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Le professioni musicali a.a.2017-2018 199 Lo strumentista Premessa Si udirono cantare voci così numerose e così varie, e tali sinfonie s'elevarono verso il cielo, che si sarebbe creduto di sentire un concerto d'angeli [ ... ] Quando il canto cessava [ ... ] si sentivano suonare gli strumenti in maniera [ ... ] allegra e soave [ ... ] Al momento dell'elevazione la basilica tutta intera risuonò di sinfonie così armoniose, accompagnate dal suono di diversi strumenti, che si sarebbe detto che il suono e il canto del paradiso fossero scesi dal cielo sulla terra. 1 Scrisse così Giannozzo Manetti raccontando la prima esecuzione del mottetto di Dufay Nuper rosarum flores per la cerimonia di consacrazione del Duomo di Firenze (1436). Nonostante il divieto delle autorità ecclesiastiche di eseguire musica vocale abbinata a sezioni strumentali nei luoghi sacri, in alcune cappelle i cantori erano anche abili suonatori e spesso eseguivano le composizioni polifoniche accompagnandosi con gli strumenti. Inizialmente tali raddoppi o sostituzioni non si differenziarono tecnicamente dalla prassi vocale, ma col tempo emerse l’esigenza di adattare le specificità degli strumenti ai brani e nacque lentamente un’arte prettamente strumentale. Nell’antichità Ma quando è nata la musica strumentale e quindi quando è nata la figura dello strumentista? Come è noto degli strumenti si è in pratica sempre fatto uso o come sostituzione delle voci o come sostegno alle voci stesse. Lo strumentista, quindi, è sempre esistito, in posizione in genere subalterna, a meno che non si trattasse del compositore e/o cantore stesso. Nell’antichità lo strumentista era uno schiavo o appartenente comunque a un ceto sociale basso. L’iconografia ci ha tramandato immagini di banchetti con i commensali adagiati su divani in atto di assaporare gustosi piatti e abbandonarsi ad abbondanti libagioni, mentre intorno danzatrici e flautiste leggiadramente vestite allietano con balli e musiche. Un contratto d’apprendista d’auleta Daniel Delatre 2 ha pubblicato un contratto di apprendistato d’auleta stipulato ad Alessandria d’Egitto nel 13 a.C. Il contratto in questione coinvolge tre persone. Il padrone, Gaios Ioulios Philios, era un usuraio attivo ad Alessandria fra il 15 e il 10 a.C., probabilmente un liberto (ovvero uno schiavo affrancato). L’uomo affida con questo contratto il proprio schiavo Narciso (di probabile età fra i 12 e i 15 anni) al maestro di 1 GIANNOZZO MANETTI, Oratio de secularibus et pontificalibus pompis in consecratione basilicae florentinae, 1436. 2 DANIEL DELATTRE, L’apprentisage de la musique à Alexandrie à travers un contrat d’apprentisage d’aulète (13 av. J.-C.), in Instruments, musiques et musiciens de l’antiquité classique, Etudes réunis par Arthur Muller, Lille, Cahiers de la Maison de la Recherche- Université Charles-de-Gaulle-Lille III, 1995 («Ateliers», 4/1995), pp. 55-69. Ringrazio il collega prof. Maurizio Tarrini per avermi fornito il testo.

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Lo strumentista Premessa

Si udirono cantare voci così numerose e così varie, e tali sinfonie s'elevarono verso il cielo, che si sarebbe creduto di sentire un concerto d'angeli [ ... ] Quando il canto cessava [ ... ] si sentivano suonare gli strumenti in maniera [ ... ] allegra e soave [ ... ] Al momento dell'elevazione la basilica tutta intera risuonò di sinfonie così armoniose, accompagnate dal suono di diversi strumenti, che si sarebbe detto che il suono e il canto del paradiso fossero scesi dal cielo sulla terra.1

Scrisse così Giannozzo Manetti raccontando la prima esecuzione del mottetto di Dufay Nuper rosarum flores per la cerimonia di consacrazione del Duomo di Firenze (1436). Nonostante il divieto delle autorità ecclesiastiche di eseguire musica vocale abbinata a sezioni strumentali nei luoghi sacri, in alcune cappelle i cantori erano anche abili suonatori e spesso eseguivano le composizioni polifoniche accompagnandosi con gli strumenti. Inizialmente tali raddoppi o sostituzioni non si differenziarono tecnicamente dalla prassi vocale, ma col tempo emerse l’esigenza di adattare le specificità degli strumenti ai brani e nacque lentamente un’arte prettamente strumentale. Nell’antichità Ma quando è nata la musica strumentale e quindi quando è nata la figura dello strumentista? Come è noto degli strumenti si è in pratica sempre fatto uso o come sostituzione delle voci o come sostegno alle voci stesse. Lo strumentista, quindi, è sempre esistito, in posizione in genere subalterna, a meno che non si trattasse del compositore e/o cantore stesso. Nell’antichità lo strumentista era uno schiavo o appartenente comunque a un ceto sociale basso. L’iconografia ci ha tramandato immagini di banchetti con i commensali adagiati su divani in atto di assaporare gustosi piatti e abbandonarsi ad abbondanti libagioni, mentre intorno danzatrici e flautiste leggiadramente vestite allietano con balli e musiche. Un contratto d’apprendista d’auleta Daniel Delatre2 ha pubblicato un contratto di apprendistato d’auleta stipulato ad Alessandria d’Egitto nel 13 a.C. Il contratto in questione coinvolge tre persone. Il padrone, Gaios Ioulios Philios, era un usuraio attivo ad Alessandria fra il 15 e il 10 a.C., probabilmente un liberto (ovvero uno schiavo affrancato). L’uomo affida con questo contratto il proprio schiavo Narciso (di probabile età fra i 12 e i 15 anni) al maestro di 1 GIANNOZZO MANETTI, Oratio de secularibus et pontificalibus pompis in consecratione basilicae florentinae, 1436. 2 DANIEL DELATTRE, L’apprentisage de la musique à Alexandrie à travers un contrat d’apprentisage d’aulète (13 av. J.-C.), in Instruments, musiques et musiciens de l’antiquité classique, Etudes réunis par Arthur Muller, Lille, Cahiers de la Maison de la Recherche-Université Charles-de-Gaulle-Lille III, 1995 («Ateliers», 4/1995), pp. 55-69. Ringrazio il collega prof. Maurizio Tarrini per avermi fornito il testo.

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apprendistato Gaios Ioulios Eros m(anch’egli probabilmente un liberto) perché lo istruisca come auleta. Vediamo il contratto.

[Gaios Ioulios Philios a Gaios Iulios Eros, salut.] Io (sottoscritto) riconosco di averti affidato il mio schiavo Narciso … per la durata di un anno a contare da Pharmouthi3 dell’anno in corso, il 17° [di Cesare (= Augusto), … affinché, come auleta, impari a suonare4: 1.° sugli aulòi magadis, quattro … regolari e due accompagnamenti; 2° sull’aulòs “systeéridien” e “térite”, cinque uffici e ciò che vi si aggiunge, (cioè) due accompagnamenti; 3° sugli aulòi citaristerici di Sérapis, due accompagnamenti e due seconde parti; 4° su l’aulòs “carien” [= della Caria, in Asia] e “hypothètre” [?], due accompagnamenti; 5° sugli aulòi egizi “térites”, due accompagnamenti; 6° sugli aulòi frigi, due [servizi]; 7° sugli aulòi sinistri, due [arie strumentali]; per un salario, sul quale ci siamo accordati, di 100 dracme d’argento di Tolomeo. Su questa somma, ricevi immediatamente la metà, cioè 50 dracme d’argento, tramite la banca di cambio di Castor; le altre 50 dracme d’argento, te le pagherò dopo sei mesi, a contare da … dello stesso mese. Quanto a tutti gli aulòi necessari per lo studio e la presentazione (della sua esperienza), sono io stesso, maestro, che glieli fornirò, a Narciso. Inoltre, in ragione delle feste, egli avrà diritto a 17 giorni di ferie, mentre per tutta la durata dell’apprendistato sono io che gli assicurerò il vitto e l’abbigliamento. Di più, in caso di assenza irregolare da parte sua o di malattia, ti accorderò quale contropartita che resti (in garanzia) presso di te, al di là del termine, per un numero di giorni uguale a quello delle sue assenze, e che compia, come apprendista, tutto ciò di cui abbiamo convenuto nel campo di quest’arte, e non te lo ritirerò prima della scadenza del termine. Inoltre, sull’arte che tu gli avrai spiegato, l’apprendista sarà esaminato da tre colleghi, che sceglieremo di comune accordo, nella stessa specialità e che possiedano la perfetta maestrìa della tecnica precedentemente indicata. Se non dovessi adempiere a qualcuno di questi impegni, ti pagherò le restanti 50 dracme d’argento dovute per il tuo salario aumentate della metà, così come, a titolo di penale, altre 200 dracme d’argento, di cui tu potrai esigere il pagamento rivalendoti sulla mia persona e sui miei beni, conformemente alla legge.

Dal Medioevo al Cinquecento Se passiamo al medioevo e alle prime esperienze profane con i trovatori e i trovieri, è noto che la voce era spesso accompagnata. A suonare potevano essere gli stessi trovatori e trovieri che intonavano accompagnandosi magari con un liuto o una chitarra saracena. Ma poteva esserci anche un altro accompagnatore:

3 Il mese di Pharmouthi: 27 marzo-27 aprile del 17° anno di Cesare Augusto, cioè il 13 a.C. 4 Il contratto fornisce un programma eccezionalmente dettagliato delle diverse melodie che l’apprendista Narciso deve apprendere così come l’elenco degli strumenti sui quali queste melodie devono essere suonate. Lo stesso padrone, Gaios Ioulios Philios, doveva fornire gli strumenti necessari all’apprendimento.

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in genere si trattava del menestrello che nella gerarchia del tempo stava un gradino più in basso rispetto a trovatori e trovieri. Il menestrello doveva essere un abile esecutore e in origine era un servitore. A un livello sociale più basso apparteneva poi il giullare, termine con cui si indica una vasta categoria di artisti girovaghi: cantori, suonatori, mimi, buffoni, giocolieri. In genere si esibivano nelle strade, raramente erano ammessi nelle corti. Alcuni strumentisti di fama

Fioriva ancora in quel tempo Francesco degli Organi, musico teorico e pratico, mirabil cosa a ridire; il quale cieco quasi a natività si mostrò di tanto intelletto divino che in ogni parte più astratta mostrava le sottilissime proporzioni de’ suoi musicabili numeri e con tanta dolcezza col, suo organo praticava ch’è cosa non credibile pure a udilla; e non istante questo egli con ogni artista e filosofo già disputando non tanto della musica ma in tutte le arti liberali, perché di tutte quelle in buona parte erudito sì n’era.

Scriveva così Giovanni Gherardi da Prato5 a proposito di Francesco Landini (o Landino), nato a Fiesole nel 1325, morto a Firenze nel 1397, considerato il maggior esponente dell’Ars nova italiana. Autore di un notevole numero di ballate, fu abile organista e in questa veste fu particolarmente celebrato. Circa un secolo dopo fu invece attivo a Norimberga e a Monaco Konrad Paumann (1410-1473), organista e compositore, cieco dalla nascita. Acquisto grande fama e lavorò anche in Italia, accolto nel 1470 alla corte dei Gonzaga a Mantova dove venne definito il “cieco miracoloso”. Nel 1471 tenne anche un concerto a Ratisbona nel monastero dei Benedettini alla presenza dell’imperatore Federico III. Sebastian Virdung nel suo Musica getuscht (1511) gli attribuì l’invenzione dell’intavolatura per liuto. Fra le sue opere si ricorda il Fundamentum organisandi (ante 1450) che può essere considerato il primo metodo didattico importante per affrontare la scrittura strumentale contrappuntistica. Va infine ricordato Antonio Squarcialupi (1416-1480) organista in Santa Maria del Fiore a Firenze e protetto da Lorenzo de’ Medici che gli fu amico. A lui è legato il Codice squarcia lupi che raccoglie circa 350 composizioni del Trecento. La nascita della musica strumentale In genere si indica la nascita della musica strumentale nel Cinquecento quando cioè si inizia ad avere una produzione “pensata” per gli strumenti e non affidata agli strumenti in sostituzione delle voci. Fu un passaggio lento e non privo di difficoltà. Mentre infatti la musica vocale aveva come elemento ispiratore sul piano strutturale la “forma poetica” del testo, per la musica strumentale si trattava di creare una architettura dal nulla. Non a caso, per lungo tempo, si composero forme ispirate ad analoghe forme vocali (pensiamo alla canzone strumentale derivata dalla chanson), mentre quelle genuinamente strumentali (ad esempio il ricercare) denotavano una volontà di esplorare la forma e soprattutto scandagliare le potenzialità dei singoli strumenti. 5 In D. FUSI, Landini Francesco, voce in DEUMM, «Dizionario Enciclopedico Universale della Musica e dei Musicisti» - Le biografie, vol. IV, Utet, Torino 1986, p.265.

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Nel 1498 l’editore Petrucci stampò le Intabulature d’organo, una delle prime testimonianze della volontà di emanciparsi dalla musica vocale, cui seguirono, nel 1509 quattro libri di intavolature per liuto. Da questa data al 1523 la stampa a Venezia subì un arresto a causa di un periodo di crisi politico-economica della città. Alla ripresa dell’attività tipografica vide la luce la raccolta di Ricercari, Mottetti, Canzoni composti per Marcantonio da Bologna che contiene l’intavolatura per organo di quattro esemplari della canzone francese. La prima raccolta di musiche strumentali originali, la più antica italiana che si conosca, si ebbe a Venezia nel 1540, si intitolava Musica nova accomodata per cantar e sonar sopra organi e altri strumenti, composta per diversi eccellentissimi musici e comprendeva ricercari dei principali musicisti operanti al momento tra cui Segni, Willaert, Cavazzoni. Anche dalle testimonianze dell’arte pittorica del tempo si può dedurre l’ascesa dell’attività strumentale. Nell’iconografia del Carpaccio (1465 circa – 1525/1526) San Girolamo nello studio (Chiesa di San Giorgio degli Schiavoni, Venezia) si nota un particolare che ritrae uno spartito musicale a tre voci senza testo, forse destinato a tre viole o tromboni, accanto a parti vocali. Lo sviluppo della musica strumentale fu naturalmente accompagnato da studi teorici (ad esempio diversi studiosi si occuparono della catalogazione degli strumenti) e da polemiche fra conservatori e innovatori. Vincenzo Galilei nel suo Dialogo della musica antica et della moderna (1581) assunse una posizione fortemente critica:

La musica strumentale, polifonica o monodica che sia – ha scritto a tal proposito Enrico Fubini6 – è dunque per Galilei priva di senso, fatta unicamente per accarezzare l’orecchio, ma senza presa sul nostro mondo emotivo e concettuale; perciò, osserva il teorico fiorentino, non ci si deve meravigliare “che la più parte delle cantilene d’oggi facciano migliore udire ben sonate che ben cantate. Non si accorgendo che il fine di esso è l’essere comunicate all’udito col mezzo degli artificiali e non de’ naturali strumenti; perciò elle sono l’istesso artifizio e non punto naturali.”. Polifonia, musica strumentale, artifizio, sono dunque generi perfettamente congeniali e affini l’uno all’altro e si contrappongono a melodia, canto, naturalezza.

In un’epoca in cui si sviluppava (guardando alla filosofia antica) la teoria degli affetti la posizione di Galilei era dunque caratterizzata dalla idea che la musica dovesse essere “naturalmente” legata a un testo e che la sua forza espressiva stesse nella comprensibilità della parola e nella sua capacità di amplificarne il gesto espressivo. Tuttavia lo sviluppo tecnico degli strumenti gradualmente cambiò la situazione mettendo la musica strumentale nelle condizioni di “esprimere” e di comunicare.

L’interprete – ha scritto Fubini7 – si viene a trovare di fronte a un compito sempre più difficile; l’esecuzione diventa un esercizio più complesso, più specializzato, più

6 E. FUBINI, Musica e pubblico dal Rinascimento al Barocco, Piccola Biblioteca Einaudi, Torino 1984, p.78. 7 E. FUBINI, L’estetica musicale dall’Antichità al Settecento, Piccola Biblioteca Einaudi, Torino 1979, p.119.

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responsabile. Anzitutto l’esecutore deve possedere un grado di raffinatezza e di abilità tale da soddisfare il suo pubblico che gli chiede delle prestazioni di qualità più alta. La figura dell’interprete acquista così una nuova dignità anche se non è subito riconosciuta in tutta la sua portata. Tuttavia, come il musicista deve ormai possedere nozioni teoriche perché l’armonia non è più solo l’armonia delle sfere ma il complesso delle leggi su cui deve basarsi la composizione così deve essere anche per lo più in grado di eseguire con arte, raffinatezza e soprattutto abilità ciò che ha composto. La figura del teorico, del compositore e dell’esecutore tendono spesso in un primo tempo ad identificarsi: Zarlino, il grande teorico, era anche un compositore, ma non è un caso isolato: dopo di lui troviamo Vincenzo Galilei, Artusi, Caccini, lo stesso Monteverdi per arrivare sino a Rameau e a tanti altri musicisti dei Sei e Settecento che sono al tempo stesso grandi teorici, compositori ed esecutori. Il menestrello medioevale, questa disprezzata figura di musicista esecutore, ignorante anche se abile (colui che fa e non sa) viene sostituita ora da questa figura più responsabile di musicista che compone, esegue e spesso medita e teorizza su ciò che fa.

Non va comunque dimenticato che la musica strumentale ebbe un processo di diffusione assai più lento rispetto a quella vocale e soprattutto teatrale. Se infatti l’opera divenne uno spettacolo pubblico a partire dal 1637 (apertura a Venezia del Teatro San Cassiano) le prime esperienze di musica strumentale eseguita per un pubblico pagante risalgono in Inghilterra al 1672 e solo all’inizio del Settecento possiamo parlare di una effettiva fruizione pubblica (in alcune città soprattutto del nord) della produzione strumentale. Nel barocco Le orchestre di Corelli Non sempre la lettura di un testo musicale è garanzia di una corretta esecuzione filologica. E’ la deduzione di Franco Piperno8 che sulla base di alcuni interessanti documenti e di testimonianze cronistiche suggerisce un nuovo e più articolato approccio alla esecuzione delle pagine corelliane. I Concerti grossi op. 6 di Corelli sono stati stampati ad Amsterdam nel 1714 dall’editore Estienne Roger con la seguente denominazione: «Concerti Grossi con duoi Violini e Violoncello di Concertino obbligati e duoi altri Violini, Viola e Basso di Concerto Grosso ad arbitrio che si potranno raddoppiare». La dicitura ha portato a ritenere che non fossero utilizzati ad esempio strumenti a fiato. Piperno sulla base di alcune testimonianze (qui sotto riproduciamo solo parte del suo articolato saggio) confuta questa tesi e propone l’affascinante idea di orchestre assai più ampie e sonore di quelle in genere considerate.

[…] Oltre alle parole di Georg Muffat9 […] ecco, in proposito un celebre passo di Giovanni Maria Crescimbeni, custode generale d’Arcadia (Notizie istoriche degli arcadi morti, Roma, De Rossi, 1720): «Egli [Corelli] fu il primiero che introdusse in Roma le sinfonie di tal

8 F.PIPERNO, Le orchestre di Arcangelo Corelli – Pratiche musicali romane in L’Invenzione del gusto: Corelli e Vivaldi – Mutazioni culturali a Roma e Venezia nel periodo post-barocco, a cura di Giovanni Morelli, (Fondazione Giorgio Cini, Istituto Italiano Antonio Vivaldi, Comune di Venezia, Ente Autonomo Teatro La Fenice), Ricordi, Milano 1982. 9 Il compositore tedesco, Georg Muffat (1653 – 1704) nella prefazione alla sua Ausserlesener mit Ernst und Lust gemente Instrumental Musik erste Versamllung (1701) invitava all’utilizzo nei concerti grossi di oboi, fagotti e altri fiati, sulla base di esperienze fatte durante un soggiorno romano.

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copioso numero e varietà di Strumenti, che si rende quasi impossibile a credere come si potesse regolare senza timor di sconcerto, massimamente nell’accordo di quei da fiato con quei da arco […]». Come mai la stampa del Roger non fa menzione degli strumenti a fiato? Probabili ragioni economiche (la stampa musicale, al principio del ‘700, diventa un’industria tanto raffinata quanto costosa) lo hanno spinto a limitare il numero delle parti staccate (la partitura non veniva stampata): lo strumento a fiato avrebbe potuto utilizzare con qualche opportuno ed estemporaneo adattamento il medesimo spartito destinato ad una arco di analogo ambito. In pratica la dizione «violini, viole e basso di concerto grosso» oltre ad indicare questi specifici strumenti va intesa nel senso di una generica identificazione di registro: violini = registro acuto, viola = registro medio, basso = registro grave. Queste illazioni, tuttavia, non sono sufficienti se non suffragate da opportune testimonianze documentarie; ed è quanto intendo ora discutere. Ricerche archivistiche hanno portato alla luce, in tempi recenti, un congruo numero di «Liste dell’Instromenti» redatte da Arcangelo Corelli, o, almeno, da lui sottoscritte ed in ogni caso relative ad occasioni musicali che lo videro protagonista. Queste liste sono gli elenchi degli esecutori (e dei relativi compensi) che Corelli di volta in volta ingaggiava per conto di un importante committente e per diverse particolari manifestazioni. Quale migliore occasione per conoscere come erano costituite le orchestre di Arcangelo Corelli? Parte dei documenti è relativa al lungo periodo (1690-1713) di attività di Corelli presso il cardinale Pietro Ottoboni. […] Le liste a tutt’oggi in nostro possesso sono relative ad oltre novanta manifestazioni di diversa importanza ed entità. Si può supporre, anche se non è auspicabile che tale quantitativo non sia destinato ad aumentare: la ricerca archivistica ha talmente battuto questo terreno che quanto conosciamo è probabilmente tutto ciò che effettivamente è giunto fino a noi. Di queste liste soltanto tre sono relative ad esecuzioni di musica esclusivamente strumentale: le altre contemplano organici assemblati per manifestazioni in cui vennero eseguite musiche sia vocali che strumentale; in questo contesto più di metà delle liste sono relative a manifestazioni di contenuto sacro. Se escludiamo le liste comportanti esegui complessi strumentali e quindi relative ad esecuzioni cameristiche, ovvero quelle indicanti l’aggiunta di alcuni strumenti ad altri organici, ci restano pur sempre sessantatre liste testimonianti la composizione e l’entità di altrettante orchestre assemblate e dirette da Corelli, nonché, verosimilmente impegnate nell’esecuzione di sue musiche (strumentali, quelle vocali erano sempre di altri autori). Subito un accenno alle dimensioni di queste orchestre. Noto è il libretto dell’Accademia per musica di Bernardo Pasquini eseguita nel palazzo della Regina Cristina di Svezia nel 1687 dal quale si desume che Corelli fu «Capo delli istrumenti d’arco in numero di centicinquanta» (a completare l’elefentiasi di questa manifestazione concorsero i «Chori di cento Musici»). La testimonianza è tanto importante quanto sorprendente; purtroppo non è sorretta da opportune prove documentarie tali da renderla definitivamente accettabile. Anche se Cristina di Svezia non fu aliena da simile bizzarra grandeur, resta il sospetto che le cifre siano genericamente indicative della sontuosità della festa ma non corrispondano necessariamente all’esatta realtà dei fatti. In ogni caso, tanto presso i cardinali Pamphilj et Ottoboni quanto per le feste dell’Accademia di San Luca le orchestre corelliane non raggiunsero queste clamorose dimensioni. Per una «Cantata in Giardino, 9 agosto 1694» (per il cardinale Ottoboni) Corelli utilizzò settanta esecutori (sessantasette riportati nella lista cui vanno aggiunti senz’altro lo stesso Corelli in veste di direttore-esecutore, l’allievo-amico Matteo Fornari ed il violoncellista Giovanni Lorenzo Lulier tutti e tre regolarmente al servizio del cardinale e quindi automaticamente impegnati senza bisogno di essere inseriti in lista); per tre esecuzioni dell’oratorio La Giuditta al Seminario Romano (marzo 1695; testo: Ottoboni, musica: Alessandro Scarlatti) l’orchestra oscillò fra i cinquantasette ed i sessantacinque elementi; per l’oratorio S. Maria Maddalena de’ Pazzi (testo: Pamphilj, musica: Giovanni Lorenzo Lulier) eseguito nel giugno 1687 nel palazzo Pamphilj al corso, l’orchestra raggiunse i sessanta elementi. Poche altre volte, tuttavia, i complessi corelliani raggiunsero o superarono le cinquanta unità: assai frequente è l’organico compreso fra i diciassette ed i trentatre esecutori. […] Veniamo alla questione della presenza di strumenti a fiato nelle orchestre corelliane. Delle sessantatre liste qui prese in esame diciotto comprendono, accanto agli archi, due o più trombe, quattro includono due trombe e un trombone, un paio di oboi, una un paio di flauti. Emergono in questo contesto le liste relative alle feste dell’Accademia di San Luca nelle

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quali sono sempre presenti due trombe e tra le quali ve ne sono due di quelle comprendenti due oboi e quella con i flauti. In sintesi: più di un terzo delle liste prese in esame documenta la presenza di fiati (soprattutto trombe) nelle orchestre di Corelli. […] L’odierna consuetudine, ormai la norma, di eseguire brani orchestrali di quest’epoca affidando la realizzazione del continuo al cembalo, sembrerebbe trovare una secca smentita ad esempio nel fatto che Corelli, come strumento polifonico da basso continuo, richieda quasi esclusivamente il liuto; e ciò anche se la massa degli strumenti dell’orchestra è decisamente notevole: ad esempio soltanto un liuto viene impiegato nell’orchestra per la già ricordata «Cantata in Giardino» che, come si disse, raggiunge i settanta elementi. In un altro caso, tuttavia, troviamo ben cinque liuti a sostenere un complesso di una cinquantina di esecutori assemblato per il «Concerto di Sua Santità nel Venire alle 40. hore in San Lorenzo in Damaso Febbraio 1690» (visita di Alessandro VIII all’apparato per le quarant’ore di S.Lorenzo nell’omonima chiesa annessa al palazzo della Cancelleria apostolica, residenza del cardinale Ottoboni). Questa preferenza per strumenti di esile sonorità lascia intuire come il gusto dell’epoca non avvertisse l’esigenza o la necessità della realizzazione del continuo nelle musiche per molti strumenti; il liuto era probabilmente impiegato (o, almeno, aveva modo di emergere) solo durante le sortite del concertino. Le liste corelliane richiedono il cembalo solo dodici volte (sette delle quali assieme al liuto) e per lo più in relazione ad esecuzione di musiche vocali drammatiche (oratorii, prove di opere, ecc.) dal che si può dedurre che esso veniva impiegato essenzialmente nell’accompagnamento dei recitativi di queste. Si potrebbe sospettare che i cembali venissero tanto poco richiesti perché vi erano in casa Ottoboni o Pampjhilj musicisti cui spettavano le mansioni di cembalista […] Fugano in realtà questo sospetto le liste relative alle orchestre assemblaste per l’Accademia di San Luca; qui musicisti stabili non ve ne sono e le liste rispecchiano fedelmente la struttura dell’orchestra così come venne impiegata: sette volte Corelli ingaggia un liuto, una sola volta liuto e cembalo […].

Gli Ospedali veneziani Fra la fine del Seicento e il Settecento si affermarono a Venezia i quattro Ospedali (Mendicanti, Pietà, Ospedaletto e Incurabili) come scuole musicali per le orfanelle ospitate. Al pari dei Conservatori napoletani, tali istituti non erano nati con una finalità musicale. Erano stati istituiti, al tempo delle crociate, come ostelli per i pellegrini. Poi si trasformarono in ricoveri per trovatelle. Nei programmi educativi la musica prese gradualmente il sopravvento. In epoca barocca la fama fu tale che spesso le famiglie nobili mettevano le figlie negli Ospedali a pagamento. Alla Pietà come negli altri tre ospedali della città, le ragazze erano divise in due categorie: figlie di coro o orfanelle filarmoniche e le altre figlie impegnate in corsi artigianali vari. L’organizzazione interna era estremamente rigida come si evince dal regolamento dell’Ospedaletto10:

Al rintocco dell’Ave Maria, scandito dalla campana della cappella, faceva eco nei dormitori delle figlie il suono della campanella della “settimaniera”, ovvero della figlia anziana settimanalmente delegata a fare le veci della priora in numerose incombenze. Mentr’ella intonava il Miserere, il De profundis e la Salve Regina, le figlie si abbigliavano rapidamente e a un secondo suono della campanella si recavano ordinatamente nell’oratorio per la prima preghiera. Al batter di mani della settimaniera facevano ritorno alle camerate e riassettati i letti e pulite le

10 Capitoli et ordini per il buon Governo del Pio Hospitale de Poveri derelitti appresso SS.Gio e Paolo. Consacrato alla gloriosa Vergine protettrice di detto Hospitale, Venezia, Antonio Tivani, 1704, riassunto da P.G.GILLIO in L’attività musicale negli Ospedali di Venezia nel Settecento: quadro storico e materiali documentari, Firenze, Olschki, 2006.

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stanze si applicavano immediatamente ai loro ordinari impegni di lavoro, non mancando di recitare contemporaneamente, ad alta voce, l’officio della Beata Vergine e l’officio dello Spirito Santo o il vespro dei defunti. Poi seguendo a due a due la croce portata dalla settimaniera, si recavano alla messa e a conclusione del rito riprendevano il lavoro fino all’ora di pranzo. Dopo aver recitato genuflesse un Pater noster e un’Ave Maria si portavano al refettorio intonando un salmo o un inno; il pasto era consumato in silenzio mentre la settimaniera o altra figlia leggevano ad alta voce pagine sacre o devozionali. Levatesi e recitato un Te Deum di ringraziamento, avevano infine una mezz’ora di riposo, da trascorrersi in “silenzio e quiete” prima di tornare ai laboratori. Senza interrompere il lavoro, nel tardo pomeriggio recitavano vespro e compieta della Beata Vergine, le litanie per i defunti e “di quanto in quando potendo qualche Laude o altra cosa spirituale”; obbligatori i sette salmi penitenziali in tempo di quaresima. A sera, una breve sosta nell’oratorio e poi la cena, con il medesimo rituale del pranzo e ancora orazioni; infine il ritorno ai dormitori ove prima del riposo la settimaniera aspergeva i letti d’acqua benedetta, recitando Miserere e De profundis. Nei giorni festivi, interrotte le ordinarie attività lavorative, la giornata era poi scontatamente e interamente dedicata alle funzioni di chiesa.

All’interno degli Ospedali nasceva uno spirito di “gruppo” favorito dall’intensa vita comunitaria, anche se potevano naturalmente insorgere anche rapporti di concorrenza. Una “solista” infatti, godeva di molti privilegi: camera da sola, stipendio giornaliero più alto, possibilità di dar lezioni private, il nome stampato sui libretti con la possibilità dunque di farsi conoscere maggiormente e magari ottenere qualche invito a esibirsi in villa, ovvero nei palazzi nobili, occasione per guadagnare assai bene, ma anche per avere incontri magari importanti ai fini di un matrimonio favorevole. Secondo alcune testimonianze, verso la metà del Seicento le ospiti erano circa 500; il numero risulta raddoppiato nei registri del 1738. Tra le due categorie sopra citate, risultano in minoranza le “figlie di coro”; le migliori dei corsi superiori dovevano garantire l’esercizio musicale della Cappella e un ricambio esecutivo. Secondo un regolamento di poco posteriore ai tempi di Vivaldi, l’organico della Cappella risultava formato da 18 cantanti, una decina di strumentiste per gli archi, 2 organiste e un paio di soliste. Tutti i sabati e le domeniche e nei giorni festivi si faceva musica nei quattro Ospedali dalle 4 del pomeriggio a poco dopo le 6. E il livello esecutivo era certamente alto, stando a molte testimonianze lasciate da illustri viaggiatori che ebbero occasione di assistere a qualche esecuzione. La differenza fondamentale rispetto ai Conservatori napoletani erano le prospettive che si offrivano alle giovani musiciste. Se infatti i Conservatori napoletani erano scuole maschili e quindi garantivano un futuro impiego ai musicisti formati, gli Ospedali, essendo solo femminili, non potevano fare altrettanto. Per motivi di decenza e di ordine pubblico le orchestre delle corti o delle istituzioni ecclesiastiche accettavano solo uomini; e pure nei teatri non era possibile ingaggiare donne. Una volta raggiunta la maggiore età per le virtuose veneziane non rimanevano che due strade: accasarsi e quindi rinunciare alla propria attività musicale

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oppure rimanere “illibate” nell’Ospedale stesso, diventare maestre e insegnare alle più giovani. Per le ragazze nobili c’era poi la possibilità di esibirsi nel chiuso dei loro palazzi. La reazione al tardo Barocco: il dilettantismo

Il Signor… è finalmente il più raffinato fra i musicisti attivi a… Egli è un artista eccezionale tanto al cembalo quanto all’organo e sino ad ora ho incontrato un solo musicista che possa competere con lui. Svariate volte ho ascoltato le esecuzioni di questo grand’uomo. Si resta stupiti della sua bravura e si può comprendere a stento come egli riesca ad incrociare mani e piedi in maniera così singolare e con tanta rapidità, a toccare note così distanti l’una dall’altra, a compiere salti così ampi sulla tastiera senza mai incorrere in una nota falsa o spostare il corpo nonostante il violento movimento. Questo grand’uomo costituirebbe la meraviglia del mondo intero se avesse un carattere più docile e non sottraesse la naturalezza alle sue composizioni con modi ampollosi e confusi e non ne offuscasse la bellezza con eccessivi artifici. Le sue composizioni sono di esecuzione troppo difficile, dal momento che egli giudica gli altri col metro della propria destrezza; egli chiede ai cantori e agli strumentisti di seguire con la gola e con gli strumenti quanto egli va facendo sulla tastiera. Ma ciò risulta impossibile. Egli indica minuziosamente sulla carta tutte le figure, ogni più piccolo abbellimento e tutto ciò che si può comunque intendere quando si ha conoscenza della prassi esecutiva; così facendo, non solo sottrae alle proprie composizioni la bellezza dell’armonia, ma rende impercettibile anche la linea del canto. Le voci s’intrecciano l’una con l’altra e vengono elaborate con pari difficoltà, sicché non si riesce a riconoscere quale sia la parte principale…11.

E’ un passo di un articolo pubblicato nel 1738 (ma era già stato edito l’anno prima) da Johann Adolf Scheibe (1708-1776) nella sua rivista «Der Critische Musicus». Un violento attacco alla musica del suo maestro, Johann Sebastian Bach: troppe difficoltà, una polifonia eccessivamente sviluppata tanto da far perdere tra le parti di uguale importanza la melodia principale e, infine, uno stile artificioso. Questa critica fu significativa di un segnale di cambiamento dei gusti musicali ravvisabile in modo sempre più accentuato a partire dagli anni Quaranta fino agli anni Sessanta del Settecento, con l’affermazione di un nuovo codice artistico denominato “stile galante”. Il ventennio che decretò il declino dell’epoca barocca fu contrassegnato da un profondo dibattito musicale che favorì varie forme di sperimentazione con la conseguente nascita di differenti stili ed esperienze. Lo stile galante non segnò interamente l’epoca, ma fu caratteristico di alcuni musicisti o di un particolare momento creativo di qualche compositore. Esso si poneva in maniera critica nei confronti del contrappunto. Si può ricordare, a questo proposito, che nell’Encliclopedia francese il contrappunto era stato trattato in maniera decisamente sbrigativa. Si puntava così al distacco dal contrappunto e verso una scrittura sfoltita a due o tre parti con una separazione netta fra il canto e l’accompagnamento. La tipologia tematica si accorciò, divenendo più riconoscibile e apprezzabile nell’immediato; le 11 ALBERTO BASSO, Frau musika, la vita le opere di J. S. Bach, vol. 1, Edt/Musica, Torino 1979, p. 50.

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frasi musicali furono inquadrate in una maggiore simmetria; la ritmica tese a una regolarità strofica privilegiando le danze con tempi di minuetto, gavotta, polacca, giga, maggiormente conosciute dal pubblico. Tramontata l’epoca del basso continuo, in quanto eccessivamente complesso, nacquero altri tipi di accompagnamento tra cui il “basso albertino”, che ebbe molta fortuna. D’altra parte la melodia poteva essere abbellita con trilli, mordenti, gruppetti, appoggiature superiori e inferiori. Nel giro di breve tempo furono pubblicati numerosi trattati, fra cui il Versuch einer Anweisung, die Flöte traversiere zu spielen (1752) di Johann Joachim Quantz dedicato al flauto, il Versuch über die wahre Art das Clavier zu spielen (prima parte, 1753, seconda, 1762) di Carl Philipp Emanuel Bach indirizzato alla tastiera, e infine il Versuch einer gründlichen Violinschule (1756) di Leopold Mozart, rivolto agli archi. Nel suo trattato Versuch über die wahre Art das Clavier zu spielen, (Saggio sulla vera arte di suonare gli strumenti a tastiera) Carl Philipp Emanuel Bach si rivolse in modo preminente al clavicordo, proprio perché più consono per la sua espressività a una esecuzione “sentimentale”. Nel capitolo sulla diteggiatura Emanuel utilizzò l’uso che il padre faceva del pollice, inserendo moltissimi particolari importanti e senza abbandonare del tutto l’abitudine di Johann Sebastian di passare il terzo dito sul quarto. Inoltre, nel capitolo riguardante gli abbellimenti e gli ornamenti egli indicò in modo prezioso e preciso il modo di risolvere i vari trilli, mordenti, gruppetti. Infine, nel trattare i problemi legati all’esecuzione, Carl Philipp Emanuel espresse il suo credo artistico: la bravura tecnica non era considerata sufficiente per una perfetta interpretazione della musica. Egli riteneva, infatti, che l’esecutore dovesse saper comunicare al suo uditorio in primissimo luogo il contenuto emotivo dell’opera:

In che consiste, dunque una buona esecuzione? In null’altro che nella facoltà di rendere l’orecchio, suonando o cantando, sensibile al vero contenuto espressivo di una composizione […] Un musicista non può commuovere gli altri se non è lui stesso commosso. E’ indispensabile per lui sentire tutte le emozioni che spera di far nascere nei suoi ascoltatori, perché in tal modo la rivelazione della sua sensibilità stimolerà negli altri una sensibilità simile […]12.

Vale la pensa notare che l’affermazione di Carl Philipp Emanuel relativa alla necessità di essere “interpreti” sensibili rimanda a quanto aveva scritto nel 1602 nelle sue Nuove musiche Giulio Caccini a proposito dei cantanti. In generale i trattati tendevano a professionalizzare il musicista esecutore, ma grazie alle loro caratteristiche si rivolgevano anche ai sempre più numerosi dilettanti. All’epoca, infatti, vi era stato il boom dell’editoria musicale rivolta non più soltanto alla nobiltà ma alla borghesia in via di affermazione. Per questo motivo nelle raccolte di sonate e concerti la “facilità” divenne un requisito molto importante tanto che alcuni cataloghi editoriali indicavano a fianco ai titoli i livelli di “facile”, “molto facile”, “semifacile”. Nacque una specie di “sonatismo delle dame”: nel 1749 Nichelmann pubblicò Brevi sonate da cembalo ad uso di chi ama il cembalo, massime delle dame. Un altro termine che comparve sempre più frequentemente sui frontespizi delle 12 G. PESTELLI, L’età di Mozart e di Beethoven, op. cit., pp. 274-276.

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opere musicali dell’epoca fu quello di “conversazione”. Nel 1760 nella prefazione alla sua raccolta di Sonate op. 7 il compositore inglese Charles Avison (1709-1770) paragonò le sue pagine a

una conversazione fra amici, fra poche persone di medesime opinioni che si scambiano sentimenti comuni solo per amore di varietà e per ravvivare la compagnia13.

Il dilettantismo costituì l’aspetto principale di questa fase. Accanto ai virtuosi dei singoli strumenti, nacque la figura dello strumentista per divertimento, per hobby. E questo favorì, appunto, non solo la pubblicistica “facile” (come si è detto), ma anche la pubblicazione di metodi di studio e naturalmente la proliferazione dei “maestri” privati. Questo fenomeno non rimase limitato alla metà del Settecento, ma si sviluppò anche in epoche successive. Nell’Ottocento, ad esempio, non pochi giornali pubblicavano come inserto spartiti ad uso dilettanti: canto e pianoforte, pianoforte, violino e pianoforte, ecc. Due consigli d’autore Una lettera di Tartini Maddalena Laura, nata Lombardini fu cantante, violinista e compositrice. Nacque probabilmente a Venezia intorno al 1735, mentre sulla data di morte vi è disparità di opinioni. Il DEUMM (Dizionario Enciclopedico della Musica e dei Musicisti) la fissa intorno al 1799, altri studiosi14 intorno al 1785. Proveniva da una famiglia aristocratica caduta in miseria e all’età di 8 anni, entrò all’Ospedale dei Mendicanti nella sua città. Nel 1759 cominciò a prendere lezioni da Giuseppe Tartini, il quale le inviò il 5 marzo 1760 una lettera nella quale descriveva i princìpi basilari del proprio metodo didattico: un documento sulla tecnica violinistica che fu pubblicata nel 1770 a Venezia dopo la morte del grande violinista con il titolo Lettera del defunto signor Giuseppe Tartini alla Signora Maddalena Lombardini inserviente ad una importante lezione per i suonatori di violino. Vale la pena riportarlo nella sua integrità15.

Finalmente, quando a Dio è piaciuto, mi sono sbrigato da quella grave occupazione, che fin qui mi ha impedito di mantenerle la mia promessa, sebbene anche troppo mi stava a cuore, perchè di fatto mi affliggeva la mancanza di tempo. incominciamo dunque con il nome di Dio per lettera, e se quanto qui espongo ella non intende abbastanza, mi scriva, e dimandi spiegazione di tutto ciò che non intende. Il di lei esercizio, e studio principale deve essere l'arco in genere, cosicchè ella se ne faccia padrona assoluta a qualunque uso o sonabile o cantabile. Primo studio deve essere l'appoggio dell'arco sulla corda e siffattamente leggero, che il primo principio della voce, che si cava, sia come un fiato e non come una percossa sulla corda. Consiste in leggerezza di polso e in proseguir subito l'arcata dopo l'appoggio leggero rinforzandola quando si vuole perché dopo l’appoggio leggero non vi è più pericolo di asprezza e crudezza.

13 G.PESTELLI, L’età di Mozart e di Beethoven, op. cit., p. 10. 14 P.ADKINS CHITI, Donne in musica, Bulzoni ed. Roma 1982, 15 L’originale della lettera è conservato presso la sezione di Pirano dell’Archivio Regionale di Capodistria.

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Di questo appoggio così leggero ella deve farsi padrona in qualunque sito dell'arco; sia in mezzo, sia negli estremi e deve esserne padrona con l'arcata in su e con l'arcata in giù. Per far tutta la fatica in una sola volta s'incomincia dalla messa di voce sopra una corda vuota, per esempio sopra la seconda ch'è alamire. S'incomincia dal pianissimo crescendo sempre a poco alla volta sin che si arriva al fortissimo; e questo studio deve farsi egualmente con l'arcata in giù e con l'arcata in su. Ella incominci subito questo studio e si spenda almeno un'ora al giorno, ma interrotta; un poco la mattina, un poco la sera; e si ricordi bene che questo è lo studio più importante e difficile di tutti. Quando sarà padrona di questo, le sarà allora facile la messa di voce che incomincia pianissimo, va al fortissimo e torna al pianissimo, nella stessa arcata: le sarà facile e sicuro l'ottimo appoggio dell'arco sulla corda e potrà fare col suo arco tutto quello che vuole. Per acquistare poi quella leggerezza di polso da cui viene la velocità dell'arco, sarà ottima cosa che suoni ogni giorno qualche fuga del Corelli tutta di semicrome e queste fughe sono tre nell'op.V a violino solo, anzi la prima e nella prima Sonata per Dlasolre16. Ella a poco alla volta deve suonarla, sempre più presto fin che arrivi a suonarle con quella tal velocità che le sia più possibile. Ma bisogna avvertire due cose: prima, di suonarle con l'arco distaccato cioè granite e con un poco di vacuo tra una nota e l'altra. Sono scritte nel modo seguente

Ma si devono suonare come fossero scritte

Seconda, di suonarle in punta d'arco nel principio di questo studio, ma poi quando è padrona di farle bene in punta d'arco, allora cominci a farle non più in punta, ma con quella parte d'arco ch'è tra la punta e il mezzo dell'arco; e quando sarà padrona anche di questo sito dell’arco allora le studi nello stesso modo in mezzo all'arco; e soprattutto in questi studi si ricordi d'incominciar le fughe ora con l'arcata in giù ora con l'arcata in su; e si guardi dall'incominciare sempre per l'in giù. Per acquistar questa leggerezza d'arco giova infinitamente il saltar una corda di mezzo e studiar fughe di semicrome fatte in questo modo

16 Tartini usa qui indicazioni delle note secondo la solmisazione, sistema che è ancora in uso a metà Ottocento nelle partiture. Perciò la prima sonata di Corelli per Dlasolre va intesa come tonalità di RE. Quando invece parla di note specifiche, bisogna sempre tener conto delle maiuscole o minuscole; perciò Gsolreut è Sol2, Csolfaut è Do3 (do centrale), d(e)lasolre - la vocale viene aggiunta per evitare le due consonanti attaccate è Re3, alamire è La3. L'accordatura del violino è Sol2-Re3-La3-Mi4.

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ecc. di questa ella se ne può fare a capriccio quanto vuole e per qualunque tuono e veramente sono utili e necessarie. Rispetto poi alla mano del manico una cosa sola le raccomando di studiare, la quale basta per tutte ed è questa. Prenda qualunque parte di violino o primo o secondo; sia di concerto, sia di qualche messa o salmo, ogni cosa serve. Ponga la mano non a suo luogo, ma a mezza smanicatura, cioè col primo dito in Gsolreut sul cantino e tenendo sempre la mano in tale smanicatura suoni tutta quella parte del violino non muovendo mai la mano da quel sito se non che o quando dovrà toccar alamirè su la quarta corda o dovrà toccar delasolre sul cantino, ma poi torni con la mano alla stessa smanicatura di prima. Nè mai al luogo naturale. Ella faccia questo studio fin che è sicura affatto di suonar qualunque parte di violino (non obbligato a soli) a prima vista. Allora tiri innanzi la sua smanicatura in alamirè col primo dito sul cantino e faccia in questa seconda smanicatura lo stesso stessissimo studio fatto su la prima. Divenuta sicura anche di questa, passi alla terza smanicatura col primo dito in Bmi sul cantino e se ne assicuri nello stesso modo. Assicurata passi alla quarta col primo dito in In Csolfaut sul cantino; e in somma questa è una scala di smanicature, di cui quando ella se ne sia fatta padrona, può dire di esser padrona del manico. Questo studio è necessario e glielo raccomando. Passo al terzo ch 'e il trillo. io da lei lo voglio tardo, mediocre e presto, cioè battuto adagio, mediocremente e prestamente ; e in pratica si ha vero bisogno di questi trilli differenti, non essendo vero che lo stesso trillo che serve per un grave debba esser lo stesso trillo che serve per un allegro. Per far due studi in una volta con una sola fatica, ella cominci sopra una corda vuota, sia la seconda, sia il cantino, ch'è tutt'uno, un'arcata sostenuta come una messa di voce e incominci il trillo adagio adagio e a poco alla volta per gradi insensibili lo vada riducendo al presto, come vede qui nell'esempio

Ma ella non istia a rigore su questo esempio, in cui dalle semicrome si passa immediatamente alle biscrome e da queste alle altre che vagliono la meta ecc. no, questo sarebbe salto e non grado; me ella s'immagini che tra le semicrome e le biscrome vi siano altre note in mezzo che vagliono meno delle semicrome e più delle biscrome, ma che partendosi dalle semicrome siano di valore prossimo alle semicrome e secondo che vanno innanzi sempre più vadano avvicinandosi al valore delle biscrome, finche arrivano ad esser vere biscrome e cosi a proporzione tra le biscrome e le successive che vagliono la metà. Questo studio lo facchia con assiduità e attenzione e assolutamente lo incominci sopra una corda vuota, perchè s'ella arriverà a farlo bene sopra una corda vuota, molto meglio lo farà col secondo, col terzo dito e anche col quarto su cui bisogna far esercizio particolare, perchè è il più piccolo de' suoi fratelli. Null'altro per ora le propongo da studiare; ma questo basta e avanza quando ella voglia dir da senno per la sua parte come io le dico per parte mia. Mi risponderà se ha ben inteso quanto qui le ho proposto; e intanto rassegnandole i miei rispetti, come la prego di far per mia parte alla Sig.ra Priora, alla Sig.ra Teresa e Chiara tutte mie padrone mi confermo sempre più Di V.S. mol.Illustre Devotis.Affettuosis. Servitore Giuseppe Tartini

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Una lettera di Beethoven Il 15 novembre 1815 morì Carl Caspar Beethoven, fratello di Ludwig.. Nel suo testamento Carl affidò il figlio alla tutela di Ludwig e della moglie. Questo avvenimento cambiò la vita del musicista che nei cinque anni successivi fu sensibilmente preso dalle controversie legali contro la cognata (da lui odiata, sprezzantemente definita “la regina della notte” per la sua condotta ritenuta “amorale”) e dalla preoccupazione di crescere nel modo migliore (per lui) il nipote Karl. Karl aveva allora 9 anni e qualche anno dopo avrebbe persino tentato il suicidio, schiacciato dalle controversie familiari. Naturalmente Ludwig avocò a sé il diritto di occuparsi dell’educazione del nipote. E lo affidò per lo studio del pianoforte al suo ex allievo Carl Czerny al quale indirizzò fra il febbraio e il marzo 1816 una interessante lettera con alcune raccomandazioni sulla didattica che vale la pena leggere17:

La prego di essere il più paziente possibile con Karl anche se forse, per il momento, non progredisce come Lei e io vorremmo, altrimenti egli renderà ancora meno, dato che (ma questo non bisogna farglielo sapere) a causa dell’orario infelice delle lezioni è già sottoposto ad uno sforzo eccessivo; purtroppo non si può fare nulla al riguardo per ora, perciò lo tratti quanto più amorevolmente, ma con fermezza; vedrà che le cose andranno allora meglio, malgrado queste circostanze così sfavorevoli per K. Quanto alle sue esercitazioni musicali con Lei, non appena si sia impadronito a dovere della diteggiatura e sappia rispettare il tempo e suonare le note più o meno correttamente, La prego di fargli osservazioni soltanto per quanto riguarda l’interpretazione; e una volta che sia arrivato a questo punto, non lo interrompa ad ogni piccolo errore, ma glielo faccia notare soltanto alla fine del brano; sebbene io abbia dato poche lezioni, ho però sempre seguito questo metodo, esso forma rapidamente dei musicisti, il che, dopo tutto, è uno degli scopi principali dell’arte, ed è meno faticoso, sia per il maestro, sia per l’allievo. In certi passaggi come

Vorrei che usasse qualche volta tutte le dita e anche nei passaggi come

In modo che si possano effettuare i legati; certo in questi passaggi si ottiene un suono, come si dice, “perlato (solo con alcune dita) o come una perla” soltanto che qualche volta uno desidera anche altri gioielli. Le dirò di più un’altra volta. Spero che Lei accolga tutti questi suggerimenti con lo stesso spirito amorevole con cui glieli ho formulati e con cui vorrei che fossero interpretati. A parte ciò, io sono e resterò ancora Suo debitore…

Virtuosismo & interpretazione Venendo a parlare dei professionisti, è difficile separare nel corso della storia la figura dello strumentista da quella del compositore.

17 L.V.BEETHOVEN, Epistolario, op. cit., vol.IV, pp. 273-274.

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Diverse le cause. In primo luogo il fatto che almeno fino al romanticismo, era valsa l’usanza di eseguire solo musiche del tempo, dimenticando il passato. La maggior parte dei grandi strumentisti che conosciamo, inoltre, è stato anche compositore, magari specializzato nello strumento studiato e praticato. Se si pensa ai violinisti, Corelli e i suoi allievi, Tartini, Rode, Kreutzer, Paganini sono stati eminenti compositori nel loro campo e hanno parallelamente svolto una carriera esecutiva. In alcuni casi come interpreti esclusivamente della loro opera: si pensi a Paganini che quasi mai suonò musiche di altri. Ci sono anche casi diversi: ricordiamo oggi Camillo Sivori (l’unico allievo riconosciuto da Paganini) più per i meriti acquisiti in campo interpretativo (fu uno dei maggiori violinisti del secondo Ottocento) che per le sue composizioni, ma , in realtà, era compositore e violinista. E del resto con Sivori si entra già in un’ottica diversa, quella dell’interprete del secondo Ottocento che punta su un repertorio più ampio non chiudendo al passato (in questo fu Liszt il grande apripista con la creazione del recital moderno). Analogamente in campo pianistico da Mozart a Beethoven, da Clementi ai romantici fino al Novecento storico, i grandi esecutori erano anche autori. Così come autori erano i grandi virtuosi di altri strumenti: pensiamo a Giuliani (chitarra) o a Bottesini (contrabbasso). Accanto ai compositori-interpreti, tuttavia, crebbe nell’Ottocento la schiera di strumentisti professionisti, richiesti dall’evoluzione della tecnica che obbligava a mettere da parte esecuzioni “dilettantistiche” o familiari per puntare su un professionismo reale (al di fuori del contributo diretto che potevano continuare a dare, naturalmente, i compositori stessi).

Le opere beethoveniane, gli ultimi quartetti, per dire – ha scritto Giorgio Graziosi18 - si ponevano fuori dalle possibilità di un’esecuzione sodale o familiare, ma richiedevano l’intervento di agguerriti e affiatati strumentisti. Risalgono proprio alla Vienna del 1800-20 con J. Schuppanzig, la costituzione di un quartetto in senso moderno e le sue prime sedute a carattere pubblico. Ancora nel 1853 Liszt in una lettera a Richard Pohl scriveva che il Beethoven dell’ultimo periodo «richiede alle orchestre un progresso ancora lontano, progresso nell’intonazione, nella ritmica, nel fraseggio, nella declamazione, nel chiaroscuro, in una parola un progresso nello stile dell’esecuzione stessa». Per lo stesso ordine di considerazioni non era pensabile che l’orchestra della berloziana Sinfonia fantastica o che una rappresentazione del Lohengrin per non andar oltre potessero fare affidamento su elementi orchestrali più o meno raccogliticci e fossero governati da chi era più esperto nel maneggio dell’arco che della bacchetta. Analogamente il trascendentalismo strumentistico di un Paganini o di un Liszt recise senza scampo i sussistenti legami tra concertismo e dilettantismo anche se quest’ultimo copiosamente fiorì e rifiorì lungo l’Ottocento sotto altre forme e con altre finalità, soddisfacendo soprattutto l’ardente sete di musica e l’interesse verso la “regina delle arti” che caratterizzarono il secolo romantico.

L’interpretazione musicale

18 G. GRAZIOSI, Interpretazione musicale, in DEUMM, Dizionario Enciclopedico Universale della Musica e dei Musicisti, diretto da Alberto Basso, Il Lessico, vol. II, p.542.

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Il problema centrale dell’interpretazione musicale è legato a un quesito di cui non è facile dare una risposta univoca. L’esecutore musicale è o non è un creatore? Se non è un creatore, il suo apporto deve rimanere strettamente nell’ambito tecnico: la risoluzione dei problemi che la scrittura comporta nella più asettica chiarificazione dei segni grafici lasciati dall’autore Se è un creatore, invece, ci deve mettere del suo, nel senso che i segni grafici vengono “riletti” attraverso la sensibilità, la cultura dell’esecutore che aggiunge la propria personalità a quella del compositore. In questo senso l’opera musicale è sempre un’opera “aperta”: proprio perché tra l’ascoltatore e il compositore deve esserci un intermediario (l’interprete) per quanto l’autore si sforzi di essere rigorosamente preciso nelle sue indicazioni e per quanto l’esecutore si sforzi di fare altrettanto al momento della lettura, il suo apporto non potrà mai essere asettico.

Infatti – ha scritto Graziosi19 – interpretare la musica consegue da tre movimenti successivi (idealmente successivi): il momento filologico, ricognitivo, apprendimento puro e semplice del testo n(fase di lettura, decifrazione della partitura, ecc.), momento che ha accento di passività e oggettività; su questo si fonda, elevandovisi, il momento critico-estetico (rinvenimento dei valori assoluti e relativi dell’opera e creazione del progetto sonoro di essa), fase in cui entrano in gioco gli innumerevole e imponderabili fattori delle singole personalità interpretative e quindi a forte preponderanza soggettiva. […] Interviene infine il momento cruciale: ossia la realizzazione del progetto sonoro, reso possibile da una tecnica quanto mai elaborata e anch’essa personalissima.

Alfred Cortot Nato a Nyon nella parte di lingua francese della Svizzera, Alfred Cortot (1877 –1962) studiò al Conservatorio di Parigi con Emile Decombes, che a sua volta fu allievo di Fryderyk Chopin, e che ebbe fra i suoi allievi anche Maurice Ravel. Con Louis Diémer, ottenne un premier prix al termine degli studi di conservatorio nel 1896. Debuttò al Concerts Colonne nel 1897, suonando il Terzo Concerto per pianoforte di Beethoven. Tra il 1898 ed il 1901 fu direttore di coro e poi assistente alla direzione del Festival di Bayreuth e nel 1902 diresse la prima parigina del Götterdämmerung di Wagner. Formò una società di concerti per poter eseguire il Parsifal di Wagner, la Missa solemnis di Beethoven, il Requiem tedesco di Johannes Brahms e opere di compositori francesi. Nel 1905, Cortot formò un trio con Jacques Thibaud e Pablo Casals, che divenne in breve uno dei trii più importanti dell'epoca. Dal 1907 al 1923 Cortot insegnò al Conservatorio di Parigi e tra i suoi allievi vi furono Clara Haskil, Dinu Lipatti e Vlado Perlemuter. Nel 1919 fondò l'Ecole Normale de Musique a Parigi, dove tenne leggendari corsi di interpretazione musicale. Come pianista, si è recato in tournée in tutto il mondo, dirigendo come ospite anche molte orchestre. Durante la seconda guerra mondiale sostenne il Regime di Vichy in Francia e si esibì in concerti organizzati dai nazisti. Ciò lo portò ad essere dichiarato persona

19 G. GRAZIOSI, op. cit., p. 544

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non grata dopo la fine della guerra, tanto che gli fu vietato di esibirsi in pubblico per un anno. Come pianista, Cortot era particolarmente famoso per le sue interpretazioni di Fryderyk Chopin, Robert Schumann e Franz Liszt, e contribuì alle edizioni (e revisioni) delle loro opere, corredandole di meticolosi commenti. Come concertista Cortot rimase famoso per la sua "imperfezione" che lo portava a suonare spesso note sbagliate. Persino nelle sue registrazioni si avvertono imprecisioni, cosa in assoluto contrasto con le idee del suo impeccabile studente, Dinu Lipatti. Tuttavia Cortot grazie al dono naturale di una sublime sensibilità interpretativa (fra le più raffinate del secolo scorso) fu in grado di incantare ugualmente il pubblico con esecuzioni affascinanti ed emozionanti. Cortot è considerato uno dei più grandi musicisti del secolo scorso e probabilmente rappresentò la fine di un'era, dal momento che è considerato l'ultimo esponente di una corrente di pensiero che prediligeva uno stile personale e soggettivo ad una tecnica precisa, con lo scopo di favorire un'interpretazione intuitiva ed autentica. Le incisioni di Cortot costituiscono anche per tale motivo documenti di grande valore. Cionondimeno Cortot, specie sotto l'aspetto "pubblicitario" e manageriale (svolse sino agli ultimi anni di vita un'intensa attività concertistica in tutto il mondo, i suoi Corsi parigini e senesi erano preceduti e seguiti da imponenti battage e pubblicazioni), risulta anche una figura in anticipo sui tempi. Daniel Barenboim Nato a Buenos Aires da genitori russi di origini ebraiche, Daniel Barenboim (1942) ha anche nazionalità israeliana, spagnola e palestinese. Pianista precocissimo, esordì a sette anni nella sua città natale e si perfezionò prima con Claudio Arrau e poi all'estero a Roma, Salisburgo, Parigi e con Edwin Fischer a Lucerna. Ha affiancato una prestigiosa carriera internazionale come pianista (in recital solistici, con orchestra e in formazioni cameristiche) ad una brillante carriera di direttore d'orchestra, che attualmente rappresenta la parte principale della sua attività e che lo ha portato a dirigere le maggiori orchestre del mondo. Come pianista, è affermato interprete di Mozart (di cui ha inciso varie volte l'intero corpus delle sonate e dei concerti per pianoforte e orchestra, come pianista e direttore) e Beethoven (del quale ha inciso l'integrale delle 32 sonate). L'esecuzione di Berlino nel 2006 dell'integrale delle sonate per pianoforte di Beethoven è stata registrata in un cofanetto di 6 Dvd dalla Emi, allegato al quale è presentata la registrazione di una serie di lezioni pubbliche, tenute dal maestro a Chicago, ad alcuni giovani pianisti (tra cui Lang Lang). Nel corso del 2007, Barenboim ha riproposto l'integrale delle sonate beethoveniane presso il South Bank Centre di Londra e il Teatro alla Scala di Milano. Come direttore, è specialista del repertorio tardo-romantico e del repertorio operistico (Mozart, Wagner). In formazioni da camera, ha suonato con importanti solisti, tra cui la moglie, la violoncellista Jacqueline du Pré, sposata a Gerusalemme nel 1967 e scomparsa nel 1987. Nel 1988 ha sposato Elena Dmitrievna Baškirova. Ha debuttato come direttore con la New Philharmonia Orchestra di Londra nel 1967. Dal 1975 al 1989 è stato Direttore Musicale dell'Orchestre de Paris.

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Nel 1991 è diventato direttore musicale della Chicago Symphony Orchestra, carica mantenuta per quindici anni. Nel giugno 2006, è stato nominato "direttore onorario a vita". Nel 1992 è diventato Direttore Musicale Generale della Staatsoper Unter den Linden di Berlino. Nel 2000, la Staatskapelle Berlin lo ha nominato Direttore Principale a vita. Nel 1999, insieme allo scrittore Edward Said, ha fondato la West Eastern Divan Orchestra, formata da musicisti israeliani e palestinesi, di cui è direttore musicale. Dirige regolarmente i Berliner Philharmoniker, i Wiener Philharmoniker e l'Orchestra filarmonica d'Israele. Dalla stagione 2007-2008 ha assunto, iniziando un rapporto stabile di cinque anni e succedendo a Riccardo Muti, la carica di 'Maestro scaligero' del Teatro alla Scala di Milano. Nel 2011 ha assunto il ruolo di direttore musicale della Scala. Riflessioni di Daniel Barenboim

Oggigiorno la musica è una presenza cacofonica nei ristoranti, negli aeroporti, sugli aerei e in situazioni analoghe, ma proprio questa onnipresenza costituisce il maggior ostacolo all’integrazione della musica nella nostra società. Nessuna scuola eliminerebbe mai dai suoi programmi lo studio della lingua,m della matematica o della storia, invece lo studio della musica che pure svolge sotto tanti aspetti ognuno di questi campi e può addirittura contribuire a una loro maggiore comprensione, spesso viene del tutto trascurato20.

Anche in musica, intelletto ed emozione sono strettamente legati, tanto per il compositore quanto per l’interprete. La percezione razionale e quella emotiva non sono in conflitto fra loro, anzi ciascuna guida l’altra, al fine di ottenere un equilibrio della comprensione in cui l’intelletto determina la fondatezza della reazione intuitiva e l’elemento emotivo offre a quello razionale una sensibilità che umanizza l’insieme. Alcuni musicisti cedono alla convinzione superstiziosa che un eccesso di analisi di un brano musicale possa distruggere la qualità intuitiva e la libertà della sua esecuzione, confondendo la conoscenza con la rigidità e dimenticando che la comprensione razionale non solo è possibile ma è assolutamente necessaria perché l’immaginazione abbia campo libero21.

Joseph Szigeti Nato in una famiglia di musicisti ungheresi Joseph Szigeti (1892-1973), trascorse i primi anni di vita in una piccola città della Transilvania. Diede presto prova di essere un bambino prodigio al violino, e si trasferì a Budapest con il padre per studiare col rinomato Maestro Jenő Hubay. Dopo aver completato i suoi studi con Hubay in giovane età iniziò la sua carriera concertistica internazionale. Le sue esibizioni all'inizio erano soprattutto di musica da salotto e più raramente brani virtuosistici, tuttavia dopo aver conosciuto il pianista Ferruccio Busoni ha iniziato a sviluppare un approccio molto più riflessivo e intellettuale alla musica che alla fine gli è valso il soprannome di "dotto virtuoso". In seguito a un attacco di tubercolosi fu costretto a un periodo in un sanatorio in Svizzera Szigeti si stabilì a Ginevra dove divenne Maestro di violino al

20 D.BARENBOIM, La musica sveglia il tempo, Feltrinelli, Milano 2007, p.9. 21 D.BARENBOIM, op. cit.,pp.48-49

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conservatorio locale nel 1917. Fu a Ginevra che incontrò la sua futura moglie, Wanda Ostrowska, e approssimativamente nello stesso periodo divenne amico del compositore Béla Bartók. Dal 1920 al 1960, si esibì in tutto il mondo. Si distinse anche come un forte sostenitore della nuova musica, ed era il dedicatario di numerose nuove opere di compositori contemporanei. Tra i pezzi più importanti scritti per lui vi sono il Concerto per violino di Ernest Bloch, la Rapsodia n. 1 di Bartók, e la sonata n.1 di Eugène Ysaÿe. Dopo il ritiro dal palcoscenico nel 1960, ha lavorato come insegnante e scrittore fino alla sua morte, all'età di 80 anni. Joseph Szigeti, pensieri sul violino beethoveniano

In uno scritto sui problemi di esecuzione (American String Teacher, 1958 n.3) Paul Rolland molto giustamente richiama l’attenzione sulla differenza tra l’interpretazione oggi dominante, generalmente “piatta” e in un certo modo “conformista” delle Sonate di Beethoven e ciò che al riguardo sappiamo per esempio da Czerny sulle esigenze cioè della maniera di esecuzione di Beethoven stesso; a queste appartenevano fra l’altro alcuni “Ritardandi” e “Accelerando” non scritti e altre sfumature di espressioni “discorsive”. Secondo la testimonianza di contemporanei il modo di Beethoven di suonare il pianoforte spesso si concedeva “un tempo rubato” nel più vero senso della parola. Czerny scrisse sul modo di suonare di Beethoven: «poiché il suo modo di suonare, come le sue opere, precorreva notevolmente i tempi, i pianoforti di allora (fino al 1810) che erano ancora straordinariamente deboli e tecnicamente insufficienti non potevano adeguarsi al suo gigantesco stile di esecuzione». Il testo musicale scritto ai tempi di Beethoven non era assolutamente così sacrosanto come lo è oggi. Un fatto molto significativo sotto questo punto di vista ci viene riferito dal violinista George Bridgetower, un mulatto. Bridgetower suonava insieme con Beethoven la Sonata op. 47, la più popolare e in un certo senso la più accessibile delle dieci Sonate. […] Quando egli – così racconta Bridgetower – nel primo tempo all’inizio dell’esposizione attaccò col violino improvvisando l’arpeggio in do maggiore del pianoforte (battuta 18 del Presto) Beethoven scattò in pied, l’abbracciò ed esclamò: «Ancora una volta, mio caro ragazzo!». Ci si domanda di fronte al nostro attuale “snobismo del testo originale” che cosa avverrebbe ad un violinista che volesse prendersi una simile libertà22.

Un commentatore di questa registrazione, in poche parole, ha caratterizzato in modo giusto Bartok come interprete di Beethoven. Egli scrive: «Bartok suona come se avesse composto lui le Sonate». E un altro ci ricorda che Bartoik come egli stesso ha confermato, vedeva in Beethoven il suo “Maestro” e il suo modello nella tecnica di composizione. Perciò è evidente che Bartok ha una speciale affinità con la musica di Beethoven. «Sembra – dice questo critico – che Furtwängler sieda al pianoforte». Ma il modo di suonare di Furtwängler sarebbe stato certamente più soggettivo. Bartok raggiunge invece un equilibrio unico nel suo genere fra soggettività ed oggettività. Questo è certamente il significato della parola “un ricreatore” – cioè l’identificazione dell’interprete con le intenzioni spesso soltanto accennate – del compositore. Questa mi sembrava esser la meta di Bartok in tutte le prove che io feci con lui per la preparazione dei nostri concerti in comune. […] Credo che nessun uditore di questa registrazione possa sottrarsi al fascino della “maniera narrativa

22 J. ZSIGETI, Le opere per violino di Beethoven, Curci, Milano 1982, pp.17-18.

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dei bardi” di Bartok nell’Adagio sostenuto dell’introduzione e alla veemenza del susseguente Presto. (Se in qualche tempestoso passaggio occasionalmente egli sbaglia qualche nota l’uditore un poco comprensivo vedrà in ciò solo una prova dell’appassionato interesse di Bartok per gli essenziali elementi musicali di questo “brano sinfonico” per due strumenti). L’ascoltatore osserverà pure con quali spostamenti di tempo Bartok mantiene fluente l’andamento agogico delle variazioni ed evita ogni staticità. […] L’ultimo tempo nel suo andamento e nella sua scattante ritmica era visto da Bartok come un contrasto con tutto il resto dell’opera23.

Sergej Aleksandrovič Krylov Considerato da Rostropovich “uno dei più grandi talenti del nostro tempo”, Sergei Krylov, nato a Mosca da una famiglia di musicisti (1970), comincia lo studio del violino all'età di cinque anni con il maestro Volodar Bronin. A soli sei anni tiene il suo primo concerto pubblico. Prosegue i suoi studi con Sergej Kravschenko e Abram Stern alla Scuola Centrale di Musica di Mosca e, nel 1980, a soli dieci anni, debutta con l'orchestra con il Concerto in la minore di Johann Sebastian Bach. Affronta molto giovane i primi impegni concertistici di rilievo, ripetutamente in Russia, tra gli altri con Pavel Kogan е debutta con l'orchestra esibendosi in Russia, Cina, Polonia, Finlandia e Germania. Comincia ad incidere appena sedicenne (Concerto di Mozart K. 219) e registra trasmissioni per la radio e la televisione sovietica. Successivamente si perfeziona con il maestro Salvatore Accardo all'Accademia Stauffer di Cremona, fino a raggiungere fama internazionale. Nel 1994 il padre Alexander realizza per lui il violino che suona tuttora. Dal settembre 2012 è titolare di una cattedra di violino presso il "Conservatorio della Svizzera Italiana" a Lugano.

Il ballo - ha dichiarato Krylov - per me è stata una rivelazione: ho cominciato a studiarlo sei anni fa e ho partecipato anche ad alcune gare. Non c'è niente di meglio per tenere dritta la schiena e armonizzare i movimenti del corpo. Dopo aver imparato valzer e tango argentino, ho provato persino un po' di rock acrobatico, un'esperienza liberatoria.

23 J. SZIGETI, op. cit. pp.55-56. L’artista si riferisce alla registrazione effettuata con Bela Bartok della Sonata op. 47 di Beethoven in occasione del concerto tenuto il 13 aprile 1940 nella Library of Congress di Washington.