante o si sarebbe ammo-dernato anch’esso, capace di innovazione e diuna contrattualità meno repressiva? Gran partedel gruppo dirigente sosteneva l’incapacità stori-ca del nostro capitalismo di crescere con un piùdi apertura ai lavoratori e un sistema politico real-mente costituzionale, mentre una minoranza, an-che nel sindacato, segnalava già qualche innova-zione (il neocapitalismo) e un management nonriducibile al «supersfruttamento» finora denun-ciato. Per la maggioranza, se la Dc era ormai co-stretta a far «passare» il Psi, sarebbe «passato» an-che il Pci; per la minoranza il Psi stava manifesta-mente cambiando di campo, il capitale aveva ar-mi più sottili e il Pci doveva intelligentementespostarsi su una fase di lotta più avanzata. Le duetesi erano schematiche ma chiare. Nel 1982 unconvegno indetto dall’Istituto Gramsci ne avreb-be messo in rilievo i protagonisti, da una parteAmendola, dall’altra Bruno Trentin della Cgil eLucio Magri, con la simpatia di Longo.

Le elezioni dell’anno seguente, il 1963, parverodimostrare, con la grande avanzata del Pci e la co-sternazione della Democrazia cristiana, che una«modernizzazione» era in corso, ma non facevaperdere al Pci nessun voto, divideva i socialisti,raccoglieva i primi sintomi di un acutizzarsi delconflitto sociale con le nuove figure operaie. Il pa-ese parve svoltare a sinistra.

L’improvvisa morte di Togliatti nell’agosto del1964 eliminava il mediatore più autorevole fra ledue posizioni, «spostando in avanti» – come siusava dire – il discorso. La direzione temette che

se la successione si fosse giocata subito fra Amen-dola e Ingrao, i due capofila simbolici della di-scussione, ci sarebbe stato uno scontro, e preferìfar durare l’interim di Longo, scegliendo a mediotermine un successore terzo, come pareva EnricoBerlinguer. Ma era un armistizio: nel 1966 l’XI˚congresso, tutta la direzione, Longo incluso, miseintanto fuori gioco Ingrao, che sosteneva la neces-sità di prendere atto d’un cambiamento, di anda-re a un’alleanza non già fra Pci e Psi, come avevaproposto fuori tempo Amendola, ma con le sini-stre dei socialisti e dei cattolici, politiche e sinda-cali, per un «diverso modello di sviluppo» e nellostesso tempo consentire libertà di dissenso nelpartito. La formula «diverso modello di sviluppo»lasciò perplesso il partito e la libertà di dissentirelo spaventò. Molto applaudito, Ingrao fu peròspostato a un incarico onorevole ma meno decisi-vo e i sospetti «ingraiani» furono tutti rimossi da-gli incarichi. Il primo scontro pubblico fra due li-nee finì con la sconfitta di una fin troppo ragione-vole sinistra.

Cadde dunque su Longo il terremoto di fine de-cennio: il ‘68 degli studenti, inedito movimentogiovanile che si apriva in diverse parti del mon-do, e poi l’«autunno caldo» nel ’69 degli operai ita-liani, fabbriche occupate e in autogestione, cheavrebbe liquidato le commissioni interne, cin-ghie di trasmissione delle confederazioni, e rinno-vato contenuti e metodi delle lotte. Contempora-neamente nel ’68 era partito il «nuovo corso» ce-coslovacco, e benché Longo avesse messo inguardia il Pcus, l’esercito sovietico invase Praga earrestò Dubcek, insediando al suo posto Husak.Il Pci condannò come «tragico errore» l’interven-to armato dell’Urss, non attaccò gli studenti maneanche tentò un dialogo serio con loro (ecce-zion fatta per un incontro di Longo), lasciò allaCgil di riportare quel forte movimento operaio,

in modo soft, negli arginidi un avanzato contrattoche cambiava alcuni rap-porti di forza in fabbrica(anche se il «sindacato deiconsigli» era un poco so-spetto alle Botteghe Oscu-re).

Insomma di fronte alpianeta in subbuglio il Pciprendeva tempo. Perdevacolpi, pensarono alcuni dinoi, ex «ingraiani». E nonavendo nulla da perdereriaprimmo la discussione:dicemmo al CC e altroveche l’invasione della Ceco-slovacchia non era un tra-gico errore ma la logicaconseguenza del dominiodell’Urss sulle democraziepopolari, che gli Stati Unitistavano perdendo nel Viet-nam, che il movimento de-gli studenti e dei nuovioperai allargavano e quali-ficavano negli obbiettivi il«blocco storico» della rivo-

luzione italiana, che il Partito, invece che frenare,doveva e poteva dare loro una sponda. Non fum-mo i soli anche se i più espliciti: dalla federazionegiovanile alle commissioni di lavoro del CC il fre-mito della società premeva sull’apparato.

Il Pci non offrì sponde. Non attaccò ma non simosse. Magri, Natoli, Pintor, Rossanda deciserodi sfidare il gruppo dirigente fuori della consuetaprocedura. Natoli, Pintor, Rossanda e Caprara in-tervennero dissociandosi prima sulla Cecoslovac-chia poi dalle Tesi nel Comitato Centrale e ai pri-mi tre fu concesso di parlare al XII˚ congresso delpartito all’inizio del 1969, cosa che fecero senzareticenze, suscitando le ire della delegazione so-vietica, che ostentatamente si alzò e uscì dalla sa-la trascinando con sé gli altri partiti «fratelli». Lasegreteria aveva deciso questa apertura, impensa-

bile negli altri partiti comunisti, anche per trarrevantaggio dal suo democratismo. Il congresso fucolpito dai reprobi per dir così consentiti, li ap-plaudì molto, ma esitò a votare una mozione as-sieme a loro. Berlinguer concluse con un inter-vento critico contro di essi, ma senza minacce,che suonò come una qualche apertura.

I tre che avevano parlato furono rinominatinel CC ma restarono sollevati da ogni incarico.La discussione era di nuovo bloccata. Decisero al-lora di pubblicare da soli un mensile di cultura epolitica, ne avvertirono Berlinguer che aveva or-mai sostituito Longo, gravemente ammalato, e ilprimo numero de Il manifesto, evidente richiamoa Marx, uscì il 23 giugno dello stesso anno, ven-dette oltre cinquantamila copie. Niente di simileera mai avvenuto in un Partito comunista del do-poguerra. Il mensile, che attaccava la conferenzamondiale di Mosca contro la Cina, definiva «sen-za avvenire» il dialogo con la Dc (Luigi Pintor) eb-be un grande successo, agitando le acque nel par-tito e fuori di esso. Bufalini lo attaccò duramentesu Rinascita e fu convocato un Comitato centralenel quale il relatore, Alessandro Natta, ne criticò icontenuti e chiese ma senza toni ultimativi il rien-tro nella disciplina. Nel mese seguente Berlin-guer propose o di allargare la direzione della rivi-sta ad altri membri del partito, su posizioni per ladirezione più accettabili, o preferibilmente passa-re ad altri incarichi. Diversamente da Amendola,Bufalini e Pajetta, egli era manifestamente nonostile ad allargare lo spazio del dibattito, con qual-che prudenza.

Il manifesto non cedette e ai primi di settem-bre usciva il numero 4 della rivista con l'editoria-le «Praga è sola», scritto da Lucio Magri, che de-nunciava la «normalizzazione» avvenuta in quelpaese nel silenzio dei partiti comunisti. Sembrache ci siano state violente proteste del Pcus pres-so il Pci. Si riunì la V commissione del CC (disci-plina) condannandoci, e un secondo e più rigidoComitato Centrale ci chiese di rinunciare del tut-to alla pubblicazione come frazionista e invitò tut-te le federazioni a pronunciarsi. La consultazionesi rivelò singolarmente aperta, alcune città votan-do addirittura a maggioranza in nostro favore. Lasegreteria la sospese d’improvviso indicendo peril 24 novembre un terzo Comitato centrale.

«Siete ancora in tempo, date una prova di fe-deltà» ci offrì prima dei lavori Enrico Berlinguer.«Non è fedeltà che volete, ma obbedienza». Fu Al-do Natoli a rispondere per tutti a Berlinguer conla dichiarazione di voto finale: «Si può essere co-munisti anche senza tessera». I risultati della vota-zione sono stati i seguenti: 3 contrari (Natoli, Pin-tor, Rossanda), 3 astenuti (Chiarante, LombardoRadice, Luporini), tutti gli altri hanno votato a fa-vore delle conclusioni di Natta. Sergio Garavini,assente al momento del voto, ha successivamen-te inviato una lettera nella quale dichiara che, sefosse stato presente, si sarebbe astenuto.

Il gruppo del manifesto era fuori dal Pci. Nessu-no dei grandi editori avendo accettato di stampa-re la rivista, avevamo stretto un accordo con unintelligente tipografo di Bari, Coga, cui consegna-vamo gratis l’intero testo e assicuravamo la mes-sa in pagina. Egli avrebbe stampato e diffuso ilmensile, trattenendone il ricavo, salvo cinquemi-la copie che restavano a noi e dalla cui venditaavremmo tratto il necessario per una modesta se-de e la sopravvivenza. La grafica era assicurata daGiuseppe Trevisani, la scrittura naturalmente gra-tuita e Ornella Barra avrebbe garantito la segrete-ria per anni. L’eco fu assai grande, dentro e fuoridal partito - anche se stupì e fu presto guardatocon sospetto un gruppo che voleva «uscire dallostalinismo da sinistra». Ottenemmo molte firmee sarebbero state di più se firmare non avesse si-gnificato mettersi contro il Pci.

Che fare? La nostra intenzione non era stata dispaccare il partito ma di instaurarvi un perma-nente principio di elaborazione e di critica. Dun-que non procedemmo in un lavoro di frazione,contattando le migliaia di compagni con i quali

avevamo avuto a che fare in una milizia di alme-no venticinque anni, e dei quali conoscevamol’inquietudine. Forse fu un errore, ma veniva dauna grande ambizione: non ridurre il caso del ma-nifesto a un intrigo e lavorio di corrente ma teneraperto in esso, come nella Cgil, e contattando lamolteplice nuova sinistra non staliniana che siera formata o si andava formando. Il rapportopiù ravvicinato fu con Potere Operaio, ma non siapprodò a nessuna unificazione perché ci divide-va la sua tendenza a far subito un partito, e inqualche misura insurrezionalista.

Continuammo dunquea far uscire il mensile e acreare circoli di dibattitofinché, nel 1971, Luigi Pin-tor propose di trasformar-ci in un quotidiano, formapressante di una politicache poteva circolare dap-pertutto. Il quotidiano, deltutto autofinanziato, uscìil 28 aprile. La testata duraormai da 38 anni, sempredifficoltà, sempre libera.

Una stretta politicista laavemmo, forse per erroreforse per la forza delle co-se: ci presentammo alleelezioni politiche del 1972con una lista che ebbegrande ascolto nei comizima raccolse soltanto lo0,66 per cento dei voti e nedisperse, assieme alloPsiup e al Mpl, quasi unmilione. Non eravamo tut-ti d’accordo su questa scel-ta, ma quelli di noi che viinsistettero rappresentava-

no la spinta ad accelerare che veniva dalla base,bisognosa di un risultato visibile a breve. Non èsemplice sopravvivere in politica con una pubbli-cazione di sinistra fuori di ogni istituzione e neitumultuosi anni Settanta. Nelle cui vicende sicomprende la storia del manifesto come gruppo,che formò il Partito di unità proletaria per il co-munismo (Pdup) assieme alla sinistra socialista,in particolare Vittorio Foa e Pino Ferraris, e il Mo-vimento di Gian Giacomo Migone, e quella delgiornale che a un certo punto se ne separò per ri-prendere la propria autonomia.

Da allora la storia del manifesto, gruppo e gior-nale, si intreccia con quella, ancora mai fatta conun minimo di oggettività storica, degli anni ’70.Incontrammo infatti la reazione dell’establish-ment, la crisi dell’energia e la proposta di Berlin-guer del compromesso storico dopo la vicendadel Cile, la controffensiva della Trilaterale e delneoliberismo che seminarono lo scompiglio ol’estremismo in molti gruppi della nuova sinistra.L’appoggio del Pci al governo Andreotti del 1976radicalizzò i gruppi. Il dialogo che ci eravamo ri-promessi nel ‘69 non si è realizzato, ma il Pci è an-dato declinando, malgrado la seconda svolta diBerlinguer nel 1979 e la tenuta elettorale, sino al-la fine accelerata nell’89.

Quanto alle sinistre alla sinistra del Pci, nonriuscirono a coagularsi in una forza effettiva neldecennio ‘70 e tanto meno ‘80, pur avendo spun-ti importanti e non per colpa della piccola ma im-pressionante deriva nella lotta armata. Si forma-va durevolmente soltanto il secondo femmini-smo, con rapporti turbolenti e difficile sia col Pcisia con i gruppi extraparlamentari. Passavano at-traverso di noi la fine del capitalismo keynesianoe dello stato sociale e a venti anni dalla radiazio-ne la crisi dell’89, che abbatté l’Urss e i partiti co-munisti, ma della quale una sinistra non approfit-tò con quello che poteva essere un rilancio comu-nista autentico. Oggi tutte le carte appaiono dinuovo rimescolate, ma una sinistra che possachiamarsi tale non ha più una presenza politicadeterminante.

Di fronte almondo insubbuglio il Pciperdeva tempo. Eaprimmo unadiscussioneradicale

UN’ERESIA COMUNISTA

Non volevamospaccare ilpartito, macambiarlo. Cosìnon facemmoalcun lavoro difrazione

2) Le radici di un'eresia comunista - 24 Novembre 2009

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L’Est socialista e iconflitti operaifurono il filoconduttore dellanostra ricercae di tutti i nostriinterventi

La seminadella rivista

Fu sempreun prodotto

collettivo, dallaanalisi della fase

politica allaelaborazione

teorica

I l manifesto, mensile diretto da Lucio Ma-gri e Rossana Rossanda, Dedalo editore, uscì dalgiugno 1969 a tutto il 1970, quando nel numerodi dicembre annunciò la sua trasformazione inquotidiano. I primi quattro numeri (giugno, lu-glio-agosto e settembre 1969) quando i promoto-ri erano ancora membri del Pci, provocando treriunioni del Comitato Centrale nelle quali la rivi-sta fu criticata e ne fu chiesta, prima in modi nonperentori e poi definitivi, la sospensione. Natoli,Pintor, Rossanda rifiutarono e furono radiati.

La rivista continuò le pubblicazioni, attraver-sando un anno e mezzo di forte movimento so-ciale con una diffusione del tutto insolita per unmensile. Da allora il Partito comunista non neparlo più, secondo l’abitudine di affogare le posi-zioni scomode nel silenzio (salvo procedere alleesclusioni successive di chi vi collaborava). Né nediscussero sui fogli che venivano via via produ-cendo i gruppi extraparlamentari. Da Lotta Conti-nua ci divideva la sua esaltazione dello spontanei-smo e i toni trionfalistici («prendiamoci la città»,«tutto e subito»), dai marxisti-leninsiti la nostracritica ai «socialismi reali». Il solo dialogo ravvici-nato fu con Potere Operaio, incontrato nelle fab-briche, col quale alcuni nostri gruppi di base fece-ro all’inizio qualche comitato politico,salvo con-statare, nel convegno del 1971, che non era possi-bile una convergenza per alcune posizioni estre-miste e insurrezionaliste, che lo avrebbero porta-to rapidamente a una spaccatura. Visti da oggi irapporti delle nuove sinistre fra loro, e fra esse eun Pci ancora incerto, prima del compromessostorico, non furono gloriosi, ciascuno chiudendo-si in sé, anche per lo sforzo di darsi dei solidi para-menti concettuali e per una sopravvalutazionedei rapporti di forza fra l’establishment,che pare-va ridotto soltanto a repressione se non al connu-bio con la destra bombarola, e la molteplicità deisoggetti di cambiamento - molteplicità specificadell’Italia e che sarebbe durata, con alterne vicen-de, quasi un decennio.

Attorno alla rivista cresceva intanto un’aggre-gazione informale diffusa e da questa la spinta acostituirsi in gruppo organizzato. Il mensile regi-stra questo nella differenza fra il primo editorialedel giugno 1969, «Un lavoro collettivo» e quellodella fine del 1970, «versoun movimento politico or-ganizzato» e un quotidia-no come suo strumento.Un passo ulteriore l’avrem-mo fatto presentandocidue anni dopo alle elezio-ni politiche con un enor-me successo di ascolto dichi poi, in nome del «votoutile», sarebbe andato a vo-tare Pci. La partecipazioneelettorale era un erroreper chi ambiva a portare aun confronto le sinistrestoriche e le nuove, perché alle elezioni si sempli-fica e ci si divide, e una sconfitta pesa negativa-mente più di quanto peserebbe in positivo fareun quorum. Ma il bisogno di misurarsi, specie al-la base - ma chi vuol fare politica fra dieci perso-ne? meno che mai noi, avvezzi a un grande parti-to - era e resta un approccio primario, non fosseche per quel tanto di visibilità e di potere che lapresenza nelle istituzioni comporta. Così a menodi due anni dall’inizio e in una situazione socialeancora accesa, la forma quotidiano apparve piùsnella e capace di penetrazione di una rivista, etanto più nella forma anomala che proponeva -poche pagine, niente bazzecole, prezzo mini-mo.

Il manifesto mensile è uscito in tredici fascicolidei quali alcuni doppi, mediamente di 74 nitide

pagine, disegnate dal grande grafico GiuseppeTrevisani. Era diretto da Magri e da me, ma ogninumero veniva progettato e discusso fra tutti co-loro che vi scrivevano. Alla fine i pezzi venivanoportati a Bari per la stampa sotto il controllo di Fi-lippo Maone, responsabile dei rapporti con l’edi-tore, e poi mandati dall’editore stesso in edicola,lasciandoci cinquemila copie da vendere perprovvedere alle spese, modestissime, della sede edelle iniziative sotto la segreteria di Ornella Barra.Si può dire che vi lavorarono quasi quotidiana-mente, assieme a Magri e Rossanda, Luigi Pintor,Aldo Natoli, Luciana Castellina, Valentino Parla-to, Ninetta Zandegiacomi, che erano stati destitui-ti dai rispettivi incarichi e radiati.

La rivista si strutturò naturalmente sui temiche ci avevano mossi. Era aperta da uno o più edi-toriali di attualità, proseguiva con un blocco dianalisi e ricerche a medio termine, teneva ognimese una cronaca e riflessione sulle lotte operaieassieme a chi ne era protagonista sul posto, termi-nava con documenti e scritti di cultura politica,italiani o esteri. Questo schema funzionò dal pri-mo numero all’ultimo, eccezion fatta per lo spe-ciale dedicato alle tesi «Per il comunismo» del set-tembre 1970 (di cui si dà uno stralcio a pagina15). Così il primo numero porta: a) accanto allaproposta «Un lavoro collettivo» una polemica sul-l’insistenza di Giorgio Amendola sull’andare algoverno con la Dc, definita «un dialogo senza av-venire» da Luigi Pintor, altri due editoriali, di Lu-cio Magri e Vittorio Foa sulla strategia contrattua-le e l’imminente «autunno caldo»; b) due infor-mazioni sulle lotte alla Rumianca e alla Chatillon,un pezzo di Ninetta Zandegicomi sulla logica del«part time» e una nota sui «delegati di reparto»; c)una mia polemica sulla conferenza dei partiti co-munisti convocata a Mosca per condannare la Ci-na; d) il documento del Partito comunista ceco-slovacco nel congresso clandestino tenuto a Vyso-cani (Praga) sotto l’occupazione sovietica, intro-dotto da Lisa Foa, un commento su Mao di Enri-ca Collotti Pischel, una conversazione di K. S.Ka-rol con Edgar Snow sulla rivoluzione culturale ci-nese appena dichiarata chiusa da Chou En Lai(del quale esce un interessante ritratto), i docu-menti di lavoro della Sds tedesca; e) tre saggi, diMartin Nicolaus sui « Grundrisse», di Lucio Collet-ti sulla «Società civile», di Michele Rago sull’opi-nione letteraria.

Questa scansione funzionerà sino alla fine. Glieditoriali erano scritti specialmente dal gruppodei promotori (Magri, Pintor, Natoli, Castellina),le cronache delle lotte dai protagonisti di base, co-ordinati perlopiù da Ninetta Zandegiacomi oMassimo Serafini, i materiali e i documenti veni-vano in gran parte dall’estero perché il ’68 avevaprodotto una grande officina di idee e i saggi diuna serie di collaboratri e interlocutori fra i qualiin Italia Macello Cini, Lucio Colletti, Lidia Mena-pace, Luigi Nono, Lia Cigarini e le amiche del De-mau, Camillo Daneo, Gastone Sclavi, MassimoSalvadori, Enzo Collotti, e dall’estero JohannesAgnoli, Régis Debray, Noam Chomsky, Karel Bar-tosek, Charles Bettelheim, Jean Paul Sartre, Ral-ph Miliband, Theo Dietrich, Jorge Semprun, Fer-nando Claudin, Andras Hegedus e MariaMarkus, Michael Kalecki, Paul Sweezy, Jan Myr-dal, André Gorz, Eldridge Cleaver, Ignacy Sachs.

La rivista polemizzò quell’anno con il Pci e ilgrigio governo di Emilio Colombo, ma interven-ne soprattutto sulle scelte della Cgil, che seguivao frenava sulle lotte operaie ed erano quanto piùci premeva. Ne demmo il rendiconto in tutti i nu-meri della rivista. Dall’estate del ’69 a tutto il 1970scrivemmo, oltre che sulla Fiat - seguita soprattut-to da Luciana Castellina e Pino Ferraris, allora se-gretario del Psiup a Torino - su Marghera, PortoTorres, Italsider, Marzotto, Sasib, Acma e Mingan-ti di Bologna, sulla Cucirini di Lucca, ancora Por-tomarghera, ancora Torino, Ducati, Rhodiatoce,Dalmine, Alfa Romeo, Alitalia, oltre a ricerche suitecnici in fabbrica e analisi sia della Cgil sia dellaCisl. Una cronaca di profondità che sarebbe poi

continuata sul quotidiano. Stabilimmo così uncontatto mai perduto, polemico ma non sprez-zante, con le sinistre sindacali di Trentin e Garavi-ni, poi della Cisl di Pierre Carniti, che accompa-gnarono la demolizione delle commissioni inter-ne, cinghia di trasmissione dei partiti. Con il mo-vimento rivendicativo cresceva, fino ad arrivare aquote assai alte, l’autodeterminazione operaia.Mentre spesso ci scontravamo con altri gruppi,intenti a spingere sulle avanguardie a costo di iso-lamento. A leggere oggi questi materiali non ab-biamo autocritiche da farci.

Lo sfondo delle politiche economiche appareancora acutamente esaminato da Valentino Par-lato, cui si deve anche un’analisi del blocco socia-le edilizio in appoggio alle numerose lotte per lacasa e una interprazione che rimase essenzialesulla rivolta di Reggio Calabria. Il movimento de-gli studenti subiva invece in quell’anno una fles-sione, salvo in alcune facoltà o atenei, come medi-cina a Roma o Milano. Con Marcello Cini e LuigiBerlinguer - il primo da sempre con noi, il secon-do per una breve stagione - andammo a una ri-flessione più di fondo con le «Tesi sulla scuola»,che non riuscirono a incrinare il macigno del-l’istruzione ed ebbero qualche effetto collaterale,incrociando il movimento delle 150 ore. In veritàquella scuola il movimento non ebbe la forza nédi ribaltarla né di riformarla dal basso, come di-mostrava la difficoltà incontrata dai controcorsi;fu uno di quei nodi che il ’68 aveva colto con luci-dità ma non era in grado di affrontare che sul pia-no ideale. Questi lavori facevano parte del bloccoche nella rivista seguiva gli editoriali, cercando diapprofondirne i temi. Non potevano mancaredue assi del nostro dissenso di fondo dal Pci e delnostro discorso, la questione del partito e quelladel movimento comunista internazionale. Sul pri-mo punto un’anatomia del Pci, compiuta da Lu-cio Magri e Filippo Maone uscendo dal genericocon una inchiesta in profondità, cifre e specificitànel variare del tessuto italiano, sarebbe stata deci-siva anche per leggere il futuro. Contemporanea-mente il mensile tentò una rivisitazione della te-matica consiliare come forma alternativa dellaclasse non solo nel corso del conflitto ma perl’estinzione dello stato. Su questo ci impegnam-mo in molti, con l’aiuto, in punto di teoria e sto-ria, di Massimo Salvadori e di Enzo Collotti.

Il punto era, ed è rimasto, come trovare una al-ternativa fra l’imbalsamazione del partito lenini-sta nelle sue varianti, le formule centralizzate ebasate sul carisma d’un leader dei gruppi extra-parlamentari e il modello delle socialdemocrazia,che era approdato alla piena continuità con il re-sto dei partiti parlamentari. Come se una piena li-bertà di espressione portasse fatalmente a unaframmentazione per individui, inoperante ai finid’un lavoro collettivo, o a una divisione per cor-renti inclini a degenerare in notabilato, la vicen-da più interessante restando quella del Partito so-cialista italiano, che non evitò due scissioni, unadi destra e una di sinistra, finché Craxi non lo ver-ticalizzò e precipitò nell’affarismo. Ma il discorsoconsiliare non potemmo sperimentarlo nel vivo,essendo dovunque, anche nei luoghi di lavoro,una forza minoritaria, e fu avversato dai gruppi,specie Lotta Continua («siamo tutti delegati»).Nonché dagli «operaisti», che rientravano nel Pcidopo la nostra espulsione e, sulla base della «au-tonomia del politico», variante gramsciana del le-ninismo, consideravano fuori di realtà i riferimen-ti ai consigli. Discussione che dura ancora, consu-mato e seppellito il Pci e scomparsa ogni sinistraalla sua sinistra. Né il problema di una formaaperta resistente nel tempo e in grado di far fron-te a quella che chiamiamo, approssimativamen-te, globalizzazione, è risolto dai «movimenti».

Il secondo tema, soltanto nostro, riguardò lanatura dei socialismi reali. Eravamo stati radiatianche per l’irritazione del Pcus all’apparire sullarivista di una critica secca a un anno dall’invasio-ne dei carri armati a Praga, che definivamo bell’edigerita dai partiti comunisti come la conseguen-

te «normalizzazione». Noi restammo i soli a difen-dere la primavera di Praga, sulla quale non erava-mo allineati se non sul metodo, giacché insisteva-mo sulla necessità di uscire dallo stalinismo da si-nistra, mantenendo nella libertà le conquiste del-la rivoluzione, mentre la maggior parte degli altrigruppi - a parte gli m-l favorevoli all’intervento -si attestava sull’interpretazione liberal-liberista,più o meno distante da Fukujama.

Era un’intuizione corretta di quel che fu una ve-ra oscillazione di indirizzi fra forze opposte, o, co-me fu detto, un abbaglio? Vedemmo il dilemma

reale, che l’occidente nonvolle riconoscere, e il cuiesito fa ora della Cina il piùforte concorrente capitali-sta a partito unico degliStati Uniti. La rivista svilup-pò come nessun altro, sal-vo il lavoro personale diEdoarda Masi e quello, me-no audace, di Vento del-l’Est, un’analisi della lineadi Mao, attraverso lo sfor-zo storico e teorico di AldoNatoli e Lisa Foa sul dibat-tito dei comunisti cinesi

prima e durante la rivoluzione culturale, lungotre numeri del 1970, preceduti e seguiti dai repor-tages di K.S.Karol e Jan Myrdal. E giusto nell’ulti-mo numero dava ampio spazio alla rivolta opera-ia polacca del ’70, sulla quale la Chiesa non avevaancora messo le mani (ma rivolta operia fu anchequando per un decennio ve le mise). Nello stessotempo pubblicammo, come si è detto, i documen-ti del pc cecoslovacco, tolto di mezzo dall’invasio-ne, e della resistenza a Husak che il quotidianoavrebbe poi seguito, come Listy e la Charta 77.

È l’insieme di questa elaborazione che portònell’estate alle tesi «Per il comunismo» che affon-dano nelle contraddizioni inedite e crescenti diuna società complessa di capitalismo avanzato evedevano che, qualora non fossero affrontatecon una ricerca e un tentativo permanente di sta-bilire e verificare dei nessi, ci avrebbero portato auna crisi della democrazia e al ritorno delle guer-re. Questa ricerca non è stata fatta e si può diresenza enfasi che la sinistra ne è morta. Non si ri-mandano gli appuntamenti crudeli accumulatidalla storia.

Perciò, rivedendola oggi, la nostra prima rivi-sta appare tuttaltro che archeologica, densa deldibattito immediatamente successivo al ’68 e al-l’alba dei Settanta e da allora irrisolto

Va aggiunto, e si puo ormai sorriderne come diuna forma di infantilismo, che se attirammo mol-tissimi, fummo oggetto di vivace antipatia non so-lo per il Pci che ci accusava di estremismo, maper la maggior parte dei gruppi extraparlamenta-ri, che ci accusavano all’opposto di moderatismoperche ragionanti e distinguenti.

Sta di fatto che, a differenza di altri, siamo esisti-ti a lungo, e non abbiamo una lunga coda di mili-tanti allora impaziente ed entusiasti e poi passatiarmi e bagagli dall’altra parte. E abbiamo potutofare per tutti, anche per chi ci era piu lontano, unabattaglia di libertà quando le politiche dell’emer-genza hanno colpito in tutte le direzioni. L’ultimonumero del manifesto mensile difendeva AdrianoSofri dalla prima incarcerazione, e il manifestoquotidiano non ha mai scordato che egli è ogget-to tuttora di una di una persecuzione giudiziariaimperdonabile. Difendemmo a lungo la causa del7 aprile, esempio di una lunga vendetta su un de-litto sostanzialmente d’opinione. Alcuni di noi sipiegarono anche sulla vicenda delle Brigate Ros-se, che non confondemmo con la destra - il san-gue sta dalle due parti - quali che fossero le diver-genze che ci opposero. Siamo stati anche chiama-ti «cattivi maestri», ma non ci hanno fatto tacere.Sui figli degli anni ‘70, torti e ragioni e speranze eferite e dolore di un decennio senza confronti, ilmanifesto ha potuto stendere l’esile mantello cheda quel lontano ’69 si era conquistato.

Il primo numero uscì nel giugno 1969.L’ultimo nel dicembre del 1970, annunciandola nascita del quotidiano. La rivista era la traduzioneeditoriale del lavoro politico e teorico cresciutonella temperie del secondo «biennio rosso» italiano

Rossana Rossanda

Le radici di un'eresia comunista - 24 Novembre 2009 (3

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Il tempo lungodel collettivo

Quando abbiamo da-to alle stampe il pri-

mo numero de il manifesto, il 23giugno 1969, volevamo solo fareuna rivista. Nient’altro che unarivista. Se è poi invece accadutoche da qui è nato anche un movi-mento organizzato (e alla finepersino un partito, il Pdup); eche si siano aperti subito,e unpo’ ovunque, circoli che al Mani-festo si richiamavano, è perché inostri lettori – che furono imme-diatamente tantissimi, anchegrazie alla distribuzione in edico-la della rivista – non erano dispo-sti ad accettare di essere solo let-tori. Non erano tempi – quelli –in cui ci si accontentava di unpassivo ruolo culturale, eranotempi di militanza e non era giu-sto negarsi a chi da noi volevaun punto di riferimento per lalotta. Noi stessi, del resto, aveva-mo orrore all’idea di diventaredei semplici intellettuali; e infat-ti già nel primo numero della ri-vista l’editoriale era intitolato«Un lavoro collettivo».

La domanda venne da due di-versi settori. Inizialmente daquella parte del Pci che quando,nel novembre ’69, gli organismidirigenti del Pci avevano propo-sto al dibattito del partito la no-stra radiazione, vi si erano fiera-mente opposti. In quella conte-stazione non c’era solo la prote-sta contro una burocratica inter-pretazione del centralismo de-mocratico, affiorava anche la te-matica del dibattito che, sia purlatente, aveva ormai coagulatoposizioni politiche simili alle no-stre, nei Comitati federali e nellesezioni.

È accaduto, per ragioni oggetti-ve e soggettive, in particolare aRoma, a Napoli, a Cagliari e a Ber-gamo, le quattro città indicate al-lora da Paolo Bufalini in un arti-colo dell’Unità come quelle dove«il frazionismo de il manifestoaveva attecchito». Ma consistentischieramenti a favore nostro sierano formati in quasi tutte leprovincie (con l’eccezione di Bo-logna), specie nelle sezioni citta-dine: dalla piccola Avellino, doveil periodico della Federazione,«Progresso Irpino», pubblicò uneditoriale in polemica con la ra-diazione, a Torino o Milano, do-ve anche nelle sezioni operaievenne polemicamente denuncia-to il fatto che posizioni ben più«frazioniste» di quelle de Il mani-festo come quelle espresse daGiorgio Amendola (che avevaoperato una esplicita aperturaverso il governo di centrosinistra,difformemente dalla direzionedel Pci) non avevano dato luogoad alcuna misura disciplinare.

Solo una piccola parte di que-sti compagni uscirono poi dal par-tito (anche perché noi non sugge-rimmo loro questa scelta), maquelli che lo fecero non volevanorestare con le mani in mano.

Il secondo e più consistenteapporto venne da chi nel Pcinon era, ma dalla voglia di far po-litica sessantottina era stato con-tagiato, pur non avendo trovatocollocazione nei gruppi di nuo-va sinistra già esistenti. Si tratta-va di circoli politico culturali in-terni alla tradizione del movi-mento operaio (Arci, e i molti Ro-sa Luxemburg o Carlo Marx,ecc,dove militavano anche socialistidi sinistra) e del nuovo dissenso

cattolico (fra quelli che svolseroun ruolo di punta l’Isolotto di Fi-renze e il circolo Maritain di Ri-mini). Ma si trattò soprattutto dicollettivi studenteschi, o, piùspesso, collettivi che già si defini-vano «studenti-operai», alla ri-cerca di un coordinamento na-zionale della loro iniziativa e diun contributo alla loro incertaformazione.

Inizialmente fummo quasi im-barazzati dalla domanda: non so-lo non eravamo attrezzati a ri-spondervi, non eravamo neppu-re sempre in grado di capire chiera che ci chiedeva di assumereil nostro nome e di ricevere il no-stro timido imprimatur. Quandoriunimmo per la prima volta i«candidati», in un’assemblea te-nuta all’Istituto Stensen di Firen-ze, dove generosamente i gesuitici avevano offerto ospitalità, citrovammo a dover dirimere an-che non pochi conflitti, e tuttinoi peregrinammo poi per l’Ita-lia, a nostra volta curiosi e insie-me diffidenti, a verificare le cre-denziali di ognuno. Il risultato diquesto ultimo apporto fu che, no-nostante la già ragguardevole etàdel gruppo promotore, la mediad’età dei militanti che divenneromanifesto era così bassa che perun po’ ci alzammo gli anni perfarci prendere più sul serio dallasinistra tradizionale.

Quanto emerse da questa pri-ma aggregazione (di cui solo unaparte si consolidò, successiva-mente all’unificazione con ilPdup di Vittorio Foa, nel «Pdupper il comunismo», nel 1974)non fu un movimento omoge-neo. Né per consistenza, né perricchezza di composizione socia-le, né per qualità dell’impegno.

Lo stesso gruppo «storico» cheaveva fondato la rivista fu nei pri-mi due anni particolarmenteoscillante, sì da andare dall’indi-cazione di astensione per le am-ministrative del ’70 alla tormenta-ta (e sciagurata ) scelta elettoraledel 1972. Il corpo de il manifestoera investito dalle sollecitazionimolto contraddittorie che ci pro-ponevano i circoli: alcuni, più le-gati alla tradizione della sinistra,che non riuscivano nemmenoad immaginare un’attività politi-ca che non avesse un risvolto par-lamentare; altri, i più giovani,per i quali , al contrario, pesavauna sospettosa motivazione ideo-logica antistituzionale, di princi-pio. Comune del resto a tutta lanuova sinistra.

Noi stessi nella prima fase fi-nimmo per patire le opposte

spinte che venivano dai militantiche si erano raccolti attorno allarivista e certamente subimmo, aldi là della disgraziata vicendaelettorale, nella pratica di movi-mento ancor più che nell’elabo-razione teorica, la pressione, for-temente estremista, che proveni-va dalla parte più militante deinostri aderenti: i più giovani, stu-denti in particolare, legati nellaquotidianità delle lotte agli altri«gruppi» (e da questi inevitabil-mente contagiati). Giovani chedel Pci avevano conosciuto soloil volto più istituzionale, più mo-derato e perbenista, quello cheaveva guardato con diffidenzaprofonda il ’68 e ora ne veniva ri-cambiato. Il Pci, insomma, chepoco dopo sarebbe approdato al-l’unità nazionale, verso cui mo-stravano una diffidenza ben piùprofonda della nostra che inquel partito avevamo militatoper anni (e appreso molto).

Se tuttavia tutt’ora i «manife-stini» di allora - ormai approdatia non univoche sponde, molti aruoli significativi nella società ci-vile - ancor oggi si riconoscono anaso, è perché questa nostraesperienza è stata coinvolgentee ci ha tutti segnato in modo spe-cifico. Tutto sommato nel bene,credo possiamo dire.

L’anomalia che ci ha distintoquarant’anni fa, e ancora oggi cicaratterizza, è che siamo cresciu-ti sforzandoci di capire la com-plessità, sfuggendo le semplifica-zioni, perché, a differenza dei mi-litanti degli altri gruppi dellanuova sinistra, quelli de il mani-festo venivano da un’esperienzameno lineare, che si collocava acavallo fra movimento operaiotradizionale e nuovi movimenti.E aveva soprattutto cercato difornire – con le Tesi sul comuni-smo del 1970 e con l’insieme del-la rivista, ricca di inchieste sullarealtà sociale, di approfondimen-ti teorici, di apporti internaziona-li che allargavano l’orizzonte unpo’ asfittico della sinistra italia-na – una risposta a intuizioniche l’insieme del ’68 avevaespresso ma che erano restatiumori confusi. Penso alla antici-pata individuazione delle nuovecontraddizioni del capitalismomaturo, e la consapevolezza chein quell’orizzonte non ci sareb-be stato maggior benessere enemmeno più libertà, ma meno.Sono stati proprio i circoli de ilmanifesto che per primi hannoaffrontato la tematica ecologica(quando Lotta Continua per que-sto irrideva, gridandoci nei cor-

tei «come era verde la mia valla-ta»; o il femminismo, che purepoi avrebbe lacerato anche noi,ma che proprio nei primi nume-ri della rivista trovò inizialmentespazio (e ospitalità in uno dei no-stri circoli), allora ancora taccia-to di «questione borghese».

Per tutto questo fummo an-che impopolari nel movimento,che ci considerava «troppo sofi-sticati» ( «gli operai del manife-sto parlano in francese», diceva-no con scherno gli apologeti del-l’operaio-massa). Ma credo chepossiamo farci vanto di aver re-so più trasparente la critica allamodernità che veniva dal movi-mento e di aver cercato di dareall’idea di libertà radici più pro-fonde di quelle immiserite del-l’individualismo radicale poi lar-gamente prevalso.

Impopolari e anche difficili.Le nostre parole d’ordine nonerano consolatorie: rifiutavamolo spontaneismo, ma anche ilpartitismo dilagante. Il manife-

sto cercò infatti forme organizza-te per poter agire, ma insieme siconsiderò – e lo fece anche suc-cessivamente il Pdup, - un orga-nismo politico transitorio, chenon rivendicava nè l’autosuffi-cenza, né avanzava la pretesa dirappresentare l’embrione delnuovo partito necessario, bensìdi essere uno strumento per co-struirlo insieme agli altri, ivicompreso il movimento operaiotradizionale.

Non ci siamo riusciti, come ènoto. Ma ben altri tentativi sonofalliti in questi 40 anni. Qualcosaperò, sebbene poi rimangiatadalla controffensiva dell’ultimodecennio, l’abbiamo ottenuta:l’aver rifiutato lo scontro fronta-le con i sindacati, così come diaccettare la loro involuzione bu-rocratica, ha certo contribuito –come racconta Serafini - a man-tenere aperti i canali che hannopoi veicolato e diffuso i contenu-ti politici e rivendicativi che ilmovimento nel suo insieme ave-va introdotto. Il frutto sono statele conquiste strappate negli an-ni ’70 – lo statuto dei lavoratori,la riforma sanitaria e quella pen-sionistica, le 150 ore, la chiusuradei manicomi, il divorzio, la lega-lizzazione dell’aborto. Non sa-rebbero state pensabili se la sini-stra in Parlamento non fosse sta-ta resa forte da un movimentoche aveva ridato fiato e fantasiaalle organizzazioni istituzionalidei lavoratori. È stato merito di

tutto il ’68, ma credo che in quelcontesto il manifesto possa diredi aver giocato un ruolo nonmarginale proprio per la lineache lo ha caratterizzato.

Il che non condona i nostritanti errori: l’aver dilatato le va-lenze di quanto era invece solotendenza embrionale; l’ aver sot-tovalutato il peso del contestoentro cui si muovevano e che, al-la lunga, avrebbe finito per rove-sciarne il significato, assorben-do quanto di indolore per il siste-ma c’era nel movimento di que-gli anni, cestinando quantoesprimeva di realmente alterna-tivo. A livello nazionale e interna-zionale, dove esperienze sogget-tivamente esaltanti – penso a Cu-ba, al Vietnam, al Cile, alla Cina- si rivelarono incapaci di regge-re ai condizionamenti oggettivi,l’ aggressione dell’occidente e ilvincolante sostegno dell’Urss diBreznev.

Sono errori pesanti, su cui var-rebbe la pena riflettere più diquanto abbiamo fatto, così finen-do per rimuovere gli sbagli macon loro anche i meriti, col risul-tato, alla fine, di indurre noi stes-si una idea immiserita e anodinadi quel che è stato il manifesto.

Per questo non credo che nel-le esperienze accumulate, e dicui in questo inserto scriviamo,ci siano solo vecchi arnesi ormaiinservibili. È un pezzetto di pas-sato che può servire a rifletteremeglio sul futuro possibile.

Tra i motivi che permisero al manife-sto non soltanto di stabilire un interscambiocon alcuni militanti del Pci e i movimenti chetra la fine degli anni ’60 e gli inizi dei ’70 si co-struirono larghe basi nelle università, nelle

scuole e nelle fabbriche,oltre che in altri ambiti(persino nell’esercito dileva), ci fu senza dubbiola tematica consiliare.

Di consigli operai e stu-denteschi, nei luoghi dilavoro e nel territorio, apartire dal ’68 e semprepiù nei primi anni succes-sivi, parlavano un po’ tut-ti, dai principali gruppiextraparlamentari alla

parte più avanzata dei sindacati. Ma nessunovi dedicò più attenzione del manifesto, che lopose al centro di una riflessione sul rapportotra masse e partito, spontaneità e coscienza,classe e organizzazione. Tutti binomi che anda-

vano a parare sui nodi di un processo rivoluzio-nario nelle società di capitalismo evoluto.

I testi principali di quella ricerca apparverola prima volta sulla rivista nel settembre 1969(ripubblicati il 1974 dall’editore Alfani). A rileg-gerli con il senno del poi (un «poi» cominciatogià nel decennio successivo), essi contengonoanalisi di particolare acutezza ma anche alcunierrori di valutazione, sia sulla consistenza degliorganismi prodotti dai movimenti nel fuocodelle lotte, sia sulla crisi del sistema e la maturi-tà dell’alternativa. Almeno a mio parere,e cre-do di non discostarmi troppo da quello dei lo-ro stessi autori.

Seppure con una vena di velleitarismo, il ri-lancio della tematica consiliare incrociava ilprorompente bisogno – esploso con il sommo-vimento del ’68 - di superiori forme di parteci-pazione, rispetto ai limiti , anzi alle storture,della democrazia delegata. Si spiega così il con-senso che essoi incontronon solo in molti stu-denti e di operai di nuova generazione ma an-che tra le frange più inquiete e insofferenti del-le ortodossie di organizzazione fra i i militantidel Pci. Ciò che fece presa fu la elaborazionedel manifesto, che si distingueva dalle imposta-zioni prevalenti dei più importanti gruppi ex-traparlamentari, fra a un orientamento di ac-

Buoni Consiglial partito

UN’ERESIA COMUNISTA

Siamo tornatisul rapportomasse e partito,spontaneità ecoscienza, classee organizzazione

Filippo Maone

Luciana Castellina

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La sinistra italiana haavuto la fortuna di veder svilup-parsi al suo interno - negli anni’50 e ’60 - una critica allo stalini-smo e al socialismo reale che nonconduceva (come in genere avven-ne in quegli anni) a una critica «dadestra» ai partiti comunisti, chechiedeva (nei casi migliori) una lo-ro conversione alla socialdemocra-zia, o - in altri casi - portava i «criti-ci» a «passare dall'altra parte».

Certo, in molti altri paesi (comeanche in Italia) la Quarta Interna-zionale portava avanti, in queglianni, una meritoria critica di sini-stra allo stalinismo, ma questa eraracchiusa in confini teorici e orga-nizzativi che la rendevano quasisempre un fenomeno «settario».

Ricordiamo, molto sommaria-mente, alcune tappe che questo«percorso critico» ebbe in Italia.

Il primo episodio clamoroso dirottura di dirigenti comunisti conlo stalinismo, quello di Valdo Ma-gnani (e di Aldo Cucchi, che in se-guito però prese strade diverse)aveva già alcune caratteristicheoriginali: il suo riferimento nonerano le democrazie occidentalima la Yugoslavia di Tito, e - nel-l'abito delle socialdemocrazie oc-cidentali - le sinistre come quellalaburista di Bevan. Tuttavia, Ma-gnani non contestava l'impiantostrategico complessivo del Pci,ma solo il suo rapporto con lo Sta-to-guida: tant'è vero che, quandoquesto si allentò, egli coerente-mente ritornò nel partito.

Il 1956, con il 20˚ congresso, larivolta di Poznan, la rivolta unghe-rese repressa dall'intervento mili-tare sovietico, fu il primo momen-to in cui le contraddizioni esplose-ro su vasta scala. Ma il loro segnoprevalente fu in direzione della so-cialdemocrazia - un esempio tipi-co, certamente dignitoso e non ba-nale, fu quello di Antonio Giolitti.Solo in rari casi lo scontro con ilpartito fu anche con la sua strate-gia italiana: vale la pena di ricorda-re il caso (isolato) di Bianca Gui-detti Serra a Torino.

Ma, negli anni successivi, si for-ma nella sinistra italiana (politicae sindacale) una spinta innovatri-ce caratterizzata da più elementi:un'attenzione agli aspetti nuovi e«moderni» del capitalismo italia-no;una «riscoperta della fabbrica»come luogo centrale del conflittodi classe; una «riscoperta delmarxismo», liberato dalle incrosta-

zioni sovietiche (e crociane) dellasua versione «ufficiale», e un'atten-zione ai filoni più avanzati del-l'economia e della sociologia «bor-ghese». In questa temperie, glispunti critici verso lo stalinismo equelli verso la linea prevalente delPci si intrecciano: è un mix poten-zialmente esplosivo, anche se que-sta potenzialità darà luogo a esitidiversificati.

I «Quaderni rossi» sonoun'espressione peculiare di quelmovimento innovatore. Essi so-no, per così dire, «costitutivamen-te fuori» dallo stalinismo - non acaso, il numero di Mondo Opera-io che Panzieri dedicò al quarante-simo della rivoluzione d'ottobrepuò essere visto come uno dei lo-ro «testi fondanti». Ma la criticadel socialismo reale non è oggettodiretto della loro ricerca teorica.Certo, Panzieri nel suo articolo«plusvalore e pianificazione» suln˚ 4 dei QR critica con grande acu-tezza alcuni presupposti teoricipresenti nello stesso Lenin; ma gliarticoli dei QR non si occupano diUnione sovietica. Si occupano, semai, di Cina, e il modo in cui lo faEdoarda Masi è certamente anti-stalinista, ma ancora una volta inmodo indiretto: le questioni ver-ranno esplicitamente a galla conla rivoluzione culturale, quindi inanni successivi (l'ultimo numerodei QR è del 1966, quando la rivo-luzione culturale stava appena de-lineandosi).

Il 1968 segna una nuova tappa,dai due versanti - del socialismoreale e delle società capitalistiche.

L'intervento sovietico in Ceco-slovacchia demolisce le ultimesperanze di capacità «auto-rifor-matrice» del socialismo reale; maa questo fa riscontro, in occidentee in particolare in Italia, un movi-mento di lotta senza precedenti,che vede protagonista la classeoperaia ma coinvolge anche glistudenti. Le condizioni per una«critica da sinistra al socialismo re-

ale» sono quindi più che mai ma-ture.

Il lavoro del manifesto èl'espressione più ricca e incisivadi questa possibilità. Nei numeridella rivista pubblicati in queglianni, c'è una saldatura teorico-po-litica tra l'approccio critico al so-cialismo reale e quello alla societàcapitalistica; la critica alla lineadel Pci investe quindi, in modocollegato, ambedue i piani.

Il «retroterra teorico» di questaposizione è espresso in modo em-blematico in un celebre articolodi Rossana Rossanda, «da Marx aMarx», che indica con chiarezzauna linea di ricupero del pensierodi Marx (non del «marxismo» spes-so impoverito e ossificato) comestrumento potente di critica allarealtà, di analisi della struttura diclasse della società, capitalistica osocialistica che sia.

(Mi sia qui concessa una «pa-rentesi personale». All'epoca, ioobiettai che - nel percorso teoricodelineato dall'articolo - «mancavaMao Zedong». Rispetto al testodell'articolo, avevo ragione. MaRossanda dimostrerà poi ampia-mente di essere una delle pochepersone che comprenderanno afondo la linea di Mao - reinseren-dolo così «idealmente» nel percor-so delineato da quel suo articolo).

L'analisi di classe del sociali-smo reale resterà un filo condutto-re del lavoro del manifesto, cheporterà, quasi dieci anni dopo, alconvegno di Venezia del 1978 suquesti temi.

Ed è questo uso di Marx, dellasua analisi di classe, a rendereesplosiva la miscela di critica al so-cialismo reale e di critica al capita-lismo proposta allora dai compa-gni del manifesto. Se si fossero li-mitati a proporre una condannapiù radicale dell'intervento in Ce-coslovacchia e della politica sovie-tica, sarebbero stati probabilmen-te «tollerati» in un Pci che non erapiù quello che bollava come «tra-ditore» e «pidocchio» Valdo Ma-gnani. Ma il meccanismo di anali-si che essi proponevano mettevain questione troppe cose, e perquesto si cercò di bloccarlo.

Naturalmente, la radiazionedel gruppo del manifesto (non era-no più i tempi delle «espulsioniper indegnità morale e politica»,usate in passato contro i dissiden-ti) non bloccò un bel niente; maservì al gruppo dirigente del Parti-to comunista per operare una ce-sura tra ciò che restava della sua«sinistra interna» e il nucleo piùavanzato di elaborazione critica,che faceva capo alla rivista.

centuato spontaneismo e una mistica organiz-zativistica talvolta al limite della militarizzazio-ne. Quanto al sindacato, anche nelle sueespressioni più consapevoli e aperte a formeinedite di lotta, e su terreni quasi del tutto nuo-vi, come quello unitario dei metalmeccanici(ma non soltanto), esso tendeva per natura a ri-durre il ruolo dei consigli entro i confini di unalogica contrattualistica. Il manifesto, invece,pur nel solco di Rosa Luxemburg e del Gramsciordinovista, provò a fare un passo in avanti,per adeguare i caratteri dei consiglii ai più ma-turi compiti che il tempo, di nuovo in ebollizio-ne, pareva esigere.

L’ispirazione di fondo venivadalla teoriamarxista della rivoluzione come processo pri-mariamente sociale. Ciò che non era avvenutonella Russia del ’17, a causa soprattutto dell’immaturità delle forze produttive e della arre-tratezza di quella società. Parve al manifestoche si potesse riprendere un cammino più lar-go dopo le polarizzazioni prodotte dalla stagio-ne bolscevica e dalla socialdemocrazia. Sul ma-nifesto i consigli vengono indicati come «orga-nismi politici, unitari, di massa, gestiti dal bas-so, contestativi dell’assetto istituzionale esi-stente… con proprie ed autonome forme di or-ganizzazione». Insomma, una riflessione tese ariportare in primo piano il ruolo delle massecontro le tendenze «giacobine» infine prevalse,sia in Lenin che nelle varianti della sua linea.L’accento era posto sul motore sociale della tra-sformazione, determinante per generare «lecellule costitutive di un nuovo potere statale»che avrebbe contenuto le premesse della suaestinzione.

A dire il vero, la priorità del sociale rispettoal «politico» veniva proclamata da molte parti,in polemica con ii partiti comunisti, cui si im-putava di avere sottratto ai proletari gli stru-menti per esprimersi in autonomia, oscillan-doe tra il «sol dell’avvenire» e una pratica tuttainterna al sistema, e in definitiva d’essersi pie-gati alla burocratizzazione. Ma nell’impostazio-ne del manifesto c’erano, a mio avviso, almenodue aspetti che la rendevano più convincente.Innanzitutto era sottolineato che l’autonomiadei movimenti avrebbe esercitato il suo poten-zialze positivo a condizione di non slittare ver-so forzature spontaneistihe, collimanti conl’anarchismo, che non mancavano in qualchegruppo. L’avvertenza non si basava su pregiu-dizi, come nei partiti comunisti inclini a veder-le anche dove non c’erano. Il Pcf ne fu l’esem-pio estremo, con l’ostilità al Maggio del ’68, av-vertita come «impura» perché nata al di fuoridel suo controllo e carica di contenuti cresciutifuori dai suoi schemi. Ma anche il Pci, dopo leiniziali aperture che testimoniavano del patri-monio ereditato da Gramsci, e mantenuto daTogliatti, ripiegò poi verso la diffidenza preva-lente nelle suee sue componenti più conserva-trici, timorose che l’espansione dei movimentidi massa mettesse in discussione una consoli-data linea strategica. La preoccupazione delmanifesto si collocava sul lato opposto, essen-do rivolta a evitare che gli organismi di base,espressione diretta dei lavoratori, si esponesse-ro alla dinamica di logiche esterne, anche dipartiti e partitini, come sarebbe avvenuto senon si fossero dotati di adeguati strumenti dicooordinamento.

In secondo luogo la caratterizzazione socialedei consigli non li confinava nell’ambito sinda-cale, ma era puntata a dare forza politica allestrutture di democrazia diretta. Sia nelle fasi discontro di classe, sia in un immaginato dopo-ri-voluzione, quando si trattava di costruire unnuovo ordine. E infatti, a indicare lo stretto in-treccio di istanze politiche e sociali, la definizio-ne più ricorrente dei consigli, nella tradizionegramsciana e nell’elaborazione del manifesto,sta in tre parole: «movimenti politici di massa».

Non si intendeva negare l’importanza - di

più: la necessità - di una avanguardia organiz-zata per renderne durature le conquiste, supe-rarne le eventuali tracce corporative, la fram-mentazione e il pericolo di divaricazione, por-tando a sintesi sempre più alta le spinte di ba-se. Era però acuta la sensibilità verso il rischio -per nulla astratto - di una tendenza nei partitia ingabbiare i movimenti reali in una linea si-stematica prima che si esprimessero in tutta laloro vitalità creativa. Sicché la sintesi e il proget-to, che dalla diretta esperienza delle masse do-vrebbero nutrirsi, finivano col nascere monchidi elementi essenziali.

L’approccio del manifesto al rapporto mas-se-partito fece breccia in alcune aree del movi-mento che già stavano avanzando su quei ter-reni. Basta citare la questione della salute, nel-le sue sfaccettature. A Roma fu attivissimo ilcollettivo della Facoltà di Medicina, di cui scri-ve in queste pagine Famiano Crucianelli, chene fu protagonista, insieme con Sergio Rovettae molti altri studenti, oggi bravissimi medici.Centrale era la contestazione del potere baro-nale, intorno al quale si modellavano non solole carriere e ma anche la struttura ospedalierae in definitiva, gli stessi concetti di malattia e dicura. In molte fabbrichesi aprirono contenziosiinediti sulla materia. Re-stano memorabili le lottecondotte, in due comples-si chimici del Nord. AllaRhodiatoce di Verbania,un deciso animatore delconsiglio fu il giovanissi-mo Carlo Alberganti, chepoi dette vita, con il con-corso di molti compagni,in primo luogo l’indimen-ticabile partigiano della Val d’Ossola Gino Ver-micelli, al gruppo del manifesto della zona. AllaMontedison di Castellanza, in provincia di Va-rese, la figura più rappresentativa fu Luigi Ma-ra, combattente colto e ostinato, che aveva su-bito l’amputazione di entrambe le braccia acausa di un incidente sul lavoro e portava su disé i segni di quanto lo sfruttamento da duro, co-me è sempre, possa farsi feroce. Nella sintoniatra i protagonisti delle vertenze di Verbania edi Castellanza e le proposte de il manifesto,convergevano anche altre elaborazioni, comequella si Medicina democratica, fondata daGiulio Maccacaro, che aprì nuovi orizzonti allacultura e alla pratica dei movimenti e disturbo’il groviglio degli interessi concentrati a lucraresulla salute e sull’ umano dolore.

Molti furono coinvolte in quelle battaglie.Così come, su un altro versante, vasta fu la par-tecipazione al movimento delle «150 ore» deltempo contrattuale da destinare a corsi non ditipo professionale, ma di sviluppo culturale. Eanche questo concordava con le tematiche sol-levate dal manifesto.

A riconsiderare i dibattiti di allora, sorgequalche interrogativo sugli errori di prospetti-va che li percorrevano. Ne ho prima accenna-to. Ma stupisce quanto fossero ricchi di intelli-genza e di stimolo, di cui queste note non pos-sono dare pienamente conto. Mi auguro cheesse bastino, almeno, a misurare la distanzaabissale tra le aperture mentali di allora e la mi-seria della politica odierna. E perciò a sollevarequalche curiosità sulle idee che circolavano inquella tumultuosa stagione. La sinistra sembraoggi scomparsa. Ma se a qualche nuovo sogget-to venisse in mente di riprenderne il filo e rites-serne una trama, anche se i rapporti di forzadovessero imporgli di muoversi a lungo entrol’orizzonte del riformismo (che oggi per esseredavvero tale dovrebbe contenere una buonadose di carica rivoluzionaria), consiglierei discandagliare in quella miniera dove, in mezzoa materiale consumato, si trova una discretaquantità di idee preziose.

Venivamo da una esperienza, meno «lineare» della nuova sinistra,a cavallo fra movimento operaio tradizionale e nuovi movimenti.La nostra anomalia è stata lo sforzo a capire la complessità, il nuovocapitalismo maturo e le sue miserie, la critica alla modernità, perun’idea di libertà con radici più profonde dell’individualismo radicale

Puntavamosui movimenti

politici di massa,sulle forme

di un nuovopotere statale

Il manifesto nascecontestando dasinistra non soloil socialismo realema tuttala politica del Pci.Mettendo al centroil conflitto sociale

Un’improntadi ClasseVittorio Rieser

Le radici di un'eresia comunista - 24 Novembre 2009 (5

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Il collettivo operai studentidi Bologna rincorreva, senza riu-scirci, il manifesto fin dal primo nu-mero della rivista e le difficoltà distabilire il contatto con i fondatoridella rivista stava rafforzando in al-cuni di noi la preoccupazione cheavessimo a che fare con degli intel-lettuali, come si diceva allora “sle-gati dalle masse e dai conflitti”.

In realtà erano solo malevoli di-sguidi (qualcuno aveva parlato ma-le di noi a Filippo Maone), superatigrazie a un casuale incontro allastazione di Bologna con Lucio Ma-gri che ascoltate le nostre ragionichiese a me Passarini, Dionigi e Bo-nilli di proseguire con lui e parteci-pare nella mitica Piazza del grillo ,cioè la sua abitazione nonché sededella rivista ad una riunione nazio-nale.

Ci andammo e finalmente quelgruppo di operai e studenti, che siriuniva alla Bolognina in uno stan-zone riempito di banchi di scuolaofferti da una parrocchia, diventòil Centro di iniziativa del manife-sto. Rappresentammo sicuramen-te la prima significativa adesionedi compagne e compagni prove-nienti da esperienze maturate piùche nelle sezioni del Pci, da cuimolti di noi si erano già allontana-ti, nelle lotte studentesche del ’68 ein quelle operaie del ’69. Perchéscegliemmo il manifesto?

Il contesto in cui operavamonon presentava caratteristiche mol-to diverse da quelle del resto del pa-ese, anche se l’esplosione dell’au-tunno caldo operaio avveniva inuna regione, quella emiliana, incui si era consolidata una egemo-nia del PCI sull’insieme della socie-tà e sulle strutture dei poteri locali.Anche a Bologna erano in corso si-gnificative lotte operaie e gli stu-denti si erano riversati davanti aicancelli delle fabbriche per cercaredi dare uno sbocco politico alle oc-cupazioni delle loro facoltà. L’au-tunno caldo delle operaie-i bolo-gnesi è stato sempre descritto, dalresto della nuova sinistra, come unmovimento moderato rispetto aquello delle grandi fabbriche di To-rino e Milano. Lo si riteneva con-trollato dal Pci e dalla Cgil e quindiincapace di forzare il modello disviluppo che il movimento operaioaveva saputo costruire in Emilia.Noi, che aderimmo al manifesto,non la pensavamo così. Al contra-rio consideravamo l’egemonia del-le forze riformiste sulla società emi-liana un ricchezza che apriva spazialle lotte operaie e studentescheche si stavano sviluppando e nellostesso tempo una dimostrazionedel carattere avanzato delle stesse,proprio perché le rivendicazionicontenevano una evidente criticadi sinistra a quella peculiare espe-rienza riformista.

Questa convinzione era confor-tata dalla realtà: nelle fabbriche bo-lognesi una nuova generazioneoperaia si stava rendendo protago-nista di lotte che contestavano l’or-ganizzazione del lavoro nelle lorofabbriche, una contestazione simi-le per contenuti e forme di lotta aquella che infiammava le grandifabbriche di Milano, Torino, Mar-ghera, Secondigliano. Anche a Bo-logna si rivendicava il controllo suiritmi di lavoro, si contestavano legerarchie e le qualifiche, non si vo-leva più monetizzare la salute e su-perare il cottimo e tutto ciò lo si fa-ceva con forme di lotta assoluta-mente inedite come i cortei interni

e gli scioperi a scacchiera. Tuttociò rese evidente a gran parte dellelavoratrici e lavoratori i limiti dellevecchie commissioni interne e lispinse a dar vita all’esperienza deidelegati di reparto e dei consigli difabbrica.

Il collettivo si caratterizza, rispet-to ad altri gruppi della nascentenuova sinistra bolognese, perchèagisce nelle fabbriche attraverso leinchieste, grazie alle quali gli ope-rai, ma anche gli studenti, impara-rono a conoscere l’organizzazionedel lavoro delle fabbriche e a sco-prirne i punti deboli, svelandogliquindi l’arbitrarietà delle qualifi-che e delle gerarchie, l’ingiustiziadel cottimo e più in generale delleloro paghe, lo sfruttamento dei rit-mi a cui erano sottoposti.

Questa esperienza non potevache incontrare il manifesto, la cuielaborazione si muoveva nella stes-sa direzione.

Furono soprattutto gli operai apremere per la confluenza nel ma-nifesto perché la loro esperienza liaveva convinti che la critica al mo-deratismo del Pci non doveva esse-re ideologica e non era pensabileandare oltre il Pci solo con la predi-cazione rivoluzionaria e la pedago-gia politica. In altre parole il carat-tere moderato del Pci non era unacolpa morale da denunciare, mauna strategia da battere, sviluppan-do nelle fabbriche la contestazionedell’organizzazione del lavoro e ge-neralizzandone i contenuti sull’in-sieme del modello di sviluppo capi-talistico emiliano.

Ci convinse a cercare il manife-sto l’idea di rivoluzione che percor-reva gli articoli della rivista chespiegavano quanto fosse falsa l’al-ternativa fra via rivoluzionaria evia riformista, entrambe legate al-l’idea che il potere sia qualcosa daprendere più che da costruire conle lotte, un luogo da conquistare (ilParlamento o il Palazzo d’Inverno)dove l’unica differenza fra riformi-sti e rivoluzionari è il modo più omeno violento di prenderlo.

Ci accomunava quindi l’idea del-la rivoluzione come processo dimassa, dentro il quale costruirequella rete organizzativa consiliare

in cui prefigurare gli elementi costi-tutivi della nuova società che le lot-te invocavano.

A noi e soprattutto agli operaiparve, forse con qualche forzaturae interpretazione azzardata, che leesperienze che stavamo conducen-do davanti e dentro le fabbriche onelle stesse occupazioni delle uni-versità, contenessero questi ele-menti teorici e questa critica di sini-stra alle stesse esperienze che ave-vano portato al socialismo reale.

Più comunismo in definitiva enon meno. Soprattutto fu la con-creta esperienza della nascita deiconsigli di fabbrica a spingerci ver-so il manifesto, unico gruppo politi-co della nuova sinistra a puntaresu quella esperienza (Lotta conti-nua contrappose il famoso siamotutti delegati). Non è un caso chedopo pochi mesi dalla nostra ade-sione, esattamente il 21 e il 22 mar-zo del 70 a Bologna al Vittoria, unpiccolo cinema del quartiere opera-io di Borgo Panigale, il Centro diiniziativa del manifesto di Bolognaorganizzò il primo convegno opera-io nazionale per discutere sul ruo-lo dei consigli e dei delegati. All’ini-ziativa partecipò quasi tutto il grup-po storico. In quelle due intensissi-me giornate definimmo i contenu-ti della presenza delle operaie edoperai del manifesto al congressonazionale della Fiom, che si sareb-be tenuto dopo pochi mesi a Ro-ma. Portammo al congresso l’ideadi salvaguardare l’autonomia deidelegati e dei consigli di fabbrica,considerando insufficiente rispet-to a quanto espresso dal movimen-to di lotta nell’autunno caldo losbocco che Bruno Trentin offriva:farne la base del nuovo sindacato.La mozione alternativa che l’opera-io Paolo Inghilesi, lesse, di frontead una platea attenta e a un Tren-tin visibilmente infastidito, otten-ne un discreto successo, ma soprat-tutto fece capire che il manifestoera una presenza reale nel movi-mento di lotta che attraversava ilpaese.

Anche da questa consapevolez-za prese corpo in gran parte delgruppo storico, ma più o meno intutto il manifesto l’idea che a quelpunto bisognasse accelerare, tra-sformando la rivista in un gruppopolitico organizzato e creando ilquotidiano. Di quella accelerazio-ne il gruppo bolognese fu fra i piùconvinti sostenitori e in particolarelo furono gli operai.

Quarant’anni dopo c’è da chie-dersi e riflettere sul perché l’espe-rienza del manifesto bolognese en-trò in crisi. Dipese solo dal riflussodel movimento o ci furono forzatu-re e limiti oggettivi di orientamen-to del gruppo dirigente del manife-sto nazionale e bolognese? Dem-mo in altre parole a questa espe-rienza il tempo per incidere e con-

solidarsi o furono prese decisioniche gli rendevano difficile il ruolodi direzione delle lotte che essi ave-vano acquisito che a sua volta au-mentava il loro peso politico nellaFiom bolognese e nazionale?

Penso che due scelte furono sba-gliate e contribuirono non poco al-la crisi di quella esperienza. La pri-ma fu quella che ci portò al breveincontro con Potere Operaio e allaproposta dei comitati politici ver-so la fine del 71. In poche parolefallito il tentativo di garantire l’au-tonomia dei consigli dal sindacatotentammo di riproporla, dando amio parere una lettura sbagliatadel movimento di lotta, con i comi-tati politici, una sorta di avanguar-dia che avrebbe dovuto operarenelle fabbriche dando ai conflittiuna piena espressione politica.Credo che non realizzammo innessun luogo di lavoro un comita-to politico e la forzatura mise mol-ti dei nostri operai, che stavanopreparando il nuovo scontro con-trattuale, in difficoltà. La secondascelta che accelerò ulteriormentela crisi dell’esperienza bolognesefu la disastrosa presentazione alleelezioni del 72. Anziché correggerela forzatura dei comitati politici,puntando su «scheda rossa e con-tratti» (votare PCI e costruire il ma-nifesto nello scontro contrattuale)decidemmo di presentarci alle ele-zioni pensando di riuscire ad acce-lerare il radicamento del manife-sto nel paese. Come andò è noto,meno lo è che la sconfitta che su-bimmo aprì la crisi del manifesto,soprattutto a Bologna che recupe-rammo in parte giocando un ruolonello scontro contrattuale e dandovita al Pdup, ma qui comincia deci-samente un’altra storia.

Voglio ricordare che lostato nascente della rivista e delraggruppamento politico del ma-nifesto, l’uscita della rivista nel giu-gno 1969 e la radiazione dal Parti-to comunista nel novembre dellostesso anno, coincide con l’ondaalta delle lotte operaie. Fu infatti ilcrogiolo delle lotte sociali e opera-ie a innestare, per quel che mi ri-guarda, il rapporto tra percorsi po-litici e culturali diversi: il sociali-smo di sinistra e il comunismo cri-tico.

Ero allora segretario della fede-razione del Psiup di Torino. Da treanni eravamo impegnati in un la-voro politico alla Fiat sistematico ecapillare che finalmente trovava lesue prime conferme nelle articola-

te «lotte sul lavoro» gestite dai dele-gati di reparto che erano iniziatenelle officine Ausiliarie di Mirafio-ri. L’appello dei delegati delle Ausi-liarie, del maggio 1969, per la pri-ma volta indica il profilo del dele-gato, eletto su scheda bianca dal-l’assemblea di reparto, come por-tatore di un mandato revocabile digestione del conflitto e della con-trattazione sull’insieme dei proble-mi della condizione operaia.

Nei successivi mesi di giugno edi luglio l’espansione e la radicaliz-zazione dei conflitti nella Fiat an-dava di pari passo con un contrad-dittorio e contrastato allargamen-to dell’esperienza dei delegati ope-rai. I «Giornali di lotta», promossidal Psiup, erano impegnati a co-struire conflitto soprattutto sull’or-ganizzazione del lavoro (controllooperaio) e la figura del delegatooperaio secondo il modello delleAusiliarie (auto-organizzazioneoperaia).

Ci scontravamo su due fronti.Da un lato un duro conflitto nondichiarato con la Fiom e la Came-ra del Lavoro di Torino. Le ragionidel contendere riguardavano le for-me di lotta ma soprattutto la figu-ra del delegato. Le proposte delleFiom e dei comunisti in fabbricain quei mesi vedevano il delegatocome una sorta di decentramentodelle funzioni della Commissioneinterna (accordo di giugno alle li-nee di montaggio). Sul lato oppo-sto i gruppi di Lotta continua e diPotere operaio affermavano «sia-mo tutti delegati» e mettevano inprimo piano una forte rivendica-zione salariale.

Il documento della Fiom di Tori-no «Lotte alla Fiat» e la «Cronacadelle lotte alla Fiat» scritta da Vitto-rio Rieser per i Quaderni piacenti-ni escono nel mese di luglio e so-no perfettamente simmetriche nel-la loro opposizione.

In quello stesso mese di lugliosulla rivista il manifesto LucianaCastellina scriveva un «Rapportosulla Fiat». Nel rileggere e confron-tare dopo decenni queste tre rico-struzioni dell’estate calda delle lot-te alla Fiat si misura immediata-mente lo stacco politico e cultura-

■ Bologna

Dal cuore della Fiomal gruppo organizzato

Gli operai eranoper una critica nonideologica al Modelloemiliano del Pci,con proposte di lottaall’organizzazionecapitalisticadel lavoro

Strette tra sindacatoe partito di massaparlamentare, allelotte operaie servivauna terza strada.Quel saggio del ’70sul «movimentodei delegati»

■ Torino

«Rapporto sulla Fiat»,manifesto in fabbrica

I CENTRIDI INIZIATIVACOMUNISTA

Massimo Serafini

Pino Ferraris

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«Al ‘69 ripenso confatica ma con gioia. Nel ricordoprevale il sentimento dell’allegriasu quello dell’amarezza. Devosforzarmi, però, a ricordare per-ché le emozioni non si fotografa-no, o almeno, io non ho la mac-china fotografica giusta. Le emo-zioni sono difficili da raccontaree da scrivere. Non ho rimpianti, irimpianti ce li ha chi pensa chequella stagione di lotte non si ri-peterà più. Io, invece, non credoche in questi vent'anni tutto siaandato a ritroso: il fatto è che lastoria ha tempi diversi dai nostri,tempi che non coincidono con lanostra soggettività, e a volte nep-pure con la nostra vita. L'autun-no caldo, questo è certo, non èstata una ricreazione ma una tap-pa. Dico una tappa, e quindi nonenfatizzo un anno 'mitico'. I1 '69non si può ridurre a un pezzo dimemoria rigidamente datato neltempo, quasi non ci fossero statiun prima e un dopo».

I1 mare sotto il Proteo rinvia ri-flessi rossastri: questa volta nonsi tratta di un sarago, ma di un pa-gello o forse di un parago. San-dro tira il filo di nylon del palami-to a cui sono appesi gli ami nasco-sti da pezzettini di polipo messicome esca il giorno precedente,al tramonto. Sale un grosso para-go: «Ma non la vedi la differenza

con il pagello? I1 pagello ha il mu-so allungato», sentenzia Gianni,come se fosse logico, anche perun bambino o per un animalemetropolitano, riconoscere unparago da un pagello. Quel checapisco è che mediamente un pa-rago pesa più di un sarago, e sic-come è un pesce di prima, cioé dilusso come il sarago o la spigola,è una festa quando abbocca al-l'amo, anzi la festa inizia quandoil mare sotto il Proteo si colora dirosso. «Questo - commenta San-dro mentre toglie il pesce ancoravivo dall'amo, facendo rapida-mente l'equivalenza peso-ricavo- supera le 17.000 lire». La barcarolla dolcemente, Gianni Usairegge il timone della sua barca, ilProteo e alle sue spalle il sole chesorge dietro capo Mannu sta colo-rando di rosso il cielo ancora not-turno, come il parago ha arrossa-to il mare. Barba e capelli lun-

ghetti, come vent'anni fa, Gianniindossa un'incerata gialla, mi di-verto a ricordare com'era quan-do indossava la tuta amaranto dagiusteur - operaio specializzato,aggiustatore alle Ausiliarie, Mec-caniche di Mirafiori. I1 suo orariosicuramente si è allungato, daquando nel1'80 è ritornato nellasua terra, in Sardegna, lasciandovolontariamente la Fiat dopo 17anni. «Certo, la fatica è maggioreoggi di ieri: lo vedi anche tu, par-tiamo prima dell'alba e chiudia-mo con il lavoro quando il sole èsceso da tempo. Ma è diverso,qui non ci sono caporali. Fai at-tenzione, io sarei anche dispostoa tornare in fabbrica, rinuncian-do a questo mare, a questa terra,ma a certe condizioni. A condizio-ne, per esempio, che il lavoro ven-ga organizzato e ridistribuito da-gli stessi operai della squadra».

Ho trovato Gianni seduto suuna cassetta in riva al mare di SuPallosu, intento ad armare i suoitre palamiti, 450 ami a cui infilarealtrettanti pezzettini di polipo. Leteste dei polipi sono troppo scu-re, non attraggono i pesci e van-no buttate ma non si spreca nien-te, a pulire ci pensano i gattoniche si aggirano intorno ai quattropescatori al lavoro. Quando gliho telefonato per annunciargli ilmio arrivo, Gianni ha sorriso:«Mi costringi a ritornare indietronel tempo, a ripensare alla Fiat.Ok, forse mi farà bene. In fondo,ricordo con allegria il '69 perchénel '69 sono nato una secondavolta e insieme agli altri ho inco-minciato a capire chi eravamo, avoler cambiare, a smettere di ob-bedire, a decidere la mia vita. For-se nel racconto sbaglierò qualchedata, perché non riesco a isolareil '69 dalle lotte degli anni succes-sivi, lotte che sono continuate,crescendo fino alla metà degli an-ni '70». «Sono arrivato a Torinonel '62 con i miei genitori. Avevosedici anni, mi lasciavo alle spal-le gli spazi sterminati della Sarde-gna - i colori e gli odori di Arbus -e avevo di fronte uno stanzonedove vivere in sei: stavamo me-glio di tanti altri, comunque, inuna bella zona della città. Mio pa-dre, militante della Cgil, era statolicenziato dopo gli scioperi alleminiere di Montevecchio e spera-va di trovare subito un lavoro aTorino. Le cose non andarono co-sì - racconta Gianni - e io cheavrei voluto continuare gli studida geometra fui costretto subitoa entrare in fabbrica. Ero solo, aTorino, con i miei fratelli e i geni-tori, il senso di solitudine era for-tissimo. Andando al lavoro, all'al-ba, piangevo anche per il freddomentre attraversavo il ponte sulPo di corso Regina». O forse,Gianni piangeva per gli studi ab-bandonati. Lui, l'intellettuale diMirafiori, non aveva potuto diplo-marsi geometra. O forse, solcan-do una città ostile tra la nebbiapiangeva pensando al suo mare.«Inco- minciai a lavorare in unaboita, dove costruivamo tazze diporcellana per isolare i fili elettri-ci e nell'ottobre del '63 arrivai al-la Fiat. Prima di essere mandatoalla Meccanica, frequentai il Cao,il corso per allievi operai. I1 corsosi teneva alle Carrozzerie, vicinoall'officina del decapaggio dei pa-raurti prima della cromatura. I1rumore era assordante, e noi ciraccontavamo che, una volta fini-to il corso, ce ne saremmo andatia lavorare in un'altra fabbrica piùumana. Ci son rimasto 17 anni aMirafiori, e come me tutti gli altriragazzi hanno presto smesso di

sognare». 17 anni alla Meccani-ca, via Plava, officina 29 alle mac-chine utensili, a lavorare alle par-ti meccaniche, ai motori e ai cam-bi. «Mi sono subito iscritto allaFiom. Nelle Ausiliarie c'erano pa-recchi compagni di una certa età,tutti piemontesi e tutti operai spe-cializzati, come me. Parlavano inpiemontese tanto con il capo-squadra che in Camera del lavo-ro. Quei compagni sono stati imiei maestri, non soltanto di la-voro». Ricostruiamo con Giannile date e i fatti principali del '69,prima dell'autunno caldo, primadella rivolta di corso Traiano. I1 5febbraio lo sciopero nazionaleper le pensioni, a fine mese partela vertenza tra sindacati e azien-da per la mensa a Mirafiori. Tramarzo e aprile le prime lotte allePresse e alle Meccaniche e, pri-ma ancora delle Carrozzerie,scendono in campo le Ausiliarie:«C’era una forte differenza tranoi meccanici e i carrozzieri, unadifferenza strutturale che porta-va a diversi comportamenti an-che nelle lotte. Erano diverse lemolle che ci fecero partire e l'uni-ficazione del movimento anchenei momenti più importanti del'69 non cancellò mai le diversesoggettività e persino i diversiobiettivi».

«I carrozzieri erano come i pro-letari della nostra letteratura, ave-vano da perdere soltanto le lorocatene: erano tutti meridionali,deportati in fretta e furia a Torinosenza possibilità di trovare un al-loggio, nella miseria. Erano addet-ti a mansioni ripetitive, erano tut-ti montatori, 'operai massa'. Perloro il '69 fu una vera rivolta con-tro ogni aspetto della condizioneintollerabile che vivevano, e traloro si radicò soprattutto Lottacontinua. Lottavano perché, sem-plicemente, rifiutavano di esserespremuti come limoni».

«Senza fare tante chiacchiere,ti racconto una delle vertenze al-le Ausiliarie e capirai da solo lepe- culiarità delle Meccaniche. Ipassaggi di categoria erano possi-bili soltanto dopo il superamen-to di un esame che si chiamavacapolavoro o prova d'arte. Io, at-trezzista, dovevo costruire - ottoore al giorno in un luogo chiuso -un parallelepipedo perfetto ar-mato di sola lima. Non c'entravaniente con il lavoro che facevo eavrei fatto tutti i giorni in offici-na, ma soprattutto, era il capo adecidere chi, e quando, aveva di-ritto a sostenere l'esame. Va dasé che gli amici del capo erano iprimi e il parallelepido lo faceva-no medio degli altri. Come mai?Semplice, lavoravano con la retti-ficatrice e non con la lima. La no-stra vertenza aveva alla baseun'idea opposta per i passaggi dicategoria, e alla fine del ciclo dilotte la spuntammo: il passaggiodi categoria venne regolato daun attento esame dei lavori dinormale manutenzione effettua-ti in un determinato periodo ditempo.

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le dell’analisi del manifesto rispet-to all’autoreferenzialità burocrati-ca del documento Fiom e il confu-so e unilaterale estremismo della«cronaca» di Rieser. Lo sguardo,parzialmente esterno e politica-mente avvertito, di Luciana Castel-lina coglie i tratti essenziali e an-che contraddittori di quel comples-so laboratorio politico e socialeche era la Fiat in quei mesi di inin-terrotta conflittualità. A Lucianabasta una riga per cogliere il sensodel nostro impegno politico nellalotte in Fiat: il Psiup torinese, scri-ve, «ritiene che il delegato di squa-dra possa essere il punto termina-le del sindacato e insieme il primoembrione del potere politico». Daqui parte il mio dialogo politicocon il manifesto. Quei primi nume-ri della rivista il manifesto rappre-sentarono per noi la via di uscitada un pesante isolamento politicoe comunicativo. Dal settembre1969 inizia la mia collaborazionecon la rivista.

Nel numero del gennaio 1970 ilmanifesto pubblica una tavola ro-tonda tra delegati di Mirafiori cherealizzammo insieme con LucianaCastellina in via Po n˚5. Su questostesso numero del manifesto Lu-cio Magri alza il tiro con un inter-vento di «Risposta ad Ingrao» daltitolo «Parlamento o consigli». Nel-la complessa realtà del capitali-smo maturo i consigli si configura-no oggi come organi di contro-po-tere inseriti in un più vasto movi-mento politico che tende a supera-re la dicotomia tra sindacalismoeconomicistico e politica parla-mentare. Queste posizioni si avvi-cinavano molto alle nostre elabo-razioni torinesi sul «movimentopolitico di massa».

Il biennio ’68-’69 aveva messoin evidenza processi massicci dipoliticizzazione dal sociale all’in-terno di differenziate aree della so-cietà: operai, braccianti, tecnici,operatori professionali con ruolopubblico (insegnanti, medici, ma-gistrati). I consigli operai, con la lo-ro forma originale di «democraziadi mandato» e con la centralitàche allora assumeva la grande fab-brica, diventavano il momentoesemplare e il fattore dinamico diuna ben più vasta e articolata con-figurazione di conflitto e di demo-crazia sociali. Era utopico pensaredi contenere questo vasto fermen-to politico all’interno della dimen-sione sindacale, era impensabileche esso potesse trovare rappre-sentanza nelle forme del tradizio-nale partito burocratico di massaparlamentare. Occorreva aprireuna terza dimensione della politi-ca capace di rimettere in discussio-ne le forme storiche dell’organizza-zione del movimento operaio e so-cialista.

Anche a Torino in quei mesi il“Giornale di Lotta” alza il tiro. Al-l’inizio di settembre propone che idelegati di reparto della Fiat si riu-niscano in un loro Consiglio. Sonosessantasette, escludendo 56esperti di linea. Una quindicinahanno tessera sindacale, quattro ocinque tessera di partito.

Il 13 settembre i sindacati con-vocano a loro volta un consigliodei delegati di Mirafiori (presentiin 150). Nel corso della lotta con-trattuale si sviluppa una vivace di-scussione sul Consiglio dei delega-ti della Fiat. Il nodo dello scontroriguarda l’autonomia del Consi-glio: presidenza operaia, facoltà diauto-convocarsi e di definire l’ordi-ne del giorno, potere di decisionesu tempi e forme di lotta. A fine ot-tobre, tra i 199 delegati membridel Consiglio di Mirafiori, solo 70

hanno una tessera sindacale. Gliapparati sindacali devono fare iconti con una richiesta di autono-mia dei delegati che sovente risul-ta maggioritaria.

Luciana Castellina nel numerodel manifesto del gennaio 1970traccia un bilancio nazionale del-l’insorgere di quella contradditto-ria nebulosa che sono i delegati.Distingue tra regole formali e ruoliesercitati di fatto, indica le resisten-ze conservatrici nei vertici sindaca-li e nel Partito comunista, sottoli-nea il loro ruolo di rinnovamentodel sindacato ma evidenzia anchele loro potenzialità politiche. Il tito-lo di questo saggio è eloquente: «Ilmovimento dei delegati».

Nella logica di costruzione diquesto «movimento» alcuni dele-gati operai di Mirafiori, del Lingot-to e della Michelin facenti capo al«Giornale di lotta» prendono l’ini-ziativa di convocare per il 25-26 ot-tobre il convegno di Grugliascoche ha l’ambizione di avviare un la-voro di coordinamento politicodei delegati a livello nazionale. Letensioni del Psiup torinese con laCamera del lavoro e la Fiom sonoormai tali da richiedere un inter-vento nazionale.

Vittorio Foa, con precisa lucidi-tà e grande onestà intellettuale, ri-corda, decenni dopo, nel «Cavalloe la torre» una assemblea, nell’ot-tobre 1969, di operai del Psiup aTorino: «Andai a Torino – scriveFoa - con Elio Giovannini che eraallora nella direzione nazionaledella Fiom. Ci fu una assembleastracolma di giovani: Ferraris pre-siedeva e mise ai voti la mia propo-sta di correzione: non una mano sialzò. Pino disse allora: chi votacontro? Tutte le mani si alzarono.Alla fine della riunione Pino mi dis-se che nonostante quel voto tuttoera rotto, l’esperienza torinese eraconclusa».

Le «correzioni» che Foa ci chie-deva consistevano nell’invito aprendere atto che, nel contesto da-to, i delegati e i consigli potevanoessere soltanto strumenti di un ge-neralizzato e radicale rinnovamen-to unitario del sindacato.

Non fu Vittorio Foa a «normaliz-zare» (così egli scrive) la situazionetorinese. Si imposero rudi rapportidi forza sulla nostra debolezza esui nostri errori. Il sindacato deiconsigli che scaturì da quelle lottefu una buona cosa, ma fu altra co-sa rispetto a ciò che andavamo al-lora perseguendo.

Scelsi il manifesto,il sindacatonon mi bastavaMi etichettavanocome intellettuale,la Ps mi fermavascambiandomiper uno studente

La normalizzazionenel ricordodi Vittorio Foa:«Misero ai votila mia proposta,venne chiesto: chivota contro? E tuttele mani si alzarono»

■ Mirafiori ’69 nel ricordo di Gianni Usai

Rabbia e coscienza,lievito della rivoltaLoris Campetti

Le radici di un'eresia comunista - 24 Novembre 2009 (7

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Per tutti, dunque, le stesse oppor-tunità e, soprattutto, in questomodo si spezzava il potere asso-luto del capo sui passaggi di cate-goria, e poi sull'assegnazione deilavori. Stesso ragionamento pergli aumenti al merito, uno stru-mento che per poche briciolemetteva un operaio contro l'al-tro. Ottenemmo la perequazionee bruciammo la logica delle pa-ghe segrete, nascoste dall'azien-da e dagli stessi operai. Perequa-zione significò portare gli ultimial livello dei primi. Gli ultimi chespesso erano i più bravi, ma ave-vano il torto di essere iscritti allaCgil. Con gli aumenti inversa-mente proporzionali si premiaro-no gli esclusi, fu quasi una giusti-zia biblica.

I vecchi compagni delle Offici-ne stella rossa erano al fianco deinuovi assunti in questa battaglia,in questo senso il '69 fu ugualeper tutti. Insomma, alle Meccani-che la consapevolezza e l'impe-gno crebbero diversamente che al-le Carrozzerie, da noi non si trattòdi una pura e semplice esplosionedi rabbia. Dalle differenze struttu-rali nascevano dunque i diversicomportamenti e le diverse opzio-ni politiche: mentre Lc cantava:'Signor padrone/ non ci hai frega-ti/ con l'invenzione/ dei delegati',io con i compagni della Fiom edella Fim -chissà perché, non rie-sco a ricordare nessun compagnodella Uilm - costruivo i consigli difabbrica. Io mi avvicinai subito al«Manifesto», mi era più congenia-le culturalmente perché ero cre-sciuto tra i vecchi compagni delPci, quelli delle commissioni inter-ne che avevano vissuto l'esperien-za dura degli anni '50. Al manife-sto mi convinceva il fatto che misi ascoltava quando parlavo, sen-za la pretesa di darmi ordini e li-nea. Io mi preoccupavo di costrui-re l'organiz zazione dentro la fab-brica, quando i compagni di Lc ri-tenevano un onore essere licenzia-ti, c'era chi diceva proprio 'molticaduti, molto onore'. Mi avvicinainaturalmente al manifesto, le Au-siliarie e gli scioperi non mi basta-vano, né mi bastava il sindacato».

Non c'è astio nel racconto diGianni, ma la voglia di non azzera-re nel ricordo le differenze. Nonper prendere le distanze da altrecomponenti del movimento, maper cercare di ricostruire tutti ipez- zetti di quel puzzle straordi-nario che fu il '69. Gianni ha un ri-cordo nitido anche dell'interven-to studentesco ai cancelli dellafabbrica, e mi racconta di quan-do, durante un picchetto esternofu preso dal questore insieme aun gruppo di esterni di Lc e Po-top: «Dicevano che ero uno stu-dente, non potevo essere un ope-raio con la faccia che avevo. Mi ca-ricarono sulla camionetta e solograzie all'intervento di Anna, miamoglie, e degli altri compagni del-le Meccaniche fui rilasciato insie-me agli studenti». Gianni «l'intel-lettuale» ricorda il suo primo scio-pero di quell'anno di fuoco, quan-do il cavalier Armandi, capoffici-na con portamento aristocraticoma legato ai vecchi operai profes-sionali venne a supplicarci di nonscioperare: 'Ci penso io a risolve-re i vostri problemi', diceva. Maloro, i vecchi: 'Con tutto rispetto,non cerchiamo soluzioni persona-li'». E poi i primi scioperi di mas-sa, i carrozzieri che si incontranocon i meccanici, gli scontri di cor-so Traiano nella manifestazioneper la casa: «E’ vero - dice Gianni

- il 3 luglio fu importante. E' vero,non siam scappati più. Ma anchegli scontri di corso Traiano non fu-rono un fatto singolo, slegato dal-la storia. Le origini di quel mo- vi-mento vanno ricercate alla finedegli anni '50 e negli scontri inpiazza Statuto. Piazza Statuto fula rinascita del movimento, an-che se poi seguirono anni difficili.Ricordo quando nel '66 sciopera-vamo in 10 e ce le prendevamodai celerini arrivati da Padova».

Allora, che cosa è stato per te il'69? «Un anno straordinario, escusa se te lo ripeto, un anno chedu- rò molto più di 12 mesi. In-contrai Anna, la mia compagna,nel '67, strinsi le amicizie più im-portanti, quelle che ti segnanoper tutta la vita, amicizie cemen-tate nei cortei, nei picchetti, nelleriunioni. In- contrai insieme pas-sioni e affettività. Nel '69 avevo 23anni, mi sembrò di nascere unaseconda volta. E provavo la stessasensazione che provavano i com-pagni che avevano spalato merdaper tutti gli anni '50. Era l'annodell'unità, dell'incontro di culturee lingue diverse: io, i giusteur, ivecchi quadri comunisti, gli immi-grati e i piemontesi, i carrozzieri ei pressaioli. Eravamo tutti diversi,ma uniti».

Quando è finito il '69? «Per noi,alle Ausiliarie, è finito tardi, a me-tà degli anni '70 anche se il mi-glior accordo forse lo sottoscri-vemmo nel '79. Ma era un fattocontro corrente, il vento era giàcambiato intorno a noi. Le Ausilia-rie furono le ultime a cadere. Nel'78 si era ormai esaurita la spintapropulsiva del '69 e delle lotte diofficina: c'era stata la svolta del-l'Eur nel sindacato, e poi terrori-smo e antiterrorismo ci stavanotogliendo il respiro. Certo, già a fi-ne '69, il 12 dicembre, ci furono lebombe a piazza Fontana. Certoche mi ricordo quel clima, ma infabbrica, il giorno dopo, c'eranoaltri scioperi, nuove lotte e altrevertenze. Insomma, c'era la forzaoperaia e anche se a Milano - ri-cordo quel 12 dicembre del '70con nonna Mao e la mia compa-gna al fianco - i candelotti spacca-vano i lampioni e uccidevano icompagni in piazza, poi si torna-va in fabbrica tra gli altri operai esi aveva l'impressione di una for-za che non sarebbe stata piegatao ricondotta a ragione da poliziae fascisti. Non ho mai pensato adifese militari, mi veniva da ride-re quando sentivo i compagni di-scutere di clandestinità. La pauradel golpe, in officina, si sentiva dimeno. Forse eravamo realisti, for-se incoscienti, forse presuntuosinel pensare che non ci avrebberopiegato.

Un paio di mesi prima dell'au-tunno '80 e della sconfitta opera-ia, Gianni lasciò la Fiat e tornò inSardegna, con 17 anni di politicae di lavoro operaio sulle spalle esenza il diploma da ragioniere.

Sentì la sconfittà che arrivava

e se ne andò. Senza pentimenti esenza rancori, forse con un po'di tristezza. Oggi, il suo fisico èpiù robusto di quando stava a To-rino e 24 ore al giorno gli eranoinsufficienti per vivere. Ti mancaqualcosa, Gianni? «Sono rimastotanto a Torino e alla Fiat. I fattimi davano la carica per resistere.Era più facile stringere i denti.Poi mi son mancate le forze, nonsolo fisiche».

L'ultimo palamito, il terzo, epoi il Proteo tornerà all'ormeg-gio, a Mandriola, con il suo cari-co umano - due pescatori e ungiornalista - e ittico - 17 chilo-grammi di pesce di prima, unamurena maledetta che ha mezzodistrutto il secondo palamito, ungronco e un po' di seconda, sen-za contare il pesce succhiato dal-le pulci di mare e dai polipi equindi inutilizzabile. I1 sole è giàalto sopra di noi, il mare è di nuo-vo rosso: «Un parago», grido con-tento. «Ma come, ti avevo spiega-to la differenza. Non lo vedi che èun pagello, non lo vedi che ha ilmuso allungato».

(tratto dal bimestrale «Autunnooperaio», supplemento al

manifesto del 12 dicembre 1989)

Quando scocca l'ora del'69 Franco Petenzi è

già un uomo fatto, per età - tren-taquattro anni - e per scelte politi-che. È un comunista che, proprio inquell'anno, si riconosce nelle posi-zioni del manifesto. Lavora comeoperaio al reparto collaudo dellaDalmine di Costa Volpino, in pro-vincia di Bergamo. Nella fabbrica ditubi, di proprietà dell'Iri, era arriva-to nel '59. Prima della fabbrica, i treanni dell'avviamento, il corso permuratori, qualche anno di cazzuo-la, il servizio militare. Per capirel'autunno caldo bisogna dare alme-no un'occhiata agli anni dell'«incu-bazione».

«Nel ’59 mi avevano messo al re-parto aggiustaggio, dove si riparava-no i tubi. Un posto molto nocivo,con tanta polvere di silicio in giro,dove tutti i neoassunti facevano lagavetta. Ho cominciato a ribellarmidieci giorni dopo l'assunzione. Allo-ra non c'era la mensa, né si inter-rompeva il lavoro per mangiare. Siportava la borsa da casa con dentroqualcosa. Non potevamo neppurelavarci le mani prima di mangiare,o sederci su uno sgabello. Così timettevi in bocca dei panini neri co-me il carbone. Io mi sono preso il di-ritto di lavarmi le mani, ho pratica-to l'obiettivo. L'ingegnere mi ha ri-chiamato, ma io ho continuato. Nelgiro di pochi mesi molti altri operaidel reparto, visto che non mi succe-deva niente, si sono messi a lavarsile mani e a sedersi per mangiare».

«In fabbrica c'ero arrivato politi-camente sprovveduto. Mi piacevaballare, suonare. Suonavo la trom-ba nella banda del mio paese, Love-re. Lo spirito di ribellione, però, eragià venuto fuori prima, quando fa-cevo il muratore e anche sotto le ar-mi, dove ho fatto parecchi giorni diprigione. Ero cattolico di formazio-ne, ma alla fine degli anni Cinquan-ta la chiesa l'avevo già abbandona-ta perché non mi veniva nessunaispirazione di fede e di credo. Quan-do sono andato alla Dalmine ero en-tusiasta. Nel settore edile il padronelo vedevi in faccia tutti i giorni, conun'autorità che io, anche se mi ri-bellavo, dovevo alla fine accettare.Pensavo: la Dalmine è un'azienda apartecipazione statale, qui non c'èil padrone, il rapporto sarà tra ope-rai. In fabbrica, invece, ho ritrovatolo stesso autoritarismo del padroneprivato. Così sono andato avanti aribellarmi, ho smesso di colpo disuonare e ballare - tanto che la gen-te stentava a riconoscermi - e ho co-minciato a divertirmi con la politi-ca».

Com'è stato l'incontro con ilsindacato?

Quasi subito mi sono iscritto allaFiom e poi al Pci. Fino al ’68-’69 so-no stati anni di normale ammini-strazione, con una commissione in-terna totalmente subalterna al-l'azienda. Io ero sì dentro al sinda-cato, ma già in modo fortementecritico. Allora gli iscritti alla Fiomerano sì e no una decina. La Fimtesserava in massa la gente primaancora che arrivasse in reparto, l’ag-ganciava nei corsi di formazioneprofessionale. C’era un tacito accor-do con l’azienza. Che la Fim fossedalla parte del padrone lo si vedevabene: non c’era lotta e per fare unosciopero doveva proprio esserciuna scadenza nazionale.

Come se la passavano, alla vi-gilia dell’autunno caldo, i

1.200 dipendenti della Dalmi-ne di Costa Volpino?

Straordinari obbligatori, anche neigiorni di festa. Ambiente di lavoroal massimo della nocività. Lavorato-ri impauriti. Questo perché granparte degli operai venivano o dallacampagna o dall'edilizia. Ma a par-tire dalla metà degli anni Sessantasono entrati i giovani direttamentedalla scuola dell'obbligo. Lo svec-chiamento è stato una precondizio-ne delle lotte.

Che eco si sentiva, in provin-cia, del '68 studentesco?

Il '68 da noi è partito dalla fabbrica.Siamo stati noi operai ad andare achiedere solidarietà agli studenti.Nel '68 come gruppo di base dellaDalmine abbiamo fatto un volanti-no per scioperare a fianco dell'Ital-sider di Lovere. Li c'è stato il primoscontro aperto con il sindacato e ilPci. Il giorno del volantinaggio laFiom non si fece vedere, si presen-tò uno della Fim con il megafono aincitare la gente a entrare. E il gros-so degli operai non scioperò.

Per la tua formazione perso-nale cos'è stato il '68?

Mi aveva entusiasmato molto la ri-voluzione culturale cinese, il suo 'ri-bellarsi è giusto', la rivoluzione per-manente. Altrettanto mi aveva cat-turato l'esperienza di Cuba, che visi-tai proprio nel '68.

Cosa leggevi in quegli anni?Al Pci c'era un gruppo di insegnan-ti e studenti universitari che faceva-no dei corsi su Marx, con delle di-spense sul Capitale. Ci si trovavadue volte la settimana, alla sera,nella biblioteca «13 martiri» del Pcia Lovere.

Quando quel piccolo gruppoalla Dalmine diventa una cosaimportante, un protagonista?

Proprio nel ‘69. Si comincia a faredei comizi interni nei reparti. Mene ricordo uno che ho fatto in piedisu un bidone, con grande esaltazio-ne di tutti e con successivo corteonegli uffici, per convincere gli im-piegati a scioperare. Eravamo giànella fase del rinnovo contrattuale.

Queste cose le facevamo come ope-rai auto-organizzati, in pratica uncub, anche se non ci siamo mai da-ti questo nome. Ci era arrivato a di-stanza il messaggio della Pirelli, ba-stava leggere i giornali.

Qualche episodio che dia con-to della novità delle forme dilotta, della creatività che met-tevate in campo.

La più bella che mi ricordo è diaver portato un asino ai cancelliper simboleggiare la subalternitàdegli impiegati al padrone. L’asinome l’aveva prestato un amico chestava vicino alla Dalmine; gli ave-vo messo una penna in testa e uncartello al collo con sopra scritto«io non sciopero perché mi piace ilpadrone». Mi ricordo una voltache un dirigente si era chiuso inun gabinetto per scansare la spaz-zolata degli uffici. Allora noi abbia-mo circondato il gabinetto e nonl’abbiamo lasciato uscire finchénon ha dimostrato con un sonoroploff le ragioni fisiologiche per sta-re là dentro. Si facevano dei bloc-chi stradali, dei picchetti duri, congli impiegati che saltavano il murodi cinta. Ricordo un picchetto du-rato tutta la notte che costrinse ildirettore a dormire in ufficio suuna sedia a sdraio. Tante volte sipartiva in pullman e si andava aMilano per far scioperare gli impie-gati della sede centrale. Adessoqueste cose le chiamano violenza,è cambiata la percezione della real-tà. Erano comportamenti alla lucedel sole, non come fanno adesso ipadroni che le bastonate te le dan-no di nascosto. Succedeva, maga-ri, che anche quelli che volevanoentrare poi restavano fuori con noial picchetto, a mangiare e bere inallegria.

Per organizzare queste lotteavevate l'agibilità della fabbri-ca?

No, le riunioni continuavamo a far-le in biblioteca, osteggiati da unagrossa parte del Pci. Di operai co-munisti c'ero solo io, gli altri eranodi estrazione cattolica. I rapporticon il sindacato erano tesi. Ci divi-devano le forme di lotta. Noi propo-nevamo gli scioperi a scacchiera, ilsindacato era attaccato allo sciope-ro tradizionale. E ci dividevano gliobiettivi. Per l'ambiente di lavoronoi nel '69-'70, già prima di metter-ci in contatto con quelli della Mon-tedison di Castellanza, ragionava-mo sul rischio zero. Sul cottimo esul premio di produzione diceva-mo le stesse cose del cub della Pirel-li. Sostenevamo queste cose e, con-temporaneamente, stavamo den-tro prima alla commissione internapoi al consiglio di fabbrica. Le as-semblee per il rinnovo contrattualeci permisero di stabilire un rappor-to di massa, pubblico, con i lavora-

Costruimmol’organizzazionein fabbrica, quellidi Lc ritenevanoun onore esserelicenziati. Dopocorso Traiano nonsiam scappati più

■ Bergamo ’69 nel racconto di Franco Petenzi

«Alla Dalmine scopriiche ribellarsi è giusto»

Nel ’69 FrancoPetenzi lavora comeoperaio al repartocollaudo dellaDalmine di CostaVolpino (Bergamo).E questo è il suo«autunno caldo»

I CENTRIDI INIZIATIVACOMUNISTA

Manuela Cartosio

8) Le radici di un'eresia comunista - 24 Novembre 2009

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Subito dopo la radiazionedal partito comunista Bufalini di-chiarò che Cagliari era una dellequattro città italiane dove «il frazio-nismo e le attività disgregatrici delgruppo del manifesto avevano at-tecchito».

Il riferimento era alla sezione Le-nin, definita «dei disobbedienti»,che contava oltre 1300 iscritti, nu-mero mai più raggiunto negli annisuccessivi. Vi erano rappresentatiportuali, ferrovieri, telefonici, di-pendenti dell’azienda di trasporto,studenti, artigiani, intellettuali.Questa forza si spiegava invece colfatto che la sezione promuovevaun’attività politica e culturale in-tensa. I compagni avevano un for-te senso di appartenenza al parti-to, soprattutto si sentivano prota-gonisti della vita della sezione. Alleassemblee partecipavano centina-ia di iscritti e, cosa per certi versinuova, molti simpatizzanti e perso-ne appartenenti ad altre formazio-ni politiche. I temi coincidevanospesso con gli argomenti affrontatidal comitato centrale del partito:la convocazione di una conferen-za internazionale di tutti i partii co-munisti sui rapporti con il partitocinese, la proposta di un partitounico della classe operaia, le que-stioni dell’autonomia regionale,del sardismo, ecc. Più in generalepensavamo, forse accentuandone

le dimensioni, che le crisi italianae mondiale ponessero problemi ditrasformazione radicale della so-cietà e perciò i compiti del movi-mento operaio fossero entrati inuna fase nuova. La rivoluzione cu-bana, il Vietnam, le lotte operaie estudentesce su scala mondiale di-mostravano che il capitalismo ve-niva contrastato da nuove compo-nenti sociali mentre lo schiera-mento tradizionale della sinistranon riusciva a coglierne l’ampiez-za e a dare risposte adeguate. Perquesto ritenevamo indispensabilisia un massimo di circolazione diidee, un approfondimento delleanalisi e un impegno militante dif-fuso a livello sociale. Insomma, anostro parere gli schieramenti so-ciali dovevano essere meglio ana-lizzati e, se non era più possibile re-alizzare la rivoluzione attraversol’insurrezione, non si doveva pen-sare soltanto al governo del 51%,ma predisporre e radicare nella so-cietà una maggioranza solida: sol-tanto quella avrebbe garantito latenuta di un eventuale governodel 51%.

Naturalmente non potevamosottovalutare il ruolo che in Sarde-gna svolgeva la Regione Autono-ma. Il tentativo del manifesto fu didimostrare come la Regione nonfosse di per sé uno strumento didemocrazia o di progresso sociale.L’impegno della sinistra non pote-va esaurirsi nella contestazionedel governo centrale o nella riven-dicazione di una maggiore autono-mia: cosi circoscritto l’impegno di-

ventava sterile e controproducen-te; era necessario rivitalizzare unrapporto con le fasce più debolidella popolazione e, principalmen-te, con la classe operaia che in que-gli anni assumeva una dimensio-ne nuova e più consistente.

Sottolineavamo questa esigen-za non per caso. Eravamo consape-voli che la politica della rinascita edella programmazione regionalestava diventando un impegno qua-si esclusivo delle forze della sini-stra, e tutto interno all’istituzioneregionale. Il Partito comunista ri-schiava di pagare un alto prezzoperché nel tentativo di assumerela rappresentanza e la guida degliinteressi più generali del popolosardo sottovalutava che nella pras-si regionale gli interessi generali siidentificavano frequentementecon quelli dei grandi gruppi indu-striali o con le nuove clientele.

Ho dato priorità, in questa bre-ve analisi, alle questioni relative al-l’Autonomia Regionale non per-ché le ritenga più importanti dellealtre, ma perché in Sardegna han-no sempre condizionato il dibatti-to politico. Ma le posizioni critichedel manifesto riguardavano anchela concezione del partito. Più pas-sava il tempo e più il Pci ci appari-va un partito chiuso dove le rela-zioni avvenivano in modo unidire-zionale, dal vertice alla base. Forsefinché si condivide una linea politi-ca si colgono meno i suoi limiti, cisi impigrisce e i dubbi restano aimargini della riflessione critica.Ma quando una scelta non risultapiù convincente si delineano lesue inadeguatezze. Per molti dinoi diventò difficilissimo accettareche le posizioni dei compagni cheoperavano in periferia, se differen-ti da quelle dei gruppi dirigenti,trovassero ostacoli insormontabiliad affermarsi. Su questo tema unruolo importante fu esercitato daLuigi Pintor, in Sardegna per puni-zione dal 1966 dopo le vicende del-l’XI congresso. La sua presenza fumolto stimolante e contribuì adorientare un gruppo di compagniche poi diedero vita al manifesto.

Il rapporto con Pintor era moltonaturale: la sua immediatezza, ilsuo parlare chiaro, senza tattici-smi, l’informarci sul dibattito esi-stente su scala nazionale, sulle po-sizioni dei diversi compagni delladirezione e della segreteria, furo-no tutte cose che influirono note-volmente sulla nostra formazionee ci coinvolsero nel lavoro politico

di quegli anni. Avevamo così l’im-magine di un partito non più in-gessato ma nella sua dimensionepiù autentica. Tutto ciò, ripeto,esercitò un forte stimolo in noi.

Il giudizio sull’Unione Sovieticafu un altro elemento di tensionecol gruppo dirigente sardo. Nono-stante ci fossero aperture impor-tanti (per esempio il giudizio sul-l’invasione della Cecoslovacchia),nel partito rimaneva un’ambiguitàdi fondo. Ogni rilievo nei confrontidell’Unione Sovietica o dei paesidell’est andava accompagnato daqualche riconoscimento; laddoverisultava difficile individuare aspet-ti positivi nella politica recente diquesti paesi, occorreva fare riferi-mento al passato e così la criticanon era mai chiara. Questa ambi-guità lasciava segni evidenti con-traddittori nel corpo del partito.Veniva giustificata sostenendo chei vecchi militanti, cresciuti nel cul-to dell’Urss, non potevano accetta-re serenamente le critiche nei suoiconfronti.

Voglio riproporre due esempiperché mi sembrano assai signifi-cativi. Entrambi si riferiscono al1968 e all’invasione sovietica dellaCecoslovacchia. Mi trovavo nellafederazione del Pci. In quelle oreconcitate ricevemmo una telefona-ta da un compagno dell’hinter-land, che cosi aveva commentato«Has biu? Ddus heus binnennaus!»(hai visto, li abbiamo schiacciati,binnenna = vendemmia). Era com-piaciuto dell’iniziativa sovietica.Nella stanza vicina un altro compa-gno, dirigente del partito, com-mentava invece: «Questi sovieticisono proprio degli imbecilli, pren-dono queste iniziative e non prepa-rano tempestivamente il ricambiodel gruppo dirigente cecoslovac-co». Lo diceva con convinzione, co-me se un golpe riuscito avesse po-tuto sminuire la gravità dell’inva-sione. Queste erano le ambiguitàall’interno del Pci, nonostante leposizioni ufficiali.

L’allontanamento dal partito at-traverso la radiazione di alcunicompagni e l’autoradiazione di al-tri, fu un atto di violenza. Questavicenda ci impose un impegnosupplementare teso non solo aconservare la presenza politica nel-le realtà dove avevamo consolida-to un rapporto con vari compagni,ma anche a difenderci dalle accu-se provocatorie promosse dall’ap-parato del partito ("frazionisti","chi vi paga", "andrete a finire congli avversari", ecc.).

Cercammo comunque di conti-nuare il lavoro politico anche seconsapevoli delle nuove difficoltà.Ci provammo su scala regionale,con risultati alterni, nelle nuovefabbriche (a Carbonia, ad Assemi-ni, a Ottana e a Portotorres). Ciprovammo soprattutto nei colletti-vi studenteschi e fra gli insegnanti.In molti comuni cambiarono i rap-porti di forza tra i partiti. E fu deci-sivo l’intervento di tanti compagniche si erano formati culturalmen-te e politicamente nel movimentoe nelle formazioni politiche di que-gli anni (anche il manifesto ebbeun ruolo importante in questo pro-cesso).

A distanza di 40 anni, non so di-re se la separazione forzata dalpartito comunista abbia prodottoeffetti positivi. Sicuramente gli in-terrogativi posti allora dal manife-sto non erano infondati, né faceva-no parte di un disegno frazionisti-co. Ma difficile fare valutazionipiù approfondite, entrano in gio-co troppi se. E le analisi e le con-clusioni possono essere moltepli-ci e contrastanti.

tori. Lì abbiamo misurato il consen-so, abbiamo verificato che non era-vamo più una minoranza. Dopo ilcontratto, siamo ripartiti subito sul-l’inquadramento unico operai-im-piegati. Il nostro obiettivo era la pa-ga unica, l’egualitarismo al centoper cento.

Utopie le chiami adesso.Allora, però, questa parola nonl’usavo. Ero consapevole che obiet-tivi come il rischio zero, la paga uni-ca non erano di breve periodo. Era-no discriminanti di fondo, necessa-rie per tener viva la tensione, com-battere le gerarchie, costruire soli-darietà e potere di massa. Serviva-no, insomma, a tenere aperto ilfronte delle lotte. Eravamo consape-voli che se ti fermi, il padrone ti por-ta via parte di quello che hai giàconquistato. Questi obiettivi, però,non li allontanavo in un futuro in-determinato, in un mondo dei desi-deri come ora mi succede per il co-munismo.

Cosa guadagnarono, in con-creto, gli operai della Dalmineda quel ciclo di lotte?

Hanno guadagnato il superamentodel cottimo, l’inquadramento uni-co, un po di soldi. Poi si è aperto ilcapitolo nocività. Faccio l’esempiodella soffiatura con l’aria compres-sa dell’ossido di carbonio che stavadentro i tubi e si spargeva per tuttoil reparto. Nel ‘72 gli operai si sonomessi a tagliare le gomme dell’ariacompressa e hanno preteso un pro-cesso produttivo meno dannoso.In quegli anni noi operai abbiamocombattuto le gerarchie interne al-la fabbrica. La gente ha cominciatoa scoprire se stessa, a capire chel’autoritarismo è nella società, in ca-sa, dentro di noi. Figurati che nel‘71 abbiamo fatto un’assemblea sul-le gerarchie in famiglia. In una fab-brica tutta maschile.

Mentre queste cose succede-vano tu avevi in mente la rivo-luzione, pensavi questa è lavolta buona?

In parte sì. Ma se prima del '68 pen-savo ancora a una rivoluzione ar-mata, dopo la pensavo come unprocesso che gli operai facevanopartire dalle fabbriche e s'incontra-va con il resto della società. In que-gli anni gli operai hanno avuto unpotere reale in fabbrica; fuori, an-che negli anni d'oro, mi sembrache ne abbiano avuto assai meno.

Com'era la tua vita quotidianain quegli anni intensi?

Era tutto finalizzato alle lotte. Lagiornata era pienissima. Più di unavolta mi sono addormentato gui-dando il motorino mentre andavoin fabbrica al primo turno. C'era lafabbrica, il lavoro politico e poi eroanche presidente di una cooperati-va edilizia.

Tu sei sempre stato tiepido aproposito dell'operaio massae del rifiuto del lavoro. Per iltuo essere comunista o perqualche altra ragione?

Non è solo un dato culturale-ideolo-gico-generazionale-geografico.Conta molto la tipologia della fab-brica. Alla Dalmine non c'erano icatenari, già prima del '69 eravamodivisi in gruppi omogenei. Si lavora-va fianco a fianco, con momenti didiscussione sul che fare dentro efuori la fabbrica. L'assenteismoc'era anche da noi, ma io personal-mente ho sempre assunto il lavoroin positivo, non come condanna. Illavoro mi ha permesso di stabilirerapporti veri con gli altri operai.Cioè di fare delle lotte per cambiare

il lavoro. Un punto fermo, direid'onore, per il nostro gruppo è sem-pre stato quello di non farci ripren-dere per le troppe assenze o la scar-sa produttività. E non ci siamo maistaccati dal reparto, dalla produzio-ne.

Perché sei entrato nel gruppodel «manifesto»?

Mi aveva colpito, lo ripeto, l'analisidel maoismo, della rivoluzione cul-turale. Non tanto, lo ammetto, lacritica del socialismo reale. Quellami sembrava una cosa del passato,mentre il maoismo mi parevaun'apertura sul futuro.

Che gruppi si vedevano allaDalmine?

Venivano a volantinare gli m-l diBergamo, poi è nata Lotta continuaa Pisogne e a Costa Volpino. Ma era-no tutti studenti, alla Dalmine nonsono mai esistiti. Fuori dalla fabbri-ca i rapporti con noi del manifestoerano pessimi. Il loro obiettivo eraquello di cercare lo scontro con ilMsi e di prendersela con noi 'rifor-misti' del manifesto.

Ti scocciava quell'etichetta?Non mi faceva né caldo né freddo.In vita mia non ho mai mediato alribasso. In fabbrica non ho mai fir-mato un accordo. L'unica firma nel-la mia storia alla Dalmine l'ho mes-sa per accettare la risoluzione posi-tiva di una causa che avevo fattosul cottimo. Una firma tanto straor-dinaria che il capo del personale in-corniciò il documento e l'appese inufficio (...).

Tu non hai certo sofferto dicomplessi d'inferiorità versogli intellettuali del «manife-sto». Non c'è stata riunione oassemblea dove non si sia sen-tita la tua voce. Pensi di averinsegnato qualcosa a questeteste fini?

Non sono mai stato zitto, questo ècerto. Ma credo di aver insegnatopoco o niente agli intellettuali del«manifesto». Ognuno di noi ha lasua formazione che la vita politicadifficilmente riesce a cambiare. Ledifferenze possono momentanea-mente sbiadire nei momenti altidel movimento, poi tornano fuoritali e quali. Un operaio resta unoperaio, un intellettuale resta un in-tellettuale».

(tratto dal bimestrale «Autunnooperaio», supplemento al

manifesto del 12 dicembre 1989)

Il nostro tentativoera di dimostrarecome la Regioneautonoma non fossedi per sé unostrumento didemocrazia o diprogresso sociale

«Prima i comizi neireparti, poi lespazzolate negliuffici per obbligaregli impiegati ascioperare.... Oggi lachiamerebberoviolenza»

■ Cagliari

I disobbedienti sardie la parola di PintorMarco Ligas

Le radici di un'eresia comunista - 24 Novembre 2009 (9

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Ospitati dalla fondazio-ne «Europa Mezzogiorno» hanno di-scusso quattro protagonisti della vi-cenda il manifesto a Napoli: AndreaGeremicca, Mario Catalano, Euge-nio Donise e Attilio Wanderlingh,impegnati in incarichi di direzionenel Pci. Le strade sono state diverse.Geremicca ha avuto un ruolo cen-trale nel partito e poi nella primaamministrazione di sinistra guidatada Valenzi. Donise, fra la fine deglianni Settanta e i primi anni Ottantaha assunto la segreteria provinciale.Mario Catalano e Attilio Wanderlin-gh, assieme a Liberato Bronzuto,Massimo Caprara, Salvatore Mauri,Nunzio Esca, Calogero Lapusata,Franco De Pascale e altri hanno da-to vita al «Centro di Iniziativa comu-nista» del manifesto a Napoli.

Andrea Geremicca: «Nel venten-nio Sessanta-Settanta avviene unatrasformazione della città e dell’inte-ro mezzogiorno. Sono gli anni dellafine del laurismo, i ceti medi entra-no in sofferenza verso il governoclientelare, la classe operaia e i cetipopolari pongono nuove questionial Pci È in questo quadro che si svol-ge la discussione sul manifesto, cheè una pagina alta nel dibattito delpartito e sulle sue prospettive».

Mario Catalano: «Fu una fucinasociale e politica. La mia generazio-ne si era formata nel luglio ‘60 con-tro Tambroni e nella affermazionedi autonomia del movimento opera-io della rivolta ungherese e la rispo-sta dell’Urss. Molti liceali che, comeme, erano vicini a Riccardo Lombar-di, vedono nell’attacco al Pci e al-l’Urss un attacco della borghesia esi orientano verso il Pci. Poco dopole speranze kruscioviane, la nuovafrontiera di Kennedy, papa Giovan-ni e le aperture del Concilio irrom-pono nel dibattito del partito. To-gliatti coglie queste spinte per unlento rinnovamento - ricordo il me-moriale di Yalta, ma prima la posi-zione sul XX congresso del Partitocomunista dell’Urss. I comunisti ita-liani dibattono sul neocapitalismo ela discussione è articolata, non c’èmonolitismo».

Eugenio Donise : «Questa gene-razione aderisce al Pci in modo di-verso da quella della Resistenza. Vientra sotto il cambiamento della so-cietà degli anni Sessanta, non ha ilmito dell’Urss come modello. Il mo-mento più alto si registra nell’inter-vento di Ingrao all’XI congresso. Ri-cordo che quando Ingrao disse: “De-vo essere sincero, la relazione del se-gretario non mi convince…” si levòun applauso lungo e scandito, conla tribuna della presidenza immobi-le. È lì che si videro le tensioni chec’erano nel corpo del partito».

Attilio Wanderlingh: «La que-stione meridionale emergeva comequestione della democrazia italia-na, la lotta contro le gabbie salarialiunificava le masse operaie del pae-se, a Napoli la proiezione socialedella politica del Pci è immediata.Negli anni Settanta si registra il votoreferendario sul divorzio e la con-quista della città con la giunta Va-lenzi. Si apre una prospettiva nuovaper l’intera sinistra. C’ è da rifletteresu come il partito comunista gestì ildissenso non verso un gruppo scis-sionista, ma un insieme di giovaniintellettuali e avanguardie operaieformatesi all’interno e fuori del par-tito; penso alle riviste, da Rinascitaa Quaderni piacentini, ma anche alruolo degli Editori Riuniti che ripro-ponevano testi classici e nuove ten-denze. Questo insieme viveva il par-tito come società unitaria di svilup-po culturale e innovazione sociale.Siamo tra l’XI e il XII congresso, incui si registrò la punta più alta di dis-senso da sinistra, sulla scia di In-grao. E’ un’area di riflessione di unpartito che vive nell’occidente, guar-da con altri occhi al campo sovieti-co, cerca una strategia in cui demo-crazia e socialismo diventino para-metri costanti. L’arresto messo dal-l’XI congresso alle ipotesi ingraianee la normalizzazione che ne seguì,non impedi la riproposizione di undibattito che porterà nel XII con-gresso alla contestazione delle tesiufficiali. A Napoli esse furono conte-state largamente, non solo nelle se-zioni ma nelle stesse assisi provin-ciali. E dopo il XII congresso si aprela questione manifesto.

Andrea Geremicca: «Certo è unpunto di svolta: nella commissionepolitica io, Pietro Valenza, De Cesa-re e Vignola presentammo una mo-zione di sostegno alle tesi ufficiaiche fu respinta dalla maggioranzadei compagni. Valutando le coseper quel che sono state e non congli occhi di oggi, il dibattito era fortee su valori in cui ci legittimavamo avicenda. D’altronde nel Pci c’eranostate sempre differenze, non solonel XII congresso ma, negli anni Cin-quanta, nel confronto tra radicali-smo e governo delle trasformazioni,nel dibattito sulle lotte contadine e,

negli anni Sessanta, nelle trasforma-zioni del capitalismo. In quel perio-do si delineava anche una trasfor-mazione del ruolo di Napoli e delMezzogiorno. II gruppo dirigentenapoletano, di formazione liberal-socialista - ricordo Amendola, Na-politano, Chiaromonte - non ha sa-puto cogliere gli elementi di novitàpreferendo assumere un atteggia-mento di difesa».

Mario Catalano: «È vero, il con-fronto, e non solo a Napoli, è instretto rapporto con le trasformazio-ni sociali, pensiamo solo alle lottestudentesche e alla contestazionedel sapere. È stato un dibattito perla formazione di una politica, con-trario a spinte correntizie. È qui sidelinea il suo limite: la delusionedel quadro internazionale, la tiepi-da destalinizzazione, l’involuzionekennediana dalla Baia dei Porci al-l’avvio della guerra in Vietnam, il fal-limento del centrosinistra e la con-seguente stagnazione del paese. C’èun momento di caduta, la vicendadrammatica di Praga: il Pci perdel’occasione di mettere a frutto la le-zione togliattiana sulla democraziaprogressiva e la ricerca di autono-me strade di socialismo. Ma registracontinui successi elettorali che pon-

gono la questione dello sbocco poli-tico, sul quale le differenze eranochiare. La gestione d’autorità delladirezione ne fu il limite. Il “centrali-smo democratico” fece da argine al-le posizioni di Amendola e di In-grao, e, limitando le spinte al rinno-vamento, è alla base della radiazio-ne del gruppo del manifesto. Ci fuperò anche il limite della sinistra “in-graiana”: l’adesione alle misure di-sciplinari contro il gruppo, l’isola-mento della sinistra interna e dellostesso Ingrao, comportano un inde-bolimento del dibattito degli anniSettanta, con riflessi sulla stessa te-nuta berligueriana nella crisi deglianni Ottanta. E cosi sarà fino alloscioglimento dopo la Bolognina».

Eugenio Donise: «La gestionedella questione manifesto è stata di-rimente anche per il futuro. Ricordocome mi stupì al XII Congresso la re-azione alle tesi della sinistra. La fe-derazione di Napoli era diretta daNapolitano con grande attenzioneal confronto e allo stimolo, versonoi giovani, verso la ricerca, sia pu-re con la severità che lo contraddi-stingueva. C’era un clima di tensio-ne interessante e mai faziosa».

Andrea Geremicca: «Condivido,e voglio ricordare un episodio:quando la federazione si trasferì avia dei Fiorentini, il gruppo dirigen-te mi chiese di trasferirvi anche la re-dazione dell’Unità. Io resistevo innome dell’autonomia del giornale,telefonai a Pintor e convincemmo icompagni a tenere le sedi distinte.Questo per ricordare il clima unita-rio del momento».

Eugenio Donise: «È in quel cli-ma che si è sviluppato il rapportotra la nuova leva di comunisti e l’in-sieme del partito - le suggestionikennediane, il dibattito sul centrosi-

nistra aperto da Amendola e appro-fondito nel convegno dell’IstitutoGramsci. Nel 1963 il successo eletto-rale portò Togliatti a dire che il Pciera l’attore fondamentale dello svi-luppo del paese e a porre la questio-ne del governo. Al centro c’eral’idea di una rivoluzione come pro-cesso democratico basato sulle rifor-me di struttura, e fondamentalel’apertura al mondo cattolico. Si èformato così a Napoli un fronte dicattolici, di giovani comunisti , di lai-ci e di avanguardie «rivoluzionarie»per il cambiamento della società. IlXII congresso si svolge in questo sce-nario, in cui le posizioni della sini-stra interna, di Rossanda, di Pintor,di Magri sono un riferimento permolti. Lo scontro certo fu duro: alleaperture si succedevano le chiusuree le campagne contro i pericoli dideriva massimalista. Nonostantetutto, queste istanze vinsero la bat-taglia congressuale. Dopo poco tem-po si aprì la normalizzazione, conti-nuammo assieme a tanti compagni- D’Alò e Guarino tra i tanti - a dif-fondere la rivista, votammo controle misure disciplinari e restammo lì.Insomma una scissione non fu orga-nizzata: in molti eravamo tentati,ma l’incertezza e le pressioni inter-ne ebbero la meglio».

Attilio Wanderlingh: «Quale ruo-lo invece ebbe chi consumò lo strap-po? Pur essendo più o meno il 40per cento del partito non riuscim-mo a trascinare che pochi quadri elimitate realtà sociali. Nella segrete-ria della Fgci nel ‘69 eravamo, oltreme, Eduardo Guarino, GeppinoD’Alò, Umberto Ranieri e Nino Pin-to, tutti diffusori della rivista. Il di-lemma sul che fare dopo le radiazio-ni fu drammatico: il partito era un si-stema, un complesso sociale cui sianoi giovani sia le altre generazionisi sentivano organici. L’indecisionefu decisiva nel frenarci. Insomma ilmanifesto nel costituirsi come movi-mento politico, non ha quadri pro-venienti dalla Fgci o dal partito. Ilgrosso della leva si è fatto tra i movi-menti. Ma, e secondo me è straordi-nario, forte è stata la sua influenzanonostante l’esiguità del gruppo.Tra il 1968 e i primi anni Settanta lasituazione sociale napoletana eraframmentata e tesa: erano gli annidelle rivolte popolari spontanee,espressioni di disagio che andava-no dalle giornate di Battipaglia alleincursioni di Agostino o’pazzo traali di folla plaudente nel centro del-la città. Il Pci non riesce a incrociarequeste tensioni. Quando il movi-

mento dei disoccupati organizzaticon l’impegno della sinistra extra-parlamentare trasforma la lotta diprotesta in lotta propositiva, si evi-denzia il ruolo del manifesto. Alledomande di rinnovamento degli as-setti politici della città il Pci ha potu-to rispondere anche grazie alla bat-taglia della sinistra interna prima, epoi al contributo dei militanti delmanifesto. Penso che sia stato possi-bile volge a sinistra il tema di fondodegli anni Settanta, l’unificazionesociale tra Nord e Sud, grazie allacomplessità del dibattito del Pci,ma anche al contributo del manife-sto che raccorda varie culture politi-che e contrasta derive estremiste,tracciando un orizzonte irriverentema non antagonista con la cauteladel gruppo dirigente del Pci».

Andrea Geremicca: «Wanderlin-gh ha ragione, ma sottolineo unpunto: la separazione dal manifestoè stata sofferta da tutti noi ma, riba-disco, di alto profilo. La limitata for-za organizzativa del manifesto deri-va anche dal suo radicamento pro-fondo nel Pci napoletano. Molticompagni dopo la radiazione resta-no dentro e diventano importantidirigenti locali e nazionali del parti-to e del sindacato, senza rinunciarea una peculiarità culturale e politi-ca. Credo che ciò si debba alla parti-colare composizione del partito aNapoli : una base radicale e un grup-po dirigente riformista e liberal-de-mocratico. La reciproca permeabili-tà ha prodotto i risultati straordina-ri degli anni Settanta e Ottanta. Que-sta dialettica è andata avanti finoagli anni Novanta».

Mario Catalano: «Certo oggi ap-paiano lontane le tensioni di cui si èdetto. La svolta della Bolognina cer-tifica la sconfitta della sinistra in Ita-lia, non si è trovata una risposta al-l’iniziativa capitalistica, la persona-lizzazione della politica ha invaso ilcampo. È un giudizio pessimistama quel che è successo lascia un se-gno. È il rigore della ricerca di quel-la sinistra comunista che oggi regi-stra un arresto».

Eugenio Donise: «Il coraggio diriprendere il ragionamento a parti-re dalla spinta all’innovazione, cheè stata la cifra del manifesto, può es-sere la base per reagire alla sconfit-ta. Il passato può essere il nostro na-stro di partenza».

Andrea Geremicca: «Io c’ero enon dormivo, rivendico tutto, maconcordo con Catalano e Donise: èdal livello della questione manifestoche dobbiamo ripartire».

Attilio Wanderlingh: «La sini-stra non si è tutta arresa, non si è tut-ta dispersa, si è ancorata in miriadidi iniziative come la Fondazione di-retta da Geremicca, la mia casa edi-trice, decine di iniziative simili. Il lo-ro coagulo può essere l’inizio di unesperienza politica rinnovata».

Questa la sintesi di un dibattitotra quattro prestigiosi dirigenti poli-tici, moderato da un militante che aquell’epoca avviava i primi passi inLotta continua e nelle giornate dellarivolta di Reggio Calabria ha incon-trato le tesi di Valentino Parlato escoperto la militanza come impe-gno ragionato e non solo gridato.

Quel particolare Pcidi Napoli, tra baseradicale e gruppodirigente riformista:le tesi ufficialivennero contestate,ma pochi dirigentise ne staccarono

Dibattito sul«manifesto» traquattro prestigiosidirigenti politici:«Pur essendo il 40per cento del partitonon trascinammoche pochi quadri»

■ Napoli

Lo strappo fu grande,ma i quadri dissero no

I CENTRIDI INIZIATIVACOMUNISTA

Massimo Anselmo

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Un gruppo di giovanie giovanissimi intorno a un co-munista, Mario Mineo, che ave-va lasciato il Pci già nel ’60. Primaun circolo culturale, il Labriola,poi, dopo il ’68 e l’insorgere delmovimento degli studenti, ungruppo di matrice trotzkista, il cir-colo Lenin di Palermo, la Lega de-gli studenti rivoluzionari.

Nella città di Lima e di Cianci-mino. Tanto spudorata da poter-si dire, all’inaugurazione di un an-no giudiziario, che la mafia era or-mai un lontano ricordo. Tantorassegnata da scendere in piazzacon i sindacati per chiedere piùsoldi al sud. Non ignorando chequei soldi sarebbero finiti nelle ta-sche di una borghesia vorace eparassitaria, disposta a lasciaresolo qualche briciola in cambiodi obbedienza clientelare.

Ricordo che discutevamo, inquel tempo, con AvanguardiaOperaia di Milano e Venezia e ilCircolo Karl Marx di Perugia.L’uscita del manifesto e poi, con-seguenza inevitabile, la radiazio-ne di Magri, Natoli, Pintor e Ros-sanda fu per noi fu una ventatad’aria fresca, l’aprirsi di una pos-sibilità. Quel vento di fronda nelpartito storico della classe opera-ia, che traeva forza da un diversogiudizio sulla Primavera di Pragae sulla feroce repressione sovieti-ca, ci convinse che ora si potevafare il salto dalla propaganda po-litico-culturale all’azione politi-ca, che era possibile costruire (ocontribuire a costruire) un nuo-vo soggetto della sinistra rivolu-zionaria.

Era il tempo in cui i «gruppi»,finita l’ondata spontaneista e tira-ta a sé la rete del reclutamento,sentivano il bisogno di alzaresteccati, di definire in termini ide-ologici l’identità della propria dit-ta. Avanguardia Operaia scelse dilavare il suo trotzkismo origina-rio nella rivoluzione culturale ma-oista e con la teoria del capitali-smo di stato (per definire i regimidell’est), noi di confrontarci sen-za rete con il manifesto.

Furono mesi davvero speciali.L’articolo di Pintor sul primo nu-mero della rivista denunciava iltentativo di dialogo con la Demo-crazia cristiana. Ancora con la te-sta nel Pci, secondo qualcuno.No, parla di politica; e non è for-se decisiva, in Sicilia, a Palermo,la questione della Democraziacristiana?

Per noi più giovani la rivista fuuna palestra: anche le tesi che cisembravano più lontane, o addi-rittura sbagliate, erano di tale li-

vello che valeva la pena buttarci-si dentro, anche a costo di farse-ne permeare.

Mineo aveva molta stima peril «gruppo storico», ma ritenevache Pintor e Rossanda, Magri eNatoli avrebbero continuato a di-scutere essenzialmente al loro in-terno. Per lui, per noi, disegnòun modo particolare e specificostare nel manifesto. Calare le “Te-si” (“tesi per il comunismo”, ri-cordiamolo!) nella realtà meridio-nale e in quella siciliana.

Nacque così un documentoprogrammatico del «Centro d’ini-ziativa comunista della Sicilia» incui si proponeva alla sinistra di«rompere qualsiasi tipo di collu-sione con la borghesia meridio-nale», in cui si definiva la mafia«forma specifica, genesi e mododi essere specifico, della borghe-sia siciliana» e si proponeva (almovimento studentesco, perchéaltri soggetti non si vedevano lag-giù in Sicilia) «una prospettiva dilotta generalizzata alla mafia».

Due mondi accanto. La rifles-sione storico-mondiale e l’invitoa «colpire la mafia nel patrimo-nio» (lo scrivemmo in un volanti-no, parecchi anni prima che lalegge La Torre parlasse di espro-pri). Il bisogno di comunismo egli omicidi di mafia, dietro cui in-tuire i nuovi assetti della classedominante

Eravamo non pochi e discreta-mente organizzati. Confluirononel manifesto altri gruppi, in par-te usciti dal Pci, a Raffadali, Calta-girone, nei Nebrodi. E ciò rende-va più singolare questo modo si-ciliano di stare nel manifesto: di-scutevamo con passione di de-mocrazia operaia e consigli difabbrica, e chiedevamo un cen-tro di gravità, un partito, o co-munque qualcosa di solido, capa-ce di portare anche dentro le ele-zioni il rigetto della borghesiamafiosa.

Illusione schizofrenica? Puòdarsi. Chi scrive non riuscirebbea pensare quel tempo senza lapassione per il manifesto e la con-vinzione della centralità della lot-ta alla mafia.

Era fine agosto 1968. Dal-l’inizio dell’anno erano state freneti-che le occupazioni nell’Universitàdi Roma. C’erano ancora collettivial lavoro contro la «scuola di clas-se», a Sociologia si organizzava l’in-tervento nelle baraccopoli. L'annun-cio che il Patto di Varsavia mettevafine al «socialismo dal volto uma-no» di Alexander Dubcek gettò la ba-se del Pci nella disperazione. Era indiscussione un nuovo modo di orga-nizzare il socialismo. L’intervento aPraga, pensavano in tanti, avrebbeindebolito la lotta nel Vietnam. Ilmondo si confermava inesorabil-mente diviso in due blocchi e solola Cina di Mao era un modello alter-nativo sia al capitalismo che al so-cialismo realizzato dell’Urss.

Quando uscì la rivista il manife-sto fu subito voce e specchio diun’area di sinistra che dentro il Pcis’interrogava sulla strategia del Par-tito, riformista e democratica, men-tre nella società un movimento nonpiù solo rivendicativo poneva all’or-dine del giorno contenuti anticapi-talistici, antiautoritari ed egualitari.Il dissenso si era reso evidente conil XII Congresso del Pci del febbraio1969 e gli interventi di Rossana Ros-sanda, Aldo Natoli e Luigi Pintor.

Ci considerammo da subito «delmanifesto» e insieme restavamo mi-litanti del Pci, organizzavamo le do-menica mattina la diffusione del-

l'Unità, le Feste dell’Unità, rinnova-vamo sui cantieri la tessera agli edilidella sezione. Non era doppiezza,era la complessità che ci crescevadentro. Lancinante.

Ai compagni, ai giovani che veni-vano in sezione a fare un corso discuola serale e a tutti quelli che vive-vano la condizione di subalterni rac-contavamo l'ambiguità tutt'altroche comunista dello stalinismo.Con le prime domande di senso diquel frenetico universo di giovanicomunisti. Se il «partito di massa»di Togliatti andava bene, perché ilmovimento degli studenti non eratanto amato dal Partito? Se il Pci erala memoria, perché era così cortada temere i primi consigli dei dele-gati sui posti di lavoro che superava-no le tradizionali commissioni inter-ne e modificavano l’impostazionedel sindacato come cinghia di tra-smissione del partito?

Leggevamo ogni mese il manife-

sto, non in sezione ma in collettividi lettura tra studenti, artigiani ededili. Con un’attenzione al Marx deiGrundrisse, dei quali era uscita unanuova edizione italiana. Quandoleggemmo l'editoriale del settem-bre 1969 «Praga è sola», capimmoche accadeva qualcosa d'inedito:compagni del Comitato centraleprendevano le distanze, ad alta vo-ce, dalla liquidazione della Primave-ra di Praga, per noi importantissi-ma. Alzammo la voce anche noi intutte le sedi del partito. Ma fu subi-to silenzio. In pochi mesi venimmoisolati e «radiati». Avevamo solleva-to una folata di aria fresca ma le por-te e le finestre erano state sbarratecon l’accusa di «frazionismo». Manon eravamo una frazione. Pensava-mo e affermavamo tutto alla lucedel sole. Le critiche alle esponsabili-tà del gruppo dirigente erano politi-che e pubbliche. Questo dava fasti-dio: che praticassimo il dissensocon una rivista autonoma e indipen-dente economicamente, e con la co-stituzione di un collettivo politico eredazionale autonomo, con rappor-ti politici nazionali e internazionali.

La rivista era nata nel giugno del1969 ma già dall’agosto del 1968 di-chiaravamo che non eravamo piùd’accordo sulla linea e sul metodo.Lo riaffermammo al XII Congresso.Noi volevamo una rifondazione -parola poi scritta nelle Tesi per il co-munismo del 1970 - politica, orga-nizzativa democratica del Partito co-munista italiano, e ciò implicavapiena autonomia e libertà di criticanei confronti dell’Unione sovietica.Fu uno scontro politico, ci risponde-vano che il dissenso doveva espri-mersi solo nelle sedi consentite. Di-cemmo di no, e lo praticammo. Sul-la solidarietà militante al Vietnam,sulla riscoperta dei consigli operai,sui nuovi aspetti della crisi del capi-talismo, sulla natura del neocapitali-smo italiano. Eravamo un’altra co-sa. Ma non eravamo fuori.

Partì allora una istruttoria dal Co-mitato centrale che arrivò alle Fede-razioni e fino alle più piccole sezio-ni. Vedemmo strani teatrini: eranolontani da noi i compagni con cui fi-no a poche ore prima avevamo fat-to i blocchi stradali per la scuola inborgata, vicini - mai così fisicamen-te - strani edili che non avevamoquasi mai visto e non rinnovavanola tessera da decenni, e tanti giorna-listi de l’Unità e di Paese sera. Poi,un flash: «Chi è a favore... chi è con-tro...?!». E ci ritrovammo fuori.

Le nostre prime sedi a Roma deri-vavano dalle sezioni comuniste do-ve più eravamo presenti. La primafu a Montesacro, la sezione di Cor-so Sempione che passò al manifestoin maggioranza e funzionò per piùd’un anno come unico fulcro di di-battito politico e di organizzazione:ad animarla, tra i «radiati», MimmoQuaratino, Stefano Prosperi, BrunoMorandi, Massimo Taborri, PaoloMarchione, Francesco Massicci, Pie-ro De Gennaro, Maurizio Galvani,Pino De Stefano, Francesco Miliuc-ci, Sergio Ferranino, Carlo Siliotto,Salvatore Polidori, Francesco Messi-na. A Montesacro facevano riferi-mento un collettivo di ferrovieri, col-lettivi di insegnanti, di tecnici e del-l’Università, del Centro storico e del-la zona-Nord, tra cui GiuseppinaCiuffreda, Ivano Peduzzi, Pio Marco-ni, Marcello Cini, Giorgio Pirandel-lo, Adriana Ferri, Maurizio Marcello-ni, Gianni Mattioli, Giovanni Zarfa-ti, Roberto Tesi, Felice e Liliana Per-santi, Angelo Panunzi, Giulia D’An-gelo; e dal Casilino, Francesco De Vi-to, Fausto e Antonio Viccaro, Rober-ta Brascaglia, Lello De Vita - primodegli arrestati in uno scontro con lapolizia per la scuola della borgata

Torre Maura - e il fratello Bruno, Lo-redana Fraleone e Pietro Golini. Ri-cordo Elisabetta Castellani che spil-lava le Tesi per il comunismo, anco-ra ciclostilate. Arrivarono CarloBracci, Sergio Rovetta e Ritanna Ar-meni che organizzavano iniziativesulla salute operaia nelle fabbrichedella Tiburtina, e poi Rosetta Sole ePiero Caprioli. Molti mesi dopo siaprì a Roma-Nord la sede di Pompo-nazzi, ex deposito del Pci romanoche diventò il punto di riferimentodel movimento degli studenti medi.Lì Valentino Parlato iniziò seminarisull’economia presentando unoche «ne sa più di me ed è giovane»,Roberto Tesi (Galapagos). Una pat-tuglia che con Aldo Natoli e Lucia-na Castellina si considerava erededel lavoro della sinistra comunista aRoma nella storica battaglia «capita-le corrotta nazione infetta (condot-ta in Consiglio comunale proprioda Aldo Natoli), e nella lotta per lacasa tra i baraccati, nelle occupazio-ni delle case, nel Comitato d’agita-zione borgate, nella nuova Cameradel Lavoro protagonista del grandesciopero degli edili del 1964.

La pattuglia dei radiati a Romaera molto radicata. Nel Comitatoagitazione borgate dove erano im-pegnati Beppe Alagia, Luciano Lellie Nicola Lo Cascio, nei centri di ri-cerca, nella pubblica amministrazio-ne e nell’Università, tra le realtà edi-li e operaie, con alcune avanguardiestudentesche. Settori più consisten-ti di studenti sarebbero arrivati piùtardi. I primi contatti furono le «le-zioni» nelle aule di medicina di Ziz-zi Firrao, l’ingegnere del manifestoche denunciava la «job evaluation»,il lavoro manuale ridotto a fram-mento della macchina, semprepronto con un proiettore e soprat-tutto con la sua passione.

E vennero le prime problemati-che. Se Roma era la città del terzia-rio con una classe operaia minorita-ria, come articolare la centralità deicontenuti egualitari e anticapitalistidella quale eravamo convinti? Eppu-re Roma ben rappresentava la real-tà italiana dove la classe operaia eradi fatto minoranza. Perdipiù Romaera il cuore del potere amministrati-vo, di governo e diplomatico. Conuna concentrazione di Centri di ri-cerca, di centri direzionali comel’Eni, di nuove aziende agricole capi-talistiche, di ospedali e facoltà uni-versitarie, di centri di controllo del-la riproduzione sociale come l’Istitu-to superiore di sanità.

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Sul primo numerodella rivista Pintorattaccava chivoleva il dialogocon la Democraziacristiana. E pernoi questa era laquestione decisiva

Leggevamo larivista in collettividi lettura, attential nuovo Marx deiGrundrisse. Tuttocominciò conl’editoriale«Praga è sola»

Avevamo sollevatonel Pci una folatad’aria fresca, mala «casa» era statasbarrata. L’accusaera «frazionismo».Ma non eravamofrazionisti

Tommaso Di Francesco

■ Palermo

Le «tesi» alla sicilianadella mafia borgheseCorradino Mineo

■ Roma

«Chi è a favore, chiè contro». Fuori...

Le radici di un'eresia comunista - 24 Novembre 2009 (11

Page 12: Le radici di un’eresia - ASSOCIAZIONE LAVORATORI ... · nelprecipitare dell’autunno caldo del‘69. ... che con la tesi della ... spostarsi su una fase di lotta più avanzata.

Tornare a 40 anni fa nonè semplice , dare forma razionale,analitica a quel grumo di senti-menti, passioni e ragioni politi-che è un azzardo. Lo ha fatto re-centemente e bene Chiara Ingraonel romanzo «Dita di dama» doveparla di giovani operaie della Vox-son che in quegli anni hanno in-contrato la politica, l’amore, le lot-te studentesche e operaie. È inquello spazio culturale e umanoche una parte di noi, allora stu-denti universitari, molti di medici-na, incontrò e scelse il manifesto.Quella degli studenti universitarie medi del manifesto a Roma fuun’esperienza per molti versi uni-ca. Lo fu per la forza e la consisten-za di un movimento che non a ca-

so fu gran parte del gruppo delmanifesto romano e che rapida-mente sostituì l’originario ceppodel Pci; lo fu per le idee e la prati-ca politica di quei giovani studen-ti movimentisti che, spesso in po-lemica con i gruppi operaisti emarxisti-leninisti, sperimentava-no in proprio, dentro e fuori la Sa-pienza, idee sul sapere e sulla poli-tica che Rossanda, Berlinguer e Ci-ni andavano elaborando, a lorovolta, nelle «Tesi sulla scuola» delfebbraio del 1970 e che Rossandae Magri illustrarono a Roma nelconvegno «Scuola, sviluppo capi-talistico, alternativa operaia e stu-dentesca» nel Maggio del 1970.

Non che fossimo dei santi, era-vamo estremisti e non poco, ep-pure in un momento drammaticodelle vicende del nostro paese, il12 Dicembre del 1972 a Milano,non esitammo a contrastare quel-la violenza di piazza che Potere

operaio voleva e che il Ministerodegli interni auspicava e cheavrebbe potuto aprire pagine in-quietanti per il futuro democrati-co. Eravamo così convinti che, inpochissimi, in quella grigia edrammatica giornata milanese,andammo sotto il palco dal qualecomiziava Pietrostefani per urlarel’avventurismo e l’irresponsabili-tà di Lotta continua .

L’incontro con il gruppo delmanifesto fu un incontro felice,per noi significò dare fondamentateoriche e sostanza politica allenostre esperienze di movimento,senza rinunciare a un proprio gra-do di autonomia e per il manife-sto volle dire un radicamento so-ciale nella scuola insperato, quan-do ormai il territorio nelle univer-sità e nelle scuole medie superioriera quasi tutto occupato dalla po-litica e dalla organizzazione deigruppi (Potere operaio, Lotta con-tinua, gruppi marxisti-leninisti).Eravamo un pezzo di quel ‘68 ro-mano che non aveva accettato latorsione politicista e organizzati-va che portò alla formazione deigruppi e all’abbandono delle Uni-versità. Non eravamo i soli in Ita-lia, c’era il Movimento studente-sco della Statale di Milano e altreesperienze diffuse. Contrastava-mo l’idea che l’Università fossesemplicemente un luogo di reclu-tamento di militanti da portaredavanti alle fabbriche e nei quar-tieri proletari, che gli studenti do-vessero semplicemente negare sestessi.

Era nostra convinzione che lascuola, la cultura, la scienza do-vessero essere smontate, spoglia-te del loro contenuto di classe, ri-convertite agli interessi operai eche gli studenti, ben oltre la loroambiguità sociale, potessero dareun contributo essenziale a questacritica di classe dell’istituzionescuola. Il confronto e lo scontropolitico nelle università era duro -«troppo e troppo poco» - dicevaPotere operaio. Troppo perché lelotte operaie e proletarie esprime-vano un grado di incandescenzache le collocava ormai oltre il si-stema, troppo poco perché la pre-sa del potere chiedeva ben altristrumenti e l’anello mancanteera, appunto, il Partito. Si predica-va una sorta di bolscevizzazionedelle avanguardie operaie e stu-dentesche, una nuova soggettivi-tà da assimilare al Partito rivolu-zionario. Oggi tutto ciò può appa-rire un’insensata fantasticheria, al-lora nel nostro mondo era unasuggestione diffusa, potremmo di-re egemone.

Noi studenti di medicina e il co-ordinamento dei collettivi univer-sitari eravamo un’enclave forte:forte del consenso degli studenti,forte di un vero rapporto con iconsigli di fabbrica e il sindacato,forte di un rapporto non astratto,non genericamente ideologicocon la realtà esterna all’universi-tà. Fu allora che con la Fiom ini-ziammo a sperimentare i primiconsigli di zona sulla salute in fab-brica e la Tiburtina operaia diven-ne un laboratorio permanente nel

quale si parlava di ritmi di lavoro,di sostanze nocive, di questionarisanitari. Operai, studenti, giovanimedici e sindacalisti a discutereinsieme di fabbrica e di scienzamedica. Poi negli ospedali con i la-voratori e i pazienti a denunciarele discriminazioni della strutturasanitaria sino a occupare i repartiprivati e a pagamento del Policli-nico Umberto I; nei quartieri po-polari come San Basilio a coglierela genesi sociale e ambientale del-la malattia; infine nelle facoltà aquestionare con gli studenti e coni professori del ruolo sociale del-l’intellettuale, della neutralità del-la scienza, della selezione di clas-se, dell’auritorismo dei baroni,delle tesi alternative sulla medici-na del professor Maccacaro. Il ma-nifesto fu l’ancora che noi aspetta-vamo, fu la rottura di un isolamen-to politico prima che fisico, fu l’oc-casione di una proiezione nazio-nale delle nostre esperienze, la te-oria che incontrava le nostre intui-zioni, la possibilità di dare un im-pianto teorico generale alla no-stra attività di movimento. La lot-ta contro la separatezza dellascuola fu il nostro manifesto, lalente attraverso la quale rileggem-mo l’università e l’intera istituzio-ne scolastica, la chiave per esten-dere l’esperienza del collettivo dimedicina al resto delle facoltà uni-versitarie e per tenere insieme inun solo progetto critico l’intero si-stema formativo, la teoria con cuimeglio contrastare l’economici-smo degli operaisti e lo studenti-smo dei gruppi marxisti - lenini-sti. Il ragionamento delle Tesi sul-la scuola, che pure era comples-so, trovò un terreno già arato eprodusse «teoria e movimento»sia fra gli studenti sia nel rapportofra studenti e classe operaia. Leoggi dimenticate «150 ore», unadelle conquiste più significativedi quegli anni operai, furono pernoi una straordinaria opportunitàdi cultura, di critica creativa delladivisione sociale del lavoro e del-l’organizzazione del lavoro neiluoghi di produzione. Il manifestodiventò la forza più significativanel movimento studentesco roma-no, forte all’università, con una re-te straordinaria di collettivi nellescuole medie superiori e con unospeciale rapporto con il sindacatodei metalmeccanici. Roma eral’esperienza più significativa, maintorno al manifesto si costruì unmosaico di esperienze fra gli stu-denti e gli insegnanti, fra il mon-

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Roma inoltre era già cuore esnodo del sistema dell’informazio-ne, della comunicazione e dei tra-sporti: una specie di fabbrica delsapere finalizzato alla divisione so-ciale del lavoro, utilizzato dal siste-ma produttivo privato e pubblico.Dunque con un forte peso del lavo-ro burocratico, amministrativo,una larghissima presenza del pub-blico impiego.

E tuttavia aveva anche caratteri-stiche operaie per l’alto valore spe-culativo delle aree edificabili, eragovernata da una sorta di «bloccoedilizio», a braccetto della renditaspeculativa e dei grandi palazzina-ri. Il lavoro degli edili, supersfrutta-to e faticoso, caratterizzato già da-gli omicidi bianchi, era precarioperché legato alla organizzazionedei cantieri, al caporalato, al cotti-mismo e al subappalto. Con unaiperframmentazione della coscien-za operaia, anche perché gli edilierano manodopera a basso costo,dato l’immenso bacino dell’immi-grazione interna dal Lazio, dal sude dalle regioni vicine che costitui-va la popolazione dei senza casa.

Costruivano le case agli altri,che magari rimanevano vuote, manon ne avevano una loro. Soprav-vivevano nelle baraccopoli immen-se, nei borghetti marginali della pe-riferia oppure nelle borgate che na-scevano a decine ogni anno. A finedel 1968 la rivista di Sociologia diFranco Ferrarotti paragonava Ro-ma a una città del Terzo Mondo.

Il nostro lavoro era rivolto sia aimilitanti del Pci che ai nuovi movi-menti, quello studentesco e quellooperaio che nel 1969 acquisteràuna fisionomia non più solo sinda-cale ma di contrattazione del’inte-ra condizione operaia, quindi conobiettivi di potere. Ci richiamava-mo al Gramsci dei consigli operai.Parlavamo di via consiliare peruna trasformazione comunista, diun potere alternativo allo Stato.«Adesso che succede, rientrere-te?», ci chiedevano i compagni. Lanostra pattuglia alla Camera - alcu-ni dei radiati erano ancora deputa-ti - si mosse come gruppo parla-mentare del manifesto in occasio-ne del «decretone» antipopolaredell’allora governo Rumor. LuigiPintor fece ostruzionismo in aula,noi organizzavamo blocchi strada-li in città e lui parlò per giorni di fi-la di musica, raccontando perfinole origini religiose e popolari diAvanti popolo.

La rottura non fu soltanto per lasolitudine di Praga, avevamo unpunto di vista alternativo sul movi-mento degli studenti, sul maggiofrancese e sui processi rivoluziona-ri internazionali che leggevamo co-me alternativi al modello di Mo-sca. In Vietnam, nella Cina di Maoda poco attraversata dalla Rivolu-zione culturale, si tentava una tran-sizione al socialismo su basi radi-calmente diverse, con il protagoni-smo delle masse e un ruolo diver-so dei contadini e delle campagne.La classe contadina non venivaconsiderata solo per estorcere va-

lore da immettere nell’ industriapesante come aveva fatto Stalin, cispiegava Aldo Natoli. Si trattava dirimettere in discussione la divisio-ne tra città e campagna, di immet-tere nelle mani di milioni di donnee uomini i temi dello sviluppo edell’arretratezza. L’appoggio alVietnam era per noi il sostegno al-la rivoluzione di popolo guidatadai vietkong. Eravamo impegnatinella pace, ce lo chiedevano loro:se la guerra di aggressione fossecontinuata (durava da decenni) lariunificazione del paese e la rivolu-zione popolare e socialista sareb-bero falliti per il peso delle distru-zioni. Il Vietnam era stato un no-stro impegno anche dentro il Pci.Ora volevamo consolidarlo con ilsostegno di una protesta visibile,come facemmo anche per la Pale-stina dopo i primi incontri con Wa-el Zwaiter. I rapporti con la delega-zione vietnamita impegnata a Pari-gi nelle trattative di pace venneromantenuti da Aldo Natoli che erastato più volte nel Vietnam delNord. I vietnamiti sembravano unpo’ riluttanti ad avere rapporti di-retti con il manifesto per la cui ra-diazione aveva insistito lo stessoBreznev. E si può capire. Ma nonrifiutavano iniziative di mobilita-zione contro la guerra. Ne mettem-mo in campo una enorme controla visita di Richard Nixon a Romanel settembre 1970, sfilammo an-che davanti alla Federazione co-munista romana.

Emersero anche elementi di di-visione. Volevamo una ricerca suitempi lunghi, dicevamo sulle Tesiper il comunismo. Volevamo deicentri d’iniziativa comunista. Par-lavamo di rivoluzione attraverso la«via consiliare». Avevamo un rap-porto straordinario sia con laFiom che con la Fim nella realtàoperaia della Tiburtina. Al centrodell’organizzazione di fabbricac’era la figura del delegato revoca-bile e a tempo, e dopo i consigli difabbrica vennero i consigli di zo-na. E però, pressati da appunta-menti non nostri, né del movimen-to, cominciavamo a parlare oltreai nostri collettivi di lavoro nei qua-li eravamo organizzati, dei «comi-tati politici» dentro i consigli, unaforma che anticipava un «partito».Ma non eravamo usciti dal Pci perfare un altro partito. Il tentativo diaggregazione con Potere operaiofallì proprio perché si rese eviden-te l’uso strumentale, «insurrezio-nale», che loro facevano dei «consi-gli». Siamo purtroppo arrivati an-che a partecipare alle elezioni del1972, con divisioni e successivasconfitta. «Noi non eravamo uscitidal Pci - ci ha dichiarato Aldo Nato-li in occasione dei suoi novanta an-ni - per fare un altro partito e tanto-meno per essere alternativi al Pcielettoralmente. Dovevamo averealtre forme organizzative, nostre eper la società. E invece...Il giornaleperò è stata una scelta giusta. Manoi non eravamo nati per fare soloun giornale».

Parlavamo di «viaconsiliare», mapresto si parlò di«comitati politici»dentro i consigli,una forma cheprefiguravaun «partito»

C’erano Medicinademocratica,le 150 ore, storieoperaie comeCastellanza. ConFiom e Fim partìil consiglio di zonadella Tiburtina

■ Roma

Un’enclave «operaia»la Facoltà di medicinaFamiano Crucianelli

I CENTRIDI INIZIATIVACOMUNISTA

12) Le radici di un'eresia comunista - 24 Novembre 2009

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Alla fine del '64, dopoun soggiorno di un paio di mesi ne-gli Stati Uniti che rafforzò la mia in-cipiente convinzione dell’esisten-za di un rapporto organico fra ilprocesso di crescita della cono-scenza scientifica che si svolge og-gi nei paesi industriali avanzati e ilcapitalismo come sistema socio-economico, scrissi, sulla rivista Lacittà futura dei giovani comunisti,il mio primo articolo non «ortodos-so» su questo tema.

Dopo aver ricordato che «l'in-venzione di sempre nuovi beni diconsumo durevoli e la loro rapidaobsolescenza, artificiosamenteprovocata, sono uno dei meccani-smi fondamentali dell'espansionee della stabilità del sistema capitali-stico», proseguivo dicendo che «losviluppo della ricerca, che tende...a localizzarsi essenzialmente negliStati Uniti, sembra essere determi-nato assai più dalle esigenze strut-turali della società capitalisticache dalla spinta al soddisfacimen-to delle aspirazioni umane al be-nessere, all'uguaglianza, alla liber-tà».

Successivamente, nel '65 e nel'66, scrissi altri due articoli sul Con-temporaneo, la rivista culturaledel Pci, per approfondire e argo-mentare meglio il mio punto di vi-sta. Nel dicembre del '68 mi venneaffidato l'incarico di stendere la

parte generale della relazione in-troduttiva per un convegno sulla ri-cerca scientifica che si sarebbe do-vuto tenere all’Istituto Gramsci.

«Entra in crisi - scrivevo - la con-cezione che considera la scienza ela tecnica strumenti neutrali diprogresso della società, indipen-dentemente dai rapporti sociali, eche postula un processo di svilup-po scientifico che segue una pro-pria dinamica interna. Si tratta in-vece di riconoscere che la scienzanon è soltanto un processo di solu-zione di problemi già dati dalla re-altà esterna all’uomo e alla socie-tà, ma soprattutto una continuaformulazione e proposizione diproblemi da risolvere, e che per-tanto in questa fase essenziale del-lo sviluppo scientifico entranonon soltanto fattori intrinseci, maanche fattori esterni alla scienzastessa».

Questo tipo di analisi mi permi-

se allora di cogliere non solo l'esi-stenza di una stretta connessionetra la nascente scienza dei calcola-tori e la futura industria che neavrebbe assicurato una diffusionedi massa, ma anche il ruolo deter-minante che quest'ultima avrebbesvolto nello sviluppo del capitali-smo come sistema mondiale.

«Io sono abbastanza convinto -dicevo - che nei prossimi venti otrenta anni avremo uno sviluppodell'industria dei calcolatori deri-vante dall'aumento del consumoprivato del calcolatore, esattamen-te analogo a quello che è stato ilconsumo privato dell'automobi-le».

Se si pensa che quarant'anni faBill Gates aveva i calzoni corti, e icalcolatori erano costosissimemacchine giganti (mainframes)che soltanto poche istituzioni co-me il Pentagono o la Commissio-ne per l'Energia Atomica poteva-no permettersi, il mio pronosticoper il futuro era abbastanza lungi-mirante. A prescindere dalla valu-tazione di questo fenomeno, nes-suno può oggi negare che senza larete dei computers personali nonci sarebbe la globalizzazione deimercati e della produzione di que-sti ultimi anni e che senza questofenomeno di mondializzazione ilcapitalismo contemporaneo sareb-be molto diverso.

Un episodio clamoroso illustrabene come la pensavo allora sulrapporto fra scienza e capitalismo.Il 21 luglio 1969 la navetta spazialeApollo 11 si posava dolcementesulla superficie lunare e l'astronau-ta americano Neil Armstrong la-sciava la prima impronta di un pie-de umano sul suolo del nostro sa-tellite. Di fronte al coro di retoricoentusiasmo che assordò tutti gliabitanti del pianeta fin nelle suelande più sperdute, ebbi una rea-zione, forse un pò isterica e provo-catoria, ma sostanzialmente, cre-do, lucida.

Scrissi una lettera al direttoredell'Unità, pubblicata con il titoloredazionale Siamo caduti nellatrappola?, nella quale esprimevotutta la mia indignazione di frontea quella che ritenevo «la più perfet-ta speculazione che la società capi-talistica, rappresentata dalla suapunta più avanzata e aggressiva,sia riuscita a organizzare ai dannidegli oppressi e degli sfruttati».

A sostenere questa mia tesiavanzavo tre argomentazioni. Laprima era legata alla guerra nelVietnam che allora entrava nellasua fase più distruttiva.

«Perché non dire - scrivevo -che è un puro caso se, invece distare sulla Luna (i tra astronauti)non sono in Vietnam a cospargeredi napalm uomini, donne e bambi-ni?». La seconda metteva in luce ilcarattere propagandistico dell'im-presa che definivo «il più fantasti-co spettacolo di circenses che siamai stato regalato alla plebe daitempi di Nerone» attuato «col pre-ciso scopo di intimorire gli avversa-ri, conquistare gli incerti, e cemen-tare in un fanatico blocco gli ame-ricani». La terza infine era una criti-

ca aspra all'Unità e al partito, cheavevano, secondo me, la corre-sponsabilità di «questo ignobile in-ganno» per aver acriticamenteesaltato - nell’articolo di fondo diEmilio Sereni dedicato all’evento -le imprese spaziali in quanto «par-te integrante e uno degli aspettipiù caratteristici» della «rivoluzio-ne scientifico-tecnologica in atto».vista come strumento per «supera-re con la massima celerità l'arretra-tezza e la miseria di interi conti-nenti e di tanta parte di quelle deiPaesi più avanzati stessi».

L'imbroglio, secondo me, stavanel far credere che l'esser riusciti amandare due uomini sulla Lunaavrebbe fatto vivere meglio gli uo-mini e le donne della Terra. Si aprìun dibattito che durò più d'un me-se, nel quale intervennero politici,giornalisti, intellettuali, la maggiorparte dei quali espresse critichepiù o meno aspre alle mie tesi, di-fendendo la correttezza della lineadel partito.

La mia eresia non si limitava al-le questioni della scienza. Attraver-so l’amicizia familiare con LuigiPintor e Luca Trevisani nata findal mio arrivo a Roma nel ’57, con-dividevo le critiche nei confrontidelle posizioni del partito che icompagni della «fazione» ingraia-na del Pci, sconfitti all’undicesimocongresso, avevano continuato asostenere a titolo individuale.Quando decisero di esprimerlepubblicamente dando vita a una ri-vista fui invitato a partecipare allariunione fondativa de il manifesto.

L’operazione di isolamento neimiei confronti nel dibattito sullaLuna faceva dunque parte dellacontroffensiva del vertice del parti-to contro gli eretici che avevanoappena pubblicato il primo nume-ro della rivista. Una controffensivaculminata nell'autunno con la ra-diazione di tutti gli appartenenti algruppo.

Con l’uscita del quotidiano lamia partecipazione all’impresa siintensificò, Per molti anni, insie-me a Danielle Mazzonis, abbiamopubblicato sul giornale, in strettis-sima collaborazione, molti artico-li, sui temi più scottanti in materiadi sviluppo scientifico e tecnologi-co, che ancora oggi potrebbero es-sere di attualità. I più significativisono stati riportati in appendice alnostro libro Il gioco delle regole,pubblicato nel '81.

Non credo di esagerare dicendoche il manifesto è stato, negli anniSettanta, l'unico giornale a parlareseriamente del ruolo sociale dellascienza. In particolare Danielle edio, avendo cominciato a parlaredell'impatto dello sviluppo dellascienza e della tecnologia sull'am-biente fin dai primi anni Settanta,possiamo rivendicare una partenon irrilevante nella nascita diuna cultura ecologista nel nostropaese.

Può sembrare strano oggi, matrent'anni fa nessuno parlava dellaqualità dell'ambiente come di unproblema, e la parola ecologia si ri-feriva a una disciplina scientificadal significato oscuro.

do della formazione e gli operai,gruppi e collettivi si formarono sututto il territorio nazionale da Bo-logna a Venezia, da Firenze a Na-poli, da Pisa a Palermo. Nel furoredi quei brevi anni potevano appa-rire esperienze di «nicchia», in re-altà per il ragionamento e la stra-tegia sulla scuola e sulla naturadei movimenti e per i quadri cheselezionarono, quei primi insedia-menti del manifesto furono tutt’al-tro che effimeri. Accadde con ilcontributo ai movimenti di Medi-cina democratica e di Psichiatriademocratica, a iniziative sulle 150ore, più tardi a storie operaie co-me quella di Castellanza, più ingenerale si formarono allora col-lettivi nelle università e nelle scuo-le che aprirono un discorso nuo-vo sulla formazione, sul ruolo so-ciale dell’ intellettuale – massa esulla scienza. Queste prime espe-rienze consolidarono un patrimo-nio politico, una massa critica,che molto significò nel Manifesto,nel Pdup e poi nei movimenti cheseguirono.

Non è un caso che ancora nel1977, quando la violenza non soloideologica spazzava l’università ele scuole romane, alla Sapienza ilcollettivo di medicina nelle assem-blee studentesche conservava lasua autorevolezza. Né è un casoche nella fase di grande difficoltàche seguì il ‘77 e gli anni del terro-rismo, il filo di quelle esperienzedi movimento nella scuola e fuoridella scuola mostrò saldezza e fudecisivo per riprendere un’inizia-tiva fra gli studenti, prima con leleghe dei giovani disoccupati epoi con il movimento pacifistacontro i missili destinati alla basemilitare di Comiso.

Furono anni brevi e intensiquelli che impegnarono il manife-sto a darsi una base reale e mili-tante nelle scuole e nelle universi-tà, poi venne la sconfitta elettora-le del ‘72 e iniziò un’altra storia.Quegli anni furono però impor-tanti non solo per il manifesto,che negli studenti e fra i docentitrovò forze militanti e ricchezza diesperienze politiche, ma ancheper tanti di noi che nel manifestotrovammo una seconda universi-tà dove civilizzare il nostro primiti-vismo e schematismo politico, eper tanti altri che allora si forma-rono politicamente e che, ancoraoggi, ritrovo di sinistra e progressi-sti nei luoghi più diversi. Fu unavera semina che andò ben al di làdi quelli che poi restarono in poli-tica, un mondo inesplorato, forseil patrimonio più prezioso di quel-la stagione.

Valentino Parlato che si allonta-na dall’aula d’Igiene dopo la suasettimanale «lezione» in motocon Daniele Pifano è più di unanostalgia, è il ricordo di quella dif-ficile impresa di dare forma, sen-so e strategia a quel magma, aquella generosità e a quell’asprez-za di giovani che noi eravamo.

Molto si è fatto e i risultati trop-po spesso sono misconosciuti,qualcosa d’importante, però, nonè andato nella giusta direzione, eanche su questo varrebbe la penaindagare. Almeno su due questio-ni fondamentali la riflessione an-drebbe approfondita: la stretta«organizzativa» cui allora sembrònecessario piegarsi e il rapportocon il Pci.

Su queste scelte fondamentaliil gruppo del manifesto alla finepoco si discostò dal resto dellanuova sinistra, certo senza la roz-zezza e l’estremismo dei gruppiextraparlamentari, ma nella so-stanza politica - mai nel ragiona-

mento generale - ci si adeguò aquel clima minoritario che domi-nava a sinistra. L’organizzazionee, dunque, la ricostruzione di unpartito rispondeva a problemi rea-li: la grande frammentazione nelcampo della nuova sinistra, il vuo-to politico che il Pci lasciava allasua sinistra e, più ancora, le diffi-coltà del «movimento», balcaniz-zato e senza interlocutori politicie, infine, la crisi economica e so-ciale che reclamava risposte politi-che forti. Da qui l’urgenza e la cor-sa verso il «soggetto politico», maanche l’errore nel rimuovere alcu-ne questioni di fondo, dalle irrudi-cibili e fanatiche lacerazioni fra igruppi exstraparlamentari alla sal-da egemonia che il Pci, al di là delsuo immobilismo, esercitava sul-la quasi totalità del tessuto socialedi sinistra.

Il primato dell’organizzazioneimpose scelte improvvide conl’impossibile tentativo di unifica-zione con Potere operaio celebra-to sotto un tendone di Milano nelfebbraio del 1971, con la svoltasulla tematica dei consigli e la co-struzione dei comitati politici,con la scelta di astenersi nel votodelle regionali del 1971, sino alledisastrose elezioni del 1972, quan-do il manifesto prese un disperan-te 0,66%. Le conseguenze non fu-rono lievi. Il gruppo dirigente delPartito comunista trovò nuovi emotivati argomenti per continua-re una campagna di denigrazionecontro il manifesto e tirare su nuo-vi argini fra ciò che si muoveva asinistra e il popolo comunista. Asua volta lo stesso manifesto, chenel mondo vasto di tanti studentie operai protagonisti di quel bien-nio ‘68/’69 si era presentato e erastato lievito di idee e movimenti,rischiò di perdersi nella ragnateladei gruppi della sinistra estrema.Poi, dopo le elezioni del 1972 ini-ziò una nuova storia che pure an-drebbe raccontata con serietà.

Non è facile, soprattutto in po-che righe, parlare di quei primissi-mi anni ‘70, sono anni complicatie il rischio di mescolare il granocon l’oglio e di ridurre tutto ad ac-qua sporca è alto, furono anni disemina e diversi di quei semi nonvennero bene e si fecero anchedanni seri, però, pensando all’og-gi viene qualche malinconia, e ri-spetto, per quella passione ideale,per quel rigore morale, per quelprimato delle idee che, in questinostri tempi, si è perso negli ango-li più nascosti della politica.

Eravamo convintiche scuola, cultura,e scienza dovesseroessere spogliatedel loro contenutodi classe. E chetoccava proprioagli studenti farlo

Il 21 luglio 1969Apollo 11 si posòsulla Luna.Il Pci applaudì.Scrissi all’Unità:«È propagandacircense controgli oppressi»

■ Roma

La scienza «neutrale»inganno del mercatoMarcello Cini

Le radici di un'eresia comunista - 24 Novembre 2009 (13

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La storia che racconto èuna storia marginale, ma che puòdare un’idea anche delle ripercus-sioni impreviste della proposta ori-ginaria del manifesto in contestimeno conosciuti e raccontati. Inquesto caso, si tratta di una realtàfra le più improbabili: sostanzial-mente un gruppo di impiegati sta-tali che, fra radicalizzazione e am-biguità, mettono in moto un pro-cesso che finisce per coinvolgere ilmondo della ricerca e dare originea una nuova e insolita esperienzasindacale.

Negli anni ’60, io lavoravo alConsiglio Nazionale delle Ricer-che, come impiegato nell’ufficiorelazioni internazionali. La realtàsindacale era tipica del pubblicoimpiego: autonoma, e corporati-va, con un sindacato autonomoper i dipendenti di gruppo A (diret-tivi), uno per il gruppo B (impiega-ti di concetto) e uno per il gruppoC (esecutivi), e uno, sempre auto-nomo, per il personale di ricerca.Era ancora necessario ottenere ilnulla osta Nato per lavorare alle re-lazioni internazionali, cioè pratica-mente un certificato di non-comu-nismo, e infatti di comunisti cono-sciuti ce n’era solo uno in tutto ilpalazzo del Cnr.

D’altra parte, la composizionedei dipendenti amministrativi ve-deva una prevalenza ampia di gio-vani, assunti negli anni ’60, quasitutti diplomati (molti ragionieri).Ci scambiavamo libri e idee, nonsi vedeva «l’Unità» ma facemmoun abbonamento comune all’«Espresso». Aggiungerei che il Cnrsta proprio accanto all’università equalcosa filtrava. E la prima cosache facemmo, appena diventam-mo leader dei rispettivi sindacatidi categoria, fu di fonderli in ununico sindacato degli amministra-tivi (i ricercatori restavano un am-biente separato e meglio retribui-to, con quale praticamente nonc’erano contatti).

Poi arrivò il ’68, con le sue for-me di lotta e i suoi discorsi antiau-toritari ed egualitari. E qui scatta-no la radicalizzazione di alcuni,l’ambiguità corporativa di molti,la fragile e ambigua relazione tra iprimi e i secondi. Il nostro sindaca-to infatti avanzò la rivendicazionedella parità di trattamento fra per-sonale amministrativo e personaledi ricerca, e su questa base si arri-vò nel luglio ’69 a una cosa inaudi-ta: un’occupazione del Cnr durataun mese, una vicenda probabil-mente unica nel mondo dell’im-piego pubblico romano.

Ora, noi eravamo mossi daun’idea di uguaglianza; la maggiorparte dei nostri colleghi aveva so-prattutto in mente un aumento distipendio, come che fosse. Io cre-do che il nostro piccolo gruppo diavanguardia se ne rendesse tacita-mente conto, e che in qualche mo-do si incontrassero due opportuni-smi: da un lato, quello della mag-gioranza che cavalcava il nostro ra-dicalismo (e si compiaceva co-munque del gesto trasgressivo del-l’occupazione: un primo segnaledella contraddizione fra forme dilotta radicali e obiettivi conformi-sti che sarebbe emersa in diversisettori negli anni seguenti); dall’al-tro, quello dell’avanguardia chefingeva di non accorgersene per ti-rarsela comunque dietro – speran-do magari in una crescita di co-scienza nel corso della lotta.

In realtà a crescere fummo so-

prattutto noi (anche se mi ricordoancora con gioia la bellissima e de-finitiva radicalizzazione di un paiodi segretarie). Ci furono due ele-menti che vennero fuori durantel’occupazione.

Il primo fu che parecchi inso-spettabili colleghi si rivelarono es-sere comunisti iscritti al partito,che avevano tenuto le loro idee ela loro appartenenza accuratamen-te nascoste per anni: in questo sen-so, l’occupazione fu per diversepersone una vera e propria libera-zione, una riconquista del dirittodi parola. L’altro fu la rottura dellabarriera coi ricercatori. Loro nonavevano nessuna rivendicazionein ballo nell’occupazione, ma con-dividevano la prospettiva egualita-ria, per cui furono soprattutto ipiù politicizzati a venire e affian-carci: in quel periodo anche ilmondo della ricerca era attraversa-to da pulsioni egualitarie radicali(per esempio: in alcuni laboratorisi rivendicava che gli articoli scien-tifici dovessero essere firmati datutti i partecipanti al progetto,compresi gli addetti al lavaggio del-le vetrerie), e fu da alcuni di loroche una persona ingenua comeme, senza nessun vero retroterrapolitico, cominciò a sentire per laprima volta il linguaggio, la termi-nologia, l’analisi marxista, a trova-re le parole per spiegare quelloche sentivo e che facevo.

L’occupazione si concluse infi-ne con un nulla di fatto, ma il no-stro gruppo di giovani attivisti ave-va cominciato a prendere consape-volezza di sé e a cercare riferimen-ti. Io avevo appena letto le tesi delmanifesto, ed ero andato tutto so-lo a prendere contatto alla salitadel Grillo, dove ebbi la fortuna diparlare con Bruno («Dado») Mo-randi. Ne parlai con gli altri – ricor-do alcuni nomi, di compagni per iquali il nostro ’69 non è stato soloun momento passeggero e moda-iolo: Sandra Bailetti, Luciano Stel-la, Franco Lattanzi, Piero Albini, edecidemmo di riunirci a leggere in-sieme le tesi. «Se mi convinconosolo per metà», mi disse Albini,«aderisco anch’io». Ci convinseroper più di metà. Credo che l’aspet-

to che ci convinceva di più eral’idea della rivoluzione come pro-cesso sociale, non rovesciamentosubitaneo opera di avanguardiema una vicenda lunga e comples-sa con al centro la classe. A me, eforse anche agli altri, questa visio-ne della rivoluzione piaceva siaperché la trovavamo più realistica,meno romantica; sia perché sem-brava de-enfatizzare il mito mon-tante delle avanguardie e quelloancora più problematico della vio-lenza. Nessuno di noi veniva dalPci, anche se alcuni avevano fami-glie di sinistra, e credo (per me, so-no sicuro) che il manifesto ci attra-esse anche perché per noi non erauna rottura con la storia del movi-mento operaio e della sinistra inItalia, ma anzi un modo per entra-re a farne parte. Come forse anchealtri allora, non stavamo uscendodal Pci, ma entrando in un movi-mento «per il comunismo».

E infatti successero un paio dicose divertenti. La prima fu che,senza starci tanto a pensare sopra,decidemmo che il nostro sindaca-to avrebbe aderito alla Cgil, e sul-l’onda ancora viva dell’occupazio-ne riuscimmo persino a far passa-re la proposta in assemblea. Cosìun bel giorno Piero Albini e io cipresentiamo in corso d’Italia e (al-tro colpo di fortuna) veniamo rice-vuti da Vittorio Foa. Di quell’incon-tro ricordo due cose. La prima fuche quando Foa sentì che erava-mo del manifesto chiamò nellastanza tutti i suoi collaboratori egli disse: «Vedete? Questi sono delmanifesto, ma non sono diavoli, enon ci vedono come nemici». Cheè anche un segno di come vedevail Manifesto lui, e come voleva chelo vedesse il sindacato. La secondacosa fu che Foa ci disse: guardate,fino adesso la Cgil è rimasta fuoridal settore del pubblico impiego,ma stiamo ripensando questa scel-ta, quindi siete i benvenuti. Così,uscimmo da quell’incontro conl’orgoglio di sentirci dei battistra-da, il primo (o almeno uno dei pri-mi) sindacato Cgil del pubblico im-piego (cosa che la nostra base im-piegatizia visse con dubbi e col bri-vido della trasgressione: ricordouna collega che riconsegnò la tes-sera il giorno dopo la morte del-l’agente Annarumma a Milano, co-me se la Cgil ci entrasse qualchecosa).

La seconda cosa fu decisamen-te paradossale. Come ho detto,avevamo scoperto che nei nostriuffici si annidavano almeno unadecina di iscritti al Pci fino alloraclandestini. Così, un altro bel gior-no Piero Albini e io facemmo duepassi fino alla federazione di via

dei Frentani, non mi ricordo conchi parlammo ma comunque glidicemmo: guarda, c’è un nucleodi compagni proprio qui vicino, alCnr, si potrebbe formare una cellu-la. Il compagno della federazionefu molto contento e fece due pro-poste: che si chiamasse cellula HoChi Minh (prontamente accolta),e che il segretario e vicesegretariofossimo Albini e io – e non dimenti-cherò mai il suo disorientamentoquando gli dicemmo guarda, noisiamo venuti a portarvi i vostriiscritti ma noi non ci iscriviamoperché siamo del manifesto (la cel-lula poi formalmente si fece, manon mi pare che abbia avuto vitaattiva ricordabile).

Non sono solo aneddoti para-dossali: sono segni di una tensio-ne allora molto forte, e destinata aprodurre anche rotture, sulla natu-ra stessa del manifesto come grup-po politico, delle sue relazioni coni movimenti e col Pci. Una delleproposte organizzative in piediera allora quella dei collettivi aper-ti (che a me arrivava anche dal Col-lettivo Edili Montesacro, dove co-minciavo a militare e a frequenta-re, altro privilegio, Aldo Natoli):cioè di collettivi a cui partecipasse-ro anche compagni non aderential manifesto – cani sciolti o gentedi altri gruppi o partiti - ma dispo-sti a lavorare insieme sul terrenodi cui questi collettivi si occupava-no e a crescere e cambiare insie-me con noi. In un certo senso, il di-rettivo del Sindacato Ricerca Cgil –a cui nel frattempo avevano aderi-to anche i ricercatori - era un col-lettivo del genere, composto di 11persone di cui due del Pci (tra cui,per opportunità, il segretario), unodi Potere Operaio, e otto più o me-no di area manifesto. E devo direche (salvo una volta in cui uno deidue Pci mi chiamò fascista perchécriticavo l’Unione Sovietica) ci mi-suravamo sulle cose concrete efunzionavamo relativamente be-ne, comunque in buoni rapporti.Ma la proposta dei collettivi apertinon era destinata a prevalere nelfuturo del manifesto.

Nel frattempo, si era venuto for-mando anche il Collettivo Tecnicidel manifesto, soprattutto per l’im-pulso di Dado Morandi. Alcuni dinoi naturalmente parteciparono,ma non ho ricordi di grandi elabo-razioni e proposte conclusive suitemi di cui discutevamo. Discute-vamo di neutralità della scienza,cercando di sottrarci alla tenagliada una parte del fondamentali-smo per cui «nel socialismo duepiù due farà cinque» e dall’altradel fondamentalismo per cui lascienza è sempre la stessa e cam-bia solo l’uso che se ne fa. Cercava-mo di ragionare sul ruolo dei massmedia, rifiutando le posizioni apo-calittiche anti-TV, ma anche – colsenno di poi – un po’ di eccessivoottimismo sul futuro del sistemadei media in Italia. Piuttosto,l’esperienza del collettivo del Cnrmi sembrava interessante perché– che ne sapessi io – era l’unico col-lettivo del Manifesto composto al-lora interamente da gente che lavo-

rava (e che per quanto giovaneaveva qualche anno in più), e quin-di aveva tempi di lavoro e di vitaquotidiana che difficilmente si ar-monizzavano con quelli della com-ponente studentesca e dei politicia tempo pieno, che dettava i ritmidel lavoro politico.

Poi le cose andarono in pezzi.Alla fine del ’71, come Cgil Ricercarilanciammo la lotta egualitaria:una richiesta di aumenti di stipen-dio inversamente proporzionali,contra la pratica abituale degli au-menti in percentuale che davanosempre più soldi a chi guadagnavadi più. L’amministrazione colse ilpunto di principio, se ne allarmò,e rispose con una controfferta checi parve profondamente umilian-te: una tantum chiamata «befano-ne», ovviamente proporzionale.Sostanzialmente, fummo travolti:impermeabili all’infantilizzazioneimplicita nel «befanone», i nostricolleghi scelsero i pochi, maledet-ti, disuguali e subito rispetto alprincipio di uguaglianza che peral-tro convinceva tanti di loro soloquando gli faceva comodo. Il no-stro gruppo dirigente sindacale sidisperse: dopo la proposta delcompromesso storico, parecchiscelsero di entrare al Pci, e solo al-cuni continuarono comunquel’impegno sindacale negli spaziche riuscirono a trovare (Piero Al-bini sarebbe diventato poi segreta-rio della Camera del Lavoro di Ro-ma); il mio Collettivo Edili finì pertrovarsi fuori dal manifesto, io col-si al volo la proposta di andare a la-vorare all’università.

Non so che cosa resta di questastoria. Sicuramente, la crescita dialcune persone. Forse, se la analiz-zassimo, gli strumenti per un lavo-ro sindacale meno ingenuo e conmeno rischi corporativi nel pubbli-co impiego e nei servizi, ma anchela consapevolezza dell’esistenza dispazi di alternativa e di radicali-smo di cui fare un uso migliore.Una presenza sindacale nel setto-re della ricerca e della scuola (il pri-mo incontro con la nascente Cgilscuola lo avemmo proprio duran-te l’occupazione del ’69). E forse,la cosa più importante di tutte, unpiccolo romanzo di formazione dialcune persone che in questa sto-ria sono cresciute e hanno conti-nuato, attraverso tutti questi annie in modi diversi, a dare il contri-buto di cui erano capaci a quelloche è stata e quello che resta la si-nistra in Italia.

Come una realtàsindacale tipica delpubblico impiego,autonoma ecorporativa, scoprìl’egualitarsimonel corso di unalunga lotta

Del manifestoci convinceval’idea dellarivoluzione comeprocesso sociale,non rovesciamentosubitaneoe di avanguardie

Alessandro Portelli

■ Roma

I ricercatori del Cnr,un romanzo collettivo

I CENTRIDI INIZIATIVACOMUNISTA

14) Le radici di un'eresia comunista - 24 Novembre 2009

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59. Se finora una rivoluzione non si è fatta in occidente èperché il sistema capitalistico è stato in grado di offrire allasocietà una prospettiva di sviluppo sufficiente a riassorbire lerivendicazioni più rilevanti che le masse esprimevano, di uti-lizzare queste rivendicazioni come correttivo delle tendenzealla stagnazione, di utilizzare infine il proprio sviluppo comestrumento di ulteriore condizionamento di quelle rivendica-zioni. E’ questo modello trionfante negli ultimi vent'anni,che ha alimentato l’ideologia della società integrata.

60. Da parte sua il movimento operaio ha sempre centratola propria lotta sulla sollecitazione di uno sviluppo più rapido epiù esteso. La contraddizione fondamentale da cui doveva na-scere la crisi del capitalismo era la contraddizione tra le forzeproduttive, così come il capitalismo le evocava, e rapporti diproduzione ormai paralizzanti. Tale impostazione, teoricamen-te derivata dal marxismo della II Internazionale, non era peròfrutto di un errore soggettivo ma del fatto che il sistema si pre-sentava, a livello mondiale, ancora egemonico, capace di detta-re le linee fondamentali dello sviluppo storico. Potevano ribel-larsi al sistema solo zone e classi che da tale sviluppo restavanoescluse, e restando all'interno dello stesso modello. Una radica-le lotta al capitalismo, una contestazione del suo rapporto diproduzione, sarebbe stato possibile solo nel momento in cuiquesto modo di produzione avesse compiuto per intero la pro-pria parabola e creato le condizioni del suo superamento. Perusare una frase di Marx: nel momento in cui lo sfruttamentodel lavoro fosse divenuto nei fatti «una misera base per l'ulterio-re sviluppo della ricchezza».

61. Questa è la condizione che comincia storicamente a ma-turare. Alla comprensione di questa realtà, da parte delle mas-se e delle forze di sinistra, fa ostacolo l'apparenza di un perma-nente dinamismo della produzione capitalistica, la capacitàdel sistema di produrre un reddito crescente, nuovi beni, nuo-ve tecnologie. Ma è un’apparenza, che deve essere demistifica-ta e può esserlo in molti modi e sotto diversi aspetti.

62. In primo luogo da un punto di vista quantitativo. Un si-stema di rapporti di produzione non è storicamente esauritosolo quando non è più capace di garantire alcuno sviluppo pro-duttivo, ma già quando rappresenta un ostacolo al pieno utiliz-zo delle potenzialità esistenti. Anche da questo punto di vista ilsistema capitalistico, nelle sue cittadelle più avanzate, dimo-stra di essere giunto a una crisi di fondo. La crescita degli im-pieghi improduttivi del reddito (dal riarmo all'induzione diconsumi socialmente inutili o dannosi); l'incapacità di stimola-re lo sviluppo dei settori arretrati della società nazionale e inter-nazionale; il carattere di spreco assunto dal «tempo libero»; ildislivello tra capacità e mansioni di ogni categoria di lavorato-ri: tutto ciò testimonia una crescente irrazionalità del sistema.

63. Per garantirsi comunque una dinamica di sviluppo, il si-stema ha messo in atto una serie di processi sociali e politici (ilriarmo, l’aggressione internazionale, l'inflazione permanente,la disgregazione individualistica del consumo e della vita civi-le, una struttura istituzionale corporativa e clientelare, una ri-scoperta dell'ideologia razzista, una moltiplicazione di privile-gi) che, come una droga, gli consentono di sopravvivere ma ac-cumulano nuove tensioni spesso esplosive. Torna così a opera-re una tendenza catastrofica, non in termini di crollo economi-co ma di crisi politico economico-sociale.

64. Questo squilibrio tra sviluppo reale e sviluppo possibileè ancor più evidente sul piano qualitativo. È incontrovertibileche le società moderne, dove il livello di reddito e di conoscen-ze potrebbe permettere di soddisfare i bisogni primari con unafrazione del lavoro disponibile, sono società dove il lavoro ripe-titivo, parcellizzato e alienato, rappresenta invece la condannadella grande maggioranza degli uomini.

SEGUE A PAGINA 16

Arrivai a Pisa nel novem-bre del 1967, con dei mocassini eun cappotto leggero. Non avevoidea di calze pesanti, sciarpe, giub-botti, guanti. Qualcuno mi portòal mercatino di Livorno e presi apoco prezzo un eskimo. Ero a Pisaper fare medicina. Il mio sogno: di-ventare biochimico e psichiatra(ma non avevo notizie approfondi-te di Basaglia e non sapevo quasiniente della dialettica della libera-zione. Però, prima di partire, inuna cartoleria della mia città eroriuscito a comprare a metà prezzola Critica della ragion pura diKant. Due volumi Laterza). Dopoaver trovato un posto letto da unacoppia, che teneva d’occhio il tem-po che impiegavo a usare la lucedella lampadina per leggere (mene andai via alla prima occasio-ne), cominciai a frequentare la fa-coltà. Mi sentivo a disagio. Vede-vo studenti molto sicuri di sé chegiravano a loro agio per le aule e icorridoi e perfino le matricole co-me me avevano un’aria meno cir-cospetta. Avevo degli amici cheerano venuti con me dalla Sicilia efeci anche nuove amicizie. Comin-ciavo a frequentare le assemblee eun giorno mentre guardavo inti-midito una manifestazione cheaveva un’aria decisa e nello stessotempo scanzonata, una coppia(una studentessa e un assistente)mi presero a braccetto e mi porta-rono con loro nel corteo. Può sem-brare le scena di un film (e se do-vessi farne uno forse comincereicon questa scena), ma tutto co-minciò così.

Quel che non si vedeva ma cheio sentivo era la differenza. Avevol’impressione che tutti parlasseromeglio di me (e probabilmenteera così) e molti erano sicuri di séanche nel movimento. Erano co-me a casa. In alcuni sentivo qual-cosa di familiare a loro che nonmi apparteneva. Solo molti annidopo mi resi conto che per buonaparte degli studenti andare all’uni-versità era una scelta di continui-tà di famiglie che già avevano lau-reati in casa (nonni, genitori) eche per una non piccola parte distudenti in lotta la politica era in li-nea con le tradizioni familiari.Non era la stessa cosa criticare ilPci e uscirne per rompere con ilpadre comunista (era un dolore infamiglia) e invece fare movimentouscendo da una famiglia che nonsapeva niente della guerra civile,della Repubblica di Salò, della riti-rata dei tedeschi, che non capivacosa aveva combinato Mussolini,visto che in fondo sotto il fasci-smo si viveva con poco ma si sta-va bene, che aveva vissuto in So-malia ed era ritornata con il mald’Africa. Non era la stessa cosa. Sistava insieme, ma non era la stes-sa cosa.

Quando a Pisa esplose il movi-mento, molti dei leader e dei gio-vani intellettuali provenivano inorigine dalla sinistra socialista edalla sinistra cattolica. Il rapportocon gli operai era considerato pri-mario e mentre a Torino si dichia-rava il «potere studentesco», a Pi-sa prevaleva l’idea del «potere ope-raio» (Rossana Rossanda raccontòbene la cosa in L’anno degli stu-denti). Il Pci a Pisa era presentecon la cellula universitaria. Quan-do mi iscrissi al Pci scoprii che sulpiano universitario erano funzio-nanti soltanto la sezione universi-taria di Milano e la cellula universi-

taria di Pisa. Poi c’erano i soli «en-tristi-operaisti» di Venezia che lasapevano sempre lunga su tatti-che e strategie e, se non ricordomale quasi nient’altro. A Pisa lacellula universitaria era presentenel movimento sia pure in modocontraddittorio. C’erano D’Ale-ma, Mussi, ma anche Gerace, co-lui che aveva progettato il primocalcolatore in Italia, c’erano alcu-ni normalisti, molti studenti, pro-fessori (tra cui Salvatore D’Alber-go), assistenti. Come in fondo do-veva essere. Eppure si nasconde-vano differenze. C’erano quelliche provenivano dalla grande tra-dizione del partito comunista equelli che si affacciavano per laprima volta a quel mondo. Nontutti, ma molti degli studenti chepoi andranno a fondare il manife-sto erano meridionali. Alcuni diquesti, molti forse, sentivano ladifferenza e come me goffamente

la nascondevano. Inoltre a Pisa in-segnavano il filosofo Badaloni, ilgiurista Natoli, l’economista Pe-senti e molti altri.

Quando cominciò a uscire la ri-vista il manifesto, l’entusiasmo incellula fu grande. Non da parte ditutti. Ma di sicuro gli stessi Massi-mo D’Alema e Fabio Mussi, perquel che posso ricordare, se ne fe-cero all’inizio promotori come mee molti altri. Poi le cose cambiaro-no. Alcuni di noi chiesero che lacellula invitasse i direttori del ma-nifesto a Pisa per discutere con lo-ro della rivista e di ciò che vi veni-va scritto. Cominciò l’imbarazzo.La federazione nicchiava, finchénon venne fuori l’idea che avreb-be dovuto fare uscire tutti dall’im-barazzo: per invitare il manifestoera necessario proporre un calen-dario di inviti per tutte le rivistedel Pci (che allora erano un’infini-tà). Equipollenza, equidistanza.Oggi avremmo detto che tutto ciòera (parola assai antipatica) politi-cally correct. Questo criterio digiustizia verso tutte le riviste delPCI significò di fatto, com’era pre-vedibile, l’impossibilità di portareavanti l’iniziativa che dunque mo-rì sul nascere. Fu l’inizio della fi-ne. Si cominciava a capire comestavano le cose. Tutti, sia quelliche cominciavano a ritenere inso-stenibile la presenza dentro il Pci,sia coloro che si preparavano a re-stare dopo il conflitto interno.

Quando i compagni del manife-sto furono radiati, si pose il proble-ma del che fare. Si è tanto parlato

di D’Alema e Mussi a riflettere sulMonte Serra. Sono certo che ci fuun travaglio da parte loro comeda parte di molti (non di tutti), tut-tavia sapevamo già che non sareb-bero mai usciti dal Pci come sape-vamo già che alcuni di noi l’avreb-bero fatto, nonostante, ancora do-po la radiazione, il suggerimento,per esempio di Lucio Magri, era dinon uscire dal Pci. Lo facemmo.Fu un momento drammatico pertutti. Michele Feo allora assistentedi filologia alla Scuola Normale edio (allora studente di filosofia. Ave-vo cambiato facoltà) andammo aRoma per incontrare Pintor e Ma-gri in piazza del Grillo. Nello starein quell’appartamento mi resi con-to di quanto ero provinciale. Nonper gli oggetti che osservavo, maper una certa ironia delle personeche sanno scherzare anche neldramma vissuto. La condizioneemotiva di Pintor e di Magri eraabissale rispetto a quelle mia e diMichele. Ci si comprendeva, masi sentivano le differenze.

Comunque sia, ci rendemmoconto maggiormente che si stavacreando dappertutto un movi-mento politico. Tornati a Pisa, sar-di, siciliani, calabresi, molisani, to-scani trovammo una sede (in real-tà un vero bugigattolo) e con lasottoscrizione fondammo il cen-tro del manifesto a cui poi aderiro-no altri studenti e lavoratori. Nelfrattempo a Pisa quello che era Po-tere operaio si era scisso in varitronconi (Lotta continua, CentroKarl Marx, Lega) e stava comin-ciando il dopo ’68.

Imparai a vestirmi in modo piùadeguato. Ormai avevo calze pe-santi, sciarpa, guanti, ma ai con-gressi politici ci andavamo con lecollette e dormendo negli ostelli.

Mi domando spesso se quelledifferenze di origine (familiare, po-litica) non ci abbiano condiziona-ti tutti sin dall’inizio. Penso di sìanche se non del tutto, anche sevi sono grandi margini per la vo-lontà. Le rotture politiche e ideolo-giche, i cambiamenti di idee, i mu-tamenti delle visioni del mondosono fenomeni estremamentecomplessi e difficili. Accadono,ma sempre all’interno di qualcosadi più grande che si riafferma co-me continuità. Rompere una con-tinuità è tanto più difficile quantopiù il filo che la percorre e che col-lega i vari nodi che la compongo-no, è lungo e forte. Non cercaremai di farlo è affondare nel confor-mismo. Vivo in un mondo in cuila maggior parte delle persone haun padre o una madre importan-ti, che hanno certamente influitosulla loro vita almeno nel segno diquella che potremmo chiamareuna continuità ambientale. Spes-so non ci accorgiamo che questadetermina smentendolo quel-l’obiettivo dell’eguaglianza senzail quale non vi può essere libertàvera, né vera diversità. Il manife-sto aveva addirittura chiamato tut-to questo bisogno del comuni-smo, che per molti implicava e im-plica lo sforzo di molti scalini peruna meta difficile da raggiungere.Forse era questo che si domanda-va Marx quando nel suo capolavo-ro parlava del carattere rivoluzio-nario del capitalismo, determina-to dal mutamento della sua basetecnica che tuttavia gettava, a cau-sa del cambiamento, sul lastricomilioni di lavoratori.Se non voglia-mo imitare il capitalismo nel suocarattere rivoluzionario, cosa dob-biamo fare per far sì che le donnee gli uomini riescano a salire lascala di un’eguaglianza che nonpuò essere soltanto politica?

Nel numero speciale «Per il comunismo» del settembre 1970il gruppo del manifesto propone, in 200 tesi, «una piattafor-ma di discussione e di lavoro politico per l’unità della sini-stra rivoluzionaria e la costruzione di una nuova forza politi-ca». Ne riportiamo uno stralcio.

Uscì la rivistae nella cellula delPci fummo quasitutti entusiasti.Anche gli stessiMassimo D’Alemae Fabio Mussi.Ma durò poco

■ Università di Pisa

Egualitarismo e bisogni,un’autobiografia

■ «Maturitàdel comunismo»

Alfonso M. Iacono

Le radici di un'eresia comunista - 24 Novembre 2009 (15

Page 16: Le radici di un’eresia - ASSOCIAZIONE LAVORATORI ... · nelprecipitare dell’autunno caldo del‘69. ... che con la tesi della ... spostarsi su una fase di lotta più avanzata.

SEGUE DA PAGINA 15.

Le società dove buona parte del reddito po-trebbe soddisfare bisogni che riflettano liberescelte, sono società dove la massima parte delconsumo risponde invece a esigenze indotte dal-la produzione e si vuota di ogni significato uma-no civile. Società dove lo sviluppo dei mezzi dicomunicazione e di conoscenza dovrebbe assi-curare un’unificazione del corpo sociale e unadiffusione di potere, sono società che portano allimite massimo l'isolamento individuale, la con-centrazione del potere, le barriere nazionali erazziali. (...)

71. Tutto ciò significa che, per la prima volta nel-la storia, il comunismo nel suo senso radicale, edunque il socialismo come fase di transizione, di-ventano un problema maturo e un possibile pro-gramma politico. Per la prima volta la classe ope-raia e il suo partito possono condurre una lottanon più assumendo rivendicazioni proprie di al-tri strati sociali ed esprimendosi come forza su-balterna, ma presentandosi e avanzando comeforza egemone, portatrice di un nuovo rapportodi produzione e di un nuovo modello di organiz-zazione sociale.

In questo senso profondo la rivoluzione puòdi nuovo essere, com'è per Marx, fatto «sociale»prima che «politico»: la conquista del potere sta-tale diventa mezzo per l'affermazione di una nuo-va egemonia sociale; non esiste più contraddizio-ne e salto tra potere e programma; il proletariatoè in grado di esprimere e di realizzare i contenutiin base ai quali rivendica il potere. In questo mo-do nuovo e infinitamente più ricco (forse il solopossibile in occidente) di fare la rivoluzione, staanche il valore di cent'anni di storia del movi-mento operaio, di un secolo di lotte che hannospinto il sistema al suo approdo e insieme gli han-no impedito di esplicitare la sua permanente ten-denza catastrofica. E qui sta l'asse di una nuovastrategia della rivoluzione in occidente.

72. Al fondo di questa realtà vi è non solo losviluppo delle forze produttive ma il salto di qua-lità che in tale sviluppo si è determinato e la reci-proca reazione tra il nuovo livello così raggiuntodalle forze produttive e i rapporti capitalistici diproduzione. L'analisi di questo salto di qualità èil compito nuovo che il marxismo non ha finoraseriamente affrontato, lasciando un vuoto teori-co che la descrittiva sociologica e l'invenzione po-litica non bastano a colmare. Schematicamente,i suoi aspetti costitutivi sembrano essere:

a) L'ingresso massiccio della scienza e dellatecnologia nella produzione. Lo sviluppo econo-mico, che nelle fasi precedenti è stato soprattut-to estensivo e ha trovato nello sfruttamento dellavoro e nell'impiego di risorse materiali inutiliz-zate i suoi elementi propulsori, si realizza ora inprimo luogo attraverso il rivoluzionamento conti-nuo delle tecnologie, dei materiali, delle profes-sionalità, dei beni. La società umana, nei paesiavanzati, è giunta a un livello in cui la fonte deci-siva della produzione allargata è, o potrebbe esse-re, non il lavoro umano diretto ma il patrimoniosociale delle conoscenze, fino a render possibileuna espansione costante della produzione attra-verso un uso sempre più efficace del capitale co-stante dato, e come effetto indotto dallo sviluppoonnilaterale e complessivo della libera attività so-ciale.

Una simile possibilità è intimamente contrad-dittoria con un modo di produzione che ha perstimolo fondamentale il profitto, in cui il calcolodella produttività è settoriale e diretto, e in cui ladivisione politica e sociale del lavoro si opponeallo sviluppo onnilaterale di tutti gli individui. I1capitalismo reagisce a tale contraddizione re-stringendo l'area e il ritmo di introduzione dellenuove tecniche, moltiplicando lo spreco e il pa-rassitismo, subordinando la qualità e la quantitàdello sviluppo al fine particolare della riproduzio-ne dei rapporti di classe e di potere esistenti.

b) Un nuovo rapporto tra produzione e consu-mo. Fino a oggi, la produzione ha avuto comepunto di riferimento fondamentale bisogni pri-mari largamente autonomi e univoci. Oggi, nellesocietà capitalistiche avanzate, una parte deter-minante del consumo risponde invece a bisogni

che il sistema sociale artificialmente induce, op-pure si presenta come consumo sganciato daqualsiasi bisogno e rivolto solo a sostenere artifi-ciosamente la domanda. Viene così a mancare labase stessa della razionalità economica capitali-stica, che si è sempre definita come il modo piùefficiente di distribuire le risorse rispetto a un fi-ne predeterminato. Diventa allora decisivo stabi-lire quali meccanismi regolano la formazione deibisogni e stabilire su quali parametri non pura-mente quantitativi giudicare lo sviluppo. Diven-ta decisiva la formazione di stimoli efficaci manon artificiosi per utilizzare tutte le potenzialitàesistenti. E diventa possibile rivolgere il lavoro so-ciale alla soddisfazione di superiori bisogni uma-ni, non necessariamente attraverso la produzio-ne di beni materiali e servizi e il loro scambio sul

mercato. I1 sistema capita-listico, estraneo per natu-ra a questi problemi e que-ste possibilità, affronta ilnuovo rapporto consu-mo-produzione con unamoltiplicazione senza sen-so dei beni rivolti alla sod-disfazione di bisogni mate-riali dati, o inducendo con-sumi di puro spreco, omoltiplicando la spesa de-gli apparati parassitari.

c) Un nuovo rapportouomo-macchina. A que-

sto livello storico il problema del lavoro si modifi-ca, o potrebbe modificarsi, radicalmente. Sia nelsenso che buona parte delle funzioni parcellizza-te e ripetitive potrebbe essere ridotta, sia nel sen-so che la libera attività umana onnilaterale po-trebbe diventare direttamente produttiva (dinuove tecniche e di nuovi bisogni), e soprattuttonel senso che la qualità del lavoro potrebbe esse-re assunta come uno degli obiettivi dello svilup-po e come metro di valutazione del progresso.

Ma poiché meccanismo regolatore del capitali-smo sono l'appropriazione del surplus sul lavorodiretto e la struttura gerarchica del potere, si assi-ste invece a una accentuazione della specializza-zione e della parcellizzazione del lavoro dellamassa, all’espulsione di una quota crescente del-la popolazione dalla attività produttiva, all'esten-sione di un «tempo libero», come puro ozio e ap-parente risarcimento dello sforzo.

d) Un nuovo carattere dello sviluppo scientifi-co. Arrivata a un alto livello di conoscenze, a unacapacità di pianificazione, a un rapporto con laproduzione, anche la scienza assume diversi si-gnificati. Da un lato è di gran lunga più autono-ma rispetto alla sua storia passata, essendo conti-nuamente il risultato di una scelta tra diverse di-rezioni possibili di ricerca e di una programma-zione nell'impiego di uomini e di risorse. Dall'al-tro lato è di gran lunga meno autonoma rispettoal sistema sociale dal quale riceve gli obiettivi e lerisorse e al quale fornisce gli strumenti decisivi disviluppo. Inoltre, attraverso la tecnologia, essanon si limita più a fornire metodi e mezzi più omeno grandi, più o meno nuovi, per realizzarecerti obiettivi produttivi, ma incide sull'equili-brio naturale e sul soggetto umano. Diventa aquesto punto decisivo sapere chi governa e co-me governa il progresso scientifico, che non èpiù neutro e predeterminato, e quali conseguen-ze questo progresso è destinato ad avere nel lun-go periodo. Il capitalismo non può dare a questiinterrogativi che la sua risposta: piegare lo svilup-po scientifico alle necessità del profitto, del pote-re, della manipolazione delle masse.

73. Ma se le contraddizioni specifiche del capi-talismo e la conseguente maturità del comuni-smo come rivoluzione radicale non derivano dagenerico sviluppo delle forze produttive quantoda questo loro specifico salto di qualità (che giàMarx aveva genialmente previsto e cominciatoad analizzare), ne derivano due conseguenze fon-

damentali, presupposto di ogni ricerca strategicasulla rivoluzione occidentale.

74. La prima conseguenza è che per maturitàdel comunismo non può intendersi un gradualee spontaneo formarsi di elementi di «nuova socie-tà» in quella attuale, una contraddizione lineare ecrescente fra forze produttive che già si dispongo-no a un diverso ordine sociale e rapporti di produ-zione che ne ostacolano l'avvento. Questa conce-zione evoluzionista, neo-kautskiana, che oggi co-nosce un certo rilancio, è in realtà smentita daifatti. Proprio quegli elementi che fanno «matura-re» il bisogno e la possibilità del comunismo, con-sentono anche al capitalismo di deformare e as-sumere ai propri fini lo sviluppo stesso delle forzeproduttive che direttamente portano in sé il se-gno dei rapporti di produzione entro i quali si svi-luppano.

Per questo, tra lo schema della rivoluzione bor-ghese e quello della rivoluzione proletaria perma-ne e anzi si accentua una differenza radicale. Larivoluzione proletaria non è il proseguimento e laliberazione di tendenze maturate nella società ca-pitalistica, ma il precipitare di una contraddizio-ne dialettica, un salto di qualità.

75. La formazione di un’alternativa rivoluzio-naria, e poi la costruzione di una nuova società,passa quindi da una critica radicale e concretadi tutte le manifestazioni della società presen-te: del suo modo di produrre, di consumare, dipensare, di vivere. Non è frutto della spontanei-tà di una nuova classe, ma di una attività co-sciente e organizzata attraverso cui questa nuo-va classe sopprime se stessa in quanto conser-vatrice e perpetuatrice dell'ordine antico.

I1 comunismo, comeMarx aveva visto, non èun ulteriore gradino delprogresso storico, maquel rovesciamento dellastoria che il capitalismoha reso possibile; non èuna nuova economia poli-tica, ma la fine dell'econo-mia politica; non è lo Sta-to giusto, ma la fine delloStato; non è una gerar-chia che riflette i diversivalori naturali, ma la finedella gerarchia e il pieno

sviluppo di tutti; non è la riduzione del lavoro,ma la fine del lavoro in quanto attività estraneaall'uomo e puro strumento.

76. La seconda conseguenza è che la maturitàdel comunismo non vuol dire affatto sua inelutta-bilità. Innanzitutto, questa maturità contrasse-gna una fase storica, non una crisi emergente edeterminata: almeno a livello mondiale, i proces-si da cui nasce sono processi di lungo periodocontinuamente frenati e neutralizzabili da variecontrotendenze. Per passare dall'individuazionedi questi processi all'individuazione di una crisi ri-voluzionaria reale è necessario introdurre ne1quadro generale elementi specifici della situazio-ne internazionale e di quella di ciascun paese.Quel che più conta, uno sviluppo capitalisticopiù che mai distorto e repressivo non solo èastrattamente sempre possibile ma si alimentaoggi concretamente con precisi meccanismi eco-nomici, sociali, politici e militari. Discriminantefondamentale all'interno del marxismo è quellache contrappone alla teoria deterministica dellaineluttabilità del socialismo una concezione dia-lettica della storia che non esclude a priori il re-gresso e la catastrofe. Oggi, lo sviluppo del capita-lismo avanzato rende tale discriminante ancorapiù importante.

77. Esistono tendenze, forze potentissime chespingono nella direzione di una degenerazionedella civiltà umana, di una utilizzazione aberran-te e autodistruttiva del potere nuovo di cui il pro-gresso ha fornito l'uomo. La maturità del comuni-smo è solo una faccia, quella positiva, di una gi-gantesca contraddizione storica, di cui l'altra fac-cia è la catastrofe. Una catastrofe di cui la guerraatomica ci offre l'immagine più semplice e terrifi-cante, ma non la sola e forse neppure la peggiore.

«La prospettivacomunista unicaalternativa alletendenzecatastrofichedella societàcontemporanea»

«Possibilità diun programmapoliticocomunista eattualità dellarivoluzione comefatto sociale»

Sul sito www.ilmanifesto.it ulteriori materiali, importanti e integrali, dalla rivista «Il manifesto»

Aldo Natoli e Lisa Foa, Origini della rivoluzione culturale, Anno II, numero 5, maggio 1970;Aldo Natoli e Lisa Foa, Origini della rivoluzione culturale: gli anni più difficili, Anno II, giugno 1970;Aldo Natoli e L. Foa, Dalle Guardie rosse al IX Congresso del Pcc, Anno II, luglio-agosto 1970;Luigi Pintor, Un dialogo senza avvenire, Anno I, numero 1, giugno 1969;Edgar Snow e K.S.Karol, La rivoluzione culturale, Anno I, numero 1, giugno 1969;Valentino Parlato, Rapporto sulla Pirelli, Anno I, numero 5/6, ottobre-novembre 1969;Valentino Parlato, Il blocco edilizio, Anno II, numero 3-4, marzo/aprile, 1970;Ninetta Zandegiacomi, Delegati: verifica alla Marzotto, Anno II, numero 2, febbraio 1970;Luciana Castellina, Il movimento dei delegati, Anno II, numero 1, gennaio 1970;Lucio Magri, Praga è sola, Anno I, numero 4, settembre 1969;Lucio Magri, Strutture e metodi di direzione, Anno I, numero 4, settembre 1969;Rossana Rossanda, Da Marx a Marx. Classe e partito. Una conversazione con Jean Paul Sartree una nota introduttiva di R.R., Anno I, numero 4, settembre 1969;Lidia Menapace, La rivoluzione teologica, Anno I, numero 2/3, Luglio/agosto, 1969Tesi per il comunismo, Maturità del comunismo, Anno II, numero 9, settembre 1970.

SPECIALEa cura di Rossana Rossanda, Luciana Castellina, Tommaso Di Francesco e Doriana Ricci. Impostazione grafica di Giuliana Poletto, collaborazione tecnica Ivano Motta.Hanno collaborato Alessandra Barletta, Loris Campetti, Eleonora Parcu,Gabriele Polo, Massimiliano Salvoni, Roberto Zanini

FOTOGRAFIEdi Gabriella Mercadini, DavideDe Rossi, Paolo Zappaterra,Franco Fiori, Espresso, MarioOrfini. A pagina 15 e 16 segnali-bri di Aleksandr Rodcenko, 1924

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