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ENNIO TRIGGIANI (a cura di) Le nuove frontiere della cittadinanza europea COLLANA DI STUDI SULLINTEGRAZIONE EUROPEA 3 E. TRIGGIANI (a cura di) Le nuove frontiere della cittadinanza europea

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ENNIO TRIGGIANI (a cura di)

Le nuove frontiere

della cittadinanza

europea

Collana di Studi Sull’integrazione europea

3

€ 48,00

E. TR

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ISBN 978-88-6611-055-2

In copertina:Ignoto del XV secolo (Francesco rosellI), Veduta di Napoli col ritorno della flotta aragonese, (Tavola Strozzi), particolare relativo a Castel Capuano

CACUCCIEDITORE

2011

Collana di Studi Sull’integrazione europea

3

ENNIO TRIGGIANI (a cura di)

LE NUOVE FRONTIERE DELLA

CITTADINANZA EUROPEA

proprIetà letterarIa rIserVata

© 2011 Cacucci Editore - BariVia Nicolai, 39 - 70122 Bari – Tel. 080/5214220http://www.cacucci.it e-mail: [email protected]

Ai sensi della legge sui diritti d’Autore e del codice civile è vietata la riproduzione di questo libro o di parte di esso con qualsiasi mezzo, elettronico, meccanico, per mezzo di fotocopie, microfilms, registrazioni o altro, senza il con-senso dell’autore e dell’editore.

La pubblicazione del presente volume è finanziata mediante i fondi della Ricerca Inter­universitaria dal titolo «Cittadinanza europea e diritti fondamentali nell’attuale fase del processo di integrazione», MIUR-PRIN 2007, prot. 2007ETKBLF, svolta dalle unità di ricerca delle Università degli Studi di Bari Aldo Moro, di Palermo, di Roma Tre e di Teramo. La Commissione europea contribuisce alla pubblicazione del presente volume mediante risorse attribuite a Europe Direct Puglia.

Un sentito ringraziamento per il prezioso lavoro redazionale a Valeria Di Comite, Micaela Falcone, Ivan Ingravallo, Giuseppe Morgese, Egeria Nalin, Angela Maria Romito.

INDICE

Presentazione del volumeennIo trIggIanI, Le nuove frontiere della cittadinanza europea IX

proFIlI generalI e polItIcI

MassIMo starIta, Democrazia e partecipazione politica nella giurispru-denza della Corte di giustizia dell’Unione europea 3

gIuseppe Morgese, Principio e strumenti della democrazia partecipativa nell’Unione europea 37

angela MarIa roMIto, Il mediatore europeo nel Trattato di Lisbona 61ValerIa dI coMIte, L’uguaglianza tra cittadini europei? Una nuova sfida

per un problema annoso 85gIoVannI cellaMare, I diversi regimi normativi applicabili all’ingresso

e al soggiorno degli stranieri nell’Unione europea in base alla cittadi-nanza degli stessi 111

IVan IngraVallo, La (fragile) dimensione esterna della cittadinanza eu-ropea 139

egerIa nalIn, Riforma della legge italiana sulla cittadinanza e diritto dell’Unione europea 161

MartIna guIdI, La rilevanza della cittadinanza ai fini dell’esecuzione del mandato d’arresto europeo 179

proFIlI econoMIcI e socIalI

gIandonato caggIano, La “filigrana del mercato” nello status di cittadino europeo 209

pIetro gargIulo, La cittadinanza sociale europea tra mito e realtà 229

VI Indice

rossana palladIno, I diritti di sciopero e di contrattazione collettiva nell’ordinamento europeo: il “cittadino lavoratore” tra logiche di mer-cato e tutela dei diritti sociali fondamentali 257

lara appIccIaFuoco, Lo status sociale dei cittadini europei economica-mente non attivi: una “cittadinanza sociale di mercato europeo”? 279

luIgI raIMondI, Circolazione degli studenti universitari e principio di non discriminazione nella recente giurisprudenza della Corte di giustizia 309

alFredo rIzzo, La disciplina comunitaria in materia previdenziale nell’in-terpretazione della Corte di giustizia: da strumento di tutela della circo-lazione dei lavoratori a strumento di tutela della circolazione dei citta-dini dell’Unione 333

MIcaela Falcone, La direttiva 2011/24 sulla mobilità dei pazienti alla luce della cittadinanza europea 363

Marco eVola, Adesione all’Unione europea della Turchia e condizione giuridica dei cittadini turchi nella giurisprudenza della Corte di giustizia 391

andrea rosenthal, La direttiva europea sui lavoratori altamente quali-ficati: elementi di cittadinanza sociale o di cittadinanza mercantile? 425

MarIa chIara VItuccI, Lo status di coppia omosessuale fra Strasburgo e Lussemburgo (passando per Roma) 447

andrea gratterI, La titolarità dei diritti sociali nelle Costituzioni euro-pee: cittadini e stranieri 469

Elenco delle abbreviazioni 489

Indice degli autori 491

presentazIone del VoluMe

ENNIO TRIGGIANI*

LE NUOVE FRONTIERE DELLA CITTADINANzA EUROPEA

1. Il futuro dell’Unione si gioca, in parte, sulla capacità espansiva della no-zione di cittadinanza europea. L’affermazione potrebbe apparire, a prima lettura, azzardata ma non è così e ritengo che questo volume, con le molteplici e com-plesse implicazioni che tale status giuridico comporta, sia in grado di evidenziare la fondatezza dell’assunto.

Dall’insieme dei saggi sembra, infatti, emergere, in altri termini, non solo che, grazie all’accentuazione dei profili normativi del concetto, è ipotizzabile il rafforzamento del processo d’integrazione ma anche che la portata della cittadi-nanza, nei suoi contenuti e nei connessi livelli interpretativi, ne costituisce una decisiva “cartina di tornasole” dello stato di salute.

è d’altronde significativo che dalla sua formale sanzione, avvenuta con il mai sufficientemente apprezzato Trattato di Maastricht del 1992, la cittadinanza dell’Unione ha caratterizzato con la propria “presenza” una rimarchevole evolu-zione di molteplici profili del relativo sistema.

Per meglio comprendere quanto appena affermato è necessario collocare lo status in questione nel complessivo “disegno” del processo d’integrazione euro-pea quale più palpabile espressione del “nuovo” diritto alla pace come progressi-vamente affermato a partire dalla Carta delle Nazioni Unite. è d’altronde noto che il diritto internazionale nasce invece, fra gli altri, come diritto della guerra per trovare una sua profonda trasformazione soprattutto nel secondo dopoguerra. Il divieto della guerra come mezzo di soluzione delle controversie, sancito nel 1945 a S. Francisco, trova infatti la sua traduzione reale ed effettiva nel diritto alla pace proprio con le Comunità europee, segnando la fine di ogni possibilità di conflitto militare fra i suoi membri.

In questo contesto va letto il necessario rapporto tra cittadinanza e identità, considerato che siamo culturalmente avvezzi a considerare strettamente legati i due concetti. Generalmente, la ricostruzione della “cittadinanza nazionale” av-viene sulla base delle sue “radici” – ma le origini spesso sconfinano nel “mito”

* Coordinatore scientifico del Progetto.

X Ennio Triggiani

– la cui ricerca non sempre è semplice e comunque connessa al comune sentire della relativa popolazione dal punto di vista culturale, linguistico, religioso, et-nico. Risulta evidentemente difficile trovare tali condizioni nell’intera Europa formata non a caso da “popoli” fra loro abbastanza diversificati sotto più profili a partire dalla “poligamia” linguistica. Peraltro, una stessa cittadinanza che acco-muna popoli diversi non è una novità se solo si pensa al civis romanus o, succes-sivamente, alla cittadinanza espressa dalle varie forme di assolutismo monar-chico soprattutto fra cinquecento e seicento. Certo, non mancano importanti tratti comuni, al di là della contiguità territoriale, a partire dall’impronta cristiana non a caso fonte di infinite polemiche derivanti dal mancato esplicito riferimento ad essa nei valori sanciti nei Trattati.

Non c’è comunque bisogno di ricorrere ad artifizi teorici per dimostrare l’e-sistenza di un “popolo europeo”, condividendo l’opinione di Habermas per cui l’esistenza di un demos non necessariamente precede il formarsi di una nuova comunità. Né si deve tentare di riscostruire un’identità europea nella logica di quella nazionale, resa solo più ampia, basandosi inevitabilmente su di un’omolo-gazione culturale che è il contrario della valorizzazione del pluralismo su cui si fonda l’integrazione. Invece, la cittadinanza europea contribuisce nel contempo a rafforzare le singole cittadinanze nazionali degli Stati membri e con queste si pone in rapporto di feconda interazione; sarebbe d’altronde impensabile un rap-porto di competizione con queste ultime considerato che tutte esprimono le mol-teplici “identità” che ciascuno di noi porta con sé nel proprio vivere quotidiano.

In realtà, l’approccio interpretativo necessario per affrontare correttamente le tematiche anche tecnico-giuridiche connesse con la nozione di cittadinanza euro-pea non può che essere sensibilmente diverso. Infatti, è preventivamente indi-spensabile cogliere la grande novità che essa comporta in quanto viene per la prima volta riferita ad una entità non statale che si fonda su di una “comunità di diritto”: è sulla sua natura e sulle ragioni della sua costruzione che va delineata la relativa identità.

Bisogna, quindi, partire certamente dalla storia dei popoli europei e delle loro vicende purché ciò avvenga attraverso la sottolineatura “innovativa” che le mille guerre e tragedie affastellate in abbondanza nella nostra memoria sono state so-stituite da sei decenni di pace e dal formale e concreto ripudio della guerra (anche se, purtroppo, con ripetute eccezioni verso Paesi terzi).

L’identità europea e la connessa cittadinanza si determinano, pertanto, nei valori alla base dell’integrazione e nella singolarità del suo processo di costru-zione. In ordine ai primi non ci si riferisce soltanto al corpo dei diritti civili e politici sanciti in una pluralità di atti (per ultima la Carta di Nizza come riaffer-mata nel Trattato di Lisbona), peraltro comuni a tutti i Paesi democratici occiden-tali, ma soprattutto a quelli economici e sociali che sono la migliore espressione di un modello sociale in grado di differenziarsi sensibilmente rispetto alle carat-teristiche tipiche delle società organizzate secondo i parametri del liberismo tra-dizionale. è questa la ragione per cui si è ritenuto in questa sede di dare ampio spazio, nel denunciarne peraltro i sussistenti limiti, ai profili più spiccatamente

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sociali del processo d’integrazione. Ed è su questi presupposti che un aspetto fondamentale della ricerca è consistito anche nell’individuazione dei beneficiari delle garanzie di cittadinanza con l’interrogativo se doversi limitare ai cittadini degli Stati membri ovvero valutarne l’opportunità d’estensione anche ai residenti o a tutte le persone che si trovino sotto la giurisdizione di uno di essi. Non può mai dimenticarsi, e ci si riferisce al secondo profilo di originalità, che ci troviamo di fronte ad una realtà giuridico-istituzionale di nuovo genere qualificabile come “Unione di Stati e di cittadini”, entrambi soggetti del relativo ordinamento, ide-ata e realizzata in proiezione squisitamente sovranazionale.

2. Su tale filo conduttore si sviluppano, quindi, i saggi contenuti in questo volume, risultato finale di un Progetto di Ricerca di Interesse Nazionale (PRIN) finanziato dal MIUR dal titolo Cittadinanza europea e diritti fondamentali nell’attuale fase del processo d’integrazione. è chiaro che l’obiettivo della ri-cerca è consistito sin dall’inizio nell’operare uno stretto collegamento fra centra-lità della nozione di cittadinanza nello sviluppo del processo d’integrazione e necessaria interazione con il progressivo rafforzamento dei diritti fondamentali. In altri termini, anche sulla base degli studi in precedenza effettuati singolar-mente da molti componenti dei gruppi di ricerca, si voleva verificare se la citta-dinanza, nelle sue varie espressioni, riuscisse a trovare un concreto rafforzamento grazie alla maggiore centralità del ruolo dei diritti fondamentali nel sistema dell’Unione.

L’analisi è stata condotta attraverso una ripartizione di compiti fra le quattro Unità di ricerca di Bari (Cittadinanza europea e diritti politici: problemi e pro-spettive, con il coordinamento del prof. Giovanni Cellamare), Palermo (Tutela dei diritti di cittadinanza tra Corte di giustizia e Corte europea dei diritti dell’uomo nell’attuale fase di sviluppo del processo di integrazione europea, con il coordi-namento dei proff. Maria Chiara Vitucci e Massimo Starita), Roma Tre (I diritti fondamentali nello Spazio di libertà, sicurezza e giustizia, con il coordinamento del prof. Giandonato Caggiano) e Teramo (Cittadinanza europea e diritti sociali fondamentali: contenuti e limiti della cittadinanza sociale europea, con il coordi-namento del prof. Pietro Gargiulo).

La ricerca ha prodotto numerosi risultati dal punto di vista di pubblicazioni e seminari fino a questo volume finale i cui diciannove saggi sono stati suddivisi, per affinità d’oggetto e comodità di lettura, in due grandi capitoli, Profili gene-rali e politici e Profili economici e sociali.

è agevole notare che fra i vari contributi esistono frequenti sovrapposizioni. Non c’è da meravigliarsene in quanto il tema della cittadinanza europea, pur analizzabile secondo diverse angolature ed espressioni, evidenzia una nozione pur sempre unitaria. L’obiettivo della ricerca, infatti, è sempre stato quello di ri-condurne lo studio ad una qualificazione giuridica in grado di esprimerne il si-gnificato complessivo alla luce dell’attuale stato del processo d’integrazione. I percorsi, pur diversi, non potevano che quindi incrociarsi, qua e là, prima di giungere al traguardo finale.

XII Ennio Triggiani

3. Quanto al primo capitolo, molteplici sono i concetti meritevoli di sottoli-neatura a partire dalla valutazione dell’impatto delle norme del Trattato di Li-sbona sul processo di democratizzazione dell’Unione nella ricerca di un simulta-neo e coerente riferimento a diverse concezioni democratiche. Tale processo, secondo Massimo Starita, ha sempre avuto la sua centralità nel Parlamento euro-peo con una crescita costante dei suoi poteri dopo l’elezione a suffragio diretto. Il Trattato di Lisbona ha peraltro contemplato diversi canali di legittimazione democratica, riportabili in parte alla concezione rappresentativa della democra-zia e, per un’altra parte, a modelli deliberativi.

Tale maggiore articolazione si fonda sulla pluralità dei canali di legittimazione democratica riconducibili ad una concezione sia rappresentativa (livello di rappre-sentatività delle istituzioni e grado di partecipazione diretta dei cittadini) che deli-berativa (modalità di assunzione delle decisioni). La prima viene formalmente sancita quale principio “democratico-rappresentativo”, peraltro implicito nel si-stema ben prima del suo formale riconoscimento anche grazie alla promozione delle prerogative del Parlamento europeo, pur quando limitate alla consultazione, effettuata dalla Corte di giustizia proprio in funzione dell’alto valore politico in esso contenuto. E tuttavia, nonostante il rango superiore riconosciutogli rispetto agli atti di diritto derivato, esso, sul piano della “effettività”, è stato peraltro co-stantemente condizionato (e limitato) dalla necessità di rispettare la “leale coope-razione tra istituzioni” e di mantenere un “equilibrio istituzionale”, principio fon-damentale di natura “strutturale” rispetto al quale il “democratico-rappresentativo” è comunque “cedevole” in caso di conflitto. Un riequilibrio dei rapporti interisti-tuzionali non si sarebbe quindi potuto porre in forza del principio democratico.

In questo contesto, l’introduzione con Lisbona del sistema della doppia legit-timazione fra Parlamento europeo e Consiglio, pur migliorando il livello di “de-mocraticità” delle istituzioni, per Starita ha sostanzialmente ristretto gli spazi di un rafforzamento per via giurisprudenziale del ruolo parlamentare sottraendolo in parte da un confronto tra metodo democratico e cooperazione intergovernativa per ricondurlo, meno “drammaticamente”, ad un problema di riparto di compe-tenze fra istituzioni.

Il principio democratico-deliberativo, con un maggior coinvolgimento nelle procedure dei soggetti interessati, ha invece avuto negli anni un uso abbastanza limitato; ciò è avvenuto soprattutto in sede d’interpretazione del diritto derivato nel caso in cui gli atti in considerazione avessero ad esso fatto espresso riferi-mento in ordine agli obiettivi perseguiti. Inoltre, la giurisprudenza della Corte non ne ha chiarito in maniera definitiva l’autonomia impedendole di interpretare in maniera estensiva le norme del TCE al fine di ampliare le ipotesi di legittima-zione attiva dei cittadini nei ricorsi di annullamento degli atti legislativi.

Tuttavia, l’espresso riconoscimento da parte del Trattato di Lisbona dei prin-cipi partecipativi e deliberativi ne consente una più libera valorizzazione e uno sviluppo sul piano interpretativo, anche grazie all’insufficiente chiarezza di al-cune nuove norme, proprio in quanto essi non trovano un limite nel suddetto principio dell’equilibrio istituzionale. Infatti, il loro potenziamento non passa per

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il rafforzamento di un’istituzione a scapito delle prerogative delle altre ma per un consolidamento del ruolo dei cittadini.

Il principio di democrazia “partecipativa”, quale frutto dell’iniziativa delle istituzioni, è specificamente oggetto del saggio di Giuseppe Morgese, che lo pone in relazione alla c.d. “cittadinanza attiva” considerata espressione diretta dei cittadini organizzati per difendere una causa connessa all’interesse generale. La prima modalità di attuazione del principio consiste nel dialogo civile “oriz-zontale”, con l’obbligo per le istituzioni di predisporre a favore dei cittadini eu-ropei e delle associazioni rappresentative, latamente intese, apposite piattaforme per interagire tra di loro e confrontarsi sulle tematiche rilevanti per l’Unione senza peraltro frapporre ostacoli a tale dialogo; si tratta, in altre parole, di deter-minare una specie di diritto d’accesso ad una tribuna pubblica.

Quanto al dialogo civile “verticale”, qui il compito delle istituzioni consiste nel mantenere “un dialogo aperto, trasparente e regolare con le associazioni rap-presentative e la società civile”, combinando tra loro una categoria strutturata ancorché non ancora definita a livello europeo (la prima) ed una categoria de-strutturata e vaga nei suoi contenuti (la seconda). L’obiettivo, nel complesso, è quello di migliorare la partecipazione civica sia nell’elaborazione sia nel con-trollo dell’applicazione del diritto dell’Unione (per mezzo soprattutto delle nuove tecnologie di comunicazione multimediale e degli sportelli territoriali).

Una terza modalità di attuazione del principio consiste nelle “consultazioni della Commissione”, attraverso il rilievo attribuito all’opportunità per le parti interessate di essere consultate, in maniera ampia ed effettiva, e di manifestare il loro pensiero.

Ma l’istituto più significativo e simbolico è senz’altro “l’iniziativa dei citta-dini europei”, che in effetti rappresenta un’assoluta novità nella storia dell’inte-grazione europea e potrebbe avere carattere “dirompente”. Viene per la prima volta attribuito un diritto di partecipazione in vista di un suo esercizio “collet-tivo” e “transnazionale” da parte dei cittadini appartenenti a diversi Stati mem-bri. Pur nella controversa qualificazione della sua natura giuridica esso appare, considerata la sua funzione di sollecitazione diretta alla Commissione al fine di presentare proposte, un diritto di “pre-iniziativa”.

Indubbiamente, anche grazie all’istituto appena indicato, la qualità della de-mocrazia partecipativa è notevolmente cresciuta con il Trattato di Lisbona e, se-condo Morgese, una norma come l’art. 11 TUE non trova sicuramente eguali, per ampiezza, in altre esperienze sovranazionali ma persino nelle costituzioni nazio-nali. Certo, al di là di alcuni interrogativi formali non sufficientemente chiariti dal regolamento di applicazione, appaiono criticabili l’impossibilità sia di parte-cipazione alla “iniziativa” dei cittadini extra-Unione soggiornanti di lungo pe-riodo in un Paese membro (sulla cui problematica si tornerà in seguito) sia di reazione giuridica all’eventuale rifiuto della Commissione di esaminare la pro-posta di iniziativa. A fronte di tali limiti istituzionali, l’unico contrappeso è la nascita di una società civile genuinamente europea che si faccia attiva portavoce di valori condivisi.

XIV Ennio Triggiani

L’incentivazione della partecipazione democratica alla vita dell’Unione at-traverso, soprattutto, il coinvolgimento attivo dei cittadini europei caratterizza, a sua volta, il saggio di Angela Maria Romito. Efficace espressione di tale obiet-tivo è il diritto di ricorrere al Mediatore europeo che s’inserisce nel più ampio scenario dell’accesso alla giustizia nell’ordinamento sovranazionale da parte de-gli individui attraverso mezzi di soft law con il vantaggio di essere gratuito non-ché più flessibile ed agevole nella sua utilizzazione. Da non trascurare, inoltre, la circostanza di poter svolgere un’opportuna “funzione pedagogica” nei confronti dell’amministrazione al fine di migliorarne l’efficienza.

La riforma di Lisbona, fra gli elementi d’innovazione, ha introdotto un le-game più stretto con la Corte di giustizia consentendo al Mediatore di interve-nire, sebbene in modo non autonomo, direttamente presso di essa in pendenza di una lite che interessi un caso di cattiva amministrazione. Peraltro, non è stata colta l’occasione per risolvere l’annosa questione della mancanza di legittima-zione passiva del Mediatore nei ricorsi in carenza e per annullamento in conside-razione del carattere non vincolante dei suoi atti e della loro inidoneità a produrre effetti nei confronti di terzi. Per cui, ancor oggi la Corte sarebbe eccezionalmente in grado di riconoscere adeguata tutela al cittadino laddove si potesse dimostrare la violazione grave e manifesta del diritto dell’Unione nell’esercizio dei propri compiti tale da arrecare un danno risarcibile.

Il dialogo tra cittadini ed istituzioni al di fuori da opprimenti vincoli burocra-tici resta tuttavia per Romito il grande valore aggiunto della figura in esame, in grado di risolvere questioni di portata tale da non meritare il ricorso ad un Tribu-nale, di migliorare la qualità dell’amministrazione e di restituire fiducia nei con-fronti delle istituzioni avvicinando i cittadini alla governance dell’Unione. Se mai, la stessa attività del Mediatore, in questi anni, costituisce un osservatorio importante per testimoniare la difficoltà di fornire ai cittadini europei consapevo-lezza del grande patrimonio di diritti individuali fornito dal sistema dell’Unione.

Il principio di non discriminazione a motivo della nazionalità costituisce fon-damento della stessa partecipazione al sistema dell’Unione e ne qualifica il pro-tagonismo soggettivo. Certo la riforma di Lisbona non ne muta il “limite natu-rale”, dato dall’operatività dello stesso solo rispetto al “campo di applicazione dei trattati” e cioè al diritto dell’Unione; né la situazione sembra sia stata “sostan-zialmente” modificata, secondo Valeria Di Comite, dall’attribuzione di valore vincolante alla Carta dei diritti fondamentali pur nutrendo fondate speranze nella giurisprudenza sempre innovativa, in materia, della Corte di giustizia. D’altronde l’autrice individua già nell’ampia giurisprudenza dei decenni passati in tema di discriminazione la prefigurazione della stessa cittadinanza europea il cui ricono-scimento formale è divenuto ulteriore strumento per garantire in modo ancora più ampio il principio di eguaglianza tra cittadini europei.

Tale giurisprudenza non ha avuto grandi difficoltà a misurarsi rispetto ai citta-dini c.d. “mobili” e cioè residenti nel territorio di uno Stato membro ospitante ai quali ha generalmente offerto una tutela abbastanza generosa. Più complessa è la situazione riguardo ai cittadini c.d. “statici” che non stanno, cioè, esercitando il

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diritto alla libera circolazione; non a caso le sentenze emesse in proposito – Miche-letti, Zhu e Chen, fino alla recentissima Ruiz Zambrano – hanno suscitato grande dibattito in dottrina. Nel caso Ruiz zambrano, in particolare, la questione sembrava concernere una situazione puramente interna e pertanto sottratta all’applicazione del principio di non discriminazione. La “semplice” circostanza del crearsi di una situazione idonea a cagionare il venir meno dello status di cittadino europeo e dei diritti da esso derivanti ha, peraltro, consentito il ricondurre della situazione nella sfera del diritto dell’Unione. Tale collegamento è stato così reso ulteriormente ela-stico, evidenziando una tendenza a valutare con attenzione la posizione dei citta-dini europei nei rapporti con il proprio Stato e scongiurando, entro certi limiti, la possibilità che i nazionali possano subire un trattamento discriminatorio per situa-zioni analoghe a quelle concernenti non solo i cittadini di altri Stati membri ma anche i propri connazionali che abbiano esercitato una libertà del Trattato. Il che non può essere consentito soprattutto rispetto a situazioni attinenti a importanti diritti delle persone come quelli concernenti la vita familiare e privata.

Il raggiungimento della piena eguaglianza tra cittadini europei, quindi, pur con i limiti legati ai principi di attribuzione delle competenze e di sussidiarietà, sembra per Di Comite progressivamente meno complesso grazie alla disponibi-lità della Corte a individuare elementi di collegamento con il diritto dell’Unione ogni qual volta la situazione di fatto portata alla sua cognizione rischia di inci-dere sui diritti derivanti dalla cittadinanza europea. L’accresciuta articolazione e molteplicità degli stessi, anche alla luce della Carta dei diritti fondamentali, di-schiude indubbiamente nuove possibilità alle “aperture” della Corte verso una delimitazione del potere degli Stati e la realizzazione effettiva del principio di uguaglianza a favore dei cittadini europei, mobili e statici che essi siano, e per certi aspetti anche dei cittadini dei paesi terzi (specie se familiari degli europei).

A quest’ultimo proposito va ricordato che con la cittadinanza europea si è consolidato l’ampliamento dell’ambito soggettivo di applicazione del diritto alla libera circolazione dei cittadini nel territorio degli Stati membri. Tale libertà, se-condo quanto descrive Giovanni Cellamare, è peraltro controbilanciata dal raf-forzamento del controllo delle persone e dalla sorveglianza efficace nell’attraver-samento delle frontiere esterne anche grazie ad un’articolata politica comune dei visti e di altri titoli per soggiorni di breve durata. Il sistema così creato consente a ciascuno Stato di esercitare i controlli in nome degli altri, attraverso un mutuo riconoscimento, rinunciando al tempo stesso alla tradizionale esclusività del po-tere statale in materia.

L’approccio rigoroso alla fissazione di requisiti, procedure e condizioni per l’ingresso ed il soggiorno nell’UE degli stranieri viene a delinearsi come deter-minazione di presupposti per essere ammessi al riconoscimento di diritti che contribuiscono alla formazione di una cittadinanza sociale, nonché, per gli stra-nieri legalmente residenti, di quella civile. Naturalmente, sulla qualità dell’attri-buzione delle relative prerogative incidono, per Cellamare, le opzioni di politica estera dell’Unione, i suoi rapporti di vicinato nonché gli svolgimenti normativi connessi ai processi di ampliamento della stessa Unione. In altri termini, il re-

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gime generale in materia trova significative interferenze con i molteplici accordi esistenti con Stati terzi, ed alcune norme previste per talune categorie degli stessi, il cui operare (ad es. in materia di ricongiungimenti familiari) è favorito dall’ap-plicazione della CEDU. Tra gli accordi viene in rilievo quello di associazione con la Turchia la cui importanza è data da evidenti ragioni politiche ma anche da interessanti questioni interpretative ampiamente esaminate dall’autore.

Ci si trova quindi in presenza di più regimi applicabili ai controlli delle per-sone all’atto dell’attraversamento delle frontiere esterne e cioè, da un lato, quello generale sull’ingresso e il soggiorno dei cittadini di Stati terzi e, dall’altro, quelli diversificati in funzione della cittadinanza delle persone. Il complesso di tali norme e le connesse differenze di trattamento sono infine valutati dall’autore alla luce del principio di non discriminazione a motivo della nazionalità previsto nel TFUE e della CEDU. In assenza di un diritto fondamentale dei cittadini di Paesi terzi all’ingresso e soggiorno sul territorio degli Stati membri e non concretan-dosi una violazione dell’art. 18 TFUE, sulla base delle indicazioni della Corte europea dei diritti dell’uomo l’autore sostiene la possibile violazione del divieto di discriminazione posto dall’art. 14 di quella Convenzione laddove alcuni prov-vedimenti statali comportino la violazione di altri diritti da questa sanciti.

Legati alla mobilità verso uno Stato non appartenente all’Unione sono i diritti derivanti dalla dimensione “esterna” della cittadinanza europea la cui importanza viene evidenziata dal crescente numero di cittadini che vi si recano per motivi di turismo, lavoro, studio, volontariato, e così via. Il concretarsi della relativa “tu-tela da parte delle autorità diplomatiche e consolari” va peraltro tenuto ben di-stinto dal classico istituto di diritto internazionale della “protezione diploma-tica”. I due istituti, come sottolinea Ivan Ingravallo, hanno presupposti diversi e diverso contenuto a partire dalla circostanza che il diritto di agire in protezione diplomatica spetta allo Stato di cittadinanza del soggetto leso e non a quest’ul-timo; inoltre, il diritto alla tutela diplomatica e consolare derivante dalla cittadi-nanza europea si realizza grazie all’azione di un Paese diverso da quello cui il soggetto appartiene. Quest’ultimo aspetto, inoltre, distingue il diritto in esame dagli altri connessi alla cittadinanza europea in quanto esso non mette il cittadino in relazione con le istituzioni dell’UE ma lo collega con altri Stati membri di cui non possiede, appunto, la cittadinanza.

Il Trattato di Lisbona ha introdotto, a rafforzamento della tutela del diritto, alcune novità di carattere procedurale grazie al riconoscimento di un ruolo alle istituzioni dell’UE con riferimento alla dimensione esterna della cittadinanza eu-ropea, spianando la strada per la sostituzione dell’attuale decisione intergoverna-tiva con una più incisiva direttiva. In tale contesto, l’autore segnala l’ulteriore elemento di novità dato dal pur timido riconoscimento di un ruolo all’Unione nella protezione dei cittadini europei in uno Stato terzo, il cui contributo si deter-mina indirettamente attraverso l’assistenza prestata agli Stati membri dalla dele-gazione UE presente in quest’ultimo con riferimento alla tutela consolare.

In conclusione, per Ingravallo ci troviamo di fronte ad un chiaro diritto indi-viduale di ricevere, da parte delle autorità consolari di un altro Stato membro,

Le nuove frontiere della cittadinanza europea XVII

pari trattamento rispetto ai nazionali con la garanzia che un’eventuale decisione di diniego sia soggetta a controllo giurisdizionale con relativa responsabilità pa-trimoniale per i danni cagionati. Si tratta comunque di una figura giuridica in necessaria evoluzione, il cui approfondimento e la cui maggiore conoscenza con-tribuiranno a far apprezzare il valore aggiunto della cittadinanza europea.

Uno dei profili potenzialmente suscettibili di ulteriori sviluppi concerne l’at-tribuzione di alcuni diritti politici a persone di Stati terzi residenti di lungo pe-riodo in uno dei Paesi dell’UE. Si tratterebbe, in altri termini, della concessione di una “cittadinanza civica” quale primo passo verso la diretta concessione della cittadinanza europea da parte dell’Unione. Viene opportunamente sottolineato, nel saggio di Egeria Nalin, la necessità di porre dei limiti alla discrezionalità dei legislatori nazionali in tema di cittadinanza quando essa fosse usata in contrasto con la tutela dei diritti umani e producesse conseguenze sul riconoscimento della cittadinanza europea, come ormai evidenziato da una coerente giurisprudenza della Corte di giustizia. Fondamento giuridico all’operatività di tali limiti va rin-tracciato nel rafforzamento del ruolo assunto dai diritti fondamentali con la ri-forma di Lisbona e la necessità di tutela della dignità umana, valore fondante dell’UE, contenente in sé il diritto alla partecipazione attiva alla vita pubblica della comunità in cui si sia scelto di vivere e cui si sente di appartenere.

Un’apertura delle legislazioni nazionali verso tali principi, contraddicendo le scelte politiche degli ultimi anni, dovrebbe basarsi sull’attribuzione della cittadi-nanza ispirandosi allo ius soli, dando rilievo alla residenza quale criterio più ap-propriato per stabilire il legame effettivo esistente tra un individuo e una comu-nità sociale o civile. D’altro lato, l’Unione dovrebbe, secondo Nalin, trovare il coraggio di fissare un autonomo criterio di attribuzione della cittadinanza euro-pea, slegandosi dall’acquisizione conseguenziale al possesso della cittadinanza di uno Stato membro; essa contribuirebbe, così, ad affermare un concetto di cit-tadinanza politica, pluralista, integratrice e partecipativa superando i confini sta-tali ma estendendosi ad un più ampio sistema di rapporti di partecipazione fra i cittadini e le organizzazioni della società civile.

In questo complesso sistema di rapporti e di situazioni giuridiche legate alle vicende di persone operanti nella “comunità di diritto” di dimensione europea si collocano questioni più particolari ma sempre importanti come quelle legate al “mandato d’arresto europeo”. Anche in tal caso le complesse tematiche giuridi-che, secondo Martina Guidi, non possono prescindere dalla necessità di ricono-scere, grazie alla cittadinanza europea, una parità di trattamento dinanzi alla giu-stizia quale ulteriore passo in avanti nella costruzione dell’Unione. D’altronde, la fiducia che ogni Stato e i suoi cittadini devono avere nella giustizia degli altri Membri dell’UE appare il risultato logico e inevitabile della creazione del mer-cato unico e della cittadinanza europea nel rispetto dei diritti fondamentali della persona.

Tuttavia, sottolinea Guidi, tutt’oggi nell’esecuzione del mandato d’arresto le diverse situazioni giuridiche delle persone ricercate danno origine ad un tratta-mento differenziato fondato sul criterio della nazionalità piuttosto che su quello

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della territorialità connesso ai concetti di residenza e dimora. Per cui, la nascita dello spazio di libertà, sicurezza e giustizia – ideato per essere al servizio dei cittadini – non è stato ancora in grado di assicurare, nella cooperazione giudizia-ria penale, il riconoscimento del “trattamento nazionale” a tutti i cittadini euro-pei. In proposito gli Stati membri mantengono un’ampia discrezionalità e alcuni di essi non sembrano ancora disposti ad estendere agli altri cittadini europei, anche se residenti stabilmente nel loro territorio, le tutele accordate in materia penale ai propri nazionali.

Il criterio della residenza stabile è a volte utilizzato per garantire un’equipa-razione tra nazionali e altri cittadini europei. Tale criterio risulta spesso irrile-vante nel caso in cui il mandato d’arresto europeo riguardi cittadini di Paesi terzi e dalla loro incondizionata consegna allo Stato membro di emissione deriva che ad essi sia negata la possibilità di reinserimento sociale in quello in cui essi risie-dano stabilmente. Sarebbe invece di gran lunga preferibile considerare i residenti di lungo periodo in uno Stato membro – siano essi cittadini di altri Stati membri o cittadini di Stati terzi – quali “stranieri integrati” e perciò titolari di una “citta-dinanza de facto”, sulla base della quale si giustificherebbero una serie di agevo-lazioni quali il ricorso al motivo facoltativo di non esecuzione o la richiesta di consegna condizionata.

4. Il secondo capitolo si apre con un saggio di Giandonato Caggiano per il quale la cittadinanza europea produce i suoi maggiori effetti nella creazione di un rapporto “orizzontale” degli individui con ciascuno degli Stati membri, i quali sono chiamati a consentire l’esercizio delle libertà fondamentali del mercato astenendosi dall’adottare misure che possano ostacolarle. D’altronde il mercato non è più solo uno spazio senza frontiere per la circolazione dei fattori produttivi nella misura in cui è strettamente intrecciato con lo spazio di libertà, sicurezza e giustizia anche nell’ottica di un’economia sociale di mercato.

Mentre il diritto di circolazione, anche grazie al prezioso supporto della giu-risprudenza della Corte, si può ritenere sostanzialmente realizzato, non altret-tanto può dirsi del diritto di soggiorno ancora non in grado di affermarsi in modo distinto ed autonomo rispetto al primo, nonostante recenti segnali derivanti dalla stessa Corte di giustizia (v. sentenza Ruiz Zambrano).

Le situazioni considerate “puramente interne”, in assenza dell’elemento tran-sfrontaliero, sono a loro volta difficilmente riconducibili alla nozione di cittadi-nanza europea la cui fruizione appare strettamente legata alla pre-condizione della libera circolazione. In altri termini, il principio di uguaglianza in uno speci-fico ordinamento nazionale attiene alla situazione del cittadino “stanziale” e di quello proveniente da altro Stato membro e non riguarda persone che rimangano “a casa loro” in due diversi Stati membri. Anche se la Corte si preoccupa di tute-lare situazioni puramente interne ingiustificatamente causate da una legislazione nazionale, ricordando il carattere prioritario del diritto all’esercizio effettivo della libera circolazione ed anche del ritorno del cittadino al suo Stato d’origine, nonché alcune situazioni legate a cittadini “inattivi”.

Le nuove frontiere della cittadinanza europea XIX

Tutele analoghe concernono ovviamente anche stabilimento, prestazione di servizi e circolazione dei capitali, rispetto ai quali l’autore evidenzia le restrizioni di carattere discriminatorio a volte poste in essere da misure nazionali fiscali.

In generale, per superare la frammentazione delle misure nazionali e conse-guire la rimozione degli ostacoli alle attività dei cittadini europei nell’ambito del mercato unico è necessario por mano ad una nutrita agenda legislativa ed ammi-nistrativa. Ai fini della consacrazione della cittadinanza europea è quindi indi-spensabile, per Caggiano, far funzionare appieno le libertà del mercato le quali vanno ri-concettualizzate come diritti economici a cui hanno diritto tutti i citta-dini dell’Unione con le loro istanze sociali.

A fronte di un mercato unico ampiamente realizzato, pur con i limiti appena descritti nelle stesse interazioni con la cittadinanza europea, discorso più com-plesso presenta la valutazione della dimensione sociale di quest’ultima. Il lungo e lento percorso diretto al riconoscimento di uno status sociale comunitario è analiticamente descritto da Pietro Gargiulo attraverso le varie tappe normative ed il decisivo contributo della Corte di giustizia nella direzione di un continuo arricchimento, anche di carattere pretorio, delle stesse in particolare a favore delle persone economicamente “non attive”; anche se tali aperture hanno quasi sempre trovato una “giustificazione” nella logica economica dell’integrazione e del mercato comune del lavoro. Comunque le importanti direttive degli anni ’90, in sintonia temporale con la nascita della cittadinanza europea, rappresentano un sicuro salto di qualità in quanto riconoscono libertà di circolazione e di sog-giorno a pensionati, studenti e ad altre persone prive di tale beneficio ad altro ti-tolo nonché ai loro familiari. E tuttavia il limite posto all’esercizio del diritto dall’eventuale carattere eccessivo dell’onere a carico dello Stato ospitante esclude per l’autore la possibilità di ricostruire uno status sociale comunitario del cittadino inattivo.

Grazie all’istituzione della cittadinanza europea la Corte di giustizia ha po-tuto trovare un più saldo fondamento normativo per continuare a produrre una giurisprudenza, ampia ed importante, in grado di riempire di contenuti sociali il processo di integrazione. Ma l’aspetto più rilevante, al di là delle precisazioni su principi fondamentali e molteplici nozioni giuridiche, risiede nella fissazione del criterio della “ragionevole solidarietà finanziaria tra Stati membri” nell’organiz-zazione e nell’applicazione del loro sistema di assistenza sociale. Si tratta dell’e-vidente testimonianza dell’avvio di una fase del processo d’integrazione nella quale il paradigma economico non può più prescindere da quello “sociale”. Non a caso, d’altronde, il Trattato di Lisbona ridefinisce i valori sui quali si fonda l’Unione evidenziando la centralità della dignità umana, della solidarietà, dell’u-guaglianza tra uomini e donne. Per di più, tra gli obiettivi dell’Unione è indicato lo sviluppo sostenibile basato, tra l’altro, su di un’economia sociale di mercato fortemente competitiva che mira alla piena occupazione e al progresso sociale. L’identità del modello economico e sociale europeo comincia quindi a delinearsi anche attraverso il significativo inserimento di una “clausola sociale”, diretta a vincolare le istituzioni dell’Unione nella valutazione dell’impatto sociale dei

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provvedimenti da adottare, ed un chiaro riconoscimento del ruolo delle parti so-ciali e del loro dialogo.

Nonostante i grandi passi in avanti prodotti, per Gargiulo siamo, tuttavia, ancora lontani da un, pur indispensabile, modello di integrazione “solidaristica” nel quale un potere centrale forte indirizzi ed imponga l’armonizzazione delle politiche sociali degli Stati membri.

La faticosa realizzazione di un modello sociale europeo passa, per Rossana Palladino, attraverso il pieno riconoscimento dei diritti sociali fondamentali fra i quali, per il loro carattere emblematico e la loro novità nell’ordinamento dell’U-nione, i diritti di sciopero e di contrattazione collettiva. I pur significativi ma “de-boli” riferimenti contenuti nella Carta sociale europea del 1961 e nella Carta comu-nitaria dei diritti sociali fondamentali del 1989 sono stati ripresi, con ben altra forza giuridica, dal Trattato di Lisbona; qui, collocati nell’ambito dell’istituto della citta-dinanza europea, essi vedono una maggiore autonomia delle parti sociali ricondu-cibile al rafforzamento degli strumenti della democrazia partecipativa.

Prima del riconoscimento del loro carattere fondamentale, i diritti sociali col-lettivi sono stati valorizzati dalla Corte di giustizia ma sempre nei limiti del ri-spetto dei principi della concorrenza. L’equiparazione del valore giuridico della Carta dei diritti fondamentali (con particolare riferimento all’art. 28) a quello dei Trattati ed il correlato principio di indivisibilità e di equiordinazione tra diritti civili e politici e quelli economici e sociali dovrebbe, per l’autrice, consentire ai diritti sociali di affrancarsi dalla loro pluriennale posizione subalterna. In tal senso la Corte di giustizia mostrerebbe ancora incertezze nel rivisitare compiuta-mente le proprie posizioni impedendo ai diritti sociali collettivi di trovare effet-tiva tutela nel bilanciamento con quelli di natura economica. Probabilmente ciò è dovuto al rilievo evidentemente riconosciuto alla capacità di “affievolimento” dei diritti sociali collettivi rintracciabile negli articoli 51 e 52 della stessa Carta.

è infine segnalata da Palladino la debolezza delle parti sociali a livello euro-peo che, accentuata dalla diversificazione dei sistemi nazionali, non consente loro di svolgere un ruolo significativo nella protezione e promozione dei diritti sociali in ambito continentale.

L’importanza, non solo simbolica, dello status dei cittadini europei economi-camente “non attivi” nel qualificare la nozione di cittadinanza europea trova ul-teriore approfondimento nei saggi di Lara Appicciafuoco e Luigi Raimondi, quest’ultimo con particolare riferimento agli studenti universitari. Il nodo cen-trale di analisi risiede nel progressivo riconoscimento di un maggiore grado di autonomia fra esercizio delle libertà economiche e tutela transnazionale di taluni diritti sociali anche a favore delle persone più vulnerabili. Certamente, in una prima fase sia la produzione normativa sia l’interpretazione giurisprudenziale della stessa si sono mosse comunque, secondo Appicciafuoco, nella logica della piena realizzazione del mercato unico e con il prevalente obiettivo di mantenere l’unità familiare. La nascita della cittadinanza europea induce la Corte a ritenere legittima l’invocazione, da parte dei non-attivi alla ricerca di prima occupazione, del principio di non discriminazione anche in relazione a prestazioni sociali non

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esclusivamente connesse all’accesso al lavoro. Peraltro, onde evitare la creazione di un carico irragionevole per i sistemi di assistenza sociale dello Stato ospitante, essa ammette che quest’ultimo possa subordinare la concessione di determinati benefici sociali all’esistenza di un collegamento reale tra il richiedente ed il pro-prio mercato del lavoro, sul presupposto del conseguimento di un certo livello di integrazione nella società; tale “collegamento reale”, soprattutto dopo l’adozione della direttiva 2004/38, è stato peraltro successivamente declinato dalla Corte essenzialmente in termini di condizioni di residenza nello Stato ospitante. Così facendo, tuttavia, si raggiunge, per Appicciafuoco, l’effetto paradossale di condi-zionare la tutela sociale ad un livello di integrazione già raggiunto mentre la fi-nalità delle misure di assistenza sociale dovrebbe essere proprio quella di rendere possibile l’integrazione.

Analoghe considerazioni sono effettuate da Raimondi in ordine alla circola-zione degli studenti, vista con estrema cautela dagli Stati “importatori” per la preoccupazione del fenomeno del free riding verificantesi quando gli studenti si spostano per conseguire una formazione che sarà spesa altrove. Il problema le-gato alla mobilità di queste persone “non attive” è duplice in quanto concerne l’eventuale carattere discriminatorio delle misure nazionali volte sia a restringere l’iscrizione ai corsi d’istruzione superiore sia a limitare il novero dei beneficiari degli aiuti economici concessi agli studenti. Relativamente ad entrambi i profili, la Corte di giustizia applica il principio di non discriminazione temperato dalla possibilità per gli Stati di operare differenze di trattamento, indipendenti dalla cittadinanza dei soggetti interessati, basate su considerazioni oggettive. Tuttavia, l’applicazione dei medesimi criteri dà luogo a risultati differenti. In particolare, l’autore segnala che l’approccio dei giudici di Lussemburgo nel valutare le mi-sure statali che limitano l’accesso alle università appare maggiormente severo rispetto a quello adottato in relazione ai limiti statali nella concessione di borse di mantenimento agli studi. La predetta differenza si spiega verosimilmente in ragione del diverso impatto che le misure nazionali in questione producono sulla libertà di circolazione degli studenti. I limiti all’accesso alle università, infatti, costituiscono un ostacolo all’esercizio della libertà di circolazione di gran lunga più grave rispetto alle restrizioni nella concessione di aiuti economici agli stu-denti. Sulla base di tale considerazione Raimondi afferma che, sebbene le sen-tenze esaminate siano formalmente incentrate sull’applicazione del principio di non discriminazione temperato da considerazioni oggettive, esse nascondono un sottostante bilanciamento tra la libertà di circolazione degli studenti e l’esigenza degli Stati di non sopportare oneri eccessivi per la formazione di studenti mi-granti. Nel contesto descritto sembra pertanto emergere un rapporto funzionale tra il principio di non discriminazione e la libertà di circolazione dei cittadini.

Nel complesso, è indubbio che lo status dei cittadini “non attivi”, ancora molto differenziato nei Paesi membri, può considerarsi un importante parametro di riferimento per testare lo sviluppo di significato e portata della cittadinanza dell’Unione proprio perché strettamente legato all’idea ed al principio della soli-darietà europea. Questa, peraltro, va declinata non solo nei rapporti tra cittadini,

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secondo Appicciafuoco, ma anche quale solidarietà finanziaria tra Stati membri in vista della progettazione di un sistema europeo di welfare improntata a un’e-qua e sostenibile ripartizione degli oneri tra gli Stati membri. Attualmente, per-tanto, la cittadinanza “di mercato” resta sullo sfondo ma le indubbie trasforma-zioni rispetto al passato consentono di delineare la progressiva realizzazione di una “cittadinanza sociale di mercato” europea.

Un problema di sicuro interesse è legato alla domanda se il meccanismo co-munitario di coordinamento dei sistemi nazionali di previdenza sociale vada ad integrare il sistema di diritti individuali derivanti dalla creazione di una cittadi-nanza dell’Unione europea. L’analisi di Alfredo Rizzo parte da una breve rico-struzione dei recenti sviluppi legislativi in materia e si concentra sull’individua-zione della sfera di applicazione individuale di tale quadro normativo. Seguendo tale approccio, le principali aree d’interesse risultano essere quella concernente i lavoratori/cittadini “inattivi” (ricordando che secondo la Corte di giustizia oc-corre applicare una nozione ampia di “lavoratore” ai termini dell’attuale art. 45 TFUE) e quella concernente i lavoratori/cittadini “non comunitari”. Chiaramente l’area di maggior rilievo risulta essere quella concernente la protezione sociale dei primi, rispetto ai quali assumono specifica rilevanza alcune nozioni inerenti all’attribuzione di specifici statuti individuali (relativi, ad es., a coloro che siano alla ricerca di un lavoro, agli studenti o a coloro, lavoratori o meno, che risultino già iscritti ad un regime previdenziale nazionale) od altre, come quella di “van-taggio sociale”, che riguardano invece il tipo di prestazione ottenibile da un cit-tadino dell’Unione in uno Stato membro diverso da quello di nazionalità.

Tanto la disciplina di coordinamento dei regimi nazionali di previdenza so-ciale quanto la nozione di vantaggio sociale operano tradizionalmente in fun-zione “servente” della libera circolazione dei lavoratori dell’Unione. Procedendo in quest’ottica, la Corte di giustizia nel caso Van Munster ha imposto ai giudici nazionali di applicare fonti di diritto interno in conformità con gli obiettivi sottesi all’art. 41 TCE (corrispondente all’attuale art. 48 TFUE) nonché alla luce del principio di interpretazione conforme e del criterio del c.d. vantaggio previden-ziale. L’introduzione della cittadinanza dell’Unione, pur con alcuni limiti appli-cativi previsti a livello di diritto primario, fa emergere comunque la necessità di comprendere se, accanto al diritto di circolazione dei cittadini degli Stati mem-bri, si affermi anche un diritto alla sicurezza e alla protezione sociale quale ele-mento costitutivo della stessa cittadinanza dell’Unione (tenendo conto che l’art. 34 della Carta dei diritti prevede un diritto “universalistico” alla sicurezza e pro-tezione sociale).

Secondo Rizzo, la Corte di giustizia ha seguito un approccio “protettivo” in tutte le situazioni nelle quali sia emersa la necessità di garantire una tutela sociale a soggetti circolanti “legalmente” all’interno dell’Unione stessa. In tali casi, la giurisprudenza comunitaria ha dimostrato come un minimo elemento di collega-mento tra il soggetto interessato e il territorio dell’Unione, accanto all’eventuale rilevanza della disciplina comunitaria di coordinamento dei regimi previdenziali nazionali, implichi l’applicabilità degli articoli 20 e 21 TFUE nonché dell’art. 18

Le nuove frontiere della cittadinanza europea XXIII

TFUE, specificamente riguardante il divieto di discriminazioni sulla base della nazionalità (che è il criterio ordinatore in base al quale qualsiasi cittadino dell’U-nione è posto nella condizione di richiedere ed eventualmente ottenere il ricono-scimento di quei “vantaggi sociali” previsti a livello nazionale).

Nei sistemi di welfare occupano indubbiamente un posto di rilievo i servizi sanitari, di regola estranei all’armonizzazione comunitaria anche se la salute co-stituisce, ovviamente, un requisito importante per la partecipazione al mercato del lavoro. La protezione della salute è, peraltro, valore espressamente sancito dalla Carta dei diritti fondamentali nel suo profilo di diritto sociale ed ha occu-pato un ruolo di crescente rilievo nell’ordinamento dell’Unione, secondo Mica-ela Falcone, grazie soprattutto alla Corte di giustizia; essa ha ricondotto le pre-stazioni sanitarie nell’ambito delle attività economiche del mercato interno, quale servizio economicamente rilevante, e ha gradualmente eroso la compe-tenza esclusiva degli Stati in materia. Un deciso passo avanti in questa direzione è stato poi consentito dall’adozione della direttiva 2011/24 sulla mobilità dei pazienti con cui alcuni aspetti dell’assistenza sanitaria non sono più riservati ai cittadini nazionali ma passano ad un sistema di servizi e diritti che si aggiungono, arricchendola, alla dimensione comune della cittadinanza sociale europea. Si tratta del primo concreto intervento normativo dell’Unione nel settore sanitario ed attesta la volontà comune di garantire a tutti i cittadini l’accesso ai diritti so-ciali riconducibili alla tutela della salute. Comincia in altri termini a delinearsi, secondo Falcone, l’esigenza di una protezione sociale rispondente a logiche so-lidaristiche su base europea nel tentativo di orientare concretamente i modelli nazionali verso un unico modello sociale europeo.

Si è già segnalato che con la cittadinanza europea si è ampliato l’ambito sog-gettivo di applicazione del diritto alla libera circolazione dei cittadini nel territo-rio degli Stati membri attraverso accordi con Stati terzi fra i quali assoluto rilievo assume quello con la Turchia. Interessanti questioni interpretative sono affron-tate, in proposito, da Marco Evola che analizza il decisivo contributo fornito dalla Corte di giustizia nella ricostruzione dello “statuto” offerto ai cittadini tur-chi sulla base dell’Accordo del 1963 e del Protocollo addizionale del 1970 non-ché dalle successive decisioni del Consiglio di associazione. Le molteplici sen-tenze emesse in materia si sono fondate sull’obiettivo, da tali norme desumibile, di creare le condizioni idonee all’adesione della Turchia all’UE in particolare attraverso il richiamo al duplice obiettivo della realizzazione della libertà di cir-colazione e dell’integrazione dei cittadini turchi nel mercato del lavoro dello Stato membro ospitante. L’adesione ha quindi costituito un principio interpreta-tivo delle suindicate regole, consentendo l’attribuzione agli stessi di una serie di diritti corrispondenti a quelli dei cittadini dell’Unione sul necessario presupposto di garantirne la sicurezza di residenza. Per Evola, quindi, il progressivo assotti-gliamento delle differenze tra cittadini europei e turchi, anche alla luce di due direttive del 2003, potrebbe essere letto nell’ambito di un più ampio processo di affermazione di una cittadinanza fondata sulla residenza quale approdo di un reale processo d’integrazione.

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Nell’ambito dei regimi speciali sull’immigrazione da Paesi terzi, un posto par-ticolare occupa quello relativo ai lavoratori altamente qualificati, titolari della c.d. “carta blu”, sulla base della direttiva 2009/50. L’interesse per tale figura giuridica, come sottolinea Andrea Rosenthal, è dato dalla circostanza che la qualità dei di-ritti ad essa riconosciuti, al fine di attirare un alto numero di “cervelli”, ne consen-tirebbe la riconduzione, sotto più profili, alla “cittadinanza sociale europea” ma con l’esclusione del diritto di libera circolazione nel territorio dell’Unione oltre i tre mesi. La direttiva si applica peraltro solo ai lavoratori subordinati, escludendo i prestatori di attività autonome, per mantenere la garanzia dell’integrale applica-zione della lex loci laboris e scongiurare l’eventuale dumping sociale prodotto da prestazioni di servizi soggette alle regole di Stati terzi a costo ridotto (dal terrore dell’ “idraulico polacco” allo spettro dell’ “ingegnere indiano”!).

Il titolare di “carta blu” gode quindi della parità di trattamento con i cittadini dell’Unione sotto tutti i profili ivi compresi quelli legati alla sicurezza sociale (fatto salvo il ricorso alle prestazioni di assistenza sociale) il cui trattamento è persino più favorevole rispetto ai residenti di lungo periodo. Questi inoltre, a differenza degli stranieri lungo-residenti, usufruisce dei diritti attribuitigli sin dal momento del suo ingresso nell’Unione senza dover attendere la maturazione di alcun lasso temporale. L’ampiezza dei diritti riconosciuti è peraltro controbilan-ciata dalla circostanza che gli stessi sono “cedevoli” di fronte ai vari cambia-menti economici o personali in cui può incorrere lo stesso lavoratore. In tal senso, per Rosenthal, ci troviamo in realtà di fronte ad un modello di “cittadinanza mercantile” nel quale le libertà e gli eventuali diritti sociali connessi sono eserci-tati nei limiti ed in funzione delle necessità del mercato senza, ad oggi, possibilità di emancipazione dalla logica di quest’ultimo.

Interessanti problematiche, per quanto specifiche, derivano dal recente au-mento in Europa del numero delle coppie internazionali (sposate o meno), il che contribuisce a far rientrare, almeno indirettamente, il diritto di famiglia nell’am-bito materiale del diritto dell’Unione anche in virtù della nozione di cittadinanza europea, peraltro difficilmente applicabile a cittadini non esercitanti il diritto di libera circolazione. In quest’ambito, nello studio di Maria Chiara Vitucci si esamina, in particolare, l’influenza dell’Europa sullo status della coppia omo-sessuale, analizzando l’evoluzione della giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo e della Corte di giustizia in materia di matrimonio e vita fami-liare. La prima è giunta solo recentemente ad affermare che la relazione affet-tiva di una coppia omosessuale possa rientrare nella tutela della vita familiare, e non più solo nell’ambito di quella privata. La Corte di Strasburgo non ha però colto l’occasione per dare un contenuto concreto a tale diritto, mentre quella di Lussemburgo, ragionando sul principio di continuità di status, ha fornito una tutela rafforzata a una nozione allargata di famiglia, che include anche il partner omosessuale. La famiglia fondata sul matrimonio gode ancora di una protezione più ampia, ma la nozione di cittadinanza europea contribuisce a garantire alcuni diritti anche alle “nuove famiglie”. Si tratta essenzialmente di diritti collegati allo status di coniuge, partner, vedovo.

Le nuove frontiere della cittadinanza europea XXV

Tutto ciò è potuto avvenire grazie all’Europa: infatti, l’interpretazione di no-zioni giuridiche basate sull’evoluzione della società deve essere compiuta esami-nando la situazione nel complesso dello spazio europeo e non di un solo Stato membro. Per Vitucci, nella maggior parte degli Stati europei, l’evoluzione della coscienza sociale ha influito sulla regolazione giuridica dei rapporti omosessuali. Anche in Paesi come l’Italia, ancora privi di una normativa in materia, si possono iniziare a sentire spirare i venti europei: nelle sentenze delle due Corti si fa, in-fatti, sempre più spesso riferimento al consenso diffuso tra i vari Stati europei a favore di una tutela della vita familiare degli omosessuali. Per di più, sebbene oggi il diritto dell’Unione in materia di famiglia sia ancora costituito prevalente-mente da norme di conflitto, si deve inoltre rilevare un uso sempre più limitato del limite dell’ordine pubblico. I particolarismi europei lasciano così il posto ai valori e agli standard comuni dell’Europa, che si manifestano attraverso l’ob-bligo di coordinamento tra i vari ordinamenti, costretti a riconoscersi reciproca-mente status personali creati in altri Stati.

L’analisi del concetto di “cittadinanza sociale” trova interessanti elementi di valutazione anche attraverso la lettura delle Costituzioni degli Stati membri. Da essa emerge, anzitutto, che lo status di cittadini europei è assimilato, per appros-simazione, a quello dei nazionali. Quanto alla titolarità di tali diritti, secondo Andrea Gratteri prevale un modello costituzionale principale che, pur in pre-senza di numerose variabili ed alcune eccezioni, evidenzia l’esistenza di un prin-cipio comune dato dalla assimilazione esplicita, o desunta in via interpretativa, degli stranieri ai cittadini. Escludendo le Costituzioni di Austria e Germania non-ché i documenti costituzionali del Regno Unito, non contenenti un esplicito ri-chiamo ai diritti sociali in quanto tali, le Costituzioni comparabili vengono clas-sificate sulla base di tre modelli in riferimento all’intensità del riconoscimento dei diritti sociali e la relativa estensione agli stranieri. Per alcune la tutela di questi ultimi è, peraltro, determinata sulla base di quanto previsto dai trattati in-ternazionali.

Il complesso delle norme costituzionali esaminato porta Gratteri a conclu-dere che la cittadinanza sociale europea non può che arricchirsi, nell’interazione fra ordinamento dell’Unione e ordinamenti nazionali, della tutela che i diritti sociali ricevono all’interno delle Costituzioni nazionali. Quanto alla tendenza, prevalente, all’assimilazione degli stranieri ai cittadini, emerge chiaramente il ruolo di garanzia offerto, rispetto all’attività del legislatore nazionale, dai prin-cipi costituzionali di ragionevolezza e, soprattutto, di non discriminazione a mo-tivo della nazionalità; quest’ultimo, in particolare, viene sensibilmente rafforzato grazie alle norme dell’Unione e della Convenzione europea dei diritti dell’uomo (CEDU) ed avvalorato grazie all’interpretazione fornita dalle Corti di Lussem-burgo e Strasburgo.

5. Avevo aperto questa introduzione affidando alla nozione di cittadinanza europea ed alla sua evoluzione il non semplice compito di misurare la “tempera-tura” del processo di integrazione. I saggi con i quali si conclude la nostra ricerca

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non possono, ovviamente, fornire una sicura risposta in questa direzione, per di più in un momento caratterizzato da tali sconvolgimenti nelle relazioni econo-mico-finanziarie mondiali da suscitare addirittura dubbi sulla stessa capacità di sopravvivenza del sistema dell’Unione, almeno quale fino ad oggi è stato inteso.

Eppure, proprio la serietà del momento ha evidenziato quanto ormai le sorti dei Paesi della “vecchia” Europa siano fortemente legate tra di loro e quanto i singoli Stati membri, anche i più solidi, rischino di trovarsi in gravi difficoltà ri-spetto a situazioni che sempre più sfuggono al controllo dei loro governanti, troppo spesso mere personalità politiche e non statisti.

Ma una strategia politica è assolutamente necessaria per saldare i vari sistemi nazionali all’Europa e questa ai macrosistemi dominanti, superando la “disim-metria” fra localizzazione nazionale del governo politico e dimensione globaliz-zata dell’economia. Questa, da sola, se non diretta almeno parzialmente ed anco-rata ad un progetto culturale di lunga gittata, può produrre grandi guai come i recenti avvenimenti stanno ampiamente dimostrando. La moneta unica è stata ed è tuttora un grande simbolo ma è vissuta come qualcosa cui si può rinunciare, se necessario. Non si comprende che proprio grazie alla rinuncia di pezzi di sovra-nità si è riusciti a tornare “sovrani”, anche se in maniera condivisa, e si può re-stare tali; si pensi, in particolare, a quale sarebbe stata la sorte di un‘Italia, tra-volta prima dai propri continui scandali poi dalla furia dei mercati, senza lo scudo dell’euro e dell’Unione. Ecco perché, prima che sia troppo tardi, è necessario rilanciare il progetto “politico” europeo, senza del quale non ci si può sentire “sulla stessa barca”, adottando misure che siano coerenti con lo stesso. Difficile continuare a sostenere, ad esempio, l’applicazione di diversi tassi d’interesse per titoli emessi da ciascun Paese nella stessa moneta essendo separata la responsa-bilità dei debiti nazionali, con l’inevitabile creazione di un amalgama finanziario contraddittorio ed incoerente.

In altri termini, gli Stati membri devono ormai diventare consapevoli del grave vuoto creatosi con il depauperamento dei poteri nazionali e con la conte-stuale assenza di un effettivo potere europeo. Pur nella nebulosità di un futuro ad oggi imperscrutabile, si desume quindi con chiarezza che il ritorno a strumenti politici ed economici espressi da concezioni nostalgiche blindate su approcci di stampo nazionalista, col richiamo a frontiere e protezionismi, è inimmaginabile e trascinerebbe tutti in un vortice di egoismi in grado di mettere i Paesi europei alla mercé delle emergenti potenze extra-europee. La risposta, priva di alterna-tive, non può che essere di ordine sovranazionale anche con il ricorso a strumenti nuovi per adattarne l’ispirazione alla concretezza dei problemi emergenti.

Fra questi presenta carattere prioritario il fenomeno delle migrazioni prove-nienti dall’esterno dell’Europa. è abbastanza singolare che i nostri Paesi abbiano tutti applaudito ai venti di democrazia che cominciano a soffiare dalla sponda meridionale del Mediterraneo per poi averne paura nella misura in cui accentuino l’entità dei flussi migratori. Tuttavia, come può l’Europa rinnegare se stessa e la propria storia rifiutando gli immigrati ed in particolare gli stateless (tali per ra-gioni formali o sostanziali) ai quali soprattutto va riconosciuto uno spazio legale

Le nuove frontiere della cittadinanza europea XXVII

e politico. Spazio, in particolare, che riesce sempre più difficile non consentire a quelli, fra loro, ormai da molti anni da noi legalmente residenti e quindi cittadini de facto in grado di concorrere all’esercizio della sovranità.

La ratio alla base della cittadinanza europea, con l’attribuzione di diritti elet-torali ai residenti stranieri dell’Unione, si fonda proprio su queste considerazioni, come da più parti sottolineato in questo libro. Attualmente, invece, l’esclusione degli stranieri provenienti da Paesi terzi non consente di realizzare l’identità fra governanti e governati, producendo un risultato certamente criticabile sotto il profilo di una profonda concezione della democrazia. La cittadinanza dell’U-nione può pertanto divenire, acquisendo piena autonomia rispetto a quella dei singoli Stati membri, uno status giuridico alternativo che, fondato su criteri fis-sati direttamente dal sistema unionale, potrebbe estendersi agli immigrati “extra-comunitari” in possesso di determinati requisiti. Ed è comunque un dato elo-quente il record di acquisizioni di cittadinanza nell’UE testimoniato dai dati resi noti recentemente da Eurostat per cui 776.000 persone hanno ottenuto la cittadi-nanza di uno Stato membro dell’UE nel 2009, cioè l’11% in più rispetto all’anno precedente.

Un ruolo centrale nel volume è ricoperto, come si è accennato, dai saggi sui profili “sociali” della cittadinanza. Questi, infatti, evidenziano il lungo e faticoso cammino che i diritti sociali hanno dovuto percorrere nel processo d’integra-zione europea dopo una fase iniziale che li vedeva del tutto subalterni alle prio-rità economiche e per di più solo funzionali alla realizzazione della libera circo-lazione dei lavoratori, tanto da indurre Federico Mancini a parlare di “frigidità sociale dell’Europa”. In effetti, negli ultimi anni, anche grazie al contributo im-portante ma non univoco e spesso contraddittorio della Corte, si sta assistendo ad un relativo ridimensionamento della supremazia dei valori del mercato e della concorrenza, affiancando alla “costituzione economica”, finora nel ruolo di in-contrastato valore guida, un vero e proprio “ordine sociale”. è in atto un nuovo bilanciamento tra diritti sociali e libertà economiche sollecitato dal riconosci-mento formale, per la prima volta, dei diritti sociali in un atto di alto valore quale la Carta, cui l’art. 6 del TUE rinvia, con l’indivisibilità di tutti i diritti aggregati intorno al principio unificante della dignità della persona.

Inoltre, nel nuovo art. 3, par. 3, TUE è sicuramente riscontrabile una valoriz-zazione della dimensione sociale: gli obiettivi dell’Unione sono ridefiniti fa-cendo esplicito riferimento ad un’economia sociale di mercato, con il ruolo cen-trale assegnato all’aggettivo “sociale” collocato tra i sostantivi “economia” e “mercato”, nonché alla piena occupazione (non più, come nei precedenti articoli 2 TUE e TCE, “un elevato livello di occupazione”), alla lotta all’esclusione so-ciale e alle discriminazioni, alla parità tra donne e uomini, alla solidarietà e alla coesione sociale (tutti nuovi riferimenti importanti per la dimensione sociale). D’altronde, le più recenti scelte dell’Unione europea si sono caratterizzate nel senso di puntare decisamente ed in termini sempre più espliciti sui diritti fonda-mentali così concretando una “discontinuità” rispetto al modello affidato unica-mente alle logiche ed alle esigenze di mercato; ed inoltre combattere l’esclusione

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sociale e la povertà, le cui attività si fondano sull’art. 153 TFUE, costituisce una delle priorità dell’Unione europea.

Un segnale importante potrebbe derivare da un pieno riconoscimento di di-ritti di protezione sociale se autonomamente connessi alla condizione di cittadino europeo e non allo status funzionale del soggetto nel mercato unico. Non sembra più contestabile, infatti, la considerazione per cui, istituendo la cittadinanza dell’Unione e riconnettendo a essa il diritto di circolare al suo interno, i Paesi membri abbiano accettato una certa solidarietà finanziaria dei cittadini di uno Stato con quelli degli altri, specie quando le difficoltà cui va incontro il benefi-ciario del diritto di soggiorno sono di carattere temporaneo. L’avvenuto rafforza-mento di strumenti come il Fondo europeo di adeguamento alla globalizzazione (FEG) costituisce, in proposito, un esempio significativo fornendo un aiuto pre-zioso ai lavoratori licenziati a seguito della crisi economica e dei profondi muta-menti strutturali verificatisi nel commercio mondiale. Si sta in altri termini svi-luppando una dimensione sociale della cittadinanza fondata sulla solidarietà intraunionale rafforzata, fra l’altro, sia dal valore vincolante della Carta e del suo Capo IV interamente dedicato (articoli 27-38) alla solidarietà sia dalla futura adesione alla CEDU.

Certo, in un momento di gravissima crisi economica l’equilibrio faticosa-mente conquistato fra diritti sociali fondamentali e diritti economici può essere messo nuovamente in discussione giustificando il ritorno a standard sociali più bassi. Risulta, infatti, oggettivo il rischio di un declino nella protezione dei diritti fondamentali dei lavoratori in un’epoca che vede le imprese trasferirsi verso mercati che riducono sempre di più costo del lavoro, spese sociali ed oneri am-bientali in un’infinita corsa verso una generale deregolamentazione sociale. Così facendo, però, gli Stati membri rinuncerebbero ad una parte essenziale dell’iden-tità stessa dell’Unione, il cui welfare rappresenta senza dubbio uno dei principali caratteri distintivi e senza il quale diviene difficile “dare un volto” alla stessa democrazia europea nei connotati di una “democrazia della dignità”

D’altronde, è certamente miope rendere avulsi i legami economici, politici ed istituzionali da un contesto valoriale anche a costo di “perdere pezzi” nel lungo tragitto verso l’Europa unita (e forse federale). Essa non può più essere sentita solo come necessità ma deve trarre ulteriore forza dalla propria vocazione a co-stituire un originale e non sostituibile processo di civiltà e, quindi, a divenire la-boratorio di una nuova “cittadinanza”. La proposizione di proclamare il 2013 “Anno europeo dei cittadini” sarebbe un buon passo in questa direzione se riu-scisse ad essere occasione e stimolo per nuovi interventi normativi e non uno stanco rituale; potrebbe così attivarsi una spinta popolare capace di fermare il quadro involutivo che sta indubbiamente segnando la volontà politica degli Stati membri ed il loro “coraggio” nel portare a compimento un processo rimasto a metà. è peraltro immaginabile che tale spinta venga soprattutto dalle giovani generazioni; l’analisi della libera circolazione degli studenti, presente nel vo-lume, ci deve far riflettere sul fatto che i giovani associano l’Europa non alla fine delle guerre ma alla libertà di viaggiare, studiare oltre che lavorare all’estero con

Le nuove frontiere della cittadinanza europea XXIX

la facilità di non avere il passaporto e (in gran parte dei casi) di non essere co-stretti a fastidiosi e dispendiosi cambi di valuta. L’unificazione europea si potrà fare grazie a loro, sperando che all’integrazione non si metta irresponsabilmente fine prima che essi ci riescano. Un nuovo “patto” tra i popoli del nostro conti-nente, attraverso un ruolo più attivo del Parlamento europeo, potrà quindi essere stipulato solo basandosi su persone che vivano consapevolmente la propria “cit-tadinanza europea” come la frontiera per il futuro.

ENNIO TRIGGIANI (a cura di)

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