“LE CRISI BANCARIE IN ITALIA NELL’OTTOCENTO E … · 2017-12-08 · (C. Cipolla, Le leggi...

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Associazione per lo Sviluppo degli Studi di Banca e Borsa G. CONTI - A. COVA - S. LA FRANCESCA “LE CRISI BANCARIE IN ITALIA NELL’OTTOCENTO E NEL NOVECENTO: CAUSE E SVOLGIMENTI” Testi delle relazioni tenute nel ciclo di conferenze su “Storia di banche e di banchieri” QUADERNO N. 278 Università Cattolica del Sacro Cuore

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Associazioneper lo Sviluppodegli Studi diBanca e Borsa

G. CONTI - A. COVA - S. LA FRANCESCA

“LE CRISI BANCARIE IN ITALIA NELL’OTTOCENTOE NEL NOVECENTO: CAUSE E SVOLGIMENTI”

Testi delle relazioni tenute nel ciclo di conferenze su“Storia di banche e di banchieri”

QUADERNO N. 278

Università Cattolicadel Sacro Cuore

Associazioneper lo Sviluppodegli Studi diBanca e Borsa

G. CONTI - A. COVA - S. LA FRANCESCA

“LE CRISI BANCARIE IN ITALIA NELL’OTTOCENTO ENEL NOVECENTO: CAUSE E SVOLGIMENTI”

Testi delle relazioni tenute nel ciclo di conferenze su“Storia di banche e di banchieri”

Sede: Presso Università Cattolica del Sacro Cuore - Milano, Largo A. Gemelli, n. 1Segreteria: Presso Banca Popolare Commercio e Industria - Milano, Via Monte di Pietà, 7 - Tel. 62.755.1Cassiere: Presso Banca Popolare di Milano - Milano, Piazza Meda n. 2/4 - c/c n. 40625

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Università Cattolicadel Sacro Cuore

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SQUILIBRI E CRISI DI GOVERNO DELL’ECONO-MIA NELL’ITALIA DAGLI ANNI ’70 A OGGI*

Sarebbe un grave errore credere che il numero degli stupi-di sia più elevato in una società in declino piuttosto che inuna società in ascesa. La differenza fra le due società con-siste nel fatto che nelle società in declino: a) ai membri stu-pidi della società è concesso dagli altri membri di diventa-re più attivi; b) c’è un cambiamento nella composizionedella popolazione dei non stupidi […] si nota, specialmen-te tra gli individui al potere, un’allarmante proliferazionedi banditi con un’alta percentuale di stupidità […] e, fraquelli non al potere, una ugualmente allarmante crescitadel numero degli sprovveduti […]. Tale cambiamento nellacomposizione dei non stupidi, rafforza inevitabilmente ilpotere distruttivo della frazione degli stupidi e porta ilPaese alla rovina.(C. Cipolla, Le leggi fondamentali della stupidità umana,in Allegro ma non troppo, Bologna, il Mulino, 1988).

In particolari momenti una quantità di gente stupida dispo-ne di una grande quantità di stupido denaro. Molti parsi-moniosi non dispongono di altra facoltà che quella dirisparmiare; accumulano abilmente, contemplano i propriaveri con soddisfazione; anche se non sanno cosa farsene.Aristotele, che non era un mercante, riteneva la moneta

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Prof. Giuseppe CONTIOrdinario di Storia economica nell'Università di Pisa

* Nel titolo avrei dovuto aggiungere “abbozzo di riflessioni”, o qualcos’altrodel genere. Diventava troppo lungo. Il lettore comprenderà, e, forse, condivi-derà, l’intento di questo scritto mosso dal capire quel che sta succedendo a par-tire da quel che è successo nel passato, prossimo e remoto: un passato tuttorainfluente e ‘presente’ nel quale affondano cause i cui effetti non sono ancoradecantati (e chissà per quanto ancora).

sterile, sterile come le signorine quiete, i preti di campa-gna, i taccagni di paese. [...] Il bisogno di questa facile pre-cauzione permette l’accumulazione di ricchezza nelletasche di parroci, scrittori, nonne, che non hanno alcunaconoscenza degli affari e nessuna idea eccetto che la loromoneta ora resta improduttiva, ma necessita e deve essereforzata immediatamente a produrre qualcosa. […] Di tantoin tanto, per motivi che non ci proponiamo qui di indagare,il denaro di queste persone – che può esser detto il capitalesenza meta del paese - è particolarmente ampio e affamato,cerca qualcosa da divorare, ed è l’«euforia», lo trova, ed èla «speculazione», viene divorato, ed è il «panico».(W. Bagehot, Estimates of some Englishmen andScotchmen, London, Chapman and Hall, 1858).

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1. Introduzione: crisi o declino (o entrambi)?

Secondo una versione del mito, Tantalo, in rapporti fami-liari con gli dei, incorse nella loro ira per aver compiutoatti temerari. Per punizione fu appeso a una rupe sotto unmasso che incombeva sulla sua testa. C’è qualche analogiatra il mito e la realtà italiana, non solo quella degli ultimidecenni. Condizioni economiche e politiche di emergenzasono state frequenti, anche se non tutte sfociate in crisivere e proprie. In politica i rischi di perdita di controllo suuna situazione possono dar luogo a un logoramento deimeccanismi di rappresentanza e di legittimazione. A lungoandare emergono spesso disagi e timori diffusi di varianatura. Dall’Unità a oggi si sono manifestati episodi fre-quenti di emergenza da rischi incombenti, ma con originidiverse in due periodi distinti. Prima degli anni ’30 il peri-colo era costituito dall’instabilità finanziaria e dalle crisibancarie. Lasciate a se stesse le crisi bancarie potevano tra-sferire caos in altri livelli della società o complicare ulte-riormente gli equilibri esistenti. Il deterioramento dellafinanza pubblica contribuiva talvolta ad aggravare la situa-zione e a creare una miscela esplosiva1. Dagli anni ’30 inpoi il sistema bancario è stato neutralizzato. Da allora sisono avuti (come vedremo) pochi dissesti bancari e tuttisenza conseguenze sistemiche.Dagli anni ’70 del XX secolo l’economia nazionale haperò imboccato più volte percorsi pericolosi e deviantirispetto alle maggiori economie per squilibri macroecono-mici di diversa origine, alcuni strutturali specialmentecome quelli di finanza pubblica. In un periodo nel qualecon il venir meno di un ordine monetario internazionale econ l’avvio della globalizzazione aumentavano le incertez-ze anche gli squilibri difficilmente si aggiustavano col

1 Cfr. i saggi di Alberto Cova e Salvatore La Francesca in questo Quaderno.

tempo. L’aggravarsi di tali squilibri era anche il risultato dipolitiche economiche arrischiate, che non reagivano conprudenza e accortezza. L’economia veniva così esposta arischi di fragilità, almeno a lungo andare. Soprattutto, se lealtre economie europee seguivano un’altra strada, il rinvioo il ritardo nell’adeguarsi non giocava a favore. Il tempoinvece di portare rimedi indeboliva le possibilità di reazio-ne e di correzione degli andamenti avversi specialmente sesopraggiungeva uno shock imprevisto che imponeva impe-gni finanziari aggiuntivi. D’altro lato la società italianastessa viveva momenti drammatici di lacerazioni, radica-lizzazioni aspre dei conflitti interni, tensioni provocate datorbide strategie di stragi, terrorismo, e altre trame oscuredi collusione tra appartati statali, gruppi eversivi, crimina-lità organizzata e arrampicatori sociali, nell’insieme fontidi malaffare e corruzione. Pochi altri paesi europei hannovissuto in quegli stessi anni situazioni interne così dram-matiche e turbolente. Le questioni di finanza pubblicavanno considerate congiuntamente alle tensioni sociali.Infatti, l’indebitamento crescente dello Stato è una que-stione eminentemente politica (Alesina 1988, p. 74).Prima o poi i nodi vengono al pettine. La crisi attuale sem-bra di questa natura. Ha colto l’economia italiana conaddosso il terzo debito pubblico più elevato al mondo colrischio di travolgerla se l’avvitamento nella crisi dei debi-ti sovrani non fosse stato scongiurato e con esso le conse-guenze drammatiche anche per tutta l’area dell’euro e nonsolo. In Italia la crisi è stata comunque più dura che non inaltre economie europee (se si escludono le minori), perquanto le proprie banche siano state tra le meno espostenelle bolle immobiliari, nelle cartolarizzazioni e nella fab-bricazione di strumenti strutturati - fenomeni che avevanocontribuito allo scoppio della bolla dei mutui subprimenegli Stati Uniti e in alcuni paesi europei. Per questo si puòpresumere che non tutti i problemi interni siano derivatidallo shock esterno della crisi globale. Inoltre, se il debitopubblico è diventato un fardello troppo pesante e se tutto

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ciò è dipeso, com’è dipeso, da scelte politiche, si può rite-nere davvero che non ci siano state responsabilità da partedelle classi dirigenti del Paese?Per Pareto l’equilibrio sociale dipende dall’organizzazio-ne, dall’integrazione e dal ricambio nelle élite politiche,economiche e intellettuali. Un elemento dell’eccezionalitàitalica consiste proprio nelle fratture e nelle rigidità diricambio delle élite. Da ciò sono dipese le difficoltà nel-l’individuare un nucleo di obiettivi che potessero definirsidi “interesse generale”, in senso lato, e tali da essere per-seguiti costantemente. Insomma, le classi dirigenti, politi-che e non meno economiche, hanno espresso problemiriassumibili in tre proposizioni: non saper fare, da cui con-segue spesso, il non poter e il non voler fare.L’ipotesi che cercheremo di sostenere è che negli ultimidecenni c’è stato un cumularsi di micro e macro fallimen-ti nell’azione sociale. Anche la crisi attuale si inquadra per-tanto in una deriva presa da lungo tempo e, forse, di decli-no economico. La crisi fa pensare a una cosa dolorosa marimediabile, il declino a qualcosa di meno drammatico maineluttabile.La tesi del declino richiama quella di un “caso italiano”, diuna Italian exceptionality. In seguito agli shock petroliferidegli anni ’70 aumentarono gli scostamenti medi fra leprincipali variabili economiche relative ai paesi europei.Quelle dell’economia italiana si scostarono di più e conqualche segnale di anticipo fin dal decennio precedente. Inquesta prospettiva, la crisi attuale è l’effetto combinato diun intenso shock esterno su un sistema relativamente piùfragile. Tema centrale dell’argomentazione proposta èquello appunto di un “sistema-paese” debole, lacerato, pre-cario che ha deviato lentamente e progressivamente dalcorso seguito dalle altre principali economie, ha tentato diriavvicinarsi a esse con scelte coraggiose come quelle del-l’integrazione europea, seguite spesso da altre scelte nonconseguenti con quelle precedenti. La prova delle convin-zioni sta nell’esito finale, non nell’opzione iniziale. E ciò

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mostra che finalità fissate in precedenza erano subitorimesse in discussione. Il “sistema-paese” è un problema dicoesione delle élite dirigenti (di «nave senza nocchiere ingran tempesta»), in definitiva di capacità di tenere insiemela società civile intesa nel senso di «luogo dove sorgono iconflitti economici, sociali, ideologici, religiosi, che le isti-tuzioni statali hanno il compito di risolvere o mediandoli oprevenendoli o reprimendoli» (Bobbio 1985, pp. 25-26).Negli ultimi decenni del XX secolo si sono realizzati cam-biamenti che hanno logorato la coesione necessaria trasocietà e classi dirigenti. La capacità di governo è anzitut-to una capacità di risposta ai cambiamenti all’interno diuna cornice di coesione sociale. Posto in questo modo ilproblema pare sfuggire alle categorie dell’economia edella banca. Tuttavia, de te fabula narratur. Che il caso ita-liano sia una questione di classe dirigente fu sollevata -come vedremo - da un banchiere “illuminato” riportandoin auge una letteratura più vasta e di antica data, in anni neiquali l’esigenza di rispolverare quella letteratura non eraancora così largamente sentita.Lo schema-guida parte dalla frase del grande storico eco-nomico Carlo Cipolla riportata in esergo (quella diBagehot la completa). Può sembrare troppo lapalissiananella sua limpidezza e semplicità geometrica; troppo rozzacome valutazione politica. Esprime però bene rivolgimen-ti nella qualità delle classi dirigenti e della società civilepurché non si facciano risalire a questioni di uomini o dimentalità. Il doppio deterioramento, dall’alto e dal bassodella società, ha prodotto un’azione a tenaglia da cui hapreso origine il decadimento dell’economia italiana.Nelle pagine che seguono si avanzano alcune considera-zioni proprio per mostrare come ci siano condizioni stori-co-istituzionali nelle quali gli squilibri macroeconomicifondamentali vengono corretti e rimessi in sicurezza. Unarottura di tali condizioni porta a un allentamento di alcunivincoli basilari, le istituzioni non li rendono più coercitivicome guida alle scelte politiche. Subentra così un profon-

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do disorientamento e disordine nell’azione politica e socia-le dovuto in parte alla distorsione nella percezione delrischio (economico, sociale e politico), nella valutazione diinteressi contingenti a scapito di quelli generali e di lungoperiodo. La politica senza briglie diventa un terreno difacile accesso a un’ampia gamma di soggetti più adatti aoccupazioni socialmente di minor responsabilità ed èmolto probabile che si alterino le composizioni di cui parlaCipolla. Il declino italiano è un declino di questo genereper la sequela di scelte avventate, di tattiche senza strate-gia, di decisioni rinviate, di atti colposi e anche dolosi. Laperdita di senso del pericolo e dell’“interesse generale” èperdita (o inefficacia) di un sistema istituzionale carentenel fornire segnali e avvertimenti, nel sanzionare con tem-pestività e nell’offrire procedure di uscita da situazioni dipericolo. Ciò vale non solo per una Repubblica platonicama anche per una retta da non-filosofi (o, peggio, da “anti-filosofi”, se l’espressione potesse essere logicamenteammissibile per gli “stupidi” e per i “banditi” di cui parlaCipolla). Di conseguenza è dalla ricostruzione di alcunivincoli, simili a quelli preesistenti, che si può pensareanche di ricomporre condizioni per un governo dell’eco-nomia più virtuoso di quanto non lo sia stato fino ad ora.Procederò per blocchi nel tentativo di ricomporre una partedel puzzle (quello del “caso italiano”). Per ragioni di spa-zio, le tessere sono solo giustapposte, e forse non si inca-strano alla perfezione. Ognuna delle evidenze prodotte inmaniera sintetica si presta a essere approfondita e, forse,contraddetta (speriamo soprattutto dai fatti degli anni ven-turi: il declino, in questo caso, sarebbe un ‘temporaneo’dieci-ventennio perduto). Il disegno complessivo è perciòmolto ipotetico, ma, anche senza un più paziente e neces-sario accostamento di tessere, lascia intravedere alcunicontorni nitidi dei problemi qui affrontati. In una primaparte si danno alcuni riferimenti alla letteratura sui proble-mi affrontati e si delinea una periodizzazione. Poi si met-tono insieme le tessere. La prima riguarda l’avvio della

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demolizione del capitalismo controllato e gli effettisull’Italia. La seconda considera l’approfondimento dellelacerazioni interne, che si aggravano a seguito del rallenta-mento della crescita e di instabilità crescenti. Ciò vieneesaminato sulla base di uno schema stilizzato (§ 3) e disituazioni particolarmente critiche che si sono ripetutedopo la crisi valutaria del 1964 fino al 1992 (§ 4). Le crisivalutarie, in quasi tutti i casi esaminati con effetti pesantisulla stabilità del sistema economico e politico, sonoinquadrate nel contesto delle fratture interne e del quadrointernazionale, riprendendo considerazioni sviluppate nel§ 2. Infine si svolgono alcune riflessioni sul ruolo del siste-ma bancario, sulle crisi bancarie da mala gestio e cometutto ciò abbia contribuito a indebolire la forza e robustez-za di un sistema-paese già strutturalmente gracile.

2. Le antiche origini della geografia della “guerra fred-da” e del capitalismo “controllato”

Nel 1972 un banchiere colto, Raffaele Mattioli, nell’intro-durre l’atto costitutivo per l’“Associazione per lo studiodella formazione della classe dirigente nell’Italia unita”osservò che persisteva un problema di inadeguatezza dellaclasse dirigente, incapace di sentirsi parte di una stessa«comunità di valori, di storia, di cultura»2. A suo giudizio itentativi di riscatto iniziati dopo l’Unità non erano affattoconclusi e, anzi, avevano trovato ostacoli nella formazio-ne, nel ricambio e nel modo di essere delle classi dirigenti.Mattioli non era né il primo né l’ultimo a condensare i pro-blemi nazionali in quei termini. Sull’identità italiana si

2 Sono parole di Raffaele Mattioli in premessa alla proposta di costituzione diuna "Associazione per lo studio della formazione della classe dirigentenell'Italia unita", riprese in Santillo (2012, p. 9). Su Mattioli cfr. La Francesca(2012).

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potrebbe risalire fino a Dante e Machiavelli (Galli DellaLoggia 2010). Leopardi, nel Discorso sopra lo stato pre-sente dei costumi degl’Italiani, individuava l’elemento didebolezza nel nesso tra fiducia e interesse pubblico3.Quella tradizione di pensiero confluì e formò un nucleofertile delle scienze sociali avviato dagli elitisti italiani acavallo di fine ’800 e inizi ’900 con i Mosca, Pareto,Michels, Gobetti, Dorso, Gramsci4. Dagli anni ’90 in poiuna parte della letteratura storica e economica ha sviluppa-to quei temi in termini di ritardi strutturali e di limiti delcapitalismo sulla base di un paradigma simile di scelte ina-deguate, difesa pervicace di posizioni di rendita, barrieredei mercati alla concorrenza aperta, governance di impre-se pubbliche e private bloccate al ricambio proprietario edirigenziale, collusioni tra affari e politica e mancanza dirinnovo nelle classi dirigenti. Si pensi, per citarne alcuni, aSapelli (1993), Barca (1997), Trento (2012) per analisi sulcapitalismo italiano. L’Italia come “caso” a sé era l’ipotesiavanzata da un gruppo di studiosi fin dagli anni ’70 e ripre-sa alcuni lustri più tardi (Cavazza e Graubard 1974; ePadoa-Schioppa e Graubard 2001). Di recente alcuni eco-nomisti hanno attinto alla tradizione di pensiero cui allu-deva Mattioli: si pensi a Sylos Labini (1995), Salvati(2003), Targetti (2004). Con un’impronta di sociologiaeconomica gli argomenti sono riproposti specialmente inDonati (1997) e Carboni (2007); con un taglio antropolo-

3 Nell’ultimo decennio del secolo scorso sono state riproposte varie edizionidel Discorso (1824). Un elenco, forse, parziale di curatori e edizioni è ilseguente: Novella Bellucci per Delotti (1988), Augusto Placanica per Marsilio(1989), Salvatore Veca per Feltrinelli (1991), Luca Doninelli per L’Unità(1993), Carlo Luigi Torchio per Magnanelli (1998), Mario Andrea Rigoni perla BUR (1998 e riedizioni successive fino a quella del 2012), Franco Corderoper Bollati Boringhieri (2011), Alessandro Miliotti per Piano B (2011).Insieme a Leopardi si vedano anche alcune opere di carattere più generalecome quelle di Asor Rosa (1977), Raimondi (1998), Bollati (1996), e Bodei(1998).4 Cfr. Salvatori (1960); e Farneti (1971).

gico in Tullio Altan (2000). La lista si allunga se si consi-derano studi sul logoramento dei meccanismi di rappre-sentanza esaminati da Farneti (1971 e 1983), Sapelli(2010) e Sartori (1982 e 2004), quelli sulle élite e sull’i-dentità nazionale nelle analisi di Mariuccia Salvati (1997),Salvadori (1994 e 2013), Galli della Loggia (1999) eBelardinelli e altri (1999), sull’appartenenza e sui linguag-gi e idee che la esprimono e la plasmano in Viroli (1995) eUrbinati (2011). Infine, con gli studi in Romanelli (1995) èstata avanzata la tesi di «crisi dello Stato», o di «Statodebole» con Cassese (2011 e 2014).I problemi di fragilità delle istituzioni e delle classi diri-genti si confondono facilmente, anche per le forti intercon-nessioni. Per fare istituzioni solide occorrono classi diri-genti che sappiano individuare obiettivi basilari comuni edi largo respiro, com’è accaduto anche in Italia in certeoccasioni. Un modo per tentare di tener separati i due pro-blemi passa attraverso l’individuazione di alcuni aspettistrutturali, di “lunga durata”, rispetto a situazioni più con-tingenti di opportunità perse, incidenti di percorso, colpeflagranti. Se il terreno su cui si muovono le élite diventaincerto e accidentato è più probabile commettere errori ecercare vie meno convenzionali da parte di chi ha respon-sabilità di governo a qualsiasi livello. Anche il discreditoverso le élite si diffonde e, con esso, anche il senso di diso-rientamento tra le classi subalterne pronte ad abbracciarevarie forme di oltranzismo, qualunquismo e populismo.Riguardo al secondo dopoguerra vi sono due aspetti difondo da considerare. Il primo riguarda la geopolitica cheha influito sulla fisionomia dei capitalismi europeo-occi-dentali. Il secondo concerne le tensioni interne a quelladimensione geopolitica, sorte o acuite nel corso degli anni.E’ poi importante stabilire come quel sistema di relazioni edi tensioni sia stato governato.Il primo punto è semplificato dalla carta geografica sottoriportata (fig. 1). In essa il blocco di paesi aderenti al Pattoatlantico si contrappone a quelli del Comecon. Le sfuma-

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ture di colori con tonalità fredde indicano l’espansionedella Comunità economica europea fino al compimentodell’Unione europea per un arco di cinquant’anni, cioè dal1945 fino al crollo dell’URSS.

Fig. 1 – I “due blocchi” e l’integrazione economica dell’Europa occiden-

tale, 1945-1995.

Fonte: Patrick K. O’Brien, Philip’s Atlas of World History, London, Philip’s, 2002-2007.

All’epoca della Guerra fredda i confini tra i blocchi rical-cano quasi esattamente i limes dell’impero romano all’e-poca della sua massima espansione evidenziati sulla carti-na in maniera grossolana dalle due linee rosse. Attorno adesse scorrono le acque di due grandi fiumi. Le sponde delReno e del Danubio costituiscono quella fascia «mediana»che, secondo Ortega y Gasset (1978, p. 62), è l’«asse cen-trale della storia» dell’Europa. Lungo il braccio verticale,a cavallo del corso del Reno, Ludovico il Pio disegnò lostrano territorio della Lotaringia come zona strategica perreggere l’eredità imperiale di Carlo Magno. Aggiungeancora Ortega (1978, p. 66): «questa linea – che era la linea

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imperiale, la linea delle battaglie, la linea del comando nel-l’impero romano – continuerà ad essere fino ai nostri gior-ni la linea per la quale hanno dovuto lottare quanti hannovoluto comandare nel mondo occidentale».In tempi a noi molto più vicini la “linea imperiale” rappre-senta ancora la frattura che intercorre tra due piani di fagliale cui frizioni hanno determinato le tensioni del secondodopoguerra secondo logiche di movimento in direzioniopposte ma con esiti interni diversi da paese a paese. Suquella geografia politica del lungo dopoguerra e sulladistanza da quelle linee si definisce l’intensità delle tensio-ni e delle mediazioni necessarie per governarle. Le moda-lità con cui si è realizzato il capitalismo controllato vannoconsiderate in base a questa cartografia.La nozione di «capitalismo controllato» (richiamata anchenel precedente incontro: Conti [2013]) fu introdotta daSchumpeter (1942) per cogliere la caratteristica essenzialedel sistema economico uscito dalla crisi degli anni ’30 ebasato su forme di controllo burocratico sugli animal spi-rits imprenditoriali e soprattutto su quelli che guidavano labanca e la finanza. Schumpeter considerò molto severa-mente la piega burocratica che aveva preso il capitalismodopo gli anni ’30, segno evidente che il capitalismo stesseper raggiungere uno stadio terminale. Gli anni della goldenage smentirono tutto ciò: il capitalismo regolato era pienodi vigore come non lo era mai stato.Lo stato regolatore e interventista – in Italia anche ban-chiere e imprenditore – imbrigliava le forze di mercato persalvare il capitalismo da mercati che, invece di autorego-larsi, erano collassati negli anni ’30 col rischio di distrug-gere l’intera società e la civiltà occidentale.Le economie occidentali avanzate accettarono regole einterventi perché la minaccia autodistruttiva dei mercatiera reale e, inoltre, perché cominciava a acquisire credibi-lità il sistema alternativo. Nelle economie di tipo sovieticola pianificazione si proponeva come un sistema radical-mente opposto al capitalismo sfrenato di tipo ottocentesco

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e come concorrente efficace di un sistema di corporatecapitalism. Altrimenti vi erano gli esperimenti, altrettantopericolosi, in senso neocorporativo e dirigista, dei fasci-smi. Nell’inverno del 1943 l’inattesa vittoria di Stalingradoda parte dell’Armata rossa accreditò però la prima alterna-tiva. Nelle società occidentali le forze sociali espressionedelle classi lavoratrici si trovarono variamente divise (ocoese) su come valutare o tradurre l’esperienza sovieticanella prassi politica dei propri paesi. Le divisioni nell’am-bito dei partiti socialisti sorsero e si acutizzarono dopo laprima guerra mondiale e proseguirono fino al crollo delcomunismo sovietico. Ma anche queste differenze poteva-no essere considerate mere tattiche di sfondamento daparte dei partiti centristi e liberal-democratici.Regole e interventi ebbero così ampiezza e intensità varia-bili tra i diversi Stati dell’Europa occidentale anche in con-siderazione del peso e della forza delle formazioni politi-che alternative e radicali. Il capitalismo controllato non fuper questo un modello unico. L’economia americana nel’900 – repressione finanziaria a parte – sembrò l’eredelegittima del capitalismo di laissez-faire del secolo prece-dente, o meglio precedente la Grande depressione. Nonaveva neppure forze interne organizzate che potesserosostenere il modello alternativo. L’Employment Act del1946 fu il prodotto del timore di un ritorno della depres-sione a guerra finita e, per quanto spurgato dell’ispirazionekeynesiana del progetto iniziale, stabilì un orientamentovolto a dar vigore alle classi medie, chiave di volta delsistema americano, nel senso di offrire canali di ascesasociale attraverso l’allargamento delle basi del benessere eil sostegno alla domanda interna.Gli alleati non seguirono lo stesso modello, pur guardandoa esso come una meta a lungo inconfessata anche nei par-

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5 Una verifica utile potrebbe venire da una rilettura critica dei discorsi e delleposizioni dei maggiori esponenti politici europei, di qualsiasi schieramento, sudue temi: l’America e l’Europa.

titi di centro o di centro-destra 5. In Europa la realtà socia-le era ben diversa. C’era un ‘nemico’ interno che non siaccontentava di panem et circenses. Le masse popolarierano organizzate in sindacati e partiti, anche se non tuttisu posizioni radicali. La minaccia esterna faceva breccia inforze sociali interne. La percezione di tale minaccia contri-buì alla costruzione dello Stato sociale in Europa 6.L’arte della politica, occorre ribadirlo, consiste nel media-re. E fu quella la strada seguita (per lo più) per un arco ditempo segnato, all’inizio e verso la fine, da eventi dram-matici. Ci si riferisce alle conseguenze della seconda guer-ra mondiale e, all’altro estremo, all’uccisione di due leaderche, in maniera diversa, interpretavano quell’arte ai dueestremi dell’Europa: Aldo Moro (1977) e Olof Palme(1986).Nel maggio del 1945 la vittoria del partito laburista nelRegno Unito segnò l’avvio di un modello di capitalismosotto controllo e socialmente mitigato da un progetto diwelfare state. Altri paesi europei ne seguirono la strada conmolte varianti. In ognuno si introducessero controlli più omeno estesi, che definivano i limiti al libero mercato,insieme a forme di intervento molto diverse per intensità equalità della spesa sociale (Lindert 2007). Il florilegio diformule inventate per cogliere le varietà di capitalismi (lecapitalism varieties della letteratura socio-economica)esprime bene l’avanzamento in quella zona grigia tra, dauna parte, il capitalismo puro (in realtà una sorta d’ideaplatonica), non regolato e di libero mercato come quelloottocentesco, cui gli Stati Uniti somigliavano molto di più,e, dall’altra, le economie socialiste a pianificazione centra-lizzata secondo il modello sovietico e le sue ristrettevarianti. I paesi attorno agli antichi limes d’epoca romana

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6 Gli Stati Uniti non potevano essere un modello di economia ‘esportabile’:"As an economic model the U.S. is not replicable. As a social model it offersfew redeeming qualities" (Judt 2008, p. 397).

adottarono uno spettro di modelli intermedi. In Germania,ad esempio, si cercò di realizzare un’«economia sociale dimercato» attraverso la quale coniugare capitalismo e soli-darismo 7. In altri paesi si tentò di contaminare socialismoa democrazia con la conseguenza di piegare la proprietà el’iniziativa privata all’utilità sociale, correggendo l’indivi-dualismo senza sopprimerlo, fino a tentare un socialismodi mercato. Sotto questo profilo le socialdemocrazie deipaesi scandinavi si spinsero molto avanti. Lasciaronomolto liberi gli individui nelle loro scelte di vita, le impre-se in quelle imprenditoriali, ma attraverso lo Stato si cercòdi innalzare il livello e la qualità dei beni sociali. In Franciasi realizzò una versione neomercantilista attraverso pianistatali volti a coordinare le scelte del settore pubblico eorientare gli investimenti delle grandi imprese nazionali. Ilmodello giapponese, il solo spicchio d’Oriente dentro que-sta geografia tutta occidentale, seguì una via analoga ma diwelfare delegato alle grandi imprese e di coordinamentocentralizzato degli indirizzi di politica industriale assegna-to a una forte burocrazia ministeriale, una sorta di guidaper gruppi finanziari e industriali verticalmente integratima con grandi imprese in concorrenza con quelle dei grup-pi avversi. Diversamente che in Giappone, nel caso italia-no l’ampia porzione di imprese nell’orbita del controllopubblico, attraverso l’IRI e altri enti, di fatto consentiva aun numero relativamente ristretto di grandi gruppi privatidi stabilire un regime relativamente statico di collusionereciproca. Imprese pubbliche e private erano a loro voltasempre più colluse con i partiti di governo. Attorno ad esseproliferava un ampio bacino di piccole imprese, di banche

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7 Si tenga presente che un autore come Wilhelm Röpke proponeva una “terzavia”, ma criticava aspramente il New Deal rooseveltiano e il welfare state diBeveridge per le eccessive restrizioni poste ai mercati. Su “ordoliberalismo”,scuola di Friburgo, “economia sociale di mercato” cfr. Somma (2009-2013).Pregevoli i saggi di Maier (2003) per comprendere le reazioni economiche,sociali e politiche alle crisi del XX secolo.

ancillari alle grandi e alle piccole, ma senza capacità eforza d’indirizzo né verso le prime né verso le seconde.Uno Stato senza pretese di fornire una guida sicura cerca-va di mantenere il tutto in un precario equilibrio per nonrafforzare troppo le posizioni di nessuna parte. Ma su ciòritorneremo tra poco perché, per capire meglio questasituazione, occorre considerare la posizione occupata dalpaese sul territorio geopolitico.La geografia delle società corporatiste, a economia“mista”, si aprì a ventaglio da ovest verso est, con gli StatiUniti all’estremo occidentale quale paese relativamentepiù vicino al modello ottocentesco di capitalismo di mer-cato e sulla sponda orientale il monolitico blocco sovieticoin dichiarata alternativa al capitalismo, e che poteva essereconsiderato – come fu chiaro dopo il suo crollo – una stra-da più lunga per approdare al capitalismo da parte di paesieconomicamente molto arretrati. Tra un estremo e l’altro sipotrebbe sovrapporre sulla carta della fig. 1 un’altra gra-duazione cromatica per rappresentare le differenze anzi-dette che cercavano di coniugare individualismo a sociali-tà secondo un prisma di equità distributiva (o di disegua-glianze accettate) le cui specificità dipendevano dagli esitidella conflittualità sociale e dalle relazioni industriali, maanche dall’azione politica e dalle forme di rappresentanzadel consenso. La prossimità con le esperienze socialistesovietiche e il grado di minacce interne di rivolgimentosociale spingevano a realizzare formule più avanzate distato sociale e di coinvolgimento dei partiti di centro-sini-stra nelle esperienze di governo. In quella cartografial’Italia – come vedremo – occupa un posto speciale: stra-tegico perché è l’appendice sud del limes longitudinale e èseparata solo dall’Adriatico da economie socialiste conesperimenti diversi da quello strettamente sovietico, comein Jugoslavia e in Albania. Era anche il principale paesecon una società travagliata da profonde fratture interne,che l’Unità non aveva sanato. Non aveva sperimentato unavera “rivoluzione borghese”, e i moti nazionali non aveva-

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no contribuito a saldare le fratture interne alla società néquelle dentro le classi dirigenti. Il tradizionale servilismocortigiano si adattava alle dinamiche di una società conistituzioni moderne e con competizione elettorale. Il tra-sformismo divenne una pratica durevole (Sabbatucci 2003;Musella 2003) che ebbe, come rovescio della medaglia, ilvoto di scambio e il clientelismo. Sulla sponda opposta sisvilupparono forme di ribellismo arcaiche e anarcoidi nellequali si incanalavano gli umori popolari 8. L’Italia deldopoguerra affrontò la nuova realtà della democrazia par-titica con alle spalle vent’anni di fascismo e, dopo le ele-zioni del 1948, con il più grande partito comunistadell’Europa occidentale sempre all’opposizione a fattore(“K”) decisivo della non alternanza tra schieramenti oppo-sti alla guida del governo. Ma sull’Italia ritorneremo.I big governments si fondavano sulla repressione finanzia-ria interna, sul controllo dei movimenti di capitale con l’e-stero (controlli consentiti dagli accordi di Bretton Woods)e senza i quali non avrebbero potuto cercare di realizzare ilproprio tipo di patto sociale e distributivo. La triangolazio-ne tra Stato, gruppi sociali e economia determinava quel-l’insieme di trasferimenti che definiva uno specificomodello di welfare state. La costruzione delle classi medieera un’assicurazione per ottenere stabilità politica e garan-tire la pace sociale in contropartita dell’intervento direttodello Stato nel conflitto distributivo e in forma indirettaattraverso la gamma e la qualità di servizi sociali offerti.Nessuna economia assomigliava più a quel che era statanel XIX secolo, ma il carattere “misto” di ciascuna eramisto alla maniera propria in base a quanto fossero corret-ti o repressi i cardini fondamentali dell’economia di mer-cato “pura” senza per questo rinunciare alla cornice di

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8 Per gli aspetti generali dell’evoluzione storica delle società occidentali e deitemi: borghesia, classi medie, conflitti sociali il riferimento resta l’ormai clas-sico Moore (1969).

regole e di diritti che nelle democrazie liberali modernerisultavano meglio garantiti in termini di certezza, garan-zie, possibilità di accesso, mobilità dei beni, dei redditi, divalorizzazione delle capacità e dei talenti individuali e col-lettivi. Se il mercato perdeva gradi di libertà questo non eraa detrimento, anzi a garanzia, dei gradi di libertà e oppor-tunità lasciati ai cittadini e alla società. In questo senso la“società aperta” poteva avere anche mercati “chiusi”.

3. Il “caso italiano”: squilibri macroeconomici e classidirigenti in difetto

La regolazione funzionò finché le pressioni interne a un’e-conomia in piena espansione non divennero incontenibili.A un certo punto si aprirono brecce, i mercati dilagarono ei controlli saltarono. Quando avvenne con precisione? LaStoria è sempre in movimento e stabilire in quale fase si siaprodotta la rottura fondamentale, prima che questa abbiaassunto proporzioni evidenti, è propriamente un problemadi interpretazione storica. Nel precedente intervento (Conti2013) ho risposto a questa domanda e mostrato come e per-ché si esaurì la stagione del capitalismo controllato e,insieme a essa, dei decenni d’oro della crescita economicadel secondo dopoguerra. Non ci ritorno sopra. Basti tenerpresente che i mercati finanziari strariparono fuori dai con-fini nazionali, l’abbandono dei cambi fissi fu la conse-guenza di smottamenti precedenti, ma fece capire cheun’epoca era finita. Gli anni ’70 furono un periodo di svol-ta. Come vedremo lo furono anche per l’Italia, ma quisegnali premonitori di cedimento comparvero prima chealtrove.Il disfacimento del capitalismo controllato, prima lento,poi - dall’inizio degli anni ’70 - più rapido, avvenne, tral’altro (Conti 2011), per il formarsi di squilibri macroeco-nomici che non trovavano compensazioni nel breve omedio periodo. Nel caso italiano il rinvio degli aggiusta-

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menti e le sfasature nel metterli in opera contribuì alladivergenza e a un maggior accumulo delle conseguenzedegli squilibri. Una volta allentati alcuni vincoli storicoistituzionali basilari come il cambio fisso, si logoraronoulteriormente i rapporti distributivi e di relazioni industria-li. Alla fine, gli effetti furono evidenti anche sui conti pub-blici ma – come vedremo – alcune scelte importanti eranostate già prese in anni precedenti.Le considerazioni di Cipolla – richiamate in esergo – spie-gano i cambiamenti storici senza far affidamento su faciliscorciatoie sul tipo di accidenti imponderabili, del tuttocasuali che deviano il corso della Storia (come sarebbe nelcaso di semplici mutazioni “genetiche” nelle proporzionidei quattro tipi-ideali considerati da Cipolla: “stupidi”,“intelligenti”, “banditi” e “sprovveduti”). In tal modo sipuò superare un determinismo rigido e un fatalismo ottuso.Infatti, la Storia resta comunque una faccenda moltocapricciosa perché soggetta a improvvisi sbandamenti che,una volta prodotti, danno luogo a situazioni irreversibili;infine, le istituzioni contano, specialmente nei cambiamen-ti. La prima proposizione si traduce anche in: la Storia nonsi ripete, almeno nello stesso modo e nelle stesse condizio-ni; riappianare le alterazioni non ci riporta al punto di par-tenza. La seconda attribuisce alle istituzioni il condiziona-mento ultimo dell’azione dei soggetti, anche quando essistessi contribuiscono a cambiarle perché possono farloentro i limiti stabiliti dal quadro istituzionale che continuaa condizionarli (ossia, la storia come storia delle istituzio-ni condiziona lo stesso cambiamento istituzionale). Il corsoaccidentato della storia è perciò almeno orientato dalle isti-tuzioni e dai loro processi di cambiamento istituzionale.Questo è in parte il senso del neoistituzionalismo diDouglass North, ma, soprattutto, dell’istituzionalismo vec-chia maniera di Thorstein Veblen.Occorre ricercare l’origine degli squilibri macroeconomiciin cedimenti o cambiamenti nell’ordine istituzionale inter-nazionale e interno. I fenomeni di instabilità e di crisi

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finanziarie sono stati recentemente analizzati in relazionesoprattutto alle crisi delle economie emergenti in base auna serie di modelli (v. in Appendice). Da essi si possonotrarre alcuni indicatori di squilibri macroeconomici appli-cabili anche per un’economia avanzata come l’Italia perpiù ragioni. Nel dopoguerra, come ancor oggi, l’Italia eraun’economia di media grandezza, aperta sull’estero, senzauna posizione finanziaria preminente nel contesto interna-zionale. Come piazza finanziaria quella di Milano si posi-zionava in un secondo anello incentrato sulle grandi piaz-ze finanziarie di Londra e New York, una volta ancheParigi, e, oggi, sui principali centri finanziari dell’econo-mia mondiale e sedi operative di smistamento di informa-zioni e capitali su scala globale (Cassis 2011). Questa sortadi “dipendenza” dai centri finanziari maggiori non era tut-tavia totale perché l’Italia fin dai primi decenni postunitarisi era resa indipendente dall’importazione di capitali dal-l’estero, ma subiva pur sempre l’influenza dei prezzi delcapitale che si formavano sulle principali piazze. I tentati-vi di isolarsi dalle influenze esterne avevano successo perperiodi limitati a condizione di rispettare le “regole delgioco” dell’ordine monetario internazionale vigente(McKinnon 1993), o di accumulare squilibri “positivi”.L’apertura agli scambi con l’estero, di vitale importanzaper la crescita dell’economia nazionale, poneva e conti-nuava a porre una serie di vincoli, per quanto minori rispet-to a quelli cui sono sottoposti i paesi in via di sviluppo.Il quadrilatero della figura 2 esemplifica lo schema diragionamento e le relazioni tra le principali variabili chesvolgono un ruolo chiave negli squilibri economici fonda-mentali. I principali sono riportati in ciascun vertice delquadrilatero. In quello in alto a sinistra sta il conflitto tracapitale e lavoro per la distribuzione del reddito. Al verti-ce in alto a destra è situato lo Stato (il settore pubblico) dalcui squilibrio tra entrate e uscite dipende l’accumulo didebito pubblico. Ai vertici in basso stanno gli squilibri del-l’economia nazionale verso l’estero con, a destra, quello

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originato dai conti per le transazioni economiche e finan-ziarie con il resto del mondo e, a sinistra, gli squilibri dicambio, più frequenti e spiegati, in ultimo, dagli squilibrinei “fondamentali” (quelli a destra, per intenderci) e di cre-dibilità delle autorità e delle istituzioni nazionali. Tenereinsieme le fonti di squilibrio, anche se limitate a queste,non è compito facile, specialmente quando i problemicominciano a presentarsi su ogni lato. Un elemento di alte-razione, o un cuscinetto di tali squilibri, sta nel sistemabancario e finanziario, raffigurato al centro del quadrilate-ro. Le riforme degli anni ’30 – come più volte ricordato –avevano, quasi ovunque, tenuto sotto controllo la finanza.Attraverso il controllo del credito si riteneva di poter assi-curare una relativa stabilità agli altri comparti.

Fig. 2 – Quadrilatero degli squilibri macroeconomici (i)

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La figura 3 dà conto di alcune variabili, o indicatori deglisquilibri, e di alcune relazioni che le tengono insieme.

Fig. 3 – Quadrilatero degli squilibri macroeconomici (ii)

Si possono tralasciare in questa sede misure dirette delconflitto sociale, che terremo comunque presenti nella nar-razione, e considerare alcune variabili attraverso le qualicogliere gli altri maggiori squilibri relativi alle differenzetra i tassi d’interesse interni e esteri (v. la zona in basso nelfig. 3), agli andamenti del cambio (delle riserve valutarie v.in basso e dentro il quadrato) e del debito pubblico.La figura 4 mostra l’andamento per più di mezzo secolodelle differenze tra i saggi d’interesse mensili sui titoli diStato italiani e quelli di Germania e Stati Uniti. La diffe-renza positiva indica un premio nominale che gli investito-ri ottengono da un titolo risk-free italiano rispetto a quantoavrebbero ricavato negli altri due paesi.

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Il grafico riporta anche l’andamento del livello del tasso direndimento dei titoli di Stato italiani. Gli alti e bassi deglispread riflettono in parte lo stesso profilo del livello deitassi di interesse e segnalano, in caso contrario (quello diun tasso d’interesse interno in controtendenza rispetto agliandamenti degli spread), l’adozione di politiche economi-che e monetarie diverse in Italia rispetto a Germania e StatiUniti, o a una delle due potenze industriali. Tali passaggicritici sono indicati dalle frecce nella figura 5 relativa ailivelli dei tassi di rendimento sugli stessi titoli.

Fig. 4 – Tasso di rendimento sui titoli di Stato italiani a lunga sca-denza e spread mensili di interesse sui titoli di Stato Italia-Germania e Italia-Stati Uniti, 1958-2012 (in punti percentuali).

Fonte: IMF, International Financial Statistics, (database IMF.Stat).

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Fig. 5 – Tassi di rendimento sui titoli di Stato a lunga scadenza inItalia, Germania e Stati Uniti, 1958-2012 (valori percentuali).

I movimenti delle due serie sono molto sincroni, anche senon sovrapposti. Le fig. 4 e 5 consentono di individuarequattro fasi principali, confermate dagli andamenti chevedremo. La prima può esser fatta terminare attorno allafine del terzo trimestre del 1974 ed è caratterizzata da unoscarto positivo dei tassi d’interesse italiani rispetto a quel-li americani e quasi sempre negativo rispetto a quelli tede-schi, in quest’ultimo caso salvo nei periodi in cui i tassi ita-liani sono in rialzo. La seconda fase inizia dal settembre1974 e termina attorno agli ultimi mesi del 1997. In tuttiquesti anni i tassi italiani spiccano il volo. Le differenzediventano molto consistenti dalla seconda metà degli anni’70 alla metà del decennio successivo, con una vetta mas-sima nei primi anni ’80. Dalla seconda metà degli anni ’80restano elevati, sopra i 400 punti base nei confronti dei duepaesi, quando i loro tassi tendono sempre più a eguagliarsidopo l’unificazione tedesca e la prima guerra del Golfo.Nella terza fase, che va dal 1998 all’agosto del 2008,l’Italia sperimenta uno dei più lunghi periodi di tassi d’in-

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teresse particolarmente bassi e stabili, di poco superiori aquelli tedeschi dopo l’ingresso nella moneta unica (inmedia con solo 28 punti base di scarto). Dal settembre del2008, dopo il crollo della Lehman Brothers, gli spread ditassi d’interesse crescono drammaticamente per l’Italia neiconfronti sia degli Stati Uniti che della Germania.Prima di trarre alcune considerazioni occorre osservare ipicchi nel profilo delle serie. Nella fase iniziale il picco èrelativo al giugno 1964 (203 e 415 punti base rispettiva-mente verso Germania e Stati Uniti), un innalzamentoimprovviso avvenuto in pochi mesi, dalla metà dell’annoprecedente e progressivamente rientrato già verso la finedell’anno. Corrisponde, come vedremo, alla grave crisicongiunturale dell’economia italiana, in controtendenzarispetto alle altre economie, ma che rompe definitivamen-te con quello che era stato il “miracolo economico”. Ilsecondo rialzo si verifica nel luglio-agosto del 1970 (con208 e 108 punti base rispettivamente verso gli Stati Uniti ela Germania), dopo un rialzo che si era avuto nel febbraio1970, con una discesa lenta nei due anni successivi.Dal settembre 1974 inizia un profilo simile a quello di unamontagna a due vette. La prima raggiunge il massimo di904 punti nell’agosto 1977 di scarto rispetto allaGermania, e poi, con un picco a tre cuspidi, nel 1982 (1163punti nel dicembre 1981, 1200 nel maggio successivo e1162 a dicembre e a gennaio 1983).L’ultima punta, pur inferiore a quelle degli anni ’80 e primi’90, emerge nel novembre 2011 con oltre 500 punti base didifferenza.Come osservato poco sopra, ci sono alcune tendenze nellapolitica economica italiana di segno opposto rispetto aquella americana e tedesca che si riflettono nel livello deitassi d’interesse interni. La prima è in risposta all’“autun-no caldo” con un rialzo dei tassi di quasi 3 punti percen-tuali in un trimestre (fig. 5). Il secondo rialzo importante siverifica a partire dal secondo trimestre del 1974 e un altrorialzo sempre in controtendenza, ma con passo più gradua-

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le nel corso dei mesi successivi, dall’aprile 1988 fino all’i-nizio del 1990. Per il resto il profilo dei tassi di interesse inItalia segue quello degli altri due paesi (fig. 5). Le impen-nate degli spread nel 1963-64, 1974-77, 1981, 1992, 1994e quella, in due tempi, dopo il 2008 coincidono con gravitensioni, in molti casi di origini valutarie, ma parte inte-grante, di perdite di fiducia, di controllo sulla situazionesociale e politica interna da parte dei governi e dei partitiche li sostenevano. Le crisi valutarie sono un fenomenoche interessa l’Italia all’epoca dei cambi fissi. Dopo il1973 gli accordi cambio che vengono raggiunti su scalaeuropea non furono così vincolanti, fino all’unificazionemonetaria, dall’evitare svalutazioni ricorrenti. Il deprezza-mento della lira è forte fino al 1982 e a scalini di svaluta-zioni (fig. 6).

Fig. 6 - Tassi di cambio nominali effettivi di lira, marco e dollaro,1970-1999 (2005 = 100).

Fonte: International Monetary Fund, International Financial Statistics (www.imf.org/external/data.htm).

In tutti questi casi i problemi economici hanno posto difronte a scelte difficili di aggiustamento. Gli squilibri

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andavano appianati. Sopportare l’onere di tutto ciò com-portava scelte tecniche in parte note, priorità da assegnare,ma occorrevano innanzitutto motivazioni politiche cheimplicavano valutazioni di costi spesso non quantificabilidi consenso e di equilibri sociali, specialmente se la situa-zione da risanare era complicata da squilibri su più fronti etrade-off di scelta. Nel presupposto che la “ricetta” fossenota e condivisa, “addolcirla” implicava un allungamentodei tempi di recupero, con un accumulo di rischi. Lo squi-librio iniziale poteva trasferirsi in altri ambiti o rendere piùgravose le misure da adottare in un secondo tempo. Lapolitica del rinvio poteva comunque essere giustificata dadifficoltà nel percepire la gravità degli eventi e dalla con-fidenza che col tempo le cose si sarebbero rimesse a posto.I giochi della politica hanno complicato problemi econo-mici che potevano essere risolti prima e con minori costi.

4. Squilibri in accumulo e (quasi) scampati pericoli

Sulla storia economica italiana del secondo dopoguerraprevalgono due indirizzi. Uno, conforme alle macro-vicen-de internazionali e agli andamenti dei principali indicatorimacroeconomici, individua negli shock petroliferi deglianni ’70 l’interruzione dell’epoca d’oro della crescita eco-nomica (Zamagni 1993; Battilani e Fauri 2008; Vecchi2011; Toniolo 2013), con la variante di un urto precedenteprodotto dall’“autunno caldo” (Rossi 1998). Un altro indi-rizzo retrodata di un decennio la rottura del modello vir-tuoso dello sviluppo economico italiano la cui spinta pro-pulsiva si inceppava per effetto di riforme mancate (Salvati2000). Secondo altri si concluse la parabola del «sistemaBeneduce» in conseguenza di un inevitabile ricambiogenerazionale e culturale, mancando nei subentranti lamedesima abnegazione ai valori nazional-risorgimentali(de Cecco 1997). Su posizioni intermedie più articolate,Graziani (2000, p. 18) isola gli anni ’60 nei quali colloca i

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cambiamenti nel mercato del lavoro e nelle relazioni indu-striali e l’inizio di quel «ricatto della congiuntura» impostodai maggiori gruppi economici per accantonare sistemati-camente le riforme di più ampio respiro. Anche Cioccaricerca lo «scemare di sollecitazioni» concorrenziali neglianni ’60, nei quali «né programmazione efficace némigliori regole di mercato» consentirono di avviare a solu-zione problemi che col tempo si sarebbero ulteriormentecomplicati (Ciocca 2007, pp. 274 e 276). Insomma, la que-stione è aperta e qui, per le ragioni che ora vedremo e perevidenze dei grafici riportati, si preferisce iniziare con glianni ’60. Le crisi che esamineremo furono gravi anche seil peggio fu evitato. La tenuta del sistema bancario e finan-ziario, seppure mai messa direttamente sotto pressione,risultò comunque importante per non andare incontro arischi maggiori e per evitare conseguenze peggiori.

4.1. Il primo rischio di crisi valutaria (1963-64)

I primi anni ’60 rappresentarono uno snodo insidioso nellastoria italiana. Da un punto di vista strettamente economi-co si trattò di uno slittamento congiunturale, in controten-denza rispetto alle principali economie, ma alla fine senzagravi conseguenze. Se si esamina più attentamente quelche successe in quegli anni si possono individuare segni dirottura più evidenti. Tutto si aggrovigliò per effetto di unasituazione politica e sociale le cui implicazioni restanoancora da valutare pienamente nella loro portata (Lanaro1992, pp. 308-319).Nel corso del 1963 la bilancia dei pagamenti italiana sideteriorò gravemente. A fine anno il disavanzo raggiunse746 miliardi di lire, quasi il 2,5% del reddito. Ciò generòtensioni sul cambio e timori di una revisione della parità.C’è concordanza di giudizio nell’attribuire la crisi aglisquilibri sociali che portarono alla fine del modello di svi-luppo basato su bassi salari, intensa crescita della produtti-vità e elevata accumulazione di capitale. I redditi da lavo-

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ro dipendente aumentarono nel biennio precedente per laraggiunta piena occupazione in molti comparti industrialiin aree del nord del Paese e per un rafforzamento dellepressioni rivendicative dei sindacati. La politica monetariaaccomodante che accese l’inflazione (Ciocca 2008, p.XVII). La domanda per consumi aumentò e in pochi mesicrebbero anche le importazioni 9. La voragine nei conti conl’estero si aprì anche per altre ragioni. Ai primi anni ‘60 lasituazione interna si complicò per un’insidiosa crisi politi-ca. I primi governi di centro-sinistra, con l’ingresso deisocialisti nella compagine di governo, generarono aspetta-tive, opposizioni e lacerazioni. Un terreno di scontro parti-colarmente rovente fu la nazionalizzazione del settore elet-trico. Ancor prima di essere approvata nel dicembre 1962,contribuì a seminare sfiducia tra industriali e classi medio-alte. La soluzione scelta di assegnare indennizzi alle socie-tà per 1.650 miliardi in dieci anni riversò nell’economia untorrente di liquidità che, invece di disperdersi in mille rivo-li, come nel caso di compensazioni a beneficio degli azio-nisti, contribuì a ingolfare il mercato finanziario, a incorag-giare investimenti in beni rifugio e fughe di capitali all’e-stero (de Cecco 1969, pp. 385-6). La speculazione contro lalira si gonfiò rapidamente anche con quelle risorse.Le autorità intervennero con una riduzione drastica del cre-dito e misure fiscali altrettanto severe (Graziani 1989, p.86). La crescita economica fu frenata bruscamente e ilciclo del “miracolo economico” interrotto (Nardozzi2004). La pressione sulle riserve valutarie, che avrebbepotuto vanificare le misure prese, venne contrastata daoperazioni swap con la Federal Reserve (Cavalieri 2009, p.259). L’annuncio poi di un prestito americano a favoredell’Italia spezzò definitivamente la speculazione (Fodor2000; Verde 2002; Cavalieri 2009).

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9 Sulla crisi del 1964 Graziani (2000, pp. 85-88). Cfr. anche La Malfa eModigliani (1966 [1987]) e, per una valutazione dell’intero dibattito cfr.Marinelli (2008).

In particolare, Cavalieri (2009, pp. 279-80) ha messo inevidenza le ragioni politiche che, oltre alla difesa del siste-ma monetario internazionale, spinsero gli americani a evi-tare una crisi valutaria che avrebbe indebolito il governoMoro, posto fine al centro-sinistra con la probabilità diradicalizzare lo scontro in atto nel paese e avvantaggiare leopposizioni al governo, sia di destra, sostenute da ampiaparte degli industriali, sia di sinistra rappresentate da unforte partito comunista filo-sovietico anche dopo l’invasio-ne dell’Ungheria.Con i governi di centro-sinistra dei primi anni ‘60 si rea-lizzò un compromesso senza pacificazione. L’accordo tra iprincipali partiti della maggioranza si fondava su un pro-gramma ampio e ambizioso di riforme sulle quali iniziaro-no però a manifestarsi posizioni contraddittorie e di nettacontrapposizione. L’esclusione e l’ostilità del maggiorepartito della sinistra giocarono un effetto destabilizzanteanche per lo scontro interno alle forze di governo, nutritodalla stessa ostilità del Presidente della repubblica nei con-fronti dell’apertura a sinistra di Aldo Moro e dalle divisio-ni interne ai due maggiori partiti. Tutto ciò risentiva erifletteva il conflitto sociale esploso nel Paese in forme nonmeno aspre. Forze interne a apparati dello Stato giunseropersino a mobilitarsi. In anni successivi furono svelateoscure manovre e torbidi intrighi che preannunciaronoquelli, ben più drammatici, del decennio successivo.La nazionalizzazione elettrica fu il banco di prova delleriforme, e su quello scoglio naufragarono. La società ita-liana e, soprattutto, le sue élite erano attraversate dallalinea di faglia sulla quale si esercitavano le maggiori fri-zioni tra il capitalismo occidentale e la controparte deiregimi socialisti sotto l’influenza sovietica. Con i socialistial governo, alleati con la sinistra della Democrazia cristia-na, si aprirono una serie di dissidi su come interpretarequello stare in mezzo. Sulla nazionalizzazione delle socie-tà si accesero le polemiche e si inasprirono le spaccaturesull’insieme delle riforme. Di per sé altri paesi europei

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avevano già realizzato nazionalizzazioni di quel genereanche sulla spinta di forze liberali. Nell’Italia di queglianni quella riforma decise il destino di tutte le altre. Lastessa crisi valutaria non fu che la cartina di tornasole delgrado di fiducia delle élite economiche e finanziarie versoquel che si poteva prospettare proseguendo in quella dire-zione. La stagione di riforme che si era aperta si richiuselentamente.Guido Carli, da governatore della Banca d’Italia, fu l’arte-fice della diplomazia finanziaria per avviare a soluzione lacrisi valutaria e anche colui che più di altri ebbe un ruolodecisivo nella questione degli indennizzi elettrici. Nellememorie tracciò un’analisi lucida della situazione italianadi quegli anni nei quali anche Salvati (2000) rintraccia l’o-rigine di molte «occasioni mancate». Si arenò ogni tentati-vo di impostare una politica dei redditi e una lotta serrataalle posizioni di rendita dei principali gruppi industriali.Per un altro verso si trattò di un riconoscimento indirettoche il sistema economico e politico italiano non si stavaadattando alla nuova situazione internazionale di un’areaeuropea di libero scambio alla cui realizzazione l’Italiaaveva, peraltro, contribuito o, almeno, accettato. Infatti,come osservava Carli (1993, p. 320):

L’adesione dell’Italia alla Comunità europeanon si era tradotta in una nuova Costituzioneeconomica, in un nuovo patto sociale volto allatutela della competitività del Paese nei con-fronti degli altri Stati della Cee. Il colpo mor-tale inferto ai mercati finanziari con la nazio-nalizzazione dell’Enel aveva incanalato il capi-talismo italiano in una spirale involutiva, inuna regressione a stadi superati da tempo neglialtri Paesi. L’adesione alla Cee avrebbe dovutocostringere a costruire un ordinamento giuridi-co capitalistico, dotato di una normativa controi monopoli, le posizioni dominanti, le concen-

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trazioni. Avrebbe dovuto stimolare la nascita diintermediari finanziari più moderni. Tutto ciònon accadde.

In anni precedenti aveva anche ammesso di aver avutoresponsabilità dirette nelle scelte, avendo proposto, difesoe fatto passare soluzioni che poi rinnegò, riconoscendo diaver commesso un errore di prospettiva, ma senza aggiun-gere se si trattasse di un errore tecnico, per quanto grave, odovuto a offuscamento per spirito di parte. Poco importa;di fatto a infliggere quel «colpo mortale» era stato proprioCarli con la soluzione di indennizzare le società e non gliazionisti, come invece proponeva il partito socialista.

Ecco: io – argomentò (Carli 2008, p. 88) – ebbifiducia, o meglio ebbi speranza che, evitando loscioglimento delle società ex elettriche e facen-do affluire nelle mani dei gruppi che le avevanodirette fino a quel momento i denari degli inden-nizzi, si potesse aprire una nuova fase d’im-prenditorialità. Pensai che con quei capitali, eutilizzando i tecnici, i dirigenti, la massa deipiccoli azionisti organizzati intorno a quellesocietà, si potesse creare un nuovo impulsoall’investimento in altri settori di attività produt-tiva, nell’industria manifatturiera, nei servizi.Mi sbagliai.

Se di sbaglio si tratta fu difeso fino alla minaccia di dimis-sioni da governatore. Carli stesso (2008, p. 86) ritenne«nefaste» le conseguenze di quelle scelte in un passaggio,che vale la pena riportare ancora per intero:

Con il ’64 si aprì cioè una fase nuova per i mer-cati finanziari italiani, una fase dominata dalproblema del collocamento delle obbligazionicon le quali finanziare l’Enel, e poi via via unaserie crescente di altre iniziative e di altri disa-vanzi del settore pubblico. Ben presto l’emis-

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sione di obbligazioni crebbe ulteriormente per-ché aumentava in parallelo l’indebitamentodelle imprese, la massa dei crediti agevolaticoncessi dagli Istituti di credito speciale. Alcapitalismo imprenditoriale e produttivo, di cuipure esisteva in questo paese qualche nondisprezzabile esempio, si andò sostituendovelocemente il capitalismo assistito. E l’emis-sione di obbligazioni – mezzo tipico per finan-ziare il capitalismo assistito – soppiantò sulmercato il cosiddetto «capitale di rischio».Questo è uno dei capitoli più eloquenti delladecadenza economica del nostro paese eandrebbe scritto perché tutti sappiano 10.

Rispetto a quanto era avvenuto nel 1905 con la nazionaliz-zazione delle ferrovie che finì per favorire e rafforzare gliinvestimenti nell’industria elettrica, una preoccupazioneche poteva motivare anche questa volta di indennizzare lesocietà era che una dispersione di somme in mano a priva-ti avrebbe potuto favorire ulteriormente la tendenza all’e-sportazione dei capitali (anche se Carli non avanzò giusti-ficazioni di questo genere).Più oltre riprenderemo due aspetti qui richiamati: 1) laquestione dei disavanzi del bilancio statale e 2) quella delgraduale decadimento economico.

4.2. Una seconda linea di faglia: shock petrolifero, stag-flazione e «economia di stato d’assedio»

Alla metà degli anni ’70 si amplificarono nuovamente

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10 Carli (2008, p. 82) aveva poi precisato: "non c’è dubbio che quella decisio-ne [la nazionalizzazione] dette un colpo decisivo alla struttura finanziaria dellanostra economia da un lato e, dall’altro, dette una spinta formidabile a queltipo di "capitalismo assistenziale" che negli anni successivi ebbe poi uno svi-luppo impensato. Intendo dire, uno sviluppo nefasto, la crescita d’una piantaparassitaria che ha tolto aria, spazio e luce a quelle sane e produttive."

alcuni degli squilibri emersi dieci anni prima. Il contestoera però molto diverso. Con il crollo dell’ordine monetariointernazionale stabilito a Bretton Woods anche i prezzidelle materie prime iniziarono a subire forti oscillazioni erialzi violenti e improvvisi. Il prezzo del petrolio aumentòdi quattro volte e mise in difficoltà tutte le economie piùavanzate e, specialmente, quelle con forte dipendenzaenergetica dall’estero. La perdita di ogni ancoraggio neicambi (e nei prezzi internazionali) fece perdere, non soloall’Italia, misura e sistema degli aggiustamenti da adottareper proteggere l’economia interna da forti effetti destabi-lizzanti nel breve e nel lungo periodo.La sequenza di eventi può essere riassunta nella manieraseguente. L’“autunno caldo” del 1969 innescò una spiralesalari-costi-prezzi i cui effetti esplosivi furono in partecontenuti dalle autorità monetarie fino agli ultimi mesi del1972. La decisione americana dell’agosto 1971 portò allasospensione della convertibilità del dollaro e poi all’ab-bandono definitivo del sistema di cambi fissi nel 1973. Lalira si indebolì in maniera persistente nell’epoca dei cambiflessibili (fig. 6). Nell’aprile 1972 i principali paesi euro-pei adottarono una regola di fluttuazione dei cambi, dettaSerpente monetario, per tenere legate le rispettive moneteentro margini di oscillazione ristretti attorno al dollaro (manon troppo ristretti al punto dal generare col tempo scosta-menti relativi fino al 9%). L’Italia vi aderì fin dall’inizio,ma incontrò subito una serie di difficoltà. Nel gennaio1973, per tentare di arginare la speculazione contro la lira,il governo introdusse un doppio mercato dei cambi con unalira “commerciale” ancorata al Serpente e una a cambiofluttuante per le operazioni in conto capitale. Nonostanteciò agli inizi di febbraio 1973 anche la lira commerciale fulasciata fluttuare. Dall’abbandono del Serpente fino all’a-desione al Sistema monetario europeo nel marzo 1979 lalira perse circa il 123% del suo valore nei confronti delmarco e del 46 nei confronti del dollaro (cfr. anche i tassidi cambio effettivi nella fig. 6).

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Dal 1974-75 la situazione si complicò ulteriormente per-ché le politiche di sostegno alla domanda, volte a evitare larecessione, fornivano propellente all’inflazione e l’infla-zione da costi generava disoccupazione. Con la stagflazio-ne entravano in cortocircuito le politiche economiche persostenere una crescita equilibrata del reddito e dell’occu-pazione 11. Dopo la recessione del 1974-75 si decise disostenere reddito e occupazione attraverso trasferimenti euna politica monetaria espansiva, ma senza negoziare coni sindacati una riduzione dei salari reali, contrariamente aquel che avvenne in Germania o in Giappone (Boltho2013). Di conseguenza l’eccedenza di spesa comportò unaumentato del deficit di bilancio dello Stato e un disavan-zo nelle partite correnti. La crisi valutaria del 1976 dipese– secondo Kregel (1993, p. 64) – da un «disegno» delgoverno e della Banca d’Italia volto a sostenere la ripresa.Speculazione e deflusso di riserve valutarie misero a duraprova le capacità di resistenza delle autorità monetarielungo una “linea del Piave” del cambio. Lo sfondamento vifu e fu grave nonostante la chiusura temporanea del mer-cato dei cambi e la svalutazione della lira. Per stabilizzareuna situazione molto rischiosa un governo di unità nazio-nale, con ministri tecnici, avviò un negoziato per un pre-stito stand-by con il Fondo monetario e uno da un miliar-do di dollari con la Cee a fronte di una garanzia in oro pre-tesa dalla Bundesbank, il tutto condizionato al rispetto dialcuni obiettivi di bilancio pubblico, di limiti ai finanzia-menti monetari al Tesoro e di controllo dei prezzi.L’espressione di «economia di stato d’assedio», utilizzatadal governatore della Banca d’Italia, espresse precisamen-te lo stato di emergenza e di disorientamento nel gestirequella situazione (Banca d’Italia 1976, p. 421). Nel gen-naio-febbraio del 1976 la Banca d’Italia sospese la difesa

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11 Per un’esposizione molto chiara della “stagflazione” v. Akerlof e Shiller(2009, pp. 152-161). Resta esemplare l’analisi di Vicarelli (1984).

della lira per esaurimento delle riserve (Ciocca 2007, p.296). La banca centrale cercò di far recuperare credibilitàverso un Paese piombato nel 1975 nella più grave reces-sione dal dopoguerra (meno 2% del Pil), e più grave diquanto lo non fosse per altri paesi industriali (Ciocca 2007,p. 299).L’accordo sulla scala mobile tra Confindustria e sindacatidel 1975 contribuì, da una parte, a smorzare il conflittosociale, dall’altra, introdusse automatismi e appiattimentinelle retribuzioni, senza valutare appieno tutte le implica-zioni macroeconomiche né tentare vie alternative cheimplicassero un diverso ordine di relazioni industriali.Anche in quell’occasione il rifiuto di una politica dei red-diti disimpegnò le parti sociali, e anche le autorità digoverno, dal tentare di avviare un progetto di riforme chepotesse contenere le spinte sociali attraverso la contropar-tita di servizi sociali (Tarantelli 1978). Aldo Moro compì iprimi passi verso un nuovo schieramento di alleanze poli-tiche e, probabilmente, con un progetto che, forse, nonebbe il modo nemmeno di abbozzare. In quegli anni nontrovò nemmeno la sponda americana sensibile e pronta afarlo andare avanti come era successo una decina di anniprima. Le emergenze economiche e sociali presero ilsopravvento sulle istanze di riforma, qualunque fosse lavalutazione a riguardo da parte di forze appartenenti aschieramenti diversi quando era in corso un’ondata senzaprecedenti di terrorismo politico. Sono noti, almeno nellelinee essenziali, gli intrecci torbidi e nefasti che accompa-gnarono, talvolta sostennero, si mescolarono e si sovrap-posero a strategie di tensione terroristiche spesso con dise-gni opposti, ma eversive in ogni caso (Imposimato 2012).Ritorna anche in questa occasione la questione dei limes.Alla metà degli anni ’70 l’Italia fu ancora uno dei territoridi ‘frontiera’ più esposti. Le lacerazioni sociali interneaggravarono tensioni di altro ordine. Alla metà degli anni’70 la classe politica si trovò spaccata sia su come difen-dere le posizioni di vantaggio relativo fino ad allora godu-

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te, sia per come affrontare i cambiamenti. L’avanzata delPCI sembrava inesorabile e la natura del processo di tra-sformazione interna a quel partito ancora ambigua e in bili-co, nonostante le distanze da Mosca, il riconoscimentodella Nato, l’idea di un compromesso “storico”, non offri-va credibilità adeguata. I politologi hanno individuato nelblocco dell’alternanza democratica le ragioni di esitazionee di stallo in un processo di riforme sempre rinviato (cfr.anche Cafagna 1993). Vi è un legame tra tutto ciò e la crisifiscale dello Stato (§ 5).

4.3. La svolta dei primi anni ’80

Nel 1979 entrò in vigore un nuovo sistema di parità fissetra le principali valute europee. Gli accordi di cambio delSistema monetario europeo evitavano alcuni inconvenien-ti del Serpente rendendo più vincolanti gli impegni reci-proci, rafforzati da forme di cooperazione per la difesa daattacchi speculativi. Nel settembre dello stesso anno laFederal Reserve di Paul Volcker compì una svolta radicaleribaltando obiettivi e strumenti di politica monetaria percontrastare sul nascere le attese di inflazione in conse-guenza del secondo shock petrolifero. Il rialzo repentinodei tassi d’interesse americani trascinò dietro di sé l’interastruttura mondiale del costo del denaro. Dopo un periododi tassi d’interesse negativi in termini reali le cose si inver-tirono decisamente (Ciocca e Nardozzi 1993). I ritardi diaggiustamento portarono a un deflusso di capitali verso gliStati Uniti, a un persistente rafforzamento del dollaro neiconfronti delle principali valute e a una recessione genera-lizzata. La recessione internazionale interruppe la ripresadell’economia italiana degli ultimi anni ’70. La spinta deiprezzi si intensificò ulteriormente. I due effetti congiunti direcessione e differenziale di tasso di inflazione con le altreeconomie portarono nel 1980 a un deficit nella bilancia deipagamenti e, nel marzo dell’anno successivo, a una crisivalutaria con una svalutazione unilaterale del 6%.

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La recessione non fu grave, ma contribuì a spostare moltiequilibri interni all’economia italiana e alle sue classi diri-genti. A tal proposito vanno richiamati alcuni eventi inter-nazionali a cominciare da quelli che interessavano i limes,anche indirettamente se non direttamente. I governiThatcher e Reagan interpretarono i cambiamenti più pro-fondi che all’epoca cominciavano a manifestarsi per effet-to di innovazioni tecnologiche e di ristrutturazioni su largascala dei processi produttivi sotto gli effetti che la volatili-tà dei prezzi delle materie prime avevano su costi e inve-stimenti fissi nelle grandi industrie (Conti 2013). Le libe-ralizzazioni finanziarie erano anche un riconoscimentodell’inefficacia delle politiche economiche e dei sistemi diregolazione che perdevano di cogenza per le aperture difalle di ogni genere specialmente nel controllo dei movi-menti di capitale. Gli Stati Uniti cambiarono anche la stra-tegia della “guerra fredda” con l’escalation di spese milita-ri e annunci di “scudi” e di “guerre stellari” con i qualiincalzare il blocco sovietico dimostratosi poi molto piùvulnerabile di quanto supposto e, forse, anche indebolitoda quel braccio di ferro, dalla spina nel fianco delle conte-stazioni in Polonia e, molto più probabilmente – anche inquesto caso -, dagli effetti che le altalene dei prezzi dellematerie prime producevano sulle economie pianificate,rigide e chiuse al cambiamento delle nuove tecnologie adifferenza delle imprese nelle economie capitaliste 12.Anche in Italia un analogo braccio di ferro si ripropose suben altra scala e in forme domestiche. BeniaminoAndreatta, da ministro del Tesoro, tradusse gli impegnipresi con lo Sme 13 in un “divorzio” tra Banca d’Italia eTesoro che metteva fine al ricorso alle anticipazioni ditesoreria e al sostegno al corso dei titoli pubblici di nuova

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12 Tra i primi a avanzare l’idea di una “terza rivoluzione industriale” l’articolodi Jensen (1993).13 Kregel (1993, p. 71) parla di "conseguenza logica".

emissione. Al di là dei risvolti tecnici, il “divorzio” era unmezzo per imporre responsabilità a una classe dirigenteche finora ne aveva dimostrata poca e per concretizzare gliimpegni di lotta all’inflazione e di rigore fiscale. Sul fron-te del risanamento finanziario la soluzione fu gravida diserie conseguenze dovute alla spesa per interessi cheesplose in quegli anni aggravando ulteriormente gli squili-bri di lungo termine nelle finanze pubbliche. De Cecco(***) ha giudicato severamente quella scelta proprio inbase al fardello crescente di debito pubblico. Altri l’hannovalutata come un vincolo necessario per scelte responsabi-li, anche se non vi furono (Gigliobianco e Rossi 2009).L’altra implicazione che si prefigurava nel nuovo scenarioriguardava le relazioni industriali. I meccanismi automati-ci introdotti con la scala mobile al punto unico di contin-genza per i salari più bassi indebolì di fatto la forza con-trattuale dei sindacati, generò un appiattimento nelle retri-buzioni e espose, nell’autunno 1980, il sindacato unitarioalla dura contestazione dei quadri intermedi mobilitatisicon la “marcia dei 40.000”. La legge del 1984 e il referen-dum del giugno 1985 portarono all’abolizione del puntounico di contingenza della scala mobile, contribuironoall’abbattimento dell’inflazione a due cifre (che nel 1980aveva raggiunto il picco del 22%) e a ridurre, ma non aannullare, il differenziale con le altre principali economie.Da allora la Banca d’Italia poté rafforzare la politica dirigore sul cambio dando credibilità all’adesione allo Sme ealle politiche antinflazionistiche. Verso la fine degli anni’70 la Banca d’Italia aveva seguito, secondo Kregel (1993,p. 66), la politica di «stare “a mezza strada”» tra le valuteeuropee più forti verso le quali la lira si deprezzava e il dol-laro nei confronti del quale tendeva a apprezzarsi. In que-sto modo si poteva ottenere un duplice beneficio: sui costidelle materie prime all’importazione e sulla competitivitàverso le economie avanzate più forti. Proseguire nella poli-tica di bilanciamento tra monete forti e deboli non ottennelo stesso successo dopo l’entrata nello Sme. L’accordo fu

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seguito quasi immediatamente da due eventi imprevedibiligià ricordati: il cambiamento di politica monetaria da partedella Federal Reserve nell’ottobre 1979 e il secondo shockpetrolifero. La Banca d’Italia cercò di stabilizzare il cam-bio reale a lungo termine attraverso un effetto di compen-sazione dell’andamento rispetto all’Ecu (European cur-rency unit) e al dollaro con una tendenza all’apprezzamen-to fra il 1979 e l’85 verso le principali valute europee e aun più forte deprezzamento nei confronti del dollaro(Kregel 1993, pp. 74-75). Ciò avveniva in un contesto dirafforzamento del dollaro e di indebolimento del marcocon la conseguenza, secondo Kregel, di incoraggiare piut-tosto i settori produttivi tradizionali che non quelli piùavanzati.

4.4. La crisi valutaria del 1992

Il Sistema monetario europeo (Sme), introdotto nel 1979,stabilì un nuovo meccanismo di fissazione dei tassi dicambi. Inizialmente si trattava di un sistema di cambi fissima aggiustabili con limitazioni ai movimenti di capitali,sul tipo del sistema di Bretton Woods. Dal settembre 1987,con gli accordi di Basilea-Nyborg, si rimossero i controllisui movimenti di capitali ma si rafforzarono le basi dellacooperazione per difendere la parità centrale dei tassi dicambio consentendo oscillazioni attorno ad essa (notacome target zone). In particolare le banche centrali siimpegnarono a un’assistenza reciproca illimitata per con-trastare gli eventuali attacchi speculativi. La soluzione del1987 sembrava destinata a superare le incoerenze dellepolitiche monetarie nazionali e a avviare un percorso diarmonizzazione dentro un’area nella quale si cominciava aampliare la libertà di movimento di merci, persone e capi-tali. In queste condizioni vi era però incoerenza tra obietti-vi di politica monetaria se si realizzava, come auspicato,fluidità nelle tre direttrici di movimento transfrontaliere.

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Nonostante ciò nel dicembre 1991 la Commissione euro-pea compì un passo ulteriore per rendere irreversibile ilprocesso di integrazione attraverso la sottoscrizione deltrattato di Maastricht. In esso si stabilivano come obiettivifondamentali l’integrazione monetaria e la convergenza trale varie economie. Le condizioni generali erano però cam-biate dall’anno precedente. Tra maggio e ottobre si era rea-lizzata la riunificazione delle due Germanie con un mas-siccio trasferimento di risorse dalla Germania più ricca aquella in condizioni di grave arretratezza. Un primo passofu compiuto con l’unificazione monetaria che implicava uncambio 1 a 1 tra le monete della RDT e della RFT e uncambio di 2 a 1 per i debiti (eccetto i depositi bancari per iquali valeva il cambio di 1 a 1 limitato e graduato pro capi-te in funzione di fasce d’età). Il passo successivo riguarda-va un trasferimento netto di fondi dell’ordine di 180 milio-ni di marchi nel 1991.Sei mesi dopo la sigla del trattato un referendum inDanimarca ne respingeva l’approvazione. Nel frattempo inGermania i tassi d’interesse tedesca erano molto elevatiper attrarre capitali e sostenere i costi della riunificazionesenza ricadute inflazionistiche. Per effetto del cambio, lealtre economie sostenevano con prudenza e malvolentieripolitiche deflazionistiche socialmente troppo costose esulle quali veniva a pesare, dall’estate del 1992, lo stessodeprezzamento del dollaro.Buiter, Corsetti e Pesenti (1998) ricostruiscono con cura ilquadro storico e propongono una spiegazione unitaria didue tipi di tesi della crisi del 1992: come improvviso attac-co speculativo e come indebolimenti strutturali 14. Da unaparte ritengono che il deterioramento nei fondamentali, apartire appunto dagli effetti della riunificazione tedesca,abbia influito sulla differenziazione nelle politiche econo-miche tra paesi europei, con divergenze ulteriori nelle

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14 Si veda anche il saggio di Della Posta (2001).

dinamiche di costi e prezzi. Il processo di liberalizzazionepromosso dall’Atto unico rendeva poi incompatibili lepolitiche dei governi rivolte a sorvegliare l’occupazionecon il mantenimento degli impegni assunti con gli accordidi cambio sulla cui credibilità pesavano le incertezze delleratifiche nazionali dopo l’esito del referendum danese. Lacrisi tuttavia colse di sorpresa, ma nemmeno troppo. Eranomaturate condizioni di fragilità nelle protezioni ai mecca-nismi di cambio e nella credibilità delle reazioni coopera-tive previste e necessarie per mantenerli. Buiter, Corsetti ePesenti, nel valutare l’altro tipo di spiegazione fondatainfatti sulla sorpresa di attacchi speculativi che, una voltascatenati, si autorealizzano, confrontano gli spread di tassidi interesse bilaterali tra i paesi membri con altre variabilimacroeconomiche e soprattutto con i differenziali di tassidi inflazione. Giungono alla conclusione che i mercatifinanziari non avrebbero anticipato la crisi e che la credi-bilità degli accordi di cambio non avesse conosciuto cedi-menti significativi. La cronaca delle settimane successiveall’esito del referendum danese, comprese le dichiarazionipoco accomodanti delle autorità tedesche, furono segnaliinequivocabili per l’attacco che portò a metà settembre allacrisi valutaria della sterlina e della lira. La riunificazionedella Germania ebbe l’effetto di mostrare il vero centrodell’area monetaria verso il quale le valute della periferiaconvergevano sempre più con affanno. Le tensioni esternesi scaricavano in tensioni interne più acute in base alle dif-ferenziazioni sociali. Venne inoltre meno quel coordina-mento che le stesse banche centrali avrebbero dovutogarantire. La lira fu la sola valuta a compiere una svaluta-zione unilaterale del 7% contro il marco il 14 settembre1992. Contestualmente la Germania abbassò il propriotasso di sconto di mezzo punto percentuale e il tassoLombard di un quarto di punto portandolo al 9,50%.La classe dirigente italiana fu presa alla sprovvista, nelpieno dei contorcimenti interni seguiti all’esplosione diTangentopoli. Insieme al muro di Berlino era iniziato a fra-

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nare il sistema dei partiti perno degli equilibri istituziona-li, di alleanze e di forme di rappresentanza delle istanzeprovenienti dalla società civile. Il riassetto successivoimplicò un attacco agli assetti istituzionali per modificarlisoprattutto in funzione di aggiustare i rapporti compro-messi: insomma, l’adagio secondo il quale «Se vogliamoche tutto rimanga come è, bisogna che tutto cambi».

5. Banche e debito pubblico da freno a fonte d’instabi-lità. Alcune conclusioni

Nel caso italiano le crisi valutarie che abbiamo brevemen-te esaminato hanno rappresentato l’acutizzarsi di tensioniinterne, di varia natura, a cui si sono sovrapposti squilibriverso l’estero. Questi ultimi hanno messo in pericolo l’in-tera economia quando sono diventati segnali di sfiduciageneralizzata. In buona misura i pericoli sono stati pronta-mente rimossi dagli interventi delle autorità, e specialmen-te delle autorità monetarie. Una volta ristabilita la fiducia,anche la crisi è rientrata. L’attrezzatura istituzionale hasvolto un ruolo decisivo nell’offrire mezzi e strumenti perinterventi rapidi e relativamente efficaci.Come si è cercato di mostrare, nel dopoguerra il sistemabancario e finanziario contribuì generalmente a soffocaregli impulsi di instabilità. Non era affatto scontato. Il siste-ma finanziario, nel suo insieme, è un centro di smistamen-to di servizi di pagamento, informazioni e capitali. La pro-pagazione delle crisi, con origini anche fuori di tale siste-ma, può essere accelerata e gli effetti amplificati quando lostesso sistema finanziario veicola instabilità e disturbiverso il resto dell’economia. Se questo non successe èanche perché, fino agli anni ’90, restò in vigore il regimedi repressione finanziaria messo in cantiere negli anni ’30,rafforzato con altri strumenti amministrativi nelle intempe-rie degli anni ’70. L’Italia, dagli anni ’30 a oggi non hasubito crisi bancarie sistemiche, nessuna corsa agli sportel-

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li. I dissesti che si sono avuti sono stati tempestivamentecircoscritti, messi in quarantena e risolti senza danni per idepositanti, aggravi minimi per i contribuenti. Ciò si spie-ga con l’abbandono tardivo e graduale della regolazionedegli anni ’30 in Italia. Dopo la seconda guerra mondiale ilsettore del credito non subì grandi trasformazioni: dal 1947al ’72 il numero di istituti di credito passò da 1.360 a 1.121e gli sportelli da 7.508 a 11.107 (Carriero, Ciocca eMarcucci 2003, p. 509).Gli eventi più gravi di dissesti bancari sono emersi duran-te e dopo gli anni ’70: la crisi del sistema Sindona (1974),il dissesto del Banco Ambrosiano di Guido Calvi (1977-81), quello della Cassa di Risparmio di Prato (1988) e, poi,del Banco di Napoli (1994). In ognuno di questi casi laBanca d’Italia è intervenuta generalmente con prontezza,ha bloccato sul nascere la spirale che si sarebbe potuta svi-luppare da crisi imputabili a ‘cattiva’ gestione bancaria sidipanasse sul resto del sistema attraverso effetti ‘domino’.Le deviazioni dalle ‘regole’ comportarono tuttavia unasequela di espedienti ripiegati spesso in azioni illegali,frodi, collusioni con la politica, o, peggio, con organizza-zioni criminali e anche eversive.Un insieme di fenomeni difficili da contrastare con i solistrumenti repressivi. La portata dell’inquinamento ambien-tale fu comunque molto grave e difficile da stimare perché,come nel caso Sindona-Calvi, c’era un passaggio di ‘testi-mone’ di affari oscuri da un soggetto all’altro. Non si trat-tava solo di fenomeni di spoliazione e saccheggio societa-rio (pillage, looting) che, negli stessi anni, interessaronoanche altri paesi in situazioni molto diverse, ma di allenta-mento nelle regole e di incentivi da conflitto di interesse(Akerlof e Romer 1993). Esportazioni illecite di capitali,riciclaggio, corruzione potevano diffondersi a macchiad’olio, con processi corrosivi difficili da fermare. Bastiriflettere in proposito sulle considerazioni di Bagehot(1873 [1986], cap. VI, p. 90):

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«I tempi buoni di alti prezzi quasi semprecagionano pure molte frodi. […] e moltotempo prima che la menzogna sia scoperta, gliingannatori peggiori e più scaltri si sono giàposti geograficamente o legalmente fuori dellapossibilità di essere puniti. Però il danno daessi fatto diffonde il danno, coll’indebolireancor più il credito»15.

I fenomeni di mala gestio più gravi iniziarono con gli anni’70. Allora le operazioni internazionali divennero da acces-sorie a strategiche. La proliferazione del mercato delleeurovalute offriva opportunità di gestione della liquidità, diinvestimento e di speculazione. Fondi ingenti provenientidai paesi produttori di petrolio erano riciclati dalle grandibanche internazionali verso i paesi con deficit energeticistrutturali. Le operazioni in cambi attrassero anche moltebanche italiane per svincolarsi dalle rigide regolamenta-zioni interne sul credito e sulla raccolta (Brambilla 2013).La figura 7 mostra molto bene l’impennata delle negozia-zioni giornaliere dopo il crollo del sistema monetario inter-nazionale di Bretton Woods.

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15 La categoria dei “banditi” è ben definita in Cipolla. Le interazioni che gene-rano nel tessuto sociale sono molte e complesse, specialmente se le forme dicriminalità si organizzano. Su tutto ciò si rinvia al bel lavoro di Becchi (2000).

Fig. 7 - Volumi giornalieri di negoziazioni in cambi negli Stati Unitie su scala mondiale, 1970-1978 (in miliardi di dollari).

Fonte: Spero (1982) p. 160.

Sull’onda delle transazioni in cambi e delle opportunitàspeculative del mercato internazionale si buttò MicheleSindona che, in poco tempo e attraverso spericolate peri-pezie, giunse al controllo sulla Franklin National Bank,ventesima banca negli Stati Uniti. Riuscì a aggirare vinco-li e controlli delle autorità di due paesi ma subì anche leconseguenze dell’estrema incertezza dei movimenti finan-ziari e delle instabilità dei cambi, come avvenne per altrebanche europee compresa la tedesca Herstatt, il cui tracol-lo segna nella figura 7 il picco delle operazioni valutarie dimetà 1974 (Cassis 2011). Tutto andava a gonfie vele finchépersisteva il boom sui mercati finanziari internazionali.Molte banche commerciali rivoluzionarono le proprie stra-tegie e la propria organizzazione con lo sviluppo all’este-ro, con una gestione della raccolta a breve in funzione delle

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opportunità d’impiego (liabilities management). Ciò avevatre conseguenze: la raccolta era più instabile, la trasforma-zione per scadenze più intensa, i margini di intermediazio-ne più ridotti. Le economie di scala assicuravano però fortiguadagni e ampie possibilità di rapida espansione.Nell’estate del 1974 sorsero i problemi per la Franklin eper Sindona.Il caso Sindona creò un vulnus nel sistema di regolazione,nel sistema bancario e nel sistema politico (Commissioneparlamentare d’inchiesta sul caso Sindona 1981). La rete diSindona si propagò fino al Banco Ambrosiano di Calvi eoltre 16. Se si considerano insieme, il crollo della BancaPrivata Italiana nel 1974 e il dissesto dell’Ambrosiano nel1982, le perdite non superarono comunque lo 0,1% del Pilrelativo a ciascuno dei due anni (Carriero, Ciocca eMarcucci 2003, p. 509). Il totale delle erogazioni ex decre-to ministeriale del 27 settembre 1974 (decreto “Sindona”)fu inferiore all’1,5% del Pil. Al 1981-82 la crisi del com-parto chimico e degli istituti di credito speciale coinvoltirappresentò circa lo 0,5% del Pil. Negli anni ‘90 una parteimportante del sistema bancario meridionale, con Banco diNapoli, Carical e Cassa di risparmio delle province sicilia-ne, subì forti perdite a fronte delle quali furono effettuatiinterventi per un ammontare pari allo 0,7% del Pil del2000. Nel complesso dal 1974 al 2000 le stime complessi-ve degli interventi di salvataggi bancari raggiunsero l’1,5%del Pil in Italia, contro un 2% in Francia, un 3% negli StatiUniti, fino al 17% circa in Spagna, e molto di più nelle eco-nomie in via di sviluppo (Carriero, Ciocca e Marcucci2003, p. 511).La regolazione bancaria evitò la propagazione delle crisinell’intero sistema, creò una sorta di cordone sanitario

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16 La letteratura sulle crisi bancarie italiane, specialmente sui casi Sindona eCalvi, è molto ampia. Oltre a alcuni lavori citati nel testo, ci si limita a segna-lare i seguenti lavori ricchi di bibliografia di riferimento: Giordano (2007, pp.143-152), Belli et al. (1987), Bellavite Pellegrini (2001), De Ianni (2007).

attorno ai casi di dissesti bancari, cercò di punire tempesti-vamente le deviazioni di comportamento in territori dirischio pericolosi, predispose vie d’uscita alternative al fal-limento attraverso interventi di risanamento o acquisizionida parte di banche solide, imponendo una sostituzione deivecchi gruppi dirigenti con nuovi manager più capaci.Nel caso italiano la concorrenza mitigata e la non ‘conten-dibilità’ del capitale e del management bancario ha avutoperò conseguenze negative nel lungo periodo perché inde-boliva la catena di responsabilità proprietà-conduzione(Brambilla e Conti 2011). Senza accesso alla proprietàanche il management non aveva ricambio e incoraggiava,per questa via, comportamenti di moral hazard e adverseselection. Il congelamento delle strutture di governo eraspesso un veicolo di legami con sfere della vita politica.Nel banchiere veniva così meno la severità e l’autonomianella valutazione del merito di credito, requisiti indispen-sabili secondo Schumpeter (1939 [1977], pp. 144-147) perevitare conflitti d’interesse con le imprese o, peggio, com-mistioni tra credito e politica: anticamera di misfatti finan-ziari e di degrado istituzionale.Nonostante gli episodi accennati restava garantita la stabi-lità complessiva del sistema bancario italiano. Nemmenola crisi globale del 2007-2008 ha colpito le banche italianecosì duramente come invece è successo in altri paesi euro-pei. Le difficoltà si sono manifestate dopo la seconda crisidei debiti sovrani del 2011 e, allora, alcune grandi banchehanno subito perdite rilevanti e necessità di ricapitalizza-zione. La situazione italiana si era aggravata nel corsodegli anni anche per la questione sempre più rilevante deldebito pubblico, fin qui solo evocata e lasciata sullo sfondo.In realtà comincia a diventare sempre più rilevante proprioa partire dagli anni ’70 quando si sovrappone alla crisi delcapitalismo controllato, all’insorgere di vari e ripetuti squi-libri macroeconomici che da allora diventano endemici.Il debito pubblico rappresenta in quel momento la valvoladi sfogo politica. Nella gestione delle risorse fiscali il

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pedale dell’inflazione (che ripiana immediatamente il disa-vanzo statale e traina mediante l’inflazione il gettito delleentrate) trova un primo blocco – come visto – con l’iniziodegli anni ’80. L’altro strumento, la leva della pressionefiscale, raggiunge il limite una decina d’anni dopo, conpesanti effetti distorsivi sulla distribuzione del redditoattraverso l’esplosione dei fenomeni dell’evasione e del-l’elusione, possibili per categorie sociali a scapito di altre.Il rimescolamento politico dei primi anni ’90, unico in unpaese occidentale dopo la caduta del muro di Berlino e giu-dicato da molti una “seconda Repubblica”, si configuraanche come crisi fiscale dello Stato che si è tradotta invarie forme di rivolta populista.

Fig. 8 - Debito statale, saldo primario e spesa per interessi (sul Pil %)

Legenda: D/Y è il rapporto debito sul Pil (asse di riferimento: sinistro), Sp/Y è il rapporto tra saldo

primario del bilancio dello Stato sul Pil (asse destro), iD/Y è la spesa per interessi sul Pil (asse

destro).

Fonte: elaborazioni da Ragioneria Generale dello Stato (2011); Ministero del Tesoro (1967);

Balassone, Francese e Pace (2011); Baffigi (2011); Istat, Annuario statistico italiano (vari anni per

completare le serie).

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Dal profilo del debito statale (fig. 8) emerge come daglianni ’90 la morsa della globalizzazione (e della lunga sta-gnazione dell’economia), dei vincoli di Maastricht e dellamoneta unica, rendano più stretto il sentiero lungo il qualepoter governare gli squilibri dell’economia. Il debito cre-scente è una comoda via di fuga, ma anche un vincolo sulfuturo. Durante i quasi dieci anni di quasi appiattimentodei tassi d’interesse italiani su quelli tedeschi poco è statofatto in termini di risanamento fiscale e di alleggerimento,per questa via, del debito. La riapertura a forbice dellospread dei tassi di interesse (fig. 4) ha rimesso in luce inmaniera drammatica le responsabilità politiche di non averperseguito con decisione e coerenza la strada socialmentespinosa del risanamento. Di conseguenza la penalizzazio-ne ha riguardato l’intera economia: il debito pubblico, cheavuto una spinta all’aumento importante anche solo attra-verso la spesa per interessi, ha obbligato a prendere misu-re fiscali severe per mantenere sotto controllo i conti pub-blici, ma ha penalizzato anche gli altri comparti con posi-zioni debitorie (le imprese) e soprattutto le banche le cuiquote di attività investite in titoli pubblici perdevano divalore e, al tempo stesso, si trovavano a dover pagare inte-ressi passivi più elevati sulle operazioni di raccolta, spe-cialmente attraverso emissione di obbligazioni.L’avvitamento tra la situazione debitoria del settore pub-blico e quella del riequilibrio dello stato di solvibilità dellebanche nazionali ha innescato un circolo vizioso di creditcrunch. Si è allentato solo dopo una crisi di governo, il pas-saggio a un governo-tecnico con lo scopo di varare misuredi austerità, riconferire credibilità di intenti, e, soprattutto,dopo gli interventi straordinari della Banca centrale euro-pea per scongiurare una tempesta speculativa ben piùampia e devastante sulla moneta unica.In anni molto più penosi dei nostri, Tiziano Vecellio raffi-gurò un’allegoria della prudenza con tre teste umane nellaparte alta, in quella bassa di animali, quasi come se fosse-ro una sola a tre facce, o a tre musi: le prime rappresenta-

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no le tre età dell’uomo. Il volto dell’età matura è in mezzoe rivolto verso chi guarda, mentre gli altri due sono presi diprofilo: il vecchio guarda a sinistra, il giovane a destra. Inperfetta analogia le tre fiere sottostanti - lupo, leone e lince- ribadiscono le capacità delle tre età. Un’iscrizione latinasullo sfondo ne svela il senso che, con qualche libertà,potrebbe esser reso così: l’agire con prudenza ha bisognodella conoscenza del passato per non compromettere ilfuturo. Né le classi dirigenti di allora né quelle dei nostritempi (se non con eccezioni temporanee, sebbene impor-tanti) pare abbiano seguito quel consiglio. Per quantotempo non lo faranno?

Tiziano – Allegoria della Prudenza [1565-70 ca.]

(olio su tela, 76.2x68.6 cm.) - National Gallery.

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Appendice

Crisi valutarie e bancarie e squilibri macroeconomici.

Le crisi finanziarie sono fenomeni complessi perché sonoun miscuglio di eventi, prodotti da cause diverse e entram-bi (cause e effetti) complicati da azioni sociali disorienta-te. Si pensi, infatti, che gli eventi si distinguono in con-giunturali e strutturali, di natura finanziaria e non, oppureeconomica e sociale; anche le cause sono miste e, e oltre aquelle simmetriche agli effetti, distinte generalmente inesterne e interne; infine cause e effetti si alimentano incondizioni aggravanti imputabili anche a cattive scelte epolitiche sbagliate. Si manifestano in genere con interru-zioni improvvise di ondate collettive di euforia, bolle spe-culative che scoppiano, scarsi e tempestivi strumenti dicorrezione e inversione di tendenza. Se si considera solol’aspetto delle reazioni politiche e degli errori ci si rendeconto quanto sia difficile valutare, prevedere e provvederein un mondo incerto e nel quale le minacce di stabilità sonocontinue e i pericoli latenti. Ci sono pochi segnali che aiu-tino a seguire una retta via (ammesso che ci sia). (Si trala-scia la questione della debolezza logica di spiegazioni sto-riche fondate su ex post ergo propter hoc, per il solo e sem-plice fatto che non fanno giustizia delle difficoltà che sonostate affrontate e delle responsabilità assunte o non assun-te, così come di interventi di quella che gli antichi chiama-vano “fortuna”).A tutto ciò occorre aggiungere altri elementi di complessi-tà derivanti dal fatto che le scelte da prendere nelle situa-zioni critiche non sono unicamente scelte tecniche ma poli-tiche, prese cioè in riferimento a valori e interessi sociali(l’ordine può essere invertito a piacere) espressi da ungruppo dirigente. Infine, c’è un tempo di crisi, definito daun insieme di variabili in genere quantitative (crescita delPil, disoccupazione, perdite, fallimenti, ecc.) di cui è diffi-

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cile prevedere la fine certa (anche con qualche accettabileapprossimazione). E anche qui entra in gioco la prudenzadelle classi dirigenti, di coloro che possono manovrare certistrumenti e adottare procedure opportune per uscir fuoridalla crisi. In ognuno di questi passaggi ci sono scelte cheproducono squilibri, incrinano interessi, distorcono incenti-vi e danneggiano alcune parti sociali. La crisi non è assolu-tamente neutrale né in entrata, né durante, né in uscita.L’analisi storica ed economica delle crisi ha avuto sviluppiimportanti dopo gli anni ’80 a partire dal volume diKindleberger (1981) e delle analisi di Minsky (1984) sul-l’instabilità finanziaria e la deflazione da debiti. Contributiimportanti giunsero dall’analisi delle crisi che cominciaro-no dal 1982 in poi a colpire molti paesi in via di sviluppo.Eichengreen (1999, pp. 133 e ss.) classifica le crisi secon-do tre modelli1. Nei modelli di prima generazione (a parti-re da quello di Krugman [1979]) gli squilibri macroecono-mici spiegano le crisi come quelle dei primi anni ’80 nelleeconomie emergenti. Deficit persistenti di bilancia deipagamenti indeboliscono le possibilità di difesa dei cambifissi e attirano attacchi speculativi che possono aver suc-cesso. L’attacco erode rapidamente lo stock di riserve valu-tarie a difesa del tasso di cambio. Le autorità monetarienon possono resistere a lungo e possono essere costrette anon proseguire gli interventi sul mercato dei cambi primadell’esaurimento completo delle riserve. La tempestivitàdell’attacco fa mancare tempo per ottenere prestiti interna-zionali e ricostituire le riserve ammesso che sussistanomargini di credibilità quando i deficit di bilancio sonoeccessivi, le riserve troppo scarse, l’offerta di moneta ele-vata (e l’inflazione sostenuta), il cambio reale sopravvalu-tato e i tassi d’interesse crescenti.

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1 Flood e Marion (1999) fanno, prima di Eichengreen, una rassegna sulle duegenerazioni di modelli. Sull’intera questione delle generazioni di modelli èritornato anche Krugman (2003).

Non tutti i paesi coinvolti nel crollo del Sistema monetarioeuropeo nel 1992-93 avevano eccessivi deficit di bilancioe di partite corrente. L’integrazione e la crescita dei merca-ti finanziari internazionali e l’abbandono dei controlli suimovimenti dei capitali cambiavano le condizioni per otte-nere prestiti dall’estero. La seconda generazione di model-li cerca di integrare la credibilità di autorità monetarie lacui azione è volta al mantenimento della stabilità dei prez-zi e all’afflusso di capitali dall’estero. Le autorità moneta-rie possono così continuare a difendere il cambio attraver-so politiche monetarie restrittive e rialzo dei tassi d’inte-resse. La stabilità dei prezzi può però avere un impattonegativo sul sistema economico e finanziario. In questosecondo tipo di modelli il prestito internazionale per acqui-sire riserve non svolge un ruolo rilevante, mentre la difesadel cambio ricade principalmente sul rialzo dei tassi d’in-teresse e, attraverso la contrazione della domanda aggrega-ta, sulla solvibilità dei crediti bancari e anche sull’appe-santimento del servizio del debito pubblico. La solidità delsistema bancario, oppure la flessibilità del mercato dellavoro o le prospettive di crescita economica, sono levariabili strutturali che sostengono le politiche del governoe impediscono che focolai di crisi e gli effetti di contagiopossano diffondersi. Aumento della disoccupazione, dellesofferenze sui crediti bancari e limature alla sostenibilitàdel debito pubblico limitano il perimetro dei commitments.La difesa del cambio e della stabilità dipendono perciò davalutazioni di convenienza politica e rispetto ad esse si for-mano anche le aspettative dei mercati e non da un motivotecnico, l’esaurimento delle riserve, come nei modelli diprima generazione.Se non ci sono restrizioni sui movimenti di capitale il livel-lo dei tassi d’interesse interni è uguale al livello di quelliesteri più il tasso atteso di deprezzamento del cambio.Altrimenti in regime vincolistico sui flussi di capitali glispeculatori sopportano un costo dovuto all’elusione deicontrolli. Comunque la differenza principale tra i modelli

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di prima e di seconda generazione è tra attacchi speculati-vi che si autorealizzano (la svalutazione avviene anche inassenza di attacco) e crisi valutarie che possono avvenirein varie condizioni con indefinite responsabilità governati-ve (cioè con “equilibri multipli”). In entrambi le politichegovernative rendono vulnerabile il sistema economiconazionale.Un ripensamento avvenne con la crisi asiatica di fine XXsecolo la quale presentava aspetti sfuggenti se interpretatialla luce dei due modelli. La terza generazione di modellisi fonda sui problemi di azzardo morale derivanti dai fortiintrecci collusivi tra banche, gruppi industriali e classepolitica. Una volta consolidata tale mutua dipendenza for-nisce garanzie implicite di salvataggio in caso di dissestibancari. Gli squilibri di bilancia dei pagamenti portano lebanche a offrire tassi di interesse più elevanti che attiranogli investitori esteri consapevole che in quel modo le ban-che si indeboliscono ma rimangono comunque sotto tuteladel governo pronto a intervenire in soccorso, salvandoanche gli investitori da eventuali perdite. Il sistema di«crony capitalism» attraeva fondi dall’estero investitiall’interno in investimenti poco redditizi. Nell’insieme l’e-conomia aumentava l’esposizione debitoria verso l’esteromentre il suo tasso di crescita continuava a peggiorare.Una situazione del genere non può durare a lungo. Il peg-gioramento della credibilità del paese impegna il governoa garantire i debiti esteri delle banche e il deflusso di capi-tali esercita pressioni ribassiste sul cambio. Il collasso delcambio tira con sé la crisi bancaria (un caso di crisi“gemelle”, Kaminsky e Reinhart [1999]).La vulnerabilità da crisi valutarie è associata a un regime dicambi fissi. Gli squilibri macroeconomici minaccianocomunque anche attraverso crisi da servizio del debito sovra-no e difficoltà a rinnovarlo alle stesse condizioni. Le conse-guenze cambiano in casi di difficoltà per illiquidità o insol-venza. Manasse, Roubini, e Schimmelpfennig (2003) hannoindividuato alcuni fattori che possono prevedere una vulne-

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