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8 l patria indipendente l 20 aprile 2008 sgressivi: tra Valsesia e alto Novarese, ad esempio, troviamo garibaldini vestiti alla corsara, «con un foulard da “tigrotto di Mompracem”», altri che indossano abiti da gagà, con tanto di «ricco cappotto, dall’elegante collo di pelliccia, da cui sballonzola mollemente un mitra Sten», e altri ancora che portano bandoliere con appesi oggetti utili al combattimen- to, ma anche pezzi di ferro di cavallo co- me porta fortuna. Tra alcuni degli uomi- ni dell’82 a brigata “Osella” vige invece la necessità, che diviene consuetudine, di coprirsi con giacconi maculati ricavati da pelli di animali, e il loro comandante, Pesgu, indossa giubbotti bianco-neri di pelo d’agnello, mentre il partigiano Ciuch se ne va in giro con tanto di testa da morto sul berretto, distintivo eviden- temente sottratto al nemico. Già da tali esempi emergono motivi uti- litaristici al fianco di vezzi e spavalderie tipici del mondo giovanile. Se poi i ven- tenni non riescono a dar sfogo alla pro- pria esuberanza, perché imbrigliati in compassate divise militari, sono i fronzo- li e gli emblemi che ornano i loro vestiti a costituire l’aspetto originale: un’alterità ricercata e ostentata. Per i comandi garibaldini, tenere a freno gli uomini dalla voglia di affermazioni di classe è un’impresa ardua, destinata al- l’insuccesso. Nell’agosto 1944 Cino Moscatelli – con Eraldo Gastone “Ciro” a capo delle brigate comuniste del Pie- monte Nord Orientale – scrive: «Molte volte devo intervenire per far togliere fronzoli rossi alle divise, bandiere rosse dai camion; ho dovuto proibire le ban- dierine rosse ai mitra e ai fucili. [...] E più intervengo in questo senso e più la cosa si diffonde. Molti nostri ufficiali hanno chiesto l’iscrizione al P. Proibisco Bandiera rossa quando sfilano: canta e canta ma finiscono sempre lì. Molti di questi “comunisti”, quasi tutti, hanno la sacra medaglietta al collo, l’immagine nel portafoglio». Tre mesi dopo, Paolo Scarpone, com- missario politico del Comando unico zo- na Ossola, relazionando a Pietro Secchia, commissario generale delle brigate co- D urante l’occupazione coloniale del- l’Algeria, racconta Frantz Fanon, avviene una singolare forma di lot- ta: ai tentativi francesi di snaturare la cul- tura originale togliendo il velo alle don- ne, esse si oppongono continuando a ve- larsi, aggiungendo o sostituendo ai mo- tivi tradizionali del suo uso quelli di con- tro-assimilazione e di conservazione del- la propria identità. In questo caso, pren- de corpo e si mantiene una particolare resistenza che organizza la volontà di esistere di un popolo. La scelta dei colo- nizzatori di occidentalizzare e deprivare di passato culturale gli algerini colpisce il velo, l’elemento femminile che contrad- distingue quel mondo. I francesi sono ben consci che, come ribadisce Fanon: «le tecniche del vestiario, le tradizioni dell’abbigliamento e dell’acconciatura costituiscono i caratteri originali più rile- vanti, cioè più immediatamente percetti- bili di una società». La loro cancellazio- ne diviene la definitiva sconfitta dell’al- tro, il suo reale annientamento. L’abito, inteso appunto come fatto cul- turale, si presenta come modo per quali- ficarsi sia sotto il profilo della conserva- zione di un’identità tradizionale che sot- to quello della sua innovazione. Anche durante la Resistenza italiana, per certi versi, il vestito svolge questi compiti e su di esso convergono segni e aspettative di cambiamento. Il piano estetico è quello privilegiato dai giovani combattenti per fornire una immagine adeguata di loro stessi. L’identità, del resto, non è solo una dichiarazione di appartenenza, ma è anche il modo come gli altri, vedendo e ascoltando, riescono a collocare la nostra persona. L’iniziale assenza di uniformi in molte formazioni, l’essere costretti a improvvi- sare una divisa, sono tutte occasioni che offrono una via di fuga nel fantastico con la confezione e l’abbinamento di un guardaroba al limite del proponibile: an- ticonformismo e dissacrazione delle con- venzioni divengono per taluni modalità espressive da perseguire. Compaiono al- lora, e le memorie scritte e orali lo regi- strano, abbigliamenti decisamente tra- Dalle prime bande al nuovo esercito di popolo Le mille divise dei partigiani tra rigore e stravaganze di Filippo Colombara Una ricerca straordinaria. Vestiti in borghese e perfino da pirati con mille fronzoli e mostrine. Gli ordini per non salutare solo a pugno chiuso

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sgressivi: tra Valsesia e alto Novarese, adesempio, troviamo garibaldini vestiti allacorsara, «con un foulard da “tigrotto diMompracem”», altri che indossano abitida gagà, con tanto di «ricco cappotto,dall’elegante collo di pelliccia, da cuisballonzola mollemente un mitra Sten»,e altri ancora che portano bandolierecon appesi oggetti utili al combattimen-to, ma anche pezzi di ferro di cavallo co-me porta fortuna. Tra alcuni degli uomi-ni dell’82a brigata “Osella” vige invece lanecessità, che diviene consuetudine, dicoprirsi con giacconi maculati ricavati dapelli di animali, e il loro comandante,Pesgu, indossa giubbotti bianco-neri dipelo d’agnello, mentre il partigianoCiuch se ne va in giro con tanto di testada morto sul berretto, distintivo eviden-temente sottratto al nemico.Già da tali esempi emergono motivi uti-litaristici al fianco di vezzi e spavalderietipici del mondo giovanile. Se poi i ven-tenni non riescono a dar sfogo alla pro-pria esuberanza, perché imbrigliati incompassate divise militari, sono i fronzo-li e gli emblemi che ornano i loro vestitia costituire l’aspetto originale: un’alteritàricercata e ostentata. Per i comandi garibaldini, tenere a frenogli uomini dalla voglia di affermazioni diclasse è un’impresa ardua, destinata al-l’insuccesso. Nell’agosto 1944 CinoMoscatelli – con Eraldo Gastone “Ciro”a capo delle brigate comuniste del Pie-monte Nord Orientale – scrive: «Moltevolte devo intervenire per far toglierefronzoli rossi alle divise, bandiere rossedai camion; ho dovuto proibire le ban-dierine rosse ai mitra e ai fucili. [...] Epiù intervengo in questo senso e più lacosa si diffonde. Molti nostri ufficialihanno chiesto l’iscrizione al P. ProibiscoBandiera rossa quando sfilano: canta ecanta ma finiscono sempre lì. Molti diquesti “comunisti”, quasi tutti, hanno lasacra medaglietta al collo, l’immaginenel portafoglio».Tre mesi dopo, Paolo Scarpone, com-missario politico del Comando unico zo-na Ossola, relazionando a Pietro Secchia,commissario generale delle brigate co-

D urante l’occupazione coloniale del-l’Algeria, racconta Frantz Fanon,avviene una singolare forma di lot-

ta: ai tentativi francesi di snaturare la cul-tura originale togliendo il velo alle don-ne, esse si oppongono continuando a ve-larsi, aggiungendo o sostituendo ai mo-tivi tradizionali del suo uso quelli di con-tro-assimilazione e di conservazione del-la propria identità. In questo caso, pren-de corpo e si mantiene una particolareresistenza che organizza la volontà diesistere di un popolo. La scelta dei colo-nizzatori di occidentalizzare e deprivaredi passato culturale gli algerini colpisce ilvelo, l’elemento femminile che contrad-distingue quel mondo. I francesi sonoben consci che, come ribadisce Fanon:«le tecniche del vestiario, le tradizionidell’abbigliamento e dell’acconciaturacostituiscono i caratteri originali più rile-vanti, cioè più immediatamente percetti-bili di una società». La loro cancellazio-ne diviene la definitiva sconfitta dell’al-tro, il suo reale annientamento.L’abito, inteso appunto come fatto cul-turale, si presenta come modo per quali-ficarsi sia sotto il profilo della conserva-zione di un’identità tradizionale che sot-to quello della sua innovazione. Anchedurante la Resistenza italiana, per certiversi, il vestito svolge questi compiti e sudi esso convergono segni e aspettative dicambiamento. Il piano estetico è quelloprivilegiato dai giovani combattenti perfornire una immagine adeguata di lorostessi. L’identità, del resto, non è solouna dichiarazione di appartenenza, ma èanche il modo come gli altri, vedendo eascoltando, riescono a collocare la nostrapersona. L’iniziale assenza di uniformi in molteformazioni, l’essere costretti a improvvi-sare una divisa, sono tutte occasioni cheoffrono una via di fuga nel fantastico conla confezione e l’abbinamento di unguardaroba al limite del proponibile: an-ticonformismo e dissacrazione delle con-venzioni divengono per taluni modalitàespressive da perseguire. Compaiono al-lora, e le memorie scritte e orali lo regi-strano, abbigliamenti decisamente tra-

Dalle prime bande al nuovo esercito di popolo

Le mille divise dei partigianitra rigore e stravaganze

di Filippo Colombara

Una ricercastraordinaria.Vestiti in borghesee perfino da piraticon mille fronzolie mostrine.Gli ordiniper non salutaresolo a pugno chiuso

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Le quattro grandi tavole a colori di questo articolo che illustrano i vestiti e le armi deipartigiani, sono tratte da una recente e libera ricostruzione pubblicata sul volume diRiccardo Affinati, Partigiani italiani, 1943-1945. Come combattevano i partigiani,organizzazione, insegne, uniformi, tattiche di guerra ed armi (Edizioni Chillemi,Roma 2008, pp. 54, € 12,00. Distribuito da Strategia e Tattica - via Cavour, 250 -00184 Roma - tel. 06 4824684).

TIPOLOGIA DI VESTIARIO DI UN PARTIGIANO DELLA BRIGATA GARIBALDI

1) Berretto del Regio Esercito con applicata una stella rossa. 1a) Colbacco con stella rossa. 2) Fazzoletto rosso.3) Giacca militare. 4) Pistola semiautomatica Walter P38. 5) Fondina. 6) Mitra Thompson Mod. 1928 A1. 7) Sti-vali. 8) Calzini. 9) Pantaloni della X Mas, preda di guerra. 10) Maglione a collo alto. 11) Giberne e munizioni.12) Pipa e tabacco. 13) Borraccia e gavetta. 14) Gradi di Comandante di Divisione, cuciti sul bavero sinistrodella giacca. 15) Cinta. 16) Coltello pieghevole.

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muniste, sottolinea: «Si ostentanodistintivi ed emblemi con falce emartello, stelle rosse, ecc. Abbia-mo insistito perché questi distinti-vi siano tolti, perché le formazioninon sono formazioni di partito,ma bensì del CLN. Ci facevano lefacce tristi, malcontenti, non con-vinti di doversene privare. Il fazzo-letto rosso non deve essere tolto,anzi abbiamo spiegato che essorappresenta il distintivo delle no-stre brigate garibaldine, come lacamicia rossa caratterizzava i primigaribaldini». I risultati delle sollecitazioni nonpaiono però efficaci, almeno stan-do alle fotografie e ai disegni rea-lizzati dai garibaldini biellesi e val-sesiani, che in diversi casi ritraggo-no grosse stelle rosse cucite sui co-pricapi. Ad alcuni gruppi di com-battimento, come il 1° battaglionedell’«Osella», costituito dai vecchidella formazione al diretto coman-do di Pesgu, non passa assoluta-mente per la testa di uniformarsialle disposizioni e a “ripulire” ilvestiario. «Io – racconta il coman-dante Andrei – li chiamavo gli “ir-regolari abissini”, con riferimentoal loro modo di vestire, con tuttele divise più impensate; mancavasolo quello che avesse le penne dapellirossa che avevamo un saggiorappresentativo di tutti i vari tipi diguerrieri e no. E poi anche per leurla che a volte lanciavano, nonsolo quando facevano gli attacchima anche quando si trasferivano». Permane in uso, quindi, e per pa-recchio tempo ancora, una sorta diabbigliamento folklorico, di cui

numerosi racconti e memoriescritte lasciano traccia. Pippo Cop-po, commissario politico della IIdivisione Garibaldi “Redi”, ram-menta che alle trattative con i fa-scisti per la resa di Gravellona To-ce durante il periodo della repub-blica dell’Ossola, si presenta il par-tigiano Fulmine, il quale «sulla ca-micia rossa portava ricamata unamosca e di seguito la scritta “tel-li”», a significare, appunto, il no-me del proprio comandante. Cosìpure il repubblicano Giose Rima-nelli narra nel suo Tiro al piccionedi quattro partigiani catturati du-rante un rastrellamento nel Vercel-lese, probabilmente in Valsesia, esubito passati per le armi, i quali:«Sul fazzoletto rosso portavano latesta di Stalin incorniciata dalla fal-ce e dal martello». Prassi apparen-temente usuale, inoltre, è firmareil fazzoletto di combattimento conil proprio nome di battaglia; unornamento che talora porta rica-mate le cifre della sua autrice. Alproposito, a fine febbraio 1945,ancora in piena guerra, una bam-bina, Anna Maria, scrive al giorna-le fondato da Moscatelli La StellaAlpina: «Ai baldi Garibaldini diMoscatelli. Sui fazzoletti che vi sa-ranno recapitati dalla bontà dellevostre compagne e amiche fedeli,troverete alcune iniziali ricamate.Sono i nomi della mia mamma edelle sue compagne che hannopensato a voi. Mi fa piacere poter-vi dire che delle iniziali le ho rica-mate io, piccola bambina di ottoanni, e precisamente quelle con lesigle B.A. Lo terrà come ricordo

colui cui toccherà, come io mi ri-corderò di voi tutti con le preghie-re perché Iddio vi protegga e vifaccia vincere questa santa causa.Spero e desidero vedervi un gior-no. Viva l’Italia libera ed i suoieroici Partigiani». Con i fazzoletti, poi, crescono lestelle rosse. Margot Wöllersdorfer,segretaria di un industriale tede-sco, catturata e segregata per unpaio di mesi dai garibaldini bielle-si, ricorda di aver ricevuto in quelperiodo parte della sua biancherialasciata a Biella e «un pullover conil distintivo da partigiano: una stri-scia rossa-bianca-verde senza, perfortuna, la stella dell’Armata rossache tutti loro portavano». Anche ilegacci delle scarpe recano un se-gno distintivo, secondo un’infor-mativa fascista del luglio ’44, infat-ti, quelli degli uomini di Moscatel-li sono di colore rosso, così comerosso è il colore delle coccarde ap-puntate sul petto dei carabinieriche prestano servizio nelle zone diinfluenza partigiana.Franco Fortini, buon osservatoredi usi e costumi, descrive l’etero-geneo guardaroba dei resistentidurante la repubblica dell’Ossola.Entrato dalla Svizzera, il giovaneintellettuale milanese incontra ilmondo partigiano in montagna aMalesco: «Non hanno più di di-ciotto anni, penso. Sulle spalle, iteli mimetici e, sotto, le gambenude. A tracolla un fucile o un mi-tragliatore e i caricatori infilati incartucciere di pezza avvolte allacintola». Il racconto prosegue ar-ricchendosi di particolari: «L’abbi-gliamento dei partigiani, come poiebbi agio di osservarlo a Domo,meriterebbe una descrizione accu-rata, se non altro per l’ingegnositàche ognuno impiegava a distin-guersi. C’erano di quelli che in-dossavano una specie di uniformeamericana o inglese, portavano re-golari mostrine ornate di edel-weiss, come gli Alpenjäger austria-ci, e i segni del grado sulle spalle esul petto. Ma i più si vestivano allameglio, come volevano e poteva-no. E in quel modo d’essere e dinon essere equipaggiati si potevaleggere tutta la cronaca degli ulti-mi anni. Giacche a vento ritagliatenei teli mimetici, giubbe ricavatedalle coperte da campo, stivali del-

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Qui siamo a Stradella (Pavia). I partigiani sono schierati per essere passati in rassegna. Illoro abbigliamento non è meno approssimativo del loro “stare sull’attenti”. Ma il risultatonon cambia: hanno vinto su un esercito addestrato e dotato di equipaggiamento adeguato.

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la Wehrmacht o della guerra d’A-frica, scarpe da sci, vecchi scarponichiodati di montanari e berretti al-pini della fanteria, colbacchi allarussa, cappellucci alla tirolese,sombreri da film d’avventura. Esimboli e segni d’ogni sorta, daifazzoletti rossi, verdi, azzurri, orainfilati nelle spalline e legati sulpetto, ora avvolti intorno al collo;alle stelle rosse a tricolori, alle fal-ci-martello, ai nomi e ai motti rica-mati sui berretti. Ognuno portavacon sé quante più armi poteva. Lebombe a mano italiane, rosse e ne-re, penzolavano dalle cinture co-me salcicce; quelle tedesche, dal-l’aspetto inoffensivo di manubri dilegno, si infilavano nei cinturoni osbucavano dai sacchi».Le simbologie di classe, natural-mente, si ripresentano puntualinelle pagine di narrativa partigia-na, soprattutto in quelle di Feno-glio, attento indagatore degliaspetti antropologici. Il partigianoJohnny, si legge nell’omonimo ro-manzo, «stava sempre più risen-tendo di tutte quelle stelle rosseche, privilegio sulle prime di solialcuni berretti e caschetti, li costel-lavano ora tutti, con obbligatoriageneralità, e tutti se le cucivanosenza obiezioni, sebbene senzasorriso, in quanto costituivano ilpiù naturale e soddisfacente antial-tare al fascio littorio e contrappe-so. Il buffo si era che le uniche o lemaggiori, fornitrici di stelle rosseerano le suore degli asili infantilidei paesi tutt’intorno, le fabbrica-vano con un certo qual astio e in-sieme con una certa qual amorosaaccuratezza, e il maresciallo Marioaffermava essere creditrici terribili,se non si poteva nemmeno pensa-re di eluderle o procrastinarle nelpagamento». È sempre di Feno-glio, l’esilarante descrizione del-l’ingresso dei partigiani ad Alba, ilprimo di quei ventitré giorni di li-bertà: «Fu la più selvaggia paratadella storia moderna: solamente didivise ce n’era per cento carnevali.Fece un’impressione senza pariquel partigiano semplice che passòrivestito dell’uniforme di gala dicolonnello d’artiglieria cogli ala-mari neri e le bande gialle e intor-no alla vita il cinturone rossonerodei pompieri col grosso gancio.Sfilarono i badogliani con sulle

spalle il fazzoletto azzurro e i gari-baldini col fazzoletto rosso e tutti,o quasi, portavano ricamato sulfazzoletto il nome di battaglia. Lagente li leggeva come si leggono inumeri sulla schiena dei corridoriciclisti; lesse nomi romantici e for-midabili, che andavano da Rolan-do a Dinamite. Cogli uomini sfila-rono le partigiane, in abiti maschi-li, e qui qualcuno tra la gente co-minciò a mormorare: – Ahi, pove-ra Italia! – perché queste ragazzeavevano delle facce e un’andaturache i cittadini presero tutti a striz-zar l’occhio». E ancora, osservan-do i comandanti sul balcone delmunicipio: «Si vedeva un capo chesu dei calzoncini corti come quellid’una ballerina portava un giub-bone di pelliccia che da lontanosembrava ermellino, e un altro ca-po che aveva una divisa completadi gomma nera, con delle cernierelampeggianti».Stravaganze e originalità sono pro-prie dei combattenti maschi. Per ledonne, di per sé poco numerose,non risultano particolari eccentri-cità. Gli abiti indossati sono sobrie funzionali. Pantaloni, ma anchegonne, e maglione risultano lanorma per chi è in formazione onei distaccamenti ausiliari. Gliscarponi, poi, sono le calzature in-dispensabili per superare prove dimontagna ben più impegnative diuna semplice scampagnata. Dalleimmagini fotografiche non emer-gono fronzoli distintivi, ma per chiè in divisa, così come per gli uomi-

ni, è facile che sul basco appaia lastella rossa.Nelle formazioni garibaldine, inol-tre, vi sono esplicite espressioniche corredano l’immagine delguerrigliero/militante politico,come la singolare autodisciplinadal basso che introduce il salutocol pugno chiuso, ormai in uso dapiù di vent’anni. Scrive Moscatellialla federazione milanese del Pci:«Se voi chiedete ai partigiani cheidee politiche hanno, a quale par-tito appartengono, nella quasi to-talità vi rispondono che sono co-munisti. Si farebbero stampigliarefalce e martello anche sulle nati-che; “Barbisùn”, Stalin, è un pa-dreterno. Guai a toccare la Russiae soprattutto l’Esercito rosso. Sa-lutano tutti col pugno chiuso. Co-me massa siamo a terra in fatto dipreparazione [politica]. […] Per-sonalmente non ho mai salutatocol pugno, mentre tale saluto mi èrivolto anche dai preti, dai carabi-nieri e da tutto il popolo indistin-tamente». Elementi tutti che assieme ai nomidi battaglia e ai canti rimandano aun vero e proprio folklore parti-giano, perché – come ricorda lostorico Roberto Battaglia – è attra-verso il loro esame che «si puòscrivere una pagina assai interes-sante della cultura popolare, dellacultura degli oppressi in uno deimomenti più cruciali della nostrastoria».Per altro verso, su posizioni diffe-renti, e in sintonia con i comandi

Tuta mimetica, pantaloncini corti per il ferito e pantaloni lunghi per l’infermiere, nel Co-mando di Carbonera, nella zona delle cave (a Carrara). Logicamente, in qualsiasi situazione,le armi non si lasciano mai.

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Stella alpina che i partigiani della Valsesia portavano su mostrine rosse

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1) Moschetto Automatico Beretta mod. 38/40. 2) Fondina e pistola Beretta mod. 1934. 3) Stelle alpine sumostrine rosse. 4) Giacca dell’esercito regio. 5) Granata a mano tedesca mod. 24. 6) Cinta militare. 7) Camiciainglese. 8) Copricapo da alpino. 9) Mutande e maglia di lana. 10) Scarponi. 11) Calzini di lana. 12) Fazzolettorosso. 13) Pantaloni mimetici, preda di guerra 14) Sigarette. 15) Giberne per munizioni.

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TIPOLOGIA DI VESTIARIO DI UN PARTIGIANO DELLA BRIGATA OSOPPO

1) Basco nero con applicata un’insegna tricolore. 2) Fazzoletto verde. 3) Maglione a collo alto. 4) Giacca dipelle. 5) Pantaloni tedeschi. 6) Smg Sten MK IIS 01. 7) Scarponi da alpino e calzini. 8) Giberne e munizioni. 9) Binocolo. 10) Gavetta tedesca. 11) Granate a mano tedesche mod. 24. 12) Bretelle. 13) Baionetta per il fucile1891/38, caratterizzata dalla lama pieghevole. 14) Orologio da taschino. 15) Bussola RAF 1915 ad orologio.

Fasce mollettiere per le gambe.

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superiori, si colloca Moscatelli,convinto che solo da un’accuratacostruzione dell’organizzazionemilitare nasca il nuovo combatten-te per la libertà. Durante tutto il1944 vi è un susseguirsi di carteg-gi con le autorità superiori e i co-mandi periferici aventi per argo-mento, oltre alla precisa opzioneorganizzativa di tipo militare, an-che la realizzazione di divise, mo-strine, distintivi di grado e tuttoquanto serve a privilegiare l’imma-gine del reparto militare al postodella banda partigiana. Le condizioni della guerriglia, tut-tavia, non favoriscono regolari for-niture di capi di vestiario e orna-menti; i rapporti con le aziendeproduttrici non possono che esse-re clandestini: a difficoltà si som-mano difficoltà. Singolare la vicen-da del distintivo delle stelle alpineappuntato sulle mostrine. «Sono

nate a fine agosto del ’44 – scrivenel dopoguerra La Stella Alpina –,ordinate in numero di 15.000 aduna ditta di Milano da Moscatelli e“Ciro” tramite il fratello di que-st’ultimo. Ma la ditta rispose chenon si sentiva sicura di tutti i suoioperai e che il rischio era troppo…Si pensò di girare l’ostacolo facen-dole simili a quelle che gli Alpen-jäger tedeschi portavano sulle bu-stine. Differiscono soltanto – in-fatti – per avere una fogliolina dipiù ed i pallini, al centro, non do-rati. Se una delle trenta polizieavesse osservato, la cosa potevapassare per una ordinazione dellaWehrmacht. Così tutti i garibaldi-ni della Valsesia e dell’Ossola eb-bero le loro mostrine».Sfortunata, invece, risulta la vicen-da dei berretti della divisa che,progettati da Alfredo Dominietto,come egli annota, «sul modello

dei vecchi Garibaldini, degnoquindi di essere ricettato tra i nuo-vi Garibaldini!», non si realizzanoa causa dei timori degli industriali.La volontà di accelerare il processodi trasformazione delle bande inun vero e proprio esercito di libe-razione conduce anche alla codifi-ca dei comportamenti, perché, co-me dispone il comando unificatodei garibaldini della Valsesia e del-l’Ossola nel settembre ’44: «la di-sciplina è segno di ordine interno;la popolazione è favorevolmenteinfluenzata da una condotta disci-plinata e giudica soprattutto daisegni esteriori; l’unificazione diquesti ultimi è indice sicuro che le“bande” sono ormai esercito».A incidere sull’aspetto esteriore è,in particolare, l’adozione del salu-to militare, sia a capo coperto chescoperto e la conseguente aboli-zione del saluto a pugno chiuso,fino ad allora tollerato. Le disposi-zioni sono tassative ma il recepi-mento da parte degli uomini delleformazioni garibaldine non è im-mediato. È difficile costringere adaccettare prescrizioni – di cui ilsaluto è solo uno degli aspetti –troppo simili alla naia dell’esercitosabaudo. Le risposte variano a se-conda dei gruppi combattenti. Nelcaso degli uomini del 1° battaglio-ne dell’«Osella», il cui spirito dibanda rimarrà fino alla smobilita-zione, nel dicembre 1944 il lorocommissario politico tenta di con-vincerli dell’importanza del salutonel modo seguente: «Il saluto,prescindendo dagli eventuali signi-ficati di carattere secondario, asfondo militare, politico o religio-so che gli possono essere attribuiti,è pure espressione di educazione edi civismo. Ora non vediamo nelsaluto un riferimento a quella danoi tanto aborrita burocrazia mili-tare: consideriamolo indipenden-temente da qualsiasi pregiudiziogerarchico in omaggio anzi a quel-lo stesso cameratismo garibaldinoche è il più saldo cemento spiritua-le delle nostre masse, ed attribuia-mogli invece il debito morale[…]».L’estrema cautela e il fare educati-vo denotano i timori del commis-sario di urtare la suscettibilità deipartigiani, con il pericolo di intro-durre elementi di disturbo nella

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Due partigiani a Belluno nelle loro incredibili divise.

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conduzione della lotta. Unapreoccupazione che, estesa all’im-portanza dell’inquadramento mili-tare dei reparti, era stata segnalatamesi prima da “Ciro”, a nome delComando unificato, proprioall’«Osella»: «Qualora noi non ri-uscissimo a dare ai nostri Repartiquell’impronta militare [...] do-vremmo subire l’umiliazione im-meritata, ma d’altra parte giusta,di vedere coronata la nostra attivi-tà liberatrice con il disarmo».Meno problemi si pone invece lastampa partigiana, partecipe nelpromuovere la trasformazione.Soffermandosi sui problemi delladisciplina e di come migliorarla,La Stella Alpina nel novembre ’44osserva: «Al rapporto [...] di sim-patia, di amicizia o di affetto, par-ticolare caratteristica delle bande,pur conservando ciò che vi è dibuono in tali particolari rapporti,va oggi sostituito un rapporto chetutti sovrasta: la disciplina ferrea,scattante, veramente sentita ed ac-cettata con consapevolezza ed en-tusiasmo. […] Arrischiare la pelleè cosa che sanno fare, in certi statid’animo particolari, anche i pusil-lanimi; imporsi una disciplina, vo-lerla come si vuole l’arma percombattere è condizione primaoggi per ogni Partigiano».Nel medesimo numero del giorna-le, in relazione ai rapporti con lepopolazioni di pianura, si dannoprecise disposizioni circa l’atteg-giamento psicologico da assumere:«In pianura incominciano ora aconoscerci realmente, poiché pri-ma ci conoscevano in modo piut-tosto vago ed irreale, cioè più persentito dire che per altro. Occorrequindi misurare ogni nostra mos-sa, poiché è noto come la primaimpressione sia determinante al-lorché si deve giudicare qualcuno.Quando le popolazioni vedono ipartigiani devono vedere dei co-raggiosi se nella lotta, dei veri sol-dati ben inquadrati se di transito,delle persone affabili ed educate sehanno con loro rapporti personali:soprattutto dei bravi ragazzischietti e semplici nei modi e nelparlare. Al bando quindi le faccetruci, i nastri e i fronzoli multico-lori, le inutili spavalderie, lo sbal-larle grosse per far rimanere i ra-gazzini del paese a bocca aperta.

In divisa o meno, pulizia in sensosuperlativo e serietà e portamentomilitare anche se gli abiti sono abrandelli e i piedi scalzi. Niente at-teggiamenti inutilmente feroci an-che quando si va a prendere l’ac-qua da bere! Niente esibizionisminegli abitati. Farsi vedere il menopossibile, cioè lo stretto necessa-rio, come gente che sa dove anda-re e cosa fare».Con il passare dei mesi, la costi-tuzione del Corpo Volontari dellaLibertà accelera le fasi di coordina-mento tra le formazioni e la lorotrasformazione in esercito popola-re. Si allontana, nel contempo,«l’alone romantico primitivo», af-ferma Battaglia, «che si era mani-festato particolarmente nell’inde-scrivibile varietà delle fogge in cuierano abbigliati i partigiani, quasia consolarsi della mancanza di verie propri “abiti”. […] L’abbondan-za dei lanci primaverili alleati nel“settore dell’abbigliamento” per-mette finalmente di adottare unpo’ ovunque una vera e propria di-visa, la divisa cachi regolamentare.Può sembrare un elemento secon-dario, ma è invece un fatto decisi-vo per la “regolarizzazione” deivolontari della libertà, anche neirapporti con la popolazione civileper cui “la divisa” è il primo segnodell’autorità. Unificati anche i gra-di in base alle disposizioni del Co-mando del CVL, restano a ricor-dare la primitiva vita ribellistica, necostituiscono si può dire l’unico

residuo, i fazzoletti multicolori an-nodati intorno al collo».Discorso a tutto tondo questo diBattaglia, che in un’opera com-plessiva come la sua Storia dellaResistenza italiana, per altri versiacuta e ancora odierna, sembrasottovalutare alcuni caratteri dellasoggettività dei protagonisti. Chesia stato davvero scontato per ipartigiani l’anelito di indossareuna divisa è forse un’affermazioneeccessiva, data la diffusa ripulsionenei confronti del militarismo. Unbuon numero di combattenti hacerto condiviso queste posizioni,ma è indubitabile che sull’abbi-gliamento, come su altri aspettinormativi e organizzativi, molti sisono adeguati a fatica e tardi. Se nell’autunno del ’44 la 6a

“Nello” mostra: «Molto buonol’abbigliamento, gli uomini sonotutti in divisa, con mostrine e fregie questo dà un’aria molto ordinataalla formazione», e anche la “Vo-lante rossa” marcia in divisa,all’«Osella», ricorda Andrei: «Noinaturalmente eravamo ancora inborghese, non avevamo una divisache ci caratterizzava», perché «eramolto comodo usare gli elementiin borghese, soprattutto quandodovevano recarsi in paese a contat-to con la popolazione, anche pernon creare [...] motivi di allarmeinutile». Così pure nel Verbano, ri-corda la staffetta Amelia Maccari-nelli: «I partigiani in montagna,specialmente nella nostra zona,

Un gruppo di partigiani della IV Brigata Garibaldi “Gino Menconi” nella primavera del 1944.Si è scelta questa foto in particolare per la “vasta” e diversissima gamma di copricapi.

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TIPOLOGIA DI VESTIARIO DI UN PARTIGIANO DEI G.A.P.

I Gruppi d’Azione Patriottica (GAP), operavano azioni di sabotaggio e attentati contro gli occupanti nazifascistiall’interno dei centri urbani. Erano vestiti in maniera del tutto normale e dotati di documenti falsi per proteg-gersi dai frequenti controlli.

1) Cappello floscio. 2) Orologio da polso. 3) Camicia. 4) Impermeabile. 5) Pantaloni. 6) Pistola automatica.Glisenti modello 1910 e munizioni. 7) Scarpe drop. 8) Cravatta. 9) Tabacco da masticare. 10) Documenti falsi di Sandro Pertini. 11) Tirapugni (requisito ad un milite della G.N.R. - Guardia Nazionale Repubblicana).12) Caramelle per la gola. 13) Penna stilografica. 14) Cinta. 15) Calzini. 16) Fazzoletto da taschino e sigarette.17) Fascia da portare al braccio con la sigla C.T.L.N. (Comitato Toscano Liberazione Nazionale), con al centroil Pegaso, usata al momento dell’insurrezione generale o di azioni particolari in città. 18) Moneta della R.S.I.(Repubblica di Salò). 19) Esempio di Distintivo Partigiano da applicare sul bavero.

Mortaio d’assalto Brixia Mod. 35.

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non hanno mai avuto la divisa; so-lo quei pochi indumenti che le fa-miglie mandavano su, lavorati amaglia. La divisa è stata fatta inprevisione della liberazione e soloallora qualcuno l’aveva, color ta-bacco».Ma a ben guardare sono soprattut-to fronzoli e orpelli che i partigia-ni continuano a sfoggiare. Unamoda che non si placa, tanto che apochi giorni dalla liberazione LaStella Alpina pubblica l’ennesimareprimenda: «Nonostante le ripe-tute ordinanze dei superiori Co-mandi, abbondano ancora nellenostre formazioni i fiocchi e fioc-chetti, le stelle, le medagliette e ifronzoli d’ogni genere e specie,quasi che ai partigiani sia proprioimpossibile il poterne fare a meno.Taluni poi, fedeli a chissà qualespirito bazaristico, sembrano addi-rittura degli arsenali di chincaglie-rie e si attaccherebbero alla giubbao al berretto non si sa più qualeaggeggio pur di avere qualche co-sa di diverso dai compagni».Persiste cioè una forte volontàidentitaria, il bisogno di distinguer-si, di raccontare per fronzoli le pro-prie idealità e comunicare in modosemplificato quanto difficilmente sirenderebbe esplicito con teorie po-litiche poco masticate. I comandi,però, insistono nell’evitare qualifi-cazioni squisitamente politiche incontrasto con il carattere patriotti-co della lotta. Pertanto, continua ilgiornale garibaldino: «chiunquenon desideri apparire volutamentee palesemente indisciplinato do-vrebbe ripulirsi la divisa da tuttiquegli emblemi, sia pure cari alcuore di ciascuno, che niente han-no a che fare con la missione delsoldato in armi per la libertà dellaPatria. Per nostro conto aggiunge-remo che di fronzoli, aquile e gallo-ni ce n’han dato una bella zuppa ifascisti a loro tempo; e quindi unamaggiore serietà e sobrietà nellapersona dovrebbero essere tra leprincipali norme che distinguono ipartigiani, sorti appunto in funzio-ne precipuamente antifascista. Seciò non bastasse, sostengono talenostro criterio di pulizia personale,dentro e fuori, anche varie ragionidi carattere militare, tra le quali laprima è quella che le nostre Forma-zioni non debbono avere alcun ca-

rattere arlecchinesco, nemmenonell’esteriorità».Tuttavia il divario tra la banda nonsempre ben organizzata e l’imma-gine di rettitudine che essa dovreb-be perseguire sarà esigenza contin-gente, ma, soprattutto, occasionedi disputa per l’avvenire. Obiettivodi una prassi del genere è far puli-zia dei retaggi del vecchio regime,primo passo verso il tanto auspica-to italiano nuovo. A sostegno ditale innovazione etica contribui-scono i racconti di memoria che sipubblicano a partire dalla primave-ra del ’45. Solo in questo modo sipossono comprendere taluneespressioni di maniera che appaio-no sui fogli partigiani. Sul giornaledei garibaldini valsesiani e dell’altoNovarese, per esempio, ricordandol’ingresso dei partigiani a Villados-sola durante il periodo della zonalibera, si afferma: «I garibaldinimarciavano a passo militare, ordi-nati, cantando le nostre più bellecanzoni di guerra. La folla guarda-va entusiasta ed applaudiva; nonerano i banditi descritti dalla pro-paganda nemica, erano dei soldatidi un esercito nuovo e sano chenon conoscevano ancora bene. Erauna parte dell’esercito del popoloche passava, fiera e piena di impetogiovanile. Questo nuovo esercito,il cui seme sano è nel garibaldini-

smo dura scuola di ardimento e didisciplina. Poiché se non c’è disci-plina crolla tutto l’edificio di unaorganizzazione militare».In modo simile, su Baita, fogliodei garibaldini biellesi della XII di-visione, un giovane rammentandoil proprio arrivo in formazione, af-ferma: «Con grande stupore no-tammo la bellissima uniforme deigaribaldini, il grande armamento,la perfetta familiarità e fratellanzaesistente fra garibaldini e coman-dante, l’ottimo ed abbondanterancio, mentre secondo la propa-ganda fascista, questi uomini nondovevano essere che bande disor-ganizzate, affamate e in lotta traloro».Entrambi i brani paiono l’inap-puntabile descrizione di reparti delregio esercito, piuttosto che quelladi formazioni partigiane senza «nécolonnello né generale». Ma nellesettimane della Liberazione è or-mai in discussione la memoria del-la Resistenza, quanto e come an-drà ricordato e narrato; talora,quindi, si tenderà a far prevalere labanda idealizzata su quella reale. Nuovi scontri politici si stanno peraprire nell’Italia dalla fragile de-mocrazia; smussare errori e pecchediventerà pratica necessaria perreggere il presente e non smarrireil passato.

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Nei giorni della Liberazione a Torino, uno straordinario e anziano garibaldino sfila per lestrade della città.