Le identita del Geografo - Gabriele Zanetto

16
“Bricconcello – disse Paganel – gli insegnerò la geografia. Siccome John Mangles si era assunto il compito di farne un marinaio, Glenarvan un uomo di cuore, il maggiore un giovane dal sangue freddo, Lady melena un essere buono e generoso, Mary Grant un allievo riconoscente a simili maestri, Robert doveva evidentemente diventare un uomo perfetto” (Verne, 1867). L’identità del geografo 1. Prologo Che cosa sia la geografia è questione sempre – felicemente – aperta, che ho tentato altrove di impostare (Zanetto, 1992) in modo da rendere la risposta una variabile dipendente dalle sollecitazioni sociali tipiche di una società geograficamente e storicamente collocata. Darsi un’idea operativa ed appagante del Mondo, per saper condurre i nostri passi a percorrerlo (e sapendo ritornare), dare un senso al qui grazie alla sua contestualizzazione nel (quasi) infinito altrove. In fondo si tratta di rendere visibile (o prefigurabile) l’altrove, esigenza che il trascorrere di epoche e civiltà fa compito assai vario: dalle carte per i navigli di Enrico il Navigatore alle proiezioni in terra dell’aldilà di Cosma Indicopleuste. Ma con una comunanza stretta della funzione della geografia nei più vari frangenti. “Senza Navi o Destrieri coll’occhio solo/ Scorrer Potrai Città Provincie e Regni/ E giugnere dall’uno all’altro Polo”. Con questa promessa il pittore veronese Sebastiani Lazzari , nella seconda metà del XVIII secolo, ornava il suo “Natura morta con mappamondo e cocomero”, in un’epoca che si accingeva a metter a frutto il Mondo, cupidamente visto come risorsa da valorizzare. Ma non è difficile scorgere gli equivalenti di quelle “città, province e regni” nella nostra come in altre epoche e frangenti, dalla geopolitica di Haushofer ai geografi postmodernisti attenti a dissetare la società contemporanea afflitta dalla mancanza di senso e di identità. Contuttociò resta ironicamente stimolante la famosa risposta del geografo americano alla nostra domanda: “Geography is what geographers do”. La questione, è vero, si sposta di poco, ma – portando il punto di vista nelle esperienze personali, nelle biografie dei geografi anziché nella sistematizzata produzione disciplinare – le illuminazioni non sono poche. Non si tratta peraltro di una esperienza inedita, esplorata dapprima dalla Buttimer (1983) e splendidamente incorporata nell’altra da Gould (1988). Riducendo la geografia alla prassi dei geografi si capisce meglio che si tratta di un originale contributo alla costruzione del mondo, sia quando se ne preconizza una forma logica, o se ne discopre un divenire appena annunciato, o lo indirizza davvero decidendo le linee di un’azione umana (per usare la dizione cara, tra gli altri, a Pierre George) a qualsiasi scala. Una costruzione del mondo che privilegia una particolare risoluzione della sua rappresentazione: quella in cui si può apprezzare il dispiegamento spaziale delle forme assunte dagli ecosistemi sottoposti a intenzionali e progettate azioni delle società umane, forme in cui si leggano le dinamiche naturali e le tecnologie, le culture, i conflitti delle popolazioni. Era geografia, quella che mi provocava nella lista inquietante e lunga delle deleghe scritte sulla mia cartellina che segnava il mio posto al tavolo

description

Esistono tanti tipi di geografo

Transcript of Le identita del Geografo - Gabriele Zanetto

Page 1: Le identita del Geografo - Gabriele Zanetto

“Bricconcello – disse Paganel – gli insegnerò la geografia. Siccome John Mangles si era assunto il compito di farne un

marinaio, Glenarvan un uomo di cuore, il maggiore un giovane dal sangue freddo, Lady melena un essere buono e generoso, Mary

Grant un allievo riconoscente a simili maestri, Robert doveva evidentemente diventare un uomo perfetto” (Verne, 1867).

L’identità del geografo

1. Prologo

Che cosa sia la geografia è questione sempre – felicemente – aperta, che ho tentato altrove di impostare (Zanetto, 1992) in modo da rendere la risposta una variabile dipendente dalle sollecitazioni sociali tipiche di una società geograficamente e storicamente collocata. Darsi un’idea operativa ed appagante del Mondo, per saper condurre i nostri passi a percorrerlo (e sapendo ritornare), dare un senso al qui grazie alla sua contestualizzazione nel (quasi) infinito altrove. In fondo si tratta di rendere visibile (o prefigurabile) l’altrove, esigenza che il trascorrere di epoche e civiltà fa compito assai vario: dalle carte per i navigli di Enrico il Navigatore alle proiezioni in terra dell’aldilà di Cosma Indicopleuste. Ma con una comunanza stretta della funzione della geografia nei più vari frangenti.

“Senza Navi o Destrieri coll’occhio solo/ Scorrer Potrai Città Provincie e Regni/ E giugnere dall’uno all’altro Polo”.

Con questa promessa il pittore veronese Sebastiani Lazzari , nella seconda metà del XVIII secolo, ornava il suo “Natura morta con mappamondo e cocomero”, in un’epoca che si accingeva a metter a frutto il Mondo, cupidamente visto come risorsa da valorizzare. Ma non è difficile scorgere gli equivalenti di quelle “città, province e regni” nella nostra come in altre epoche e frangenti, dalla geopolitica di Haushofer ai geografi postmodernisti attenti a dissetare la società contemporanea afflitta dalla mancanza di senso e di identità.

Contuttociò resta ironicamente stimolante la famosa risposta del geografo americano alla nostra domanda: “Geography is what geographers do”. La questione, è vero, si sposta di poco, ma – portando il punto di vista nelle esperienze personali, nelle biografie dei geografi anziché nella sistematizzata produzione disciplinare – le illuminazioni non sono poche. Non si tratta peraltro di una esperienza inedita, esplorata dapprima dalla Buttimer (1983) e splendidamente incorporata nell’altra da Gould (1988). Riducendo la geografia alla prassi dei geografi si capisce meglio che si tratta di un originale contributo alla costruzione del mondo, sia quando se ne preconizza una forma logica, o se ne discopre un divenire appena annunciato, o lo indirizza davvero decidendo le linee di un’azione umana (per usare la dizione cara, tra gli altri, a Pierre George) a qualsiasi scala. Una costruzione del mondo che privilegia una particolare risoluzione della sua rappresentazione: quella in cui si può apprezzare il dispiegamento spaziale delle forme assunte dagli ecosistemi sottoposti a intenzionali e progettate azioni delle società umane, forme in cui si leggano le dinamiche naturali e le tecnologie, le culture, i conflitti delle popolazioni.

Era geografia, quella che mi provocava nella lista inquietante e lunga delle deleghe scritte sulla mia cartellina che segnava il mio posto al tavolo tondo della giunta comunale di Venezia, perché erano capitoli di un apparato decisionale che avrebbe dato forme a un territorio, attraverso norme e regolamenti (commercio e mercati, ambiente), ma anche pure parole e numeri (toponomastica e statistica), o vere decisioni di “fare” materialmente, come per il porto, il parco scientifico o l’innovazione tecnologica.

Portare così vistosamente a confluenza il mio essere ricercatore e il mio fare l’amministratore locale mi echeggiava in mente un film in cui un ufficiale (smargiasso conquistatore di ragazze ammaliate dalla divisa, dallo stipendio e dall’ardimento) si presentava fin dal titolo anche come “gentiluomo”, cioè rispettoso della dignità della corteggiata e non traditore della sua parola. Ma questa coesistenza (Hackford, 1982) è così poco credibile da apparire come una tipica favola ben intonata alla psicologia femminile, una riedizione del Principe Azzurro, come questo un po’ troppo dolce ed evanescente. “Professore ed assessore”, scienziato e operatore, autore di scritti e di concrete forme (pur sempre in relazione a territori), è un’intersezione di insiemi altrettanto favolosa nel senso di cose belle da pensare se il mondo fosse semplice abbastanza da apparirci più buono nella sua banalità posticcia? A chi rassomiglia di più un geografo, ad un esploratore lacero e silenzioso, o al cieco immaginatore di mappamondi di Vermeer, come il “cosmografo” camaldolese fra’ Mauro di San Michele di Murano, sedentari sistematizzatori di esperienze altrui? Che ne è del sapere scientifico quando si inalvea nel solco dell’azione sociale?

Stava concludendosi il mio quadriennio di amministratore non eletto quando, sollecitato dal tema di una tavola rotonda cui ero stato invitato (in occasione delle Giornate della Geografia di Catania, nel 1997), mi sono trovato a formalizzare per la prima volta una risposta personale, vissuta, alla domanda tante volte posta: cos’è la geografia, chi è il geografo?

Discorrere di identità non è semplicissimo, poiché allude ad un “essere la stessa cosa” (idem), qualità che può assumere connotazioni assai varie. Si può intendere l’identità come un’identificazione, cioè riconoscersi – specie emotivamente – in altri, una chiamata ad esistenza a completamento della soggettività attraverso l’immedesimazione; ma anche come una imitazione, un voler assumere le sembianze se non le qualità, anche con lo scopo di ingannare se

Page 2: Le identita del Geografo - Gabriele Zanetto

non di raggiungere un modello, un eroe (emulazione); ma assumere o riconoscere un’identità ha a che fare anche con l’assunzione di una forma esteriore nel solco di un conformismo comportamentale o estetico, per esempio per ottenere l’accettazione di un gruppo. Tutte accezioni utili al nostro ragionamento, come vedremo; ma il senso che ci interessa di più, per ora, è quello dell’accettazione da parte di un gruppo, i cui membri si dicono esplicitamente uguali nel senso di equivalenti e non surrogabili da esterni al gruppo stesso. Poiché, si diceva, una disciplina scientifica altro non è che un sapere organico e vagliato fino a fornire una rappresentazione coerente e testata, nonché socialmente riconosciuta. Giacché le discipline non preesistono alla ricerca, non sono date per calco dalla realtà, ma ne sono comode (ed arbitrarie) letture parziali, cosicché esse possono nascere, dividersi, riunirsi, scomparire secondo meri criteri di economicità sociale.

2. Identità come differenza (antagonismo):

La teoria della classificazione applicata ad “unità areali” è un campo classico della geografia quantitativa, che tenta di individuare regioni e processi di regionalizzazione attraverso il riconoscimento di gruppi di aree in qualche modo analoghe o, almeno, sia massimamente simili tra di loro che massimamente diverse da altri gruppi (Zanetto, 1984). Uno dei modi più immediati e costruttivi per definire l’identità di una categoria, come quella dei geografi, è dunque l’individuazione dei confini, di quelle separazioni per distanza qualitativa che minimizzano la varianza interna del gruppo (i geografi) e massimizzano la varianza tra i gruppi (i geografi e i cultori di altre discipline).

Come dice magistralmente Claudio Magris (1997, 43-44), senza ricorrere a concetti statistici:

“Ogni identità è anche orribile, perché per esistere deve tracciare un confine e respingere chi sta dall’altra parte. Solo un odio più grande supera gli odi più piccoli, che si riaccendono quando non c’è più un nemico comune”.

Evidentemente Magris si riferisce alle identità etniche, ma – con un po’ di ironia – il suo discorso non fa una grinza anche quando lo si applichi alle corporazioni accademiche.

Orbene, se di confini si tratta, esploriamone alcuni, quelli in cui mi sono imbattuto nella pratica del mio mestiere di geografo, esplorando terreni conoscitivi comuni ai geografi e ad adepti di altre identità scientifiche, dai quali mi sono sentito distinto e distinguibile per prassi, capacità, coinvolgimento. Così prendevano l’avvio le mie argomentazioni alle Giornate di Catania, che mi risolvo a scrivere solo oggi, anche perché completano un ragionamento già pubblicato in precedenza e che do qui per letto (Zanetto, 1992), col quale definivo una disciplina come una prassi socialmente riconosciuta e dichiaravo un’adesione al relativismo nella riflessione scientifica di cui dirò meglio più oltre e che a Catania qualcuno ha preteso scambiare per nichilismo inconcludente.

Nella mia esperienza, di tali confini, ne ho sperimentati almeno cinque, a volte con sorpresa, altre con stizza. Ma sempre con un corroborante senso di alterità orgogliosa (tratto essenziale e legittimo, ci insegna Lévi Strauss, di ogni identità), che – sempre a Catania – è invece sembrata a qualcuno una “sindrome dell’assediato”. Oltre quei confini, che narrerò qui, metaforicamente, in forma di luoghi che li possano meglio comunicare a dei geografi, non trovo geografi, benché anche laggiù si pratichino temi e problemi che possono parere i nostri stessi.

Confine 1. Il terreno: una pecora morta, ma non ancora cibo, mi divide dai pianificatori . Per qualche anno, all’inizio degli anni novanta, e fino a che l’impegno nella giunta comunale di Venezia non me l’ha impedito, ho fatto parte di un articolato gruppo di lavoro dell’UNEP, l’organismo delle Nazioni Unite che si dedica ai problemi dell’ambiente, presso la sua sede di Spalato che si occupa della regione mediterranea. Quel gruppo, guidato da Srdjan Truta, era incaricato dalla Banca Mondiale di tracciare le linee di un possibile sviluppo turistico del tratto mediano della costa albanese, il più suscettibile di inserimento nel mercato balneare per la vastità delle sue spiagge sabbiose prive quasi completamente di insediamenti. L’attenzione della Banca Mondiale faceva seguito ai sussulti di un’Albania appena uscita dall’isolamento cui si era condannata per mezzo secolo, e che l’avevano resa un fantastico laboratorio di geografia, in cui l’assenza di automobili si mescolava alle antenne paraboliche, i carretti a traino animale con i telefax.

Col gruppo di lavoro ho partecipato a tre missioni a Tirana, con alcune prudenti e pianificatissime escursioni in campo, cioè sulla costa sabbiosa e deserta, inframmezzata da lagune e orlata verso la pianura di bonifica recente da una profonda pineta artificiale. Le strade, per quanto scomode, non arrivavano alla costa che agli estremi dei duecento chilometri di spiaggia sabbiosa, in prossimità di Durazzo a nord e di Valona a sud; dal mare, col gommone di cui eravamo dotati, non si vedeva alcunché per la piattezza del profilo costiero. Gli assistenti locali messi a disposizione di un governo entusiasta ma imprudente erano scelti per le loro esperienze all’estero, cosicché avevamo sì un linguaggio comune (quello scientifico internazionale) ma non potevamo contare su qualcuno che conoscesse il suo territorio. Solo le mie insistenze ottennero alla fine che i geografi dell’Accademia e dell’università, accuratamente “epurati” per le loro collusioni col regime comunista, potessero dischiudere il forziere della loro esperienza del terreno, descritta in volumi stampati su carta rudimentale o manoscritti. Man mano che parlavo con loro mi si schiarivano le idee ed ingigantiva la curiosità di percorrere quel paese che sapeva di Balcani, ma anche di Mediterraneo, di paesaggio alpino, di socialismo e colonialismo italiano, di Turchia e Venezia come il Peloponneso, ma dove gli unici camion erano cinesi e i

Page 3: Le identita del Geografo - Gabriele Zanetto

terrazzamenti, corredati di dighe di terra, citavano le risaie cinesi, come gli immensi viali di Tirana affollati solo di biciclette.

Durante una delle missioni, il gruppo, stipato in due antiquate vetture ministeriali, lasciò finalmente Tirana e si avventurò in visita ufficiale a Valona. Finalmente il paesaggio. Villaggi e cittadine di bonifica, piccoli poderi cooperativi, vecchi cultivar frutticoli, gran risparmio di suolo come si faceva nell’era preindustriale, case rurali tipiche in rapida successione di forme diversissime. Noiosissimi incontri ufficiali a Valona, tentativo di evasione da parte mia per vedere almeno una parte della città e non solo il municipio e il ristorante panoramico, tentativo stroncato poco dopo aver intravisto una magnifica moschea miracolosamente conservata tra le spianate della città nuova socialista e siamo di nuovo sulla via del ritorno, di nuovo a quaranta km/h al massimo, tra mucche che rientrano a casa da sole, biciclette, polli, donne e bambini che tornano al villaggio, qualche fiammante trattore dono del governo greco, vecchie fabbriche abbandonate e tante, tante buche.

La corsa lentissima rallenta in prossimità di una cittadina; la strada la attraversa e, poiché vi si sta svolgendo un mercato all’aperto, è affollata. La vettura si fa strada pian piano tra la folla e la merce, spesso deposta a terra su stuoie, circondata da clienti e conversatori accoccolati nella posizione di riposo tipica dei Balcani. Capisco con difficoltà che l’oggetto dell’attenzione di un gruppetto, appeso ad un palo della luce, è una pecora squartata e non ancora scuoiata; in breve diventerà merce, ma non è ancora cibo, ai miei occhi è piuttosto un cadavere, un segno della violenza con cui le civiltà pastorali convivono dolcemente. Dalle mie parti i regolamenti igienici ottocenteschi prescrivevano che le carni trasportate in città a spalla dai garzoni dei macellai fossero coperte da teli bianchi che le nascondessero alla vista dei passanti, per non turbarne la sensibilità. Quella folla quieta che stima la bontà dell’animale ucciso (quelli non venduti torneranno a casa sulle loro gambe e si macella solo il venduto, sul posto) mi incuriosisce, mi sento sotto un cielo inedito, l’ansia dell’esploratore esplode, chiedo una sosta. Che mi viene negata: siamo una missione internazionale, quelle stupidaggini folkloristiche, quei dettagli possono al più attrarre i turisti.

Non ho potuto insistere, ma avevo capito che in quell’auto eravamo di stirpi scientifiche diverse: i “planners”, pianificatori addetti al disegno di territori futuri, non erano geografi. Pretendevano di strutturare territori senza averli percorsi, senza averne decodificato i segni delle civiltà che li avevano conformati, senza aver interrogato le forme naturali, senza aver indagato quell’insieme di segni che unisce la natura e la cultura e che costituiscono il paesaggio, le sue case, i suoi campi, il suo cibo, fino a dettagli tanto piccoli quanto rivelatori. Chi rinuncia al terreno, non è geografo, fa un altro mestiere.

Inutile dire che i miei piani di evasione si perfezionarono, e con essi le escursioni, fino a farmi capire una trama territoriale affascinante su cui ho potuto continuare a lavorare (per esempio: Laçi e Zanetto, 2002).

Confine 2. Il concreto: una questione di capannoni mi divide dagli economisti. Quando mi avviavo alla carriera accademica, all’inizio degli anni settanta, la politica e la cultura venete erano concentrate su una presa di coscienza di una nuova identità regionale, forgiata da una tanto attesa modernizzazione industriale finalmente trionfante. Si stava scoprendo che tutto era già avvenuto, ma in forme inattese, così diverse da quelle annunciate dalla tradizionale industria tessile pedemontana e dal colossale agglomerato di industria pesante di Porto Marghera che la transizione dal Veneto rurale a quello dei distretti manifatturieri era passata a lungo inosservata. È in quegli anni che si prende a parlare di “modello veneto di industrializzazione”, poco prima che cominciasse l’idealizzazione e il rimpianto della ruralità, col collegato revival etnico.

Due allora abbastanza giovani economisti, in quegli anni davano un giudizio della industrializzazione minuta così sprezzante da definire il Veneto “una regione in via di sottosviluppo”, che non prendeva la strada della grande fabbrica e della concentrazione metropolitana additata dal triangolo industriale, rifiutando il taglio delle radici rurali specie sul piano della cultura e delle relazioni industriali. Dalla loro stessa parte politica di progettava un raddoppio della zona industriale in laguna e si temeva una sua imitazione concorrenziale in quel di Padova, che tentava di dotarsi di un canale navigabile con esito lagunare. Si confrontavano allora due culture politiche e sociali, che potremmo dire oggi “bianca e rossa”, i cui modi prediletti di industrializzazione hanno avuto sorti, come sappiamo, assai diverse: Porto Marghera ha visto la sua industria pesante entrare in una crisi mortale fin da quegli anni, il modello veneto ha celebrato un lungo trionfo che solo oggi esplicita le sue debolezze.

Con questi temi mi sono confrontato negli anni in cui ho concentrato le mie attività di ricerca e didattiche nella facoltà di economia, gli anni ottanta; mi colpiva la mancanza di una capacità interpretativa dei fenomeni in corso: l’industrializzazione diffusa che dilagava in una parte nettamente conterminata della regione e ne lasciava altre, del tutto refrattarie, in preda all’emigrazione, la crisi della grande industria portuale. Si prediligeva l’una o l’altra senza saperne mostrare la logica e quindi senza saperne prevedere le dinamiche, le esigenze, l’adeguatezza al contesto della divisione spaziale del lavoro alle varie scale geografiche. Pensavo che tutto questo potesse essere dominio degli studi economici, ma nel mettere in campo la varietà spaziale della tradizione rurale veneta - così nota e ovvia per i geografi quale chiave interpretativa degli assetti territoriali, come avevo imparato da Luigi Candida e le sue ricerche sulla casa rurale veneta – mi avvedevo che parlavo una lingua diversa, che evocavo una complessità eccessiva per la riconduzione alle generalità astratte e matematizzabili dell’economia, una interpretazione ricca di sfumature fastidiose e, soprattutto, legata ad una concreta situazione regionale.

Page 4: Le identita del Geografo - Gabriele Zanetto

Poco importava che quello schema (sintetizzato in Zanetto 1981 e 1985) trovasse conferma puntuale dalle mie esplorazioni in regioni analoghe dall’Ungheria all’Inghilterra, dal Canadà alla Polonia: la ricerca su casi concreti, fossero insediamenti portuali o industriali, per non dire poi di quelli turistici, erano merce di scarto per gli economisti e unico motivo di entusiasmo per me, quando scoprivo le differenze di orizzonte culturale, sociale, ambientale nei capannoni, pur così simili tra loro, a Marghera e dieci chilometri più in là, nelle campagne del Veneto bianco. Cosicché chi accetta tutta la complessità necessaria a capire, a costo di negarsi la possibilità di una risposta, ha altre appartenenze rispetto a chi privilegia la semplicità e l’eleganza formale di un’equazione, a costo di prendere una forma inedita di sviluppo per un’involuzione senza futuro.

Confine 3. La teorizzazione necessaria: un giardino in forma di campagna e la gioia negata della narrazione fa da confine con gli storici. All’inizio degli anni ottanta, l’avventurosa storia dell’università italiana ha conosciuto un’inebriante novità: i dipartimenti. Le facoltà erano cresciute di molte volte, sia per numero di studenti che di docenti e, avevano moltiplicato i corsi di laurea, cosicché le strutture più fini della ricerca, eredi della cattedra attorniata di assistenti, erano troppo piccole. Anche il Laboratorio di Geografia Economica della Facoltà di Economia e Commercio dell’Università degli Studi di Venezia (fondato negli anni venti e migrato, durante i miei anni da studente, dalla sede originaria - al secondo piano di Ca’ Foscari - nel piano nobile di Ca’ Soranzo), “confluì” in un grande Dipartimento di Scienze Economiche, che trovò presto una sede unitaria in diverse localizzazione fino all’attuale nel macello di San Giobbe a Canaregio.

Credo sia stata questa “confluenza” e la conseguente perdita di identitificabilità degli studi geografici in una biblioteca specifica, in una struttura amministrativa e fisica, la diluizione di un’atmosfera dominata da carte geografiche vacchie e nuove a spingermi a ricostruire la storia della geografia cafoscarina, nella quale si era costituita la prima cattedra italiana di geografia economica. Questa mia prima e ultima ricerca d’archivio, dai primi indizi mi portò a ricostruire personaggi, relazioni, atmosfere culturali, vere genealogie di pensiero, imparentamenti con altre discipline e vicende della politica e dell’economia locali, scontri intestini alla disciplina, fieri contrasti culturali, ma anche schiettamente politici. In breve, un’intera corrente di pensiero riemergeva da un oblio in cui l’aveva relegata la scomparsa dei testimoni e non ancora ripescata lo scandaglio degli storici (vedine un brano in Zanetto, 2001).

Primo Lanzoni emerse ben presto come la figura chiave di una storia che mi appariva come la scoperta di una genealogia, di una galleria di antenati che mi aiutava a dare senso alla mia condotta di ricercatore. Saturo di letture, intriso di atmosfere tra otto e novecento, non trovai di meglio, per stendere un primo esito delle mie ricerche, che di isolarmi in una fresca e verde estate inglese. La biblioteca della nuovissima sede della University of Kent, alla periferia di Canterbury, nella quale – attraverso larghe finestrature al piano terra – penetrava la campagna inglese scenograficamente ordinata, fu la scena di questa azione di scrittura; una lunga, appassionata narrazione dei fatti, del loro significato, e concatenamento. Non ho mai scritto così piacevolmente e distesamente, avrei potuto continuare per dozzine di pagine un racconto avvincente ma sconfinato. Fu fissando lo sguardo attraverso la finestra sul verde smagliante del Kent, che mi sgomentò la differenza con la sofferta stesura di poche righe che mi era consueta, con la mia solita autocondanna alla sintesi, a non scrivere niente che fosse già scritto e citabile, che non fosse l’esposizione di una connessione causale tra fatti. Scoprii allora che il fascino della ricerca stava nelle regole strette della teorizzazione, nel trovare spiegazioni di fatti territoriali attraverso i fatti territoriali, nel sapere dare senso ai frutti dell’azione umana sulla natura senza interrogare altri che questi artefatti.

Ho invidiato allora l’immensità del campo propria della ricerca storica, la facilità con cui essa si risolve in narrazione senza limiti. La geografia è un’altra cosa, costretta com’è a dar ragione dei fatti con la teoria: avevo visto un altro – benché sfumato e più labile - confine, e il mio articolo (Zanetto, 1985) diventò la riprova di un assunto, con tagli che lo fecero assai più smilzo benché sia rimasto, credo, il mio scritto più lungo.

Confine 4. Il relativismo delle rappresentazioni geografiche: le cascate colorate a Niagara mi indicano il confine con i naturalisti. Per la mia formazione culturale e accademica è stato fondamentale un soggiorno canadese, presso l’Université de Montréal, nel secondo semestre del 1982. Fino ad allora, l’impostazione economica dei miei studi e l’appassionata esperienza cognitivista e dell’adozione di modelli e strumenti quantitativi mutuati dalla fisica e la statistica mi aveva procurato non pochi problemi di ricomposizione con la matrice geomorfologica che pervadeva tanta geografia italiana e che avevo avvicinato durante la frequenza della Scuola di Perfezionamento bolognese e l’affascinante esperienza dei primi annunci della geografia umanistica anglosassone. In Canadà mi era apparsa subito più chiara la funzione della geografia “fisica”, dato che non potevo dare per scontate delle caratteristiche dello scenario così diverse da quelle cui ero abituato in Europa e che mi sembravano irrilevanti solo perché comuni. La vastità degli spazi nordamericani è una parte non trascurabile della loro geografia, come le specificità del clima laurenziano, la levigatezza della morfologia glaciale imposta a rilievi antichi, le brusche variazioni di quel clima continentale.

Ma il modo di vivere e costruire le città, i segni imposti dalla colonizzazione francese, così facilmente distinguibili da quella inglese, i profumi etnici dei quartieri della metropoli mi spiegavano tanto di più. Nel cuore dell’Île Jésus, isola fluviale limitrofa a quella su cui sorge la parte centrale di Montréal e da questa separata da un ramo del San Lorenzo, in una pacifica e colorata giornata del lento autunno canadese, con il cielo terso e luminoso quanto sa farlo il vento dell’Artide, davanti ad una chiesetta di legno costruita dai primi contadini della Nuova Francia tre secoli prima, immaginavo il valore – ai loro occhi e orecchi - di quei primi rintocchi di campana sotto il cielo del Nuovo

Page 5: Le identita del Geografo - Gabriele Zanetto

Mondo, per un pugno di famiglie isolate di là dall’oceano, intente a rimettere radici su una terra nuova e sconfinata, a rifare di quel suolo appena sboscato un nuovo luogo ricco di significati.

Come evitare, vivendo un po’ laggiù, una visita a Niagara Falls? Il loro primo annuncio, correndo in bus, fu, al di sopra della fitta vegetazione boscosa che copriva la pianura, una nuvola trasparente di schizzi. Era lei, la divinità promessa dagli Indiani al gesuita francese che l’aveva descritta per la prima volta agli Europei. Giunti sul ciglio del dirupo nel quale si inabissano le acque di un fiume immenso per larghezza, non potemmo che riconoscere un’altra manifestazione di gigantismo americano, come davanti alle torri gemelle di New York, o i mirtilli neri coltivati. Osservammo canonicamente le cascate da un battellino che si avvicinava al punto in cui finiscono rombanti nel fiume sottostante, poi da una piattaforma che ti porta lo sguardo ben oltre il confine con gli Stati Uniti, infine, perfino – coperti da un buffissimo e avvolgente impermeabile e stivaloni gialli – passando dietro la cortina d’acqua.

L’imponenza di quel salto d’acqua, la possanza quieta con cui il fiume scorreva fino al salto, la vastità della pianura circostante, toglievano rilievo ai segni della presenza umana, che pur comprendendo centrali elettriche, strade, città, insediamenti turistici invadenti fino alla petulanza. Su tutto parevano stendersi le battute della sinfonia di Ďvorjak, la naturalità oggettivamente constatabile dominare la geografia.

La sera, dalla terrazza dell’albergo, chi cenava poteva godere della vista della cascata principale, e del suo rombo. Fino a che la luce del giorno non scompariva. Il mio stupore fu grande quando la cascata si illuminò, riemergendo dalla notte: fasci potenti di luce le consentivano di restare la dominatrice della scena, ma il bello venne subito dopo: regolarmente, la luce si faceva colorata alternando una serie di colori: le cascate di Niagara si facevano rosa, verdoline, azzurrognole… Del paesaggio canadese mi avevano colpito la forza, la decisione con cui l’azione umana interveniva sul paesaggio, imprimendo segni forti per riuscire a contraddire una natura immensa e un po’ monotona. Rieccolo, questo tentativo, l’urlo di presenza, in forma di colore imposto alle cascate, che apparivano evidentemente più interessanti così imbellettate, controvoglia antropizzate, trasformate sfacciatamente in spettacolo caramelloso. Se l’imponenza di quella naturalità mi impressionava, la banalità orgogliosa di quell’atto di sottomissione mi affascinava: capire quell’insediamento turistico, che cosa rappresentavano le cascate per me o per i suoi visitatori, per chi aveva progettato quella fruizione era la sfida che mi interessava raccogliere. Senza capire questo, non c’è conoscenza del luogo: di là, tra chi le capisce come fatto naturale indipendente dalla rappresentazione (plurima) dei suoi abitanti e visitatori (abitanti effimeri), non abitano geografi.

Confine 5: la disciplina scientifica: un petrolchimico da chiudere (o no?) fa da spartiacque tra geografi e gestione politica, tra rappresentazione e costruzione empirica del territorio. Prima di diventare veneziano, arrivando in laguna, vedevo le ciminiere della zona industriale di Porto Marghera stagliarsi contro lo stesso cielo che faceva da sfondo alla selva dei campanili che mi divertivo già a riconoscere, pelle irsuta della città verso il cielo; invece quella agglomerazione di fabbriche e città, da una parte e l’altra della ferrovia prima di entrare sul ponte traslagunare, non mi riguardava: non era Venezia. Ne era piuttosto l’ossessione: tutti ne parlavano, di porto, petrolchimico, cantieri navali: dal movimento studentesco ai manifesti per le strade, alle scritte cubitali sui muri lungo la ferrovia: ma erano lontanissimi dagli oggetti della mia curiosità, portata semmai a quel che restava del porto passeggeri e le sue bianche chiglie di transatlantico che ancora solcavano la laguna.

Fu lo studio della geografia dei porti, sulla scia di Adalberto Vallega, André Vigarié e Brian Hoyle a guidare la mia curiosità in quell’interludio tra pianura veneta e città lagunare, a farne un luogo geografico da spiegare. Le conclusioni arrivarono presto: potevo già esporle con gentile provocazione nel corso della prima visita all’immenso stabilimento petrolchimico. La direzione dell’azienda aveva invitato una rappresentanza delle associazioni ambientaliste come Italia Nostra cui appartenevo e mi limitai a chiedere al direttore quale sarebbe stata la localizzazione ottima di un petrolchimico, in un’ottica puramente economica, ben sapendo che la (Zanetto, 1989) la logica localizzativa che aveva guidato quell’insediamento apparteneva ad una fase geo-economica finita (nel 1985) da un pezzo.

Mi era diventato chiaro perché quegli insediamenti erano così estranei a Venezia, perché le due culture urbane di Venezia e Mestre fossero così lontane, se non nelle rimasticature pseudomarxiste degli intellettuali di allora, tutti salotto e petrolchimico. Del destino di Marghera si dibatteva ovunque, si pagavano ricerche di ogni tipo, come se la teoria geografica delle zone di industrializzazione costiera non avesse già detto e spigato e preconizzato tutto il necessario per agire. Di una di queste ricerche venni chiamato a far parte, in ossequio all’interesse da sempre tributato dai geografi cafoscarini alle cose portuali, ma le mie analisi si scontrarono presto con la vulgata ufficiale e un preconcetto politico: Marghera è speciale, non se ne può accettare il declino, l’eterno dibattito continui e foraggiare la politica locale e il suo rapporto con quella nazionale (non è cambiato granché di quest’ultimo aspetto, tranne la sostituzione del ministero dell’Ambiente a quello delle partecipazioni Statali).

E così il mio rapporto fu gentilmente censurato e riscritto in forma di ragionamento a scala globale, dove non era necessario che si capisse come fosse illusorio e dilatorio cercare di tenute fuori dalla laguna le dinamiche portuali intersecate a quelle industriali ed urbane di Shanghai e San Francisco. Nella sede del dopolavoro della Montedison (oggi è un pezzetto riusato del parco scientifico di Venezia) nessuno così disse che Marghera era da chiudere, ma il mio rapporto uscì in una bella e sfortunata rivista (Zanetto, 1989), e diventò un punto fermo nelle analisi economiche locali.

Dieci anni più tardi, una subdola azione politica di un movimento ambientalista, con atteggiamenti eticamente assai discutibili, stava mettendo alle strette l’ultimo grande stabilimento industriale dell’area, sopravvissuto scalcagnato e invecchiato, ma ancora a galla. Quindicimila persone vi trovavano il pane quotidiano e la ricchezza prodotta per il

Page 6: Le identita del Geografo - Gabriele Zanetto

paese non era poca. Le leggi vigenti vi erano rispettate, benché le malefatte contro la qualità ambientale fossero note ormai a tutti. Ma non era questo un buon motivo per addebitare al petrolchimico il ruolo di capro espiatorio e fonte di tutti gli inquinamenti dei sedimenti lagunari.

Con un’energica azione informativa sull’opinione pubblica si evitò il sequestro dell’impianto, tra lo stupore degli ambientalisti che ben conoscevano gli esiti delle mie ricerche sull’industria pesante costiera, la waterfront rivitalisation, il nuovo ruolo dei porti. Ma sperimentavo, in quella fine degli anni ’90, come gli approdi di un ricercatore non siano travasabili senza mediazione negli atti di governo di una giunta municipale, cosicché – se mai è da temere il governo dei filosofi – quello dei geografi può non esserne da meno, perché il prezzo pagato con la costituzione di una disciplina scientifica, come per ogni specializzazione, è la perdita del contesto: l’ultimo degli errori consentito a chi gestisce la cosa pubblica.

Era successo così anche quando avevo partecipato a indurre il ministro dei beni culturali a revocare il decreto con cui aveva inibito l’esercizio del commercio nell’area marciana (aveva, in altri termini, cacciato degli sconci banchetti di paccottiglia gradita ai turisti più beceri da piazza San Marco). Anche in quel caso la considerazione di tutti gli interessi in gioco, la giusta considerazione della continuità, configgevano con i miei ragionamenti di geografo del turismo ed il declino dell’attrattività delle mete di turismo culturale.

Ma ricercatore e amministratore (peggio se questi è tributario del consenso popolare: il politico) hanno doveri e diritti diversi: a noi geografi non è consentito mentire, ma ci è concesso di non rispondere a tempo ai problemi; i politici possono o debbono dare una rappresentazione proficua della realtà, ancorché falsa (non sto parlando dei mentitori per fini personali o iniqui), ma devono avere risposte tutto e subito.

Quel confine mi era capitato di valicarlo troppo spensieratamente, tra un petrolchimico ed un banchetto di souvenir, mi ero spinto troppo aldilà di quel confine tra geografi e amministratori, era tempo di tornare dall’altra parte del Canal Grande1.

3. Identità come uguaglianza (solidarietà)

L’identità del geografo è dunque definibile con una serie di differenze, di confini. Ma, come per qualsiasi classe di oggetti, per costruire quella dei geografi occorre supporre che la varietà interna tra di essi sia minore di quella sancita da tali differenze. Ho avuto modo di ribadire altrove come la cumulabilità della nostra produzione sia un requisito fondante dell’esistenza della disciplina, ed anche un metodo rozzo come quello dei riferimenti bibliografici in coda ad un articolo ha più rilievo di quanto non parrebbe a prima vista. Ma il fatto è che una disciplina esiste se i suoi membri sono solidali, si cercano, si parlano, si accordano su temi di ricerca, si riconoscono E si accettano attraverso l’indicazione di comuni antenati (Zanetto, 1985b descrive il tema applicato alla mia università). Il lavorio di colleghi come Massimo Quaini e Ilaria Caraci, poi di Francesco Micelli ci hanno reso meglio consapevoli del solco su cui ci troviamo, i geografi italiani, ad operare. Ma la nostra prassi, così parcellizzata e poco integrata mi riporta ad una notazione illuminante di un antropologo:

“…la somiglianza di famiglia è diventata il nostro vero tabù (…). Nell’idea che noi ‘non ci facciamo da soli’ (…) c’è qualcosa che non ci va giù” (La Cecla, 2000, 162 e sgg.).

La cultura contemporanea ha talmente enfatizzato l’individuo da scioglierlo da legami di lignaggio, facendone una monade splendente di luce propria, che non ha conosciuto infanzia e mai conoscerà vecchiaia, nato perfetto e morto in scena. Forse è per questo che ci sbarazziamo di infanti e vecchi, relegandoli a cure di specialisti e nascondendoli come oscene variazioni del modello o, per quanto possibile, camuffandoli da adulti o giovani. Forse è per questo che la nostra produzione è tanto meglio pensata come pregiata quanto è una rottura con la tradizione, una smentita degli antecessori, una dimostrazione che c’era bisogno di noi per porre rimedio alle sciocchezze del passato.Certo è più facile essere bravi se si è l’unico cultore di un problema, magari per definizione irrilevante, se si ricomincia perpetuamente daccapo, se si reinventa l’acqua calda già studiata per decenni da altre discipline. Le osservazioni di Berardo Cori (1993) sono impeccabili ed è significativo che non siano, mi risulta, state riprese neanche per smentirle o criticarle. E’ vero: molti geografi italiani si definiscono con ardite metafore per evitare di dire “geografia”: perfino i Sistemi Informativi detti in tutto il mondo “geografici” qui da noi sono diventati “territoriali”. E se l’identità dei gruppi locali appare strenuamente difesa da ogni confronto o intrusione, la pratica di una supposta comunità nazionale va scemando sempre più. Non solo rifiutiamo di fatto la comune ascendenza come se ci vergognassimo dei nostri “vecchi”, ma vedo scomparire anche un senso di comune e condivisa responsabilità verso le giovani generazioni di ricercatori, con la scomparsa di un senso di “paternità scientifica” nutrito di aiuto, di guida, di critica: come se tutto fosse lodevole, e tutto al tempo stesso irrilevante nella produzione dei giovani, come è ovvio che accada se manca un progetto culturale di ricerca della disciplina. Per colpa naturalmente dei “colleghi”, il disprezzo verso i quali sembra troppo spesso l’unico fondamento della nostra personale autostima.Non vorrei sembrare desideroso di una strutturazione obbligante della disciplina, ma la geografia italiana ha bisogno di una comunità e, di conseguenza, di una genealogia riconosciuta, di una fratellanza: è opportuno ribadire che

1 Cioè da Ca’ Farsetti, sede municipale, a Ca’ Foscari, sede centrale dell’università cui dà il nome.

Page 7: Le identita del Geografo - Gabriele Zanetto

“ciò che diventa centrale per capire la storia non sono le identità (individuali o collettive) ma le differenze e le selezioni. Ogni cultura non va vista come un tutto coeso, ma come un fascio di “temi” di cui ogni individuo è la variazione – potenzialmente una linea centrifuga” (Benvenuto, 2000, 134).

Ma essere geografo significa riconoscersi negli altri geografi, accettare una genealogia, una logica di gruppo e delle sue gerarchie. Riusciamo ad alludervi pudicamente solo negli impliciti paradigmi che presiedono alle valutazioni concorsuali, nell’idea di intellettuale e della sua funzione sociale (come nel confuso dibattito sulla professione di geografo, che ricompare periodicamente nei nostri congressi), nel rapporto tra ricerca e didattica ed il ruolo della geografia nella formazione universitaria, nel rapporto tra università e territorio – vedi Cori a Barcellona – nel senso di servizio ad una comunità locale o nazionale o internazionale).Anche quando la nostra personale identità ne soffre, quando – ad esempio – la figura tradizionale e consolidata del geografo si tinge di grigio e stantio sentore di archivista. Tra i pochi geografi espliciti della letteratura, quelli più vividi a me noti sono delineati proprio così: il Paganel di Jules Verne è descritto come un “fanciullo grande”, sempre distratto, con un buffo armamentario che comprende un “cannocchiale a bandoliera” accanto a taccuini ed oggetti “tanto imbarazzanti quanto inutili” su un pittoresco abbigliamento da esploratore reso buffo da “enormi occhiali rotondi”. Simpatico, devoto alla scienza e prezioso, ma un po’ suonato.Non ci va meglio col geografo di Saint-Exupéry (1943), secondo il quale i libri di geografia “non passano mai di moda. E’ molto raro che una montagna cambi di posto. E’ molto raro che un oceano si prosciughi. Noi descriviamo delle cose eterne” (p. 76). Anche per lui il geografo si nutre di resoconti di viaggio, ma non viaggia, guida l’azione laddove non ha mai agito. Simbolo della conoscenza speculativa e teorizzante, diventa fatalmente un affettuoso e pedante catalogatore.Così dovremmo far meglio i conti con le rare autobiografie di geografi, apertamente osteggiati ma mai discussi (per esempio Rocco (2002) ma di più ancora Ferro (1983).proprio cerchiamo un parametro esterno di valutazione del nostro operare, i “mercati” sono almeno tre: la produzione scientifica (e Cori ha detto tutto sulla nostra assenza dalla letteratura internazionale), la formazione (ed i corsi di studio in scienze geografiche sono proprio pochi!), l’assistenza allo sviluppo locale e regionale. Solo quest’ultimo non è considerato dal sistema di valutazione del nostro ministero, che in base agli altri ha emesso dei verdetti tanto indiscutibili quanto preoccupanti. Correre da soli può apparentemente pagare di più, ma solo a breve termine, come ogni camuffamento.

4. Ed il centro? L’identità come autorappresentazione, se fosse vero che non conviene vestire divise.

Mi sembra infine che, al di là di differenze e uguaglianze, distinzioni da altre discipline e intercambiabilità tra membri della stessa disciplina, un discorso sull’identità abbia bisogno di essere sostenuto da un senso di esistenza, da un’autorappresentazione che ci rende capaci contribuire con dei contenuti alla forma della comunità. Il concetto mi è chiarissimo per l’identità etnica, più facilmente intrisa delle motivazioni profonde dell’essere:

“L’identità è mia, sento che sono io e che non potrei essere nient’altro che quello che sono. Potrebbe finire qui l’identità, senza ulteriori aggettivi. Un interno di persona, ma anche un’identità recintata, che tiene il mio io murato vivo, un gioco tutto solitario (…). Aggrego l’aggettivo “veneta”, identità veneta appunto, e avverto che l’idem non è più lo stesso. Non sono più mio, mi esproprio per così dire, l’identico esce all’aperto, si mette in relazione, va alla scoperta di un comune sentire, se ci sarà. L’identità diventa un sentimento plurale, la ricerca di un linguaggio (…) Come cantare in coro, tra nonni e figli” (Lago, 1999, 202).

Il modo per così dire “intimo” di fare il geografo si mette, solo dopo!, in cerca di una comunità, incapace questa di darti un senso, come se mancasse uno dei due necessari termini di un dialogo tra singolo e comunità. Sono stato personalmente indotto a cercare le radici del mio fare il geografo dalla, per me, stupefacente ma legittima affermazione di un collega (e non restò l’unico!) di essere diventato geografo per caso o per opportunità.Il ricordo più lontano, il simbolo più comunicativo di questo mio apprendistato è un francobollo ungherese, il 20 filler (centesimo di fiorino) azzurro-verde di una serie che rappresenta le opere del regime socialista intento alla modernizzazione del paese negli anni Cinquanta. Una serie di edifici pubblici nuovi di zecca vi si proponevano come conquiste, allineati nella mia collezione di scolaro cui la radio imponeva drammatiche narrazioni della rivolta di Budapest del 1956. I resoconti paludati e impersonali dei mass media di allora parlavano di un mondo lontano, di là dalla Cortina di Ferro, pieni di persecuzioni e violenze: sembravano fiabe, ma io sapevo che quell’edificio verdolino esisteva davvero, al sole, mentre io ne vedevo la rappresentazione in un francobollo stampato nello stesso luogo, che mi garantiva dell’esistenza dell’altrove, quello e mille altri, promessa di varietà del mondo, di in finitezza dell’esperienza potenziale del mondo senza la quale il nostro abitare si fa presto stolido.

E’ cominciata allora la mia passione per la rappresentazione del mondo, nutrita da insegnanti appassionati e dalla pratica delle carte geografiche, pozzo infinito di mondi possibili nel senso di esperibili. Solo di recente ho rinvenuto una

Page 8: Le identita del Geografo - Gabriele Zanetto

comunicabile espressione di tale appassionata ricerca, dell’ansia di dare forma all’altrove, sempre capace di stupirti per varietà e coerenza e sempre diverso dalla nostra immaginazione come la vita dei personaggi pirandelliani:

“Venezia ha il mondo sul palmo della mano. Ogni nave che arriva reca nella propria stiva un tesoro di menzogne e di inganni rinvenuto in terre lontane”(Cowan, 1998, 138).

Così si figura l’atteggiamento di fra’ Mauro, rinchiuso nell’eremo camaldolese di San Michele di Murano, placidamente immerso nella laguna veneta, immobile e segregato interprete dei resoconti dei naviganti e sistematizzatore nel suo planisfero della forma del mondo.

“Come va il mio mondo? Spalancato e pieno di ondulazioni eccolo sul mio tavolo, immenso orbe di terreno indocile. Zone di puro spazio si estendono sino ai confini estremi cui può giungere la mia immaginazione. È un mondo fatto ben più che di regni e continenti. È un reame noto solo a coloro che hanno occhi per vedere l’invisibile o a coloro che sono pronti a elevarsi al di sopra della luce dell’intelligibile” (Cowan, 1998, 133).

“Se quando mi sono accinto all’opera avessi saputo il vuoto che avrebbe finito per circondarmi, forse avrei scelto di rimanermene al sicuro dietro queste mura di meditazione invece di dirigermi alla scoperta dell’orbe terracqueo (…) Sono affascinato da ciò che la mia mappa non rivela (…)Mi sono stancato del già noto? Quanto più incontro persone che mi trasmettono le loro conoscenze dello spazio e del tempo, tanto più comincio a credere che il vero oggetto della mia peregrinante ricerca sia di consentirmi di entrare in estasi. Costoro portano nel mio studio un senso di sgomento e nient’altro(…) Quante tempeste hanno attraversato su navi che tentavano di raggiungere un lido? Molte, per la verità. Uomini così diversi da gente come me (…) e tuttavia, le differenze tra noi si manifestano ancora di più ogni volta che mi chino su questa mappa (…) Questi viaggiatori sono divenuti gli occhi e gli orecchi del mondo” (Cowan, 1998, 134-136).Quasi un’erotizzazione della carta, descritta in termini metaforicamente ben più esplicita da Federspiel (1992), che tesse una trama romanzesca attorno ad un planisfero tatuato sulle rotondità di una bella ragazza.Ho ritrovato la stessa passione in una senile narrazione dell’origine della sua straordinaria produzione scientifica in Walter ChristallerUn pericolo sventato, grazie a Luigi Candida: la Geografia come cose da bimbi, ovvero la disciplina come coercizione e negazione del divertimento. L’erotizzazione della carta.

La geografia come Viaggio e mondi possibili (soggettivismo): Vienna virtuale: “il mio esempio di Vienna è un omaggio a Quine” (“Ogni volta che qualcuno pensa a Vienna, per esempio, si verifica un preciso evento neurale, che possiamo descrivere in termini strettamente neurologici (…), ma ciò non significa affatto credere che saremo mai in grado di tradurre il significato mentalistico generale “pensare a Vienna” in termini neurologici. Gli eventi mentali sono fisici, ma il linguaggio mentalistico li classifica in modi incommensurabili con le classificazioni esprimibili in linguaggio fisiologico.” W. Quine, Quidditates, Milano, Garzanti, 1991). Su Vienna come su qualsiasi oggetto del mondo non ci sono etichette, come quelle su scatole e bottiglie che dicono il nome del prodotto contenuto: ripartizioni e aggregazioni di oggetti cambiano di fatto a secondo della persona e del momento.” (Benvenuto, 2000, 125 e sgg.).

Quel che mi fa gioioso facendo il geografo: Narrare i luoghi? O passarvi con passo lieve e teorizzare? Santiago de Compostela e segno delle mani: “Nel mondo ci sono luoghi in cui un arrivo o una partenza vengono misteriosamente moltiplicati dai sentimenti di quanti nello stesso luogo sono arrivati o da lì ripartiti” (Nooteboom, 1994, 9 e sgg.).

Popper e il Mondo Tre (quello che viene inventato grazie al gioco creativo di un linguaggio nato per descrivere e comunicare l'’sperienza), ovvero le regole linguistiche della geografia e la diversità dei suoi linguaggi: carta falsa e menzogna della pianificazione, calcolo statistico, modelli e zia di Christaller (qui ho bisogno di più righe e tempo)

Gli acquerelli di Donald Evans, sotto forma di francobolli (Chatwin, 1990).

Ma allora una specificazione si impone: cosa fa diversi abitante, viaggiatore, geografo?

L’abitante è il luogo, egli naturalizza la sua storia di rapporti con l’ambiente e la comunità, è un conservatore istintivo.Il viaggiatore ha esperienza di alternative, è innovatore, è libero, è progettista. (Zanetto, 1991)Il geografo costruisce immagini del mondo, appaganti e operative. Non è abitante, non è neanche abitante effimero come il viaggiatore, è logos dell’esperienza dei luoghi, cioè non narra, indica la “grammatica” della narrazione.

Page 9: Le identita del Geografo - Gabriele Zanetto

(qui vorrei far confluire i ragionamenti precedenti, ma forse casserò il paragrafo e lo lascerò immaginare a chi legge i ragionamenti precedenti).

Marcello ARCHETTI, Lo spazio ritrovato. Antropologia della contemporaneità, Roma, Meltemi, 2002.Sergio BENVENUTO, Un cannibale alla nostra mensa: gli argomenti del relativismo nell’epoca della globalizzazione,

Bari, Dedalo, 2000Anne BUTTIMER, The practice of geography, New York, Longman, 1983.Luigi CANDIDA, “Nuove tendenze nel campo della geografia”, lezione inaugurale dell’anno accademico 1965-66

dell’Istituto Universitario di Venezia (Ca’ Foscari), poi in Scritti geografici (1936-1972), a cura del Laboratorio di Geografia economica dell’Università degli Studi di Venezia, 1983, pp.219-229.

Bruce CHATWIN, Che ci faccio qui?, Milano, Adelphi, 1990.Berardo CORI, “Italia: una geografia diversa”, in Momenti e problemi della geografia contemporanea, Atti del

convegno internazionale in onore di Giuseppe Caraci, a cura del Centro Italiano per gli Studi storico-geografici, Roma, 1993, 277-286.

James COWAN, Il sogno di disegnare il Mondo: le meditazioni di fra Mauro cartografo alla corte di Venezia , Milano, Rizzoli, 1998.

Jurg FEDERSPIEL, Geografia del desiderio, Milano, Marcos y Marcos, 1992.Gaetano FERRO, Geografia e libertà, Bologna, Patron, 1983.Peter GOULD, Il mondo nelle tue mani: introduzione alla nuova geografia, Milano, Franco Angeli, 1988.Taylor HACKFORD, An Officer and a Gentleman, Paramount, 1982.Franco LA CECLA, Modi bruschi: antropologia del maschio, Milano, Bruno Mondadori, 2000.S. Laçi e G. Zanetto, “Albania: the spatial dynamics of the Albanian coastal region”, in Spatial dynamics of

Mediterranean coastal regions, vol. 1 The North-Eastern Mediterranean, a cura di Cori e E. Lemmi, Bologna, Pàtron, 2002, 179-197.

Giorgio LAGO, in Identità veneta, a cura di C. De Michelis, Venezia, Marsilio, 1999, pp. 202-211.Claudio MAGRIS, Microcosmi, Milano, Garzanti, 1997.Cees NOOTEBOOM, Verso Santiago: itinerari spagnoli, Milano, Feltrinelli, 1994.Karl R. POPPER, Il mito della cornice: difesa della razionalità e della scienza, Bologna, il Mulino, 1994.Karl R. POPPER e Konrad LORENZ, Il futuro è aperto: il Colloquio di Altenberg insieme con i testi del Simposio

viennese su Popper, Milano, Rusconi, 1989.Domenico RUOCCO, La mia vita di geografo, Napoli, Loffredo, 2002.Antoine de SAINT-EXUPÉRY, Il piccolo principe, Milano, Bompiani, 198817 (ed. orig. Le petit prince, Paris,

Gallimard, 1943).Jules VERNE, I figli del capitano Grant, Milano, Mursia, 19664 (ed. orig. Les enfants du capitaine Grant, Hetzel,

1867).Gabriele ZANETTO, “Il modello veneto: appunti di geografia umana”, Annali di Ca’Foscari, Venezia, 20(1981),

117-126.Gabriele ZANETTO, “La classificazione di unità areali come metrica della complessità regionale”, in Atti delle

Giornate A.I.R.O., Pescara, Associazione Italiana di Ricerca Operativa, 1984, vol. 2, 255-163. Gabriele ZANETTO, “L’urbanizzazione nel Veneto: tra industria diffusa e modelli culturali”, Geografia nelle

Scuole, Trieste, 30(1985), 210-216.Gabriele ZANETTO, “Primo Lanzoni, ovvero l’economia come antitesi all’ambientalismo nel pensiero geografico

ottocentesco”, Ricerche Economiche, Venezia, 39(1985), 70-103.Gabriele ZANETTO “L’evoluzione delle aree di industrializzazione costiera”, Terra. Rivista di scienze dell’ambiente e

del territorio, Bologna, 5(1989), 30-34.Gabriele ZANETTO, “Motivazioni e tipologie del turismo culturale”, in Il turismo delle città d’arte “minori”, a

cura di G. Zanetto e A. Calzavara, Padova, Cedam, 1991, pp. 41-51.Gabriele ZANETTO, “Riflessioni su una diversità necessaria”, in Varietà delle geografie: limiti e forza della

disciplina, a cura di G. Corna-Pellegrini e E. Bianchi, Milano, Cisalpino, 1992, 133-145.Gabriele ZANETTO, “La geografia accademica cafoscarina tra le due guerre”, in Joseph Gentilli, geografo friulano

in Australia, a cura di Francesco Micelli, San Daniele del Friuli, Regione Friuli Venezia Giulia, 2001, 31-53.

Page 10: Le identita del Geografo - Gabriele Zanetto
Page 11: Le identita del Geografo - Gabriele Zanetto