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L’UOMO E IL SUO DIVENIRE SECONDO IL VEDANTA René Guénon Indice I. GENERALITÀ SUL VEDANTA II. DISTINZIONE FONDAMENTALE FRA IL SÉ E L’IO III. IL CENTRO VITALE DELL’ESSERE UMANO, DIMORA DI BRAHMA IV. PURUSHA E PRAKRITI V. PURUSHA INALTERATO DALLE MODIFICAZIONI INDIVIDUALI VI. I GRADI DELLA MANIFESTAZIONE INDIVIDUALE VII. BUDDHI O L’INTELLETTO SUPERIORE VIII. MANAS O IL SENSO INTERNO, LE DIECI FACOLTÀ ESTERNE DI SENSAZIONE E D’AZIONE IX. GLI INVOLUCRI DEL SÉ , I CINQUE VAYU O FUNZIONI VITALI X. UNITÀ E IDENTITÀ ESSENZIALI DEL SÉ IN TUTTI GLI STATI DELL’ESSERE XI. LE DIFFERENTI CONDIZIONI D’ATMA NELL’ESSERE UMANO XII. LO STATO DI VEGLIA O LA CONDIZIONE DI VAISHWANARA XIII. LO STATO DI SOGNO O LA CONDIZIONE DI TAIJASA XIV. LO STATO DI SONNO PROFONDO O LA CONDIZIONE DI PRAJNA XV. LO STATO INCONDIZIONATO D’ATMA 1

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L’UOMO E IL SUO DIVENIRESECONDO IL VEDANTA

René Guénon

Indice

I. GENERALITÀ SUL VEDANTAII. DISTINZIONE FONDAMENTALE FRA IL SÉ E L’IOIII. IL CENTRO VITALE DELL’ESSERE UMANO,DIMORA DI BRAHMAIV. PURUSHA E PRAKRITIV. PURUSHA INALTERATO DALLE MODIFICAZIONIINDIVIDUALIVI. I GRADI DELLA MANIFESTAZIONEINDIVIDUALEVII. BUDDHI O L’INTELLETTO SUPERIOREVIII. MANAS O IL SENSO INTERNO, LE DIECIFACOLTÀ ESTERNE DI SENSAZIONE E D’AZIONEIX. GLI INVOLUCRI DEL SÉ , I CINQUE VAYU OFUNZIONI VITALIX. UNITÀ E IDENTITÀ ESSENZIALI DEL SÉ INTUTTI GLI STATI DELL’ESSEREXI. LE DIFFERENTI CONDIZIONI D’ATMANELL’ESSERE UMANOXII. LO STATO DI VEGLIA O LA CONDIZIONE DIVAISHWANARAXIII. LO STATO DI SOGNO O LA CONDIZIONE DITAIJASAXIV. LO STATO DI SONNO PROFONDO O LACONDIZIONE DI PRAJNAXV. LO STATO INCONDIZIONATO D’ATMA

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XVI. RAPPRESENTAZIONE SIMBOLICA D’ATMA EDELLE SUE CONDIZIONI FIGURATA DALMONOSILLABO SACRO OMXVII. L’EVOLUZIONE POSTUMA DELL’ESSEREUMANOXVIII. IL RIASSORBIMENTO DELLE FACOLTÀINDIVIDUALIXIX. DIFFERENZA DELLE CONDIZIONI POSTUMESECONDO I GRADI DELLA CONOSCENZAXX. L’ARTERIA CORONALE E IL RAGGIO SOLAREXXI. IL VIAGGIO DIVINO DELL’ESSERE VERSO LALIBERAZIONEXXII. LA LIBERAZIONE FINALEXXIII. VIDEHA MUKT1 E JIVAN MUKTIXXIV. LO STATO SPIRITUALE DELLO YOGI:L’«IDENTITÀ SUPREMA»

Traduzione ricavata dal testo originale di:«L’Homme et son devenir selon le Vedanta»

Les Editions Traditionnelles - Paris

© 1965 - Edizioni Studi Tradizionali – Viale XXV Aprile -Torino

Traduzione di Corrado Podd

In copertinaParticolare da una miniatura del XVI sec. raffigurante il

mitologico Uccello Garuda, il simbolico veicolo del viaggiodivino dell’essere.

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Renè Guenon

PREMESSA

Parecchie volte, nelle nostre precedenti opere, abbiamomanifestato il proposito di scrivere una serie di studi nei qualici fosse possibile, secondo i casi, sia esporre direttamente certiaspetti delle dottrine metafisiche dell’Oriente, sia adattarequeste stesse nel modo più intelligente e più utile, ma semprerestando rigorosamente fedele al loro spirito. Il presente lavorocostituisce il primo di questi studi: vi prendiamo in esamecome punto di vista centrale quello delle dottrine indù, perragioni che già abbiamo avuto occasione di indicare, e piùparticolarmente quello del Vedanta, che è il ramo piùpuramente metafisico di tali dottrine; beninteso ciò non ciimpedirà di fare, ogni qual volta se ne presenterà l’occasione,confronti e paragoni con altre teorie, qualunque ne sia laprovenienza e specialmente ci riferiremo agli insegnamentidegli altri rami ortodossi della dottrina indù nella misura in cuivengono, su certi punti, a precisare e completare quelli delVedanta. Sarebbe tanto poco fondato rimproverarci questomodo di procedere in quanto le nostre intenzioni non sonoaffatto quelle di uno storico; teniamo ancora espressamenteprecisare, a questo proposito che vogliamo fare opera dicomprensione, non di erudizione, poiché è la verità delle ideeche esclusivamente ci interessa. Se abbiamo ritenuto opportunodare referenze precise, è stato per motivi che non hanno nientein comune con le preoccupazioni speciali degli orientalisti;abbiamo soltanto voluto dimostrare che non inventiamo, che leidee da noi esposte hanno un’origine tradizionale, e fornirenello stesso tempo il mezzo, a coloro che ne fossero capaci, diriferirsi ai testi nei quali potranno trovare complementariindicazioni, poiché si intende che non abbiamo la pretesa difare un’esposizione assolutamente completa, nemmeno su un

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punto determinato della dottrina.In quanto ad offrire un’esposizione d’insieme, la cosa è del

tutto impossibile: o sarebbe un lavoro interminabile, obisognerebbe esporlo in forma tanto sintetica che riuscirebbeperfettamente incomprensibile per mentalità occidentali.Inoltre, sarebbe difficilissimo evitare, in un’opera di questogenere, l’apparenza di una sistemazione incompatibile con ilcarattere più essenziale delle dottrine metafisiche; senza dubbiosarebbe solo una apparenza, ma non eviterebbe per questo unacausa di errori estremamente gravi, tanto più che gliOccidentali, per le loro abitudini mentali, sono sempre abituatia scorgere «sistemi» anche dove non ve ne sono. È moltoimportante non dare il minimo appiglio a queste ingiustificateassimilazioni, a cui sono particolarmente inclini gli orientalistitedeschi: meglio sarebbe astenersi dall’esporre una dottrinapiuttosto che contribuire a snaturarla, fosse pure per sempliceinettitudine; ma fortunatamente esiste un mezzo per sfuggire aquest’inconveniente: è di trattare, in una stessa esposizione, unsolo punto ed un aspetto più o meno definito della dottrina,salvo prendere poi altri punti e farne l’oggetto di altrettantistudi distinti. D’altronde, questi lavori non rischieranno mai didiventare quello che egli eruditi e gli «specialisti» chiamano«monografie», poiché i principi fondamentali non saranno maiperduti di vista ed i punti secondari stessi appariranno solocome applicazioni dirette o indirette di questi principi, da cuitutto deriva; nell’ordine metafisico, che si riferisceall’Universale, non può esservi il minimo posto per la«specializzazione».

È facile ora comprendere perché facciamo oggetto delpresente studio solamente quanto concerne la natura e lacostituzione dell’essere umano: per rendere più chiaro quel chedobbiamo dirne, dovremo necessariamente considerare altri

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punti che, a prima vista, possono sembrare estraneiall’argomento, mentre è sempre in rapporto ad esso che liprenderemo in esame. I principi hanno una portata che vaimmensamente oltre ogni possibile applicazione; non perquesto è meno legittimo esporli, per quanto è possibile,relativamente a tale o tal’altra applicazione; è preferibileadottare questo procedimento, vantaggioso per più ragioni.D’altra parte, una questione qualsiasi può dirsi trattatametafisicamente solo quando è riattaccata ai principi; nonbisogna mai dimenticarlo se si ha interesse per la verametafisica e non per la «pseudo-metafisica» dei filosofieuropei.

Se abbiamo deciso di esporre in primo luogo gli argomentirelativi all’essere umano, non è perché abbiano, dal punto divista puramente metafisico, una importanza eccezionale,poiché, essendo questo completamente libero da tutte lecontingenze, il caso dell’uomo non è mai considerato un casoprivilegiato; ma esordiamo in tal modo perché questi argomentisi sono già posti durante i nostri precedenti studi, chenecessitavano, a questo proposito, un complemento che sitroverà in questo. L’ordine che adotteremo per gli studi cheseguiranno dipenderà ugualmente dalle circostanze e sarà, inlarga misura, determinato da considerazioni d’opportunità;abbiamo reputato utile dirlo sin d’ora, perché non si scorga unaspecie di ordine gerarchico in riguardo all’impostazione degliargomenti ed alla loro dipendenza; significherebbe attribuirciun’intenzione che non abbiamo, ma purtroppo ben sappiamocome tali equivoci facilmente avvengano e perciò cidedicheremo a prevenirli ogni qualvolta sarà nelle nostrepossibilità.

Vi è ancora un punto che troppo ci interessa per tacerlo inqueste osservazioni preliminari, sul quale, tuttavia, pensavamo

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di esserci sufficientemente spiegati; ma ci siamo accorti chenon tutti l’avevano ben capito, perciò dunque vi insistiamoulteriormente. Questo punto è il seguente: la conoscenza verache abbiamo esclusivamente in vista, non ha che pochissimirapporti, dato che ne abbia, col sapere «profano»; gli studi checostituiscono quest’ultimo non sono a nessun titolo ed a nessungrado una preparazione, sia pure lontana, per avvicinare la«Scienza sacra», e qualche volta essi al contrario sono unostacolo, per la deformazione mentale, spesso irrimediabile,che è la conseguenza la più ordinaria di una certa educazione.Per dottrine come quelle che esponiamo, uno studio cominciato«dall’esteriore» non può essere di nessun profitto; l’abbiamogià detto, non si tratta di storia e nemmeno di filologia o diletteratura, ed aggiungiamo ancora, rischiando di ripeterci in unmodo che qualcuno potrà trovare forse fastidioso, che tantomeno si tratta di filosofia. Tutte queste cose, infatti, ugualmenteappartengono a quel sapere che qualifichiamo «profano» od«esteriore», non per disprezzo, ma perché in realtà non è chequesto; noi non abbiamo a preoccuparci di piacere agli uni odispiacere agli altri, ma soltanto di esporre quello che è e diattribuire ad ogni cosa il nome ed il posto che normalmente leconvengono. La «Scienza sacra» è stata messa odiosamente inridicolo, nell’Occidente moderno, da impostori più o menocoscienti, ma non per questo bisogna astenersi dal parlarne ofingere, se non di negarla, perlomeno di ignorarla; al contrario,noi affermiamo decisamente, non soltanto che esiste, ma cheabbiamo l’intenzione di occuparcene esclusivamente. Coloroche vorranno riferirsi a quello che altrove abbiamo detto sullestravaganze degli occultisti e dei teosofisti, comprenderannoimmediatamente che quanto consideriamo è tutt’altra cosa eche queste stesse persone sono ai nostri occhi semplici«profani», per di più «profani» che aggravano singolarmente

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loro caso quando vogliono darsi per quello che non sono;questa è una delle ragioni principali per cui giudichiamonecessario rilevare l’inanità delle loro pretese dottrine ogniqualvolta se ne presenti l’occasione.

Quello che abbiamo detto deve anche far capire che ledottrine di cui ci proponiamo l’esposizione, per la loro stessanatura, si rifiutano ad ogni tentativo di «volgarizzazione»;sarebbe ridicolo di voler «mettere alla portata di tutti», comeusualmente si dice alla nostra epoca, concezioni che debbonorivolgersi ad una élite, e cercare di farlo sarebbe il modo piùsicuro per deformarle. Altrove abbiamo spiegato quello cheintendiamo per élite intellettuale, quale sarà la sua funzione seriuscirà un giorno a costituirsi in Occidente, e come lo studioreale e profondo delle dottrine orientali sia indispensabile perprepararne la formazione. In vista di un simile lavoro, i cuirisultati si faranno indubbiamente sentire solo a lungascadenza, crediamo di dover esporre certe idee per coloro chesono capaci di assimilarle, senza mai fare ad esse subire quellemodificazioni e semplificazioni che sono la prerogativa dei«volgarizzatori» e che si opporrebbero direttamente allo scopoche ci proponiamo.. Infatti, non è alla dottrina di abbassarsi e direstringersi per il limitato intelletto del volgare; sono invecequelli che lo possono che debbono elevarsi alla comprensionedella dottrina nella sua integrale purezza, ed è solo in tal modoche può formarsi una vera élite intellettuale. Fra quelli chericevono uno stesso insegnamento, ognuno lo capisce e se loassimila più o meno completamente, più o menoprofondamente, secondo le proprie capacità intellettuali; così siopera naturalmente la selezione senza la quale non vi potrebbeesser vera gerarchia. Abbiamo già detto queste cose, ma eranecessario ricordarle prima di intraprendere un’esposizionepropriamente dottrinale; ed è tanto meno inutile ripeterle

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insistentemente quanto più esse sono estranee alla mentalitàoccidentale attuale.

I. GENERALITÀ SUL VEDANTAIl Vedanta, contrariamente alle opinioni più generalmente in

voga fra gli orientalisti, non è una filosofia, né una religione, néqualche cosa che partecipa più o meno dell’una e dell’altra. Èun grave errore quello di voler considerare questo dottrina sottotali aspetti e ci si condanna da principio a non comprenderla; èinfatti mostrarsi completamente estraneo alla vera natura delpensiero orientale, i cui modi sono affatto diversi da quelli delpensiero occidentale, né si lasciano racchiudere negli stessischemi. Abbiamo già spiegato in un precedente lavoro che lareligione, se si vuol conservare a questa parola il suo sensoproprio, è cosa del tutto occidentale; non si può adottare lostesso vocabolo per dottrine orientali senza ampliarneabusivamente il significato, finché diventa del tutto impossibilepoterne dare una definizione per quanto poco precisa. Riguardoalla filosofia, anche essa rappresenta un punto di vistaesclusivamente occidentale, e d’altra parte molto più esterioredi quello religioso, dunque ancora più lontano da ciò di cuipresentemente si tratta; come più sopra dicemmo, è un generedi conoscenza essenzialmente «profano» [Vi sarebbe da fareun’eccezione per un particolarissimo caso, quello della«filosofia ermetica»; si intende che non è questo significato,del resto quasi sconosciuto ai moderni, che abbiamopresentemente in vista]; anche quando non è puramenteillusorio, e, soprattutto se consideriamo la filosofia quale è neitempi moderni, non possiamo fare a meno di pensare che la suaassenza in una civiltà non è poi particolarmente deplorevole. Inun recente libro, un orientalista affermava che «la filosofia èdovunque la filosofia», ciò che apre la porta a tutte le

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assimilazioni, comprese quelle contro cui egli stesso protestavamolto giustamente del resto; ciò che noi precisamentecontestiamo, è che vi sia dovunque della filosofia, e cirifiutiamo di considerare «pensiero universale», secondol’espressione dello stesso autore, ciò che, in realtà, è solo unamodalità di pensiero estremamente speciale. Un altro storicodelle dottrine orientali, pur riconoscendo in principiol’insufficienza e l’inesattezza delle classificazioni occidentaliche si pretende imporre a tali dottrine, dichiarava che malgradotutto non vedeva nessun mezzo per farne a meno, e ne facevaanche larghissimo uso come uno qualsiasi dei suoipredecessori; questa affermazione ci è sembrata tanto piùstrana in quanto, per quel che ci concerne, mai abbiamo sentitoil minimo bisogno di adottare la terminologia filosofica, che,anche se non fosse mal applicata, come lo è sempre in similicasi, avrebbe ancora l’inconveniente di essere molto spiacevoleed inutilmente complicata. Ma non vogliamo entrarediscussioni alle quali tutto ciò potrebbe dar luogo; teniamosoltanto a rilevare, con questi esempi, quanto sia difficile peralcuni sfuggire agli schemi «classici», dove l’educazioneoccidentale a racchiuso il loro pensiero fin dall’origine.

Per ritornare al Vedanta, diremo che, in realtà, bisognascorgervi una dottrina puramente metafisica, aperta supossibilità di concezioni veramente illimitate, e che, come tale,non potrebbe affatto racchiudersi nei limiti più o meno angustidi un qualunque sistema. V’è dunque sotto questo rapporto, edanche senza spingersi più oltre, una differenza profonda edirriducibile, una differenza di principio con tutto ciò che gliEuropei designano col nome di filosofia. Infatti, l’ambizionericonosciuta di tutte le concezioni filosofiche, soprattutto per imoderni, che spingono all’estremo la tendenza individualista ela ricerca dell’originalità ad ogni costo che ne è la logica

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conseguenza, è precisamente di costituirsi in sistemi definiti,compiuti, vale a dire essenzialmente relativi e da ogni partelimitati; in fondo, un sistema non è altro che una concezionechiusa, i cui limiti più o meno angusti sono naturalmentedeterminati dall’«orizzonte mentale» del suo autore. Ora ognigenere di sistemazione è assolutamente incompatibile per lametafisica pura, al cui riguardo l’ordine individuale èveramente inesistente; essa è infatti interamente libera da ognirelatività, da tutte le contingenze filosofiche od altre, appuntoperché la metafisica è essenzialmente la conoscenzadell’Universale, ed una tale conoscenza non potrebbe lasciarsiracchiudere in una qualche forma, per quanto vasta.

Le diverse concezioni metafisiche e cosmologiche dell’Indianon sono, rigorosamente parlando, dottrine differenti, masoltanto sviluppi, secondo certi punti di vista e direzioni varie,ma per nulla incompatibili, di una sola dottrina. Del resto, ilvocabolo sanscrito darshana, che designa ognuna di questeconcezioni, significa propriamente «veduta» o «punto di vista»,poiché la radice verbale drish, da cui deriva, ha per sensoprincipale quello di «vedere»; non può dunque affattosignificare «sistema», e, se gli orientalisti attribuiscono altermine una tale accezione, è per effetto di quelle abitudinioccidentali che li inducono ad ogni istante in falseassimilazioni: vedendo dovunque la filosofia, è naturalissimoche essi vedano anche dovunque dei sistemi.

La dottrina unica alla quale facciamo allusione costituisceessenzialmente il Veda, vale a dire la Scienza sacra etradizionale per eccellenza, poiché tale è esattamente il sensoproprio di questo vocabolo [La radice vid, da cui derivano Vedae vidya, significa nello stesso tempo «vedere» (in latino videre)e «sapere» (come in greco ): la vista è rilevata come ilsimbolo della conoscenza di cui è il principale strumento

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nell’ordine sensibile; questo simbolismo è trasporto finnell’ordine intellettuale puro, dove la conoscenza è paragonataad una «vista interiore»; ciò l’indica appunto l’uso di vocabolicome quello d’«intuizione», per esempio]: è il principio ed ilfondamento comune di tutti i rami più o meno secondari ederivati, che sono quelle concezioni diverse di cui alcuni nehanno fatto erroneamente altrettanti sistemi rivali e opposti. Inrealtà, queste concezioni, sempre che siano d’accordo con illoro principio, non possono evidentemente contraddirsi, ed alcontrario non fanno che completarsi e chiarirsi a vicenda; manon bisogna reputare questa affermazione l’espressione di un«sincretismo» più o meno artificiale e tardivo, poiché l’interadottrina deve considerarsi contenuta sinteticamente nel Veda,fin dall’origine. La tradizione, nella sua integralità, forma uninsieme perfettamente coerente, ciò che non significasistematico; e, poiché tutti i punti di vista che comportapossono essere considerati tanto simultaneamente quantosuccessivamente, è senza vero interesse ricercare l’ordinestorico nel quale si sono potuti sviluppare, rendendosi espliciti,anche ammesso che l’esistenza di una trasmissione orale, cheforse si è perpetuata durante un periodo di indeterminatalunghezza, non renda perfettamente illusoria la soluzione diuna tale questione. Se l’esposizione può, secondo le epoche,modificarsi fino ad un certo punto nella sua forma esteriore peradattarsi alle circostanze, il fondo resta sempre rigorosamentelo stesso, e queste modificazioni esteriori non alterano, nécambiano affatto l’essenza della dottrina.

L’accordo di una concezione di qualunque ordine con ilprincipio fondamentale della tradizione è la condizionenecessaria e sufficiente per la sua ortodossia, la quale non deveaffatto essere concepita in modo religioso; bisogna insistere suquesto punto per evitare ogni errore di interpretazione, poiché

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generalmente in Occidente la ortodossia è ritenuta possibilesolo in modo religioso. Per la metafisica e tutto ciò che nederiva più o meno direttamente, l’eterodossia di unaconcezione è, in fondo, la sua falsità, risultante dal suodisaccordo con i principi essenziali; giacché questi sonocontenuti nel Veda, ne consegue che l’accordo col Veda èl’unico criterio dell’ortodossia. L’eterodossia comincia là dovecomincia la contraddizione volontaria o involontaria col Veda;è una deviazione, un’alterazione più o meno profonda delladottrina, deviazione che, d’altronde, si produce generalmentesolo in alcune scuole molto ristrette, e che può verteresemplicemente su punti particolari, qualche volta di moltosecondaria importanza, tanto più che la potenza inerente allatradizione ha per effetto di limitare la portata degli erroriindividuali, di eliminare quelli che vanno oltre certi limiti, e adogni modo, di impedirli di diffondersi e di acquistare una veraautorità. Anche là dove una scuola parzialmente eterodossa èdiventata, in una certa misura, rappresentativa di un darshana,come la scuola atomista per il Vaisheshika ciò non altera lalegittimità di questo darshana in se stesso, ed è sufficienterichiamarlo a quello che ha di veramente essenziale per farloentrare nei quadri dell’ortodossia. A questo riguardo, nonpossiamo far di meglio che citare, a titolo di indicazionegenerale, questo passaggio del Sankhya-Pravacana-Bhasya diVijnana-Bhikshu: «Nella dottrina di Kanada (il Vaisheshika) enel Sankhya (di Kapila), la parte contraria al Veda deve essererigettata da quelli che rigorosamente aderiscono alla tradizioneortodossa; nella dottrina di Jaimini ed in quella di Vyasa (le dueMimansa), niente è in disaccordo con le Scritture (consideratecome la base di questa tradizione)».

Il nome Mimansa, derivato dalla radice verbale man,«pensare», nella sua forma iterativa, indica lo studio riflessivo

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della Scienza sacra: è il frutto intellettuale della meditazionedel Veda. La prima Mimansa (Purva Mimansa) è attribuita aJaimini; ma dobbiamo ricordare, a questo proposito, che i nomiche si trovano così legati alla formulazione dei diversidarshana non possono essere affatto attribuiti a preciseindividualità: essi sono usati simbolicamente per designare veri«aggregati intellettuali», costituiti in realtà da tutti coloro che sidedicarono ad uno stesso studio per un periodo la cui duratanon è meno indeterminata della sua origine. La prima Mimansaè chiamata anche Karma-Mimansa o Mimansa pratica,concerne cioè gli atti e più particolarmente il modo di compierei riti; la parola karma, infatti, ha un duplice significato: in sensogenerale, è l’azione in tutte le sue forme; nel senso speciale etecnico, è l’azione rituale, quale è prescritta dal Veda. QuestaMimansa pratica ha per scopo, come lo dice il commentatoreSomanatha, di «determinare in un modo esatto e preciso ilsenso delle Scritture», soprattutto per i precetti cheracchiudono e non per la conoscenza pura o jnana, che spesso èmessa in opposizione con karma: in ciò consiste precisamentela distinzione fra le due Mimansa.

La seconda Mimansa (Uttara-Mimansa) è attribuita a Vyasa,vale dire all’«entità collettiva» che ordinò e definitivamentestabilì i testi tradizionali costituenti il Veda stesso; questaattribuzione è particolarmente significativa, poiché è facilescorgere che qui si tratta non di un personaggio storico oleggendario, ma di una vera «funzione intellettuale», che sipotrebbe anche definire una funzione permanente, poichéVyasa è designato come uno dei sette Chirajivi, letteralmente«esseri dotati di longevità», la cui esistenza non è affattolimitata ad una determinata epoca [Si trova qualcosa di similein altre tradizioni: così, nel Taoismo, si parla di otto«Immortali»; altrove, è Melki-Tsedeq «senza padre, né madre e

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senza genealogia, la cui vita non ha né fine né principio» (SanPaolo, Epistola agli Ebrei, VII, 3); ed indubbiamente sarebbefacile trovare ancora altri avvicinamenti dello stesso genere].Per caratterizzare la seconda Mimansa in rapporto alla prima,la si può considerare come la Mimansa dell’ordine puramenteintellettuale e contemplativo; non possiamo chiamarlaMimansa teorica, in simmetria con quella pratica, poichéquesta denominazione si presterebbe ad un equivoco. Infatti sela parola «teoria» etimologicamente è sinonimo dicontemplazione, non è men vero che, nel comune linguaggio,ha un’accezione molto più limitata; ora, in una dottrinacompleta dal punto di vista metafisico, la teoria, intesa tantoordinariamente, non basta a se stessa, ma deve essere sempreaccompagnata seguita da una corrispondente «realizzazione»,di cui in ultima analisi ne è l’indispensabile base, ed in vistadella quale essa è tutta ordinata, come il mezzo in vista delfine.

La seconda Mimansa è denominata anche Brahma-Mimansa econcerne essenzialmente e direttamente la «ConoscenzaDivina» (Brahma-Vidya); essa costituisce, propriamenteparlando, il Vedanta, ossia, secondo il significato etimologicodella parola, la «fine del Veda», e si basa principalmentesull’insegnamento contenuto nelle Upanishad. L’espressione«fine del Veda» deve essere intesa nel doppio senso diconclusione e di scopo; infatti, da un lato, le Upanishadformano l’ultima parte dei testi vedici, e, dall’altro, quanto vi èinsegnato, perlomeno nella misura in cui può esserlo, è loscopo ultimo e supremo dell’intera conoscenza tradizionale,liberata da tutte le applicazioni particolari e contingenti allequali può dar luogo in diversi ordini: cioè, in altri termini, colVedanta siamo nel dominio della metafisica pura. LeUpanishad, facendo parte integrante del Veda, sono una delle

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basi stesse della tradizione ortodossa, ma ciò non ha impedito acerti orientalisti, come Max Muller, pretendere scoprirvi «igermi del Buddhismo», vale dire dell’eterodossia, poiché delBuddhismo gli erano note sono le forme e le interpretazioni lepiù eterodosse. Una tale affermazione è manifestamente unacontraddizione nei termini, e sarebbe indubbiamente difficilepoter spingere l’incomprensione più lungi. Non sarà mai troppoinsistere sul fatto che le Upanishad rappresentano qui latradizione primordiale e fondamentale, e che,conseguentemente, costituiscono il Vedanta stesso nella suaessenza; risulta da questo, che, in caso di dubbiosull’interpretazione della dottrina, è sempre all’autorità delleUpanishad che bisognerà riferirsi come ultima competenza. Iprincipali insegnamenti del Vedanta, tali quali si deduconoespressamente dalle Upanishad, sono stati coordinati esinteticamente formulati in una collezione di aforismi col nomedi Brahma-Sutra e di Shariraka-Mimansa [La parola Sharirakaè stata interpretata da Ramanuja nel suo commento (Shri-Bhashya) sui Brahma-Sutra, 1° Adhyaya, 1° Pada, sutra 13,come riferentesi al «Sé Supremo» (Paramatma), che in qualchemodo è «incorporato» (sharira) in ogni cosa]; l’autore di questiaforismi, chiamato Badarayana e Krishna-Dwaipayana, èidentificato a Vyasa. È necessario aggiungere che i Brahma-Sutra appartengono alla classe degli scritti tradizionalichiamata Smriti, mentre le Upanishad, come tutti gli altri testivedici, fanno parte della Shruti; ora l’autorità della Smritideriva dalla Shruti sulla quale si fonda. La Shruti non è una«rivelazione» nel senso religioso ed occidentale, comepretenderebbe la maggior parte degli orientalisti, che, anchequi, confondono i punti di vista più differenti; ma è il frutto diuna ispirazione diretta, in modo da possedere per sé stessa lasua propria autorità. «La Shruti - dice Shankaracarya - serve di

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percezione diretta (nell’ordine della conoscenza trascendente),poiché, per essere un’autorità, è necessariamente indipendenteda tutt’altra autorità; la Smriti rappresenta una parte analoga aquella dell’induzione, poiché anch’essa fonda la sua autorità suun autorità altra che se stessa» [La percezione (pratyaksha) el’induzione o l’inferenza (anumana) sono, secondo la logicaindù, i due «mezzi di prova» (pramana) che possono essereusati legittimamente nel dominio della conoscenza sensibile].Ma, perché non si faccia confusione sul senso dell’indicataanalogia tra la conoscenza trascendente e quella sensibile,bisogna aggiungere che, come ogni vera analogia, questadev’essere intesa in senso inverso [Nella tradizione ermetica, ilprincipio dell’analogia è espresso da questa frase della TavolaSmeraldina: «Ciò che è in basso è come ciò che è in alto e ciòche è in alto è come ciò che è in basso»; ma, per comprenderequesta formula ed applicarla correttamente, bisogna riferirla alsimbolo del «Sigillo di Salomone», formato da due triangolidisposti in senso inverso l’uno all’altro]: mentre l’induziones’innalza al di sopra della percezione sensibile e permette ditrasporsi ad un grado superiore, al contrario la percezionediretta o l’ispirazione, nell’ordine trascendente, raggiunge dasola il principio stesso, vale a dire ciò che vi è di più elevato eda cui in seguito bisogna soltanto dedurre le conseguenze e lediverse applicazioni. La distinzione fra Shruti e Smriti equivalein fondo a quella dell’intuizione intellettuale immediata e dellaconoscenza riflessa; se la prima è designata con un nome il cuisenso originario è «audizione», è appunto precisamente per farnotare il suo carattere intuitivo, ed anche perché il suono ha,secondo la dottrina cosmologica indù, il primo posto fra lequalità sensibili. Per la Smriti, il senso originario del suo nomeè «memoria»; infatti la memoria, essendo un semplice riflessodella percezione, può significare, per estensione, tutto quello

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che presenta il carattere di una conoscenza riflessa o discorsiva,cioè indiretta; se la conoscenza è simbolizzata dalla luce comelo è il più abitualmente, l’intelligenza pura e la memoria, odanche la facoltà intuitiva e la facoltà discorsiva, potrannoessere rappresentate rispettivamente dal sole e della luna; untale simbolismo, sul quale non possiamo soffermarci, èd’altronde suscettibile di applicazioni multiple [Tracce di untale simbolismo si possono riscontrare perfino nel linguaggio:non è senza uno scopo che una stessa radice man o men èusata, in lingue diverse, per formare numerose parole checontemporaneamente designano la luna, la memoria, il«mentale», cioè il pensiero discorsivo, e l’uomo stesso inquanto essere specificamente «razionale»].

I Brahma-Sutra, il cui testo è estremamente conciso, hannodato luogo a numerosi commenti, ed i più importanti sonoquelli di Shankaracharya e di Ramanuja; questi commenti sonoentrambi rigorosamente ortodossi, perciò non bisognaesagerare la portata delle loro divergenze apparenti, che, infondo, sono piuttosto semplici differenze di adattazione. È veroche ogni scuola è incline molto naturalmente a pensare e adaffermare che il proprio punto di vista è il più degno diattenzione e che, senza escludere gli altri, deve prevalere su diessi; ma, per risolvere imparzialmente la questione, èsufficiente esaminare questi punti di vista in se stessi ericonoscere fin dove si estende l’orizzonte che ognuno di essipermette di abbracciare; si intende, d’altronde, che nessunascuola può pretendere di rappresentare la dottrina in modototale ed esclusivo. Ora è certissimo che il punto di vista diShankaracharya è il più profondo e si spinge più lungi di quellodi Ramanuja; del resto lo si può fin d’ora prevedere, notandoche il primo è di tendenza shivaista, mentre il secondo ènettamente vishnuista. Una singolare discussione è stata

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prospettata dal Thibaut, che ha tradotto in inglese i duecommentari: egli pretende che il commento di Ramanuja è piùfedele all’insegnamento dei Brahma-Sutra, ma riconosce nellostesso tempo che quello di Shankaracharya è più conforme allospirito delle Upanishad. Per poter sostenere tale opinione,bisogna evidentemente ammettere delle differenze dottrinali frale Upanishad ed i Brahma-Sutra; ma, anche se le coseandassero effettivamente in tal modo, sarebbe l’autoritàdell’Upanishad che dovrebbe ottenere il sopravvento, comel’abbiamo spiegato precedentemente, e la superiorità diShankaracharya si troverebbe stabilita, quantunque ciò non siaprobabilmente l’intenzione del Thibaut, per il quale laquestione della verità intrinseca delle idee sembra non doversinemmeno porre. In realtà, i Brahma-Sutra, fondandosidirettamente ed esclusivamente sulle Upanishad, non possonoaffatto allontanarsene; la loro brevità, rendendoli alquantooscuri, allorché vengono considerati isolatamente da ognicommento, può solo scusare quelli che credono trovarvi altracosa che non sia un’interpretazione autorizzata e competentedella dottrina tradizionale. Così, la discussione è realmentesenza scopo; tutto ciò che possiamo rilevare, è la constatazioneche Shankaracharya ha dedotto e sviluppato più completamenteciò che essenzialmente è contenuto nelle Upanishad; la suaautorità può essere contestata solo da chi ignora il vero spiritodella tradizione ortodossa indù, e la cui opinione, perconseguenza, non potrebbe avere il minimo valore ai nostriocchi; dunque, seguiremo, generalmente, il suo commento apreferenza di quello di altri.

Per completare queste osservazioni preliminari, dobbiamoancora rilevare, quantunque l’abbiamo già altrove spiegato,l’inesattezza di attribuire all’insegnamento delle Upanishad,come certuni l’hanno fatto, la denominazione di

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«Brahmanesimo esoterico». L’improprietà di questaespressione proviene soprattutto dacché la parola «esoterismo»è un comparativo ed il suo uso suppone necessariamentel’esistenza correlativa di un «exoterismo»; ora una taledivisione non può riguardare il caso considerato. L’exoterismoe l’esoterismo, rilevati non come due dottrine distinte e più omeno opposte, ciò che sarebbe completamente erroneo, macome le due facce di una sola dottrina, sono esistiti in certescuole dell’antichità greca; li si ritrova anche molto nettamentenell’Islamismo; ma è differente per le dottrine più orientali. Perqueste ultime, si potrebbe solamente parlare di un «esoterismonaturale», che inevitabilmente esiste in ogni dottrina esoprattutto nell’ordine metafisico, dove è necessario sempreriservare un posto all’inesprimibile, che è la cosa piùessenziale, poiché le parole e i simboli non hanno altro scopoche aiutare a concepirlo, fornendo quegli «appoggi» per unlavoro strettamente personale. Perciò, la distinzione fraexoterismo ed esoterismo non sarebbe che quella esistente frala «lettera» e lo «spirito»; la si potrebbe anche riferire allapluralità dei sensi più o meno profondi che presentano i testitradizionali o, se si preferisce, le Sacre Scritture di tutti popoli.D’altronde, è naturale che lo stesso insegnamento dottrinalenon può essere assimilato in uno stesso grado da tutti quelli chelo ricevono; tra questi vi è chi, in un certo senso, approfondiscel’esoterismo, mentre altri si contentano dell’exoterismo, poichéil loro orizzonte intellettuale è più limitato; ma non la pensanocosì coloro che parlano di «Brahmanesimo esoterico». Inrealtà, nel Brahmanesimo, l’insegnamento è accessibile, nellasua integralità, a tutti coloro che sono intellettualmente«qualificati» (adhikari), vale a dire capaci di ricavarne unbeneficio effettivo; se vi sono dottrine riservate a una élite, èperché non potrebbe essere altrimenti, là dove l’insegnamento

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è impartito con discernimento e secondo le capacità reali diciascuno. Se l’insegnamento tradizionale non è propriamenteesoterico, nel senso speciale della parola, è veramente«iniziatico» e differisce profondamente, in tutte le suemodalità, dall’istruzione «profana», sul valore della quale gliOccidentali singolarmente si illudono; si tratta di ciò cheabbiamo detto parlando della «Scienza sacra» edell’impossibilità a «volgarizzarla».

Quest’ultima osservazione ne richiama un’altra: in Oriente, ledottrine tradizionali hanno sempre, per modalità di regolaretrasmissione, l’insegnamento orale, anche quando fossero stateordinate in testi scritti; ragioni molto profonde vogliono questo,poiché non debbono essere trasmesse soltanto semplici parole,ma dev’essere soprattutto assicurata l’effettiva partecipazionealla tradizione. In queste condizioni, non ha proprio senso dire,come Max Muller ed altri orientalisti, che la parola Upanishadindica la conoscenza ottenuta «sedendosi ai piedi di unprecettore»; questa denominazione, se tale ne fosse il senso, sipotrebbe riferire indistintamente a tutte le parti del Veda;d’altronde questa interpretazione non è mai stata proposta néammessa da nessun Indù competente. In realtà, il nome delleUpanishad indica che esse sono destinate a distruggerel’ignoranza, fornendo quei mezzi atti ad avvicinare laConoscenza suprema; se si tratta solo di avvicinarla, è per larigorosa incomunicabilità della sua essenza, perché non la sipuò altrimenti raggiungere che per se stessi.

Un’altra espressione ancora più disgraziata di«Brahmanesimo esoterico», è quella di «teosofia brahmanica»,usata dall’Oltramare; del resto questi confessa che l’ha adottatacon qualche esitazione, perché sembra «legittimare le pretesedei teosofi occidentali» che invocano la testimonianzadell’India, pretesa che riconosce infondate. Certamente bisogna

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evitare quello che può generare le più spiacevoli confusioni,ma vi sono ancora delle ragioni ben più gravi e decisive chenon permettono di accettare la denominazione proposta. Se ipretesi teosofi, di cui parla l’Oltramare, ignorano quasigeneralmente le dottrine Indù, dopo averne preso in prestitoparole di cui si servono a casaccio, essi si riattaccano men chemai alla vera teosofia, anche occidentale: perciò abbiamo avutomolta cura di distinguere «teosofia» e «teosofismo». Ma,mettendo da parte il teosofismo, aggiungeremo che nessunadottrina indù, od anche più generalmente nessuna dottrinaorientale, ha con la teosofia tali punti comuni perché le si possaattribuire lo stesso nome: ciò risulta immediatamente dal fattoche questo vocabolo indica esclusivamente concezioni diispirazioni mistiche, dunque religiose ed anche specificamentecristiane. La teosofia è cosa propriamente tutta occidentale;perché voler attribuire questo stesso nome a dottrine a cui nonsi adatta ed alle quali non conviene meglio delle classificazionidei sistemi filosofici occidentali? Ancora una volta, non sitratta di religione, e quindi nemmeno di teologia e di teosofia;queste due parole, d’altronde, erano quasi sinonimioriginariamente, benché, per ragioni puramente storiche,abbiano poi preso accezioni molto differenti [Una simileannotazione potrebbe essere fatta per le parole «astrologia» ed«astronomia», che originariamente erano sinonimi e di cuiognuna, per i Greci, indicava contemporaneamente quello chel’una e l’altra hanno poi significato separatamente]. Siobbietterà forse che noi stessi abbiamo usato poc’anzil’espressione «Conoscenza Divina», che, insomma, èl’equivalente significato primitivo delle parole «teosofia» e«teologia»; ciò è infatti vero, ma non possiamo considerarequeste ultime solo tenendo conto della loro etimologia, poichésono di quelle per le quali è diventato completamente

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impossibile astrarre dai cambiamenti di senso che un usotroppo prolungato ha fatto loro subire. Inoltre, riconosciamomolto volentieri che l’espressione «Conoscenza Divina» non èperfettamente adeguata; ma non ne abbiamo migliori a nostradisposizione, per l’insufficienza delle lingue europee adesprimere idee puramente metafisiche; d’altronde nonstimiamo che vi possano essere inconvenienti seri nell’uso diquesta espressione, quando si ha l’accuratezza di prevenire chenon bisogna soffermarsi sul carattere religioso che avrebbequasi inevitabilmente se si riferisse a concezioni occidentali.Malgrado ciò potrebbe ancora sussistere un equivoco, poiché iltermine sanscrito che si può tradurre il meno inesattamente per«Dio» non è Brahma, ma Ishwara; solamente, l’usodell’aggettivo «divino», anche nel linguaggio ordinario, èmeno stretto, più vago forse, perciò si presta meglio delsostantivo, da cui deriva, per una trasposizione come quella danoi qui usata. Bisogna far notare che le parole «teologia» e«teosofia», anche nella loro accezione etimologica ed al difuori di ogni punto di vista religioso, non potrebbero tradursi insanscrito che con la parola Ishwara-vidya; al contrario, quelloche in un certo qual modo vogliamo esprimere per«Conoscenza Divina», quando si tratta del Vedanta, è Brahma-vidya poiché il punto di vista della metafisica pura implicaessenzialmente la considerazione di Brahma o del PrincipioSupremo, di cui Ishwara o la «Personalità Divina» non è cheuna determinazione come principio della manifestazioneuniversale ed in rapporto a questa. La considerazione diIshwara è già dunque un punto di vista relativo: è la più altarelatività, la prima di tutte le determinazioni, ma non è menvero che esso è «qualificato» (saguna) e «concepitodistintivamente» (savishesha), mentre Brahma è «non-qualificato» (nirguna), «di là da tutte le distinzioni»

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(nirvishesha), assolutamente incondizionato; e l’interamanifestazione universale è rigorosamente nulla dinanzi allaSua Infinità. Metafisicamente, la manifestazione non puòessere considerata che nella sua dipendenza riguardo alPrincipio Supremo, ed a titolo di semplice «appoggio» perelevarsi alla Conoscenza trascendente, o ancora, se si prendonole cose in senso inverso, a titolo d’applicazione della Veritàprincipiale; in ogni caso, altro non bisogna scorgere, in ciò chevi si riferisce, se non una specie d’«illustrazione», destinata arendere più facile la comprensione del «non-manifestato»,oggetto essenziale della metafisica, per così permettere, comelo dicemmo interpretando la denominazione delle Upanishad,di avvicinare la Conoscenza per eccellenza [Per dettaglimaggiori su tutte le considerazioni preliminari che abbiamodovuto limitarci ad indicare molto sommariamente in questocapitolo, non possiamo fare di meglio che rinviare il lettore allanostra Introduzione generale allo studio delle dottrine indù,nella quale ci siamo proposti di trattare precisamente questiargomenti in modo più particolare].

II. DISTINZIONE FONDAMENTALEFRA IL “SÈ” E L’“IO”

Per comprendere perfettamente la dottrina del Vedanta, perciò che concerne l’essere umano, è soprattutto necessariodistinguere, il più nettamente possibile, e fondamentalmente, il«Sé», che è il principio stesso dell’essere, dall’«io»individuale. È quasi superfluo dichiarare espressamente chel’uso del termine «Sé» non implica per noi una comunanza diinterpretazione con certe scuole che hanno adoperato questaparola e che hanno presentato sotto una terminologia orientale,il più spesso incompresa, semplici concezioni del tuttooccidentali e d’altronde eminentemente fantastiche; alludiamo

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non solamente al teosofismo, ma anche ad altre scuole pseudo-orientali, che hanno interamente snaturato il Vedanta colpretesto di adattarlo alla mentalità occidentale e sulle qualiabbiamo già avuto occasione di spiegarci. L’abuso di unaparola non è, per noi, una ragione sufficiente perché si debbarinunciare a servirsene, a meno che non si trovi il mezzo disostituirla con altra che sia altrettanto adatta per quello che sivuole esprimere, ma ciò non torna al caso nostro; d’altronde, sevolessimo essere troppo rigorosi, finiremmo senza dubbio peravere solo pochissime parole a nostra disposizione, poichédifficilmente se ne trovano che non siano state più o menoabusivamente usate da qualche filosofo. Gli unici vocaboli cheabbiamo intenzione di mettere da parte sono quelliespressamente creati per concezioni con le quali quelle che noiesponiamo non hanno niente in comune: per esempio, ledenominazioni dei diversi generi di sistemi filosofici, ed altresìi termini che appartengono propriamente al vocabolario deglioccultisti e degli altri «neospiritualisti»; ma, per quelle paroleche questi ultimi hanno preso in prestito a dottrine anteriori,che hanno l’abitudine di plagiare sfrontatamente, senza capirle,non possiamo evidentemente avere scrupoli a farle nostre,restituendo quel significato che loro conviene normalmente.

Invece dei termini «Sé» ed «io», possiamo anche usare quellidi «personalità» e di «individualità», con una riserva tuttavia,poiché il «Sé», come spiegheremo più avanti, può esserequalche cosa più della personalità. I teosofisti, che sembranosoddisfatti quando possano complicare la loro terminologia,attribuiscono alla personalità ed all’individualità un sensoesattamente inverso di quello che correttamente debbonosignificare: essi identificano la prima all’«io» e la seconda al«Sé». Al contrario, prima di loro, anche in Occidente, ogni qualvolta una qualsiasi distinzione è stata fatta fra queste due

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parole, la personalità è sempre stata considerata superioreall’individualità: in tal modo noi scorgiamo il loro rapportonormale che è vantaggioso conservare. La filosofia scolastica,particolarmente, non ha ignorato questa distinzione, ma nonsembra vi abbia dato il suo pieno valore metafisico, né abbiadedotto le profonde conseguenze che vi sono implicite; ciòd’altronde accade frequentemente, anche quando essa presentale più notevoli similitudini con certe parti delle dottrineorientali. In tutti i casi, la personalità, intesa metafisicamente,niente ha in comune con quello che filosofi moderni chiamanocosì spesso la «persona umana», che in realtà è l’individualitàpura e semplice; del resto questa soltanto, e non la personalità,può essere propriamente chiamato umana. In modo generale,sembra che gli Occidentali, anche quando vogliono spingersipiù oltre nelle loro concezioni di quanto non lo faccia lamaggioranza, attribuiscono alla personalità quello che in veritàè soltanto la parte superiore dell’individualità, od una semplicesua estensione [Léon Daudet, in due sue opere (L’Hérédo e LeMonde des Images), ha distinto nell’essere umano ciò chechiama il «sé» e l’«io», ma, per noi, entrambi fannougualmente parte dell’individualità, e tutto ciò cade neldominio della psicologia, che, per contro, mai può raggiungerela personalità; questa distinzione è tuttavia una specie dinotevole presentimento, per un autore che non ha la pretesa diessere un metafisico]; in tali condizioni, tutto ciò che riguardal’ordine metafisico puro resta necessariamente al di fuori dellaloro comprensione.

Il «Sé» è il principio trascendente e permanente di cui l’esseremanifestato, l’essere umano per esempio, non è che unamodificazione transitoria e contingente, modificazione che nonpotrebbe d’altronde affatto alterare il principio, comespiegheremo più ampiamente in seguito. Il «Sé», come tale,

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non è mai individualizzato, né può esserlo, poiché, dovendosempre essere considerato nell’aspetto dell’eternità edell’immutabilità, che sono gli attributi necessari dell’Esserepuro, non è evidentemente suscettibile di alcunaparticolarizzazione, che lo farebbe essere «altro che sé stesso».Immutabile nella sua propria natura, sviluppa semplicemente lepossibilità indefinite che in sé comporta, per mezzo delpassaggio relativo della potenza all’atto, attraversoun’indefinità di gradi, senza che la sua essenziale permanenzane sia modificata, precisamente perché questo passaggio non èche relativo, e perché questo sviluppo è uno, propriamenteparlando, solo considerandolo dal lato della manifestazione,fuori della quale non può essere questione di una qualsiasisuccessione, ma semplicemente di una perfetta simultaneità, dimodo che anche quello che è virtuale sotto un certo rapportonon è meno realizzato nell’«eterno presente». Quanto allamanifestazione, si può dire che il «Sé» sviluppa le suepossibilità in tutte le modalità di realizzazione, in moltitudineindefinita, che sono, per l’essere integrale, altrettanti statidifferenti, stati di cui uno solo, sottomesso a condizionid’esistenza specialissime che lo definiscono, costituisce laparte o piuttosto la particolare determinazione di quest’essereche è l’individualità umana. Il «Sé» è così il principio per ilquale esistono, ognuno nel suo proprio dominio, tutti gli statidell’essere; non soltanto gli stati manifestati, di cui abbiamogià parlato, individuali, come lo stato umano, o sopra-individuali, ma anche, quantunque allora la parola «esistere»divenga impropria, lo stato non-manifestato, comprendente lepossibilità che non sono suscettibili di alcuna manifestazione,nello stesso tempo che le possibilità di manifestazione stesse inmodo principiale; ma questo «Sé» non esiste che per se stesso,non avendo, né potendo avere, nell’unità totale ed indivisibile

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della sua natura intima, alcun principio che ad esso sia esteriore[Abbiamo intenzione di esporre più completamente in altristudi la teoria metafisica degli stati multipli dell’essere; cilimitiamo per ora ad indicare ciò che è indispensabile per lacomprensione di quanto concerne la costituzione dell’essereumano].

Il «Sé», considerato in rapporto ad un essere, come abbiamofatto, è propriamente la personalità; si potrebbe, è vero,restringere l’uso di quest’ultimo termine al «Sé» comeprincipio degli stati manifestati, nello stesso modo che la«Personalità Divina», Ishwara, è il principio dellamanifestazione universale; ma lo si può anche estendereanalogicamente al «Sé» come principio di tutti gli statidell’essere, manifestati e non-manifestati. Questa personalità èuna determinazione immediata, primordiale e nonparticolarizzata, del principio chiamato in sanscrito Atma oParamatma, e che possiamo designare, in mancanza di unaparola che meglio si addica, come lo «Spirito Universale», ma,si intende, a condizione di non scorgere nell’uso del termine«spirito» niente che possa ricordare le concezioni filosoficheoccidentali, e, specialmente, di non farne un correlativo di«materia», come quasi abitualmente avviene per i moderni,che, a tale riguardo, anche inconsciamente, subisconol’influenza del dualismo cartesiano [Teologicamente, quando sidice che «Dio è puro spirito», è verosimile che ciò non devenemmeno intendersi nel senso dello «spirito» che si opponealla «materia», per cui questi due termini debbonocomprendersi relativamente l’uno all’altro, poiché sigiungerebbe ad una specie di concezione «demiurgica», più omeno prossima a quella attribuita al Manicheismo; non è menvero che una tale espressione è di quelle che possonofacilmente dare luogo a false interpretazioni, tendendo a

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sostituire «un essere» all’Essere puro]. La vera metafisica,diciamolo nuovamente a proposito, va molto oltre tutte leopposizioni di cui quella di «spiritualismo» e di«materialismo» ce ne offre il tipo, né si preoccupa dellequestioni più o meno speciali, e spesso completamenteartificiali, che sono prodotte da simili opposizioni.

Atma penetra tutte le cose, che sono le sue modificazioniaccidentali, e che, secondo l’espressione di Ramanuja,«costituiscono in qualche modo il suo corpo (questa paroladeve essere intesa in senso puramente analogico), siano essed’altronde di natura intelligente o non-intelligente», vale dire,secondo le concezioni occidentali, «spirituali» o «materiali»,poiché, esprimendo questo solo una diversità di condizioninella manifestazione, non comporta nessuna differenza per ilprincipio incondizionato e non-manifestato. Questo, infatti, è il«Supremo Sé» (la traduzione letterale di Paramatma) di tuttociò che esiste, in qualsiasi modo; ed è sempre «lo stesso», tantoattraverso la molteplicità indefinita dei gradi dell’Esistenza,intesa in senso universale, quanto di là dall’Esistenza stessa,vale a dire nella non-manifestazione principiale.

Il «Sé», anche per un essere qualsiasi, è identico in realtà adAtma, poiché è essenzialmente oltre tutte le distinzioni eparticolarizzazioni; perciò, in sanscrito, la stessa parola atman,nei casi diversi dal nominativo, prende il posto del pronomeriflessivo «se stesso». Il «Sé» non è dunque punto veramentedistinto da Atma, tranne se lo si considera particolarmente e«distintivamente», in rapporto ad un essere, ed anche, piùprecisamente, in rapporto ad un certo stato definito diquest’essere, tale lo stato umano, ma soltanto finché lo siconsidera da questo punto di vista specializzato e limitato. Intal caso, d’altronde, il «Sé» non diventa effettivamente ed inqualche modo distinto da Atma, poiché non può essere «altro

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che sé stesso», come più sopra dicemmo, né potrebbeevidentemente essere modificato dal punto di vista dal quale losi considera e nemmeno da alcun altra contingenza. Ènecessario aggiungere che, nella stessa misura in cui si faquesta distinzione, ci si allontana dalla diretta considerazionedel «Sé», per prendere in esame veramente soltanto il suoriflesso nell’individualità umana, o in qualsivoglia altro statodell’essere, poiché è superfluo dire che dinnanzi al «Sé» tuttigli stati della manifestazione sono rigorosamente equivalenti epossono essere considerati similmente; ma, presentemente, èl’individualità umana che ci interessa più particolarmente.Questo riflesso di cui parliamo determina ciò che si puòchiamare il centro di questa individualità; ma, se lo si isola dalsuo principio, vale a dire dal «Sé», la sua esistenza è allorapuramente illusoria, poiché è dal principio che trae tutta la suarealtà, e possiede effettivamente questa realtà appunto inquanto partecipa alla natura del «Sé», vale a dire in quanto adesso si identifica per universalizzazione.

La personalità, vi insistiamo ancora, è essenzialmentedell’ordine dei principi nel senso più rigoroso della parola, valedire dell’ordine universale; essa non può dunque essereconsiderata che dal punto di vista della metafisica pura, il cuidominio è precisamente l’Universale. I «pseudometafisici»dell’Occidente hanno l’abitudine di confondere l’Universalecon cose che, in realtà, appartengono all’ordine individuale; omeglio, giacché essi non concepiscono affatto l’Universale,abusivamente attribuiscono d’ordinario questo nome algenerale, che è precisamente una semplice estensionedell’individuale. Certuni spingono ancora oltre la confusione: ifilosofi «empiristi», che non riescono neanche a concepire ilgenerale, l’assimilano al collettivo, che, in verità, è solo delparticolare; per queste successive degradazioni, ogni cosa si

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riduce infine allo stesso livello della conoscenza sensibile, chemolti considerano infatti come la sola possibile, poiché il loroorizzonte mentale non si distende oltre; queste stesse personevorrebbero altresì imporre a tutti le limitazioni, conseguenzadella loro incapacità spesso naturale, talvolta acquisita da unaspeciale educazione.

Per prevenire ogni equivoco del genere di quelli segnalati,daremo la seguente tavola, che precisa le distinzioni essenzialia questo riguardo, ed alla quale preghiamo i nostri lettori diriferirsi nelle occasioni necessarie, al fine di evitare ripetizionialquanto fastidiose:

UniversaleIndividuale – Generale

Particolare – Collettivo Singolare

È necessario aggiungere che la distinzione dell’Universale edell’individuale non deve essere considerata una correlazione,poiché il secondo dei due termini, annullandosi rigorosamentedi fronte al primo, non gli potrebbe essere affatto opposto. Ciòè vero anche per quel che concerne il non-manifestato ed ilmanifestato; d’altronde, potrebbe sembrare a prima vista chel’Universale ed il non-manifestato debbano coincidere, e, da uncerto punto di vista, la loro identificazione sarebbe infattigiustificata, poiché, metafisicamente, tutto l’essenziale è il non-manifestato. Tuttavia, non bisogna dimenticare certi stati dimanifestazione che essendo informali, sono appunto perciòsopra-individuali; se dunque non si distingue che l’Universale el’individuale, si dovrà necessariamente riferire questi statiall’Universale, ciò che si potrà fare altrettanto meglio poiché sitratta di una manifestazione in qualche modo ancora

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principiale, perlomeno in paragone con gli stati individuali; maciò, s’intende, non deve fare dimenticare che tutto quel che èmanifestato, anche a questi gradi superiori, è necessariamentecondizionato, vale dire relativo. Se si considerano le cose in talmodo, l’Universale sarà, non più solamente il non-manifestato,ma l’informale, comprendente nello stesso tempo il non-manifestato e gli stati di manifestazione sopra-individuali;quanto all’individuale, esso contiene tutti i gradi dellamanifestazione formale, vale a dire gli stati nei quali gli esserisono rivestiti di forme, poiché il carattere specialedell’individualità, che la costituisce essenzialmente come tale,è precisamente la presenza della forma fra le condizionilimitative che definiscono e determinano uno stato d’esistenza.Possiamo ancora riassumere queste ultime considerazioni nellatavola seguente:

Universale - Non-manifestazione Manifestazione informale

Individuale - Manifestazione formale - Stato sottile Stato grossolano.

Le espressioni di «stato sottile» e «stato grossolano», che siriferiscono a gradi differenti della manifestazione formale,saranno spiegate più innanzi; ma possiamo indicare fin d’orache quest’ultima distinzione ha valore alla sola condizione diprendere per punto di partenza l’individualità umana, o piùesattamente il mondo corporeo o sensibile. Lo «statogrossolano» è infatti l’esistenza corporea stessa, alla qualel’individualità umana, come lo si vedrà, appartiene per unadelle sue modalità, e non nel suo integrale sviluppo; quantoallo «stato sottile», comprende, da una parte, le modalità

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extracorporee dell’essere umano, o di tutt’altro essere nellostesso stato di esistenza, ed anche, d’altra parte, tutti gli statiindividuali altri che quello. Si vede che questi due termini nonsono veramente simmetrici e neanche possono avere comunemisura, poiché l’uno dei due rappresenta soltanto una parte diuno degli stati indefinitamente multipli che costituiscono lamanifestazione formale, mentre l’altro comprende tutto il restodi questa manifestazione [Spiegheremo questa asimmetria conuna nota di applicazione comune, che rileva semplicementedella logica ordinaria: se si considera una attribuzione od unaqualità qualunque, si dividono appunto perciò tutte le cosepossibili in due gruppi: da una parte, quello delle cose cheposseggono questa qualità, dall’altra, quella delle cose che nonla posseggono; ma, mentre il primo gruppo è cosìpositivamente definito e determinato, il secondo, che ècaratterizzato in modo puramente negativo, non è perciò affattolimitato ed è veramente indefinito; non vi è dunque né comunemisura né simmetria fra questi due gruppi, che così noncostituiscono realmente una divisione binaria, e la cuidistinzione vale d’altronde evidentemente al solo punto di vistaspeciale della qualità presa come punto di partenza, poiché ilsecondo gruppo non ha omogeneità e può comprendere cosenon comuni fra loro, ciò che tuttavia non impedisce questadivisione di essere veramente valida nel rapporto considerato.Ora è appunto in tal modo che distinguiamo il manifestato ed ilnon-manifestato, poi, nel manifestato, il formale e l’informale,e finalmente, nel formale stesso, il corporeo e l’incorporeo].Fino ad un certo punto, vi è simmetria, se ci limitiamo arilevare la sola individualità umana; d’altronde è proprio daquesto punto di vista che la distinzione di cui si tratta è stabilitain primo luogo dalla dottrina indù; anche se poi ci si pone di làda questo punto di vista, e se lo si è intravisto appunto per

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oltrepassarlo effettivamente, sempre dovremo inevitabilmenteassumerlo come base e termine di paragone, poiché è ciò checoncerne lo stato in cui attualmente ci troviamo. Diremodunque che l’essere umano, considerato nella sua integralità,comporta un certo insieme di possibilità che costituiscono lasua modalità corporea o grossolana, nonché una moltitudine dialtre possibilità che, prolungandosi in diversi sensi di là daquesta, costituiscono le sue modalità sottili; ma tutte questepossibilità riunite non rappresentano tuttavia che un solo eduno stesso grado dell’Esistenza universale. Risulta quindi chel’individualità umana è contemporaneamente molto più e moltomeno di quello che la credono ordinariamente gli Occidentali:molto più, perché essi ne conoscono semplicemente la modalitàcorporea, infima parte delle sue possibilità; ma anche moltomeno, perché questa individualità, lungi dal rappresentarerealmente l’essere totale, non ne è che uno stato, fra una serieindefinita di altri stati, la cui stessa somma è niente ancora separagonata alla personalità, che è l’essere vero, essendo il suostato permanente ed incondizionato, l’unico che possa essereconsiderato assolutamente reale. Il resto è indubbiamente anchereale, ma soltanto in modo relativo, in virtù della suadipendenza dal principio ed in quanto ne riflette qualche cosa,come l’immagine prodotta nello specchio trae la sua realtàdall’oggetto, senza il quale non avrebbe alcuna esistenza; maquesta minore realtà, che è solo partecipata, è illusoria inrapporto alla realtà suprema, come la stessa immagine è ancheillusoria in rapporto all’oggetto; se si pretendesse isolarla dalprincipio, questa illusione diventerebbe irrealtà pura esemplice. Si comprende dunque come l’esistenza, vale a direl’essere condizionato e manifestato, sia contemporaneamentereale in un certo senso e illusoria in un altro: questo è un puntoessenziale, che mai hanno capito gli Occidentali che hanno

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oltraggiosamente deformato il Vedanta con le lorointerpretazioni erronee e piene di pregiudizi.

Dobbiamo ancora avvertire i filosofi più specialmente chel’Universale e l’individuale non sono affatto per noi ciò cheessi chiamano «categorie», e ricorderemo, poiché i modernisembrano averlo un po’ dimenticato, che le «categorie»,nell’accezione aristotelica della parola, non sono che i piùgenerali fra tutti i generi, perciò appartengono ancora aldominio dell’individuale, di cui d’altronde indicano il limite adun certo punto di vista. Sarebbe più giusto assimilareall’Universale ciò che gli scolastici chiamano i«trascendentali», che oltrepassano precisamente tutti i generi ele stesse «categorie», ma, se questi «trascendentali»appartengono infatti all’ordine universale, sarebbe sempre unerrore credere che costituiscano tutto l’Universale, od ancheche siano ciò che vi è di più importante per la metafisica pura;essi sono coestensivi all’Essere, ma non oltrepassano puntol’Essere, al quale d’altronde si ferma la dottrina nella qualesono così considerati. Ora, se l’«ontologia» o la conoscenzadell’Essere rileva della metafisica, essa è lungi dalrappresentare la metafisica completa e totale, poiché l’Esserenon è affatto il non-manifestato in sé, ma semplicemente ilprincipio della manifestazione; e, poi, ciò che è al di làdell’Essere è molto più importante ancora, metafisicamente,dell’Essere stesso. In altre parole, è Brahma, non Ishwara, chedeve essere riconosciuto come il Principio Supremo; ciò èespressamente e prima di tutto dichiarato dai Brahma-sutra,che esordiscono con queste parole: «Ora comincia lo studio diBrahma», a cui Shankaracharya aggiunge il seguentecommento: «Ingiungendo la ricerca di Brahma, questo primosutra raccomanda uno studio riflessivo dei testi delleUpanishad, fatto con l’aiuto di una dialettica che (prendendoli

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per base e principio) non sia mai in disaccordo con essi e che,come essi (ma a titolo di semplice mezzo ausiliario), siproponga per fine la Liberazione».

III. IL CENTRO VITALE DELL’ESSERE UMANO,DIMORA DI BRAHMA

Il «Sé», come già l’abbiamo visto in ciò che precede, nondeve essere distinto da Atma, e, d’altra parte, Atma èidentificato a Brahma stesso: possiamo chiamare ciò l’«IdentitàSuprema», da un’espressione dell’esoterismo islamico, la cuidottrina, su questo e su molti altri punti, malgrado le grandidifferenze di forma, è in fondo la stessa di quella dellatradizione indù. La realizzazione di quest’identità si opera permezzo dello Yoga, vale a dire l’unione divina ed essenzialedell’essere col Principio Divino o piuttosto, se si preferisce,con l’Universale; il senso proprio della parola Yoga è, infatti,«unione» e non altro [La radice di questa parola si ritrova,appena alterata, nel latino «jungere» e nei suoi derivati],malgrado le interpretazioni multiple, queste più fantastiche diquelle, proposte dagli orientalisti e dai teosofisti. È necessarionotare che questa realizzazione non deve essere consideratapropriamente come una «effettuazione», o come «laproduzione di un risultato non preesistente», secondol’espressione di Shankaracharya, poiché l’unione di cui sitratta, anche se non realizzata attualmente, nel senso che noiqui intendiamo, esiste pur sempre potenzialmente o piuttostovirtualmente; si tratta dunque soltanto, per l’essere individuale(poiché non può parlarsi di «realizzazione» che in rapportoall’individuo), di prendere effettivamente coscienza di ciò che èrealmente e dall’eternità.

Perciò è detto che Brahma risiede nel centro vitale dell’essereumano, per qualsiasi essere umano, non soltanto per colui che è

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attualmente «unito» o «liberato»; queste due parole esprimonoin fondo la stessa cosa vista da due differenti aspetti, il primo inrapporto al Principio, il secondo in rapporto allamanifestazione o all’esistenza condizionata. Questo centrovitale è considerato come corrispondente analogicamente al piùpiccolo ventricolo (guha) del cuore (hridaya), ma non deveessere tuttavia confuso col cuore nel senso ordinario dellaparola, vale a dire con l’organo fisiologico che ha appuntoquesto nome, poiché è in realtà non solamente il centrodell’individualità corporea, ma dell’individualità integrale,suscettibile di un’estensione indefinita nel suo dominio (che èd’altronde un semplice grado dell’Esistenza), e di cui lamodalità corporea non costituisce che una parte ed anche moltolimitata, come già abbiamo visto. Il cuore, considerato il centrodella vita, lo è effettivamente dal punto di vista fisiologico, perla circolazione del sangue, al quale la vitalità stessa èessenzialmente legata in modo particolarissimo, come tutte letradizioni lo riconoscono; ma è anche altresì considerato cometale, in un ordine superiore, ed in qualche modosimbolicamente, per l’Intelligenza universale (questo è il sensodella parola araba El-Aqlu) nelle sue relazioni con l’individuo.A questo proposito, i Greci stessi, ed Aristotele fra gli altri,attribuivano al cuore la stessa funzione e lo consideravanoanche come la dimora dell’intelligenza, se può essere usatoquesto modo di esprimerci, non del sentimento alla manieraordinaria dei moderni; il cervello, infatti, non è veramente chelo strumento del «mentale», vale a dire del pensiero discorsivoe riflessivo; così, seguendo un simbolismo già indicatoprecedentemente, il cuore corrisponde al sole ed il cervello allaluna. Si capisce, del resto, che, quando si considera il cuorecentro dell’individualità integrale, non bisogna reputareun’assimilazione ciò che è un’analogia, poiché si tratta

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propriamente di una corrispondenza, del resto per nullaarbitraria, ma perfettamente fondata, quantunque i nostricontemporanei siano abituati a disconoscerne le ragioniprofonde.

«In questa dimora di Brahma (Brahma-pura)», vale a dire nelcentro vitale di cui abbiamo parlato, «vi è un piccolo loto, unadimora nella quale vi è una piccola cavità (dahara), occupatadall’Etere (Akasha); se si ricerca Ciò che risiede in questoluogo, Lo si conoscerà» [Chhandogya Upanishad, 8°Prapathaka, 1° Khanda, shruti 1]. In questo centrodell’individualità, non vi è soltanto, infatti, l’elemento etereo,principio degli altri quattro elementi sensibili, come potetterocrederlo quelli che si fermarono al senso più esteriore, vale adire a quello che si riferisce unicamente al mondo corporeo, nelquale questo elemento rappresenta infatti la parte del principio,ma in un’accezione molto relativa, come questo stesso mondo èeminentemente relativo, ed è proprio questa accezione chebisogna trasporre analogicamente. Come «appoggio» perquesta trasposizione è designato l’Etere, e la fine stessa deltesto l’indica espressamente, poiché, se non si trattasse di altracosa in realtà, evidentemente niente vi sarebbe da ricercare;aggiungeremo ancora che il loto e la cavità di cui si trattadebbono essere anche rilevati simbolicamente, non dovendosiintendere letteralmente una tale «localizzazione», quando sioltrepassa il punto di vista dell’individualità corporea, poichéle altre modalità non sono più sottomesse alla condizionespaziale.

Non si tratta veramente neanche soltanto dell’«animavivente» (jivatma), vale a dire della manifestazione particolaredel «Sé» nella vita (jiva), e dunque nell’individuo umano,considerato più specialmente nell’aspetto vitale che esprimeuna delle condizioni di esistenza che propriamente definiscono

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il suo stato, e che, d’altronde, si riferisce all’insieme delle suemodalità. Infatti, metafisicamente, questa manifestazione nondeve essere considerata separatamente dal suo principio, valedire dal «Sé»; se questo, nell’esistenza individuale, e dunque inmodo illusorio, appare come jiva, esso è Atma nella realtàsuprema. «Questo Atma, che sta nel cuore, è più piccolo di unchicco di riso, più piccolo di un chicco d’orzo, più piccolo diun chicco di mostarda, più piccolo di un chicco di miglio; piùpiccolo del germe racchiuso in un chicco di miglio; questoAtma, che sta nel cuore, è anche più grande della terra (ildominio della manifestazione grossolana), più grandedell’atmosfera (il dominio della manifestazione sottile), piùgrande del cielo (il dominio della manifestazione informale),più grande di tutti questi mondi insieme (vale dire oltre tutta lamanifestazione, essendo l’incondizionato)» [ChhandogyaUpanishad, 3° Prapathaka, 14° khanda, shruti 3. - E’ d’uoporicordare a questo proposito la parabola del Vangelo: «il Regnodei Cieli è simile ad un granello di senapa che un uomo prendee semina nel suo campo; esso è il più piccolo di tutti semi; maquando è cresciuto, è maggiore di tutti gli altri legumi e divienealbero, tanto che gli uccelli del cielo vengono a riposarsi suisuoi rami» (San Matteo, XIII, 31 e 32) quantunque il punto divista sia sicuramente differente, facilmente si capirà come laconcezione del «Regno dei Cieli» possa trasporsimetafisicamente: la crescita dell’albero è lo sviluppo dellepossibilità; gli «uccelli del cielo», che rappresentano gli statisuperiori dell’essere, ricordano un simbolismo simile usato inun altro testo delle Upanishad: «Due uccelli, compagniinseparabili, stanno sullo stesso albero; l’uno mangia il fruttodell’albero, l’altro guarda ma non mangia» (MundakaUpanishad, 3° Mundaka, 1° khanda, shruti 1 ; ShwetashwataraUpanishad, 4° Adhyaya, shruti 6). Il primo di questi uccelli è

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jivatma, implicato nel dominio dell’azione e delle sueconseguenze; il secondo è Atma incondizionato, cioè puraConoscenza; essi sono inseparabilmente uniti, poiché entrambinon si distinguono che in modo illusorio]. L’analogia, infatti,come precedentemente abbiamo visto, dovendo applicarsi insenso inverso, come l’immagine di un oggetto in uno specchioè invertita per l’oggetto, quello che è il primo o il più grandenell’ordine principiale è, per lo meno apparentemente, l’ultimood il più piccolo nell’ordine della manifestazione [Ritroviamola stessa cosa nettissimamente espressa nel Vangelo: «Gliultimi saranno i primi ed i primi saranno gli ultimi» (SanMatteo, XX, 16)]. Per rendere la cosa più chiara, prenderemodei termini di paragone nelle matematiche: il punto geometricoè nulla quantitativamente, né occupa spazio, quantunque sia ilprincipio per cui è prodotto tutto lo spazio, che è lo sviluppodelle sue proprie virtualità [Ad un certo punto di vista piùesteriore, quello della geometria ordinaria ed elementare,notiamo che, per spostamento continuo, il punto produce lalinea, la linea la superficie, questa produce il volume; ma, insenso inverso, la superficie è l’intersezione di due volumi, lalinea è l’intersezione di due superficie, il punto è l’intersezionedi due linee]; così parimenti l’unità aritmetica è il più piccolodei numeri se la si considera come posta nella loro molteplicità,ma è il più grande in principio, poiché li contiene tuttivirtualmente e produce l’intera serie con la sola ripetizioneindefinita di se stessa. Il «Sé» sta potenzialmentenell’individuo, finché non è realizzata l’«Unione» [In realtà,d’altronde, è l’individuo che è nel «Sé», e l’essere ne prendeeffettivamente coscienza quando l’«Unione» è realizzata; maquesta presa di coscienza implica la liberazione dallelimitazioni che costituiscono l’individualità come tale, e che,più generalmente, condizionano l’intera manifestazione.

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Quando parliamo del «Sé» come in un certo modonell’individuo, il nostro punto di vista è quello dellamanifestazione; anche qui si tratta dunque di un’applicazionedel senso inverso], perciò è paragonabile ad un grano o ad ungerme; ma l’individuo e l’intera manifestazione esistonosoltanto per esso ed hanno realtà solo perché partecipano allasua essenza, mentre esso oltrepassa immensamente l’interamanifestazione, essendo il Principio unico delle cose.

Se diciamo che il «Sé» è potenzialmente nell’individuo e chel’«Unione» esiste solo virtualmente prima della realizzazione,si capisce che questo deve intendersi dal punto di vistadell’individuo stesso. Infatti, il «Sé» non è pregiudicato dacontingenze, perché è essenzialmente incondizionato; èimmutabile nella sua «permanente attualità», perciò non èaffatto potenziale. Così è bene avere cura di distinguere«potenzialità» e «possibilità»: la prima indica l’attitudine perun certo sviluppo e presuppone una possibile «attualizzazione»,può dunque riferirsi solamente al «divenire» od allamanifestazione; invece, le possibilità, considerate nello statoprincipiale e non-manifestato, che esclude ogni «divenire», nonpotrebbero affatto essere riguardate come potenziali. Soltantoper l’individuo, le possibilità che l’oltrepassano appaionopotenziali, appunto perché, fin quando si considera in modo«separativo», come se avesse in sé il suo proprio essere, ciòche può raggiungere è propriamente un riflesso (abhasa), e nonqueste possibilità stesse; quantunque ciò sia soltantoun’illusione, possiamo comunque affermare che questepossibilità restano sempre potenziali per l’individuo; finché si ètale, infatti, non le si può raggiungere, e, quando esse sonorealizzate, non vi è più veramente l’individualità, comespiegheremo più completamente parlando della «Liberazione».Ma è bene ormai porci di là dal punto di vista individuale, al

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quale, anche considerandolo illusorio, non disconosciamo larealtà di cui è suscettibile nel suo ordine; quand’anche noiconsideriamo l’individuo, è sempre per scorgerloessenzialmente dipendente dal Principio, unico fondamento diquesta realtà, ed in quanto si integra, virtualmente odeffettivamente, all’essere totale; metafisicamente, tutto deve indefinitiva riferirsi al Principio, che è il «Sé».

Così, al punto di vista fisico, quello che risiede nel centrovitale è l’Etere; al punto di vista psichico, è l’«anima vivente»;fin qui non oltrepassiamo il dominio della possibilitàindividuali; ma anche e soprattutto, al punto di vista metafisico,quel che risiede nel centro vitale è il «Sé» principiale edincondizionato. È dunque veramente lo «Spirito Universale»(Atma), che è in realtà Brahma stesso, il «SupremoOrdinatore»; così è pienamente giustificato di qualificarequesto centro come Brahma-pura. Ora Brahma, inteso in talmodo nell’uomo (e lo si potrebbe considerare similmente inrapporto ad ogni stato dell’essere), è chiamato Purusha, perchériposa o risiede nell’individualità (si tratta, lo ripetiamo ancora,dell’individualità integrale, non semplicementedell’individualità ristretta alla sua modalità corporea) come inuna città (puri-shaya), poiché «pura», nel senso proprioletterale, significa «città» [Questa spiegazione della parolaPurusha non deve essere indubbiamente considerata unaderivazione etimologica; essa rileva del Nirukta, vale a dired’una interpretazione che principalmente si basa sul valoresimbolico degli elementi di cui sono composte le parole; questogenere di interpretazione, perlopiù incompreso dagliorientalisti, è abbastanza paragonabile con quello che siriscontra nella Qabbalah ebraica; non era nemmenointeramente sconosciuto dai Greci, e ve ne sono esempi nelCratilo di Platone. - Quanto al significato di Purusha, facciamo

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notare che «puru» esprime un’idea di «pienezza»].Nel centro vitale, residenza di Purusha, «il sole non brilla e

nemmeno la luna e le stelle ed i lampi; meno ancora questofuoco visibile (l’elemento igneo sensibile, o Tejas, di cui lavisibilità è la qualità propria); tutto brilla dopo l’irraggiamentodi Purusha (riflettendo la sua chiarezza); e questo tutto(l’individualità integrale, considerata come «microcosmo») èilluminato dal suo splendore» [Katha Upanishad, 2° Adhyaya,5° Valli, shruti 15; Mundaka Upanishad, 2° Mundaka, 2°Khanda, shruti 10; Shwetashwatara Upanishad, 6° Adhyaya,shruti 14]. Parimenti si legge nella Bhagavad-Gita [È noto chela Bhagavad-Gita è un episodio del Mahabharata, ed a questoproposito ricorderemo che gli Itihasa, vale a dire il Ramayanaed il Mahabharata, che fanno parte della Smriti, non sonopunto veramente semplici «poemi epici» nel senso «profano»degli Occidentali]: «Bisogna ricercare il luogo (simbolizzanteuno stato) da cui non è più possibile un ritorno (allamanifestazione), e rifugiarsi nel Purusha primordiale donde èvenuto l’impulso originale (della manifestazione universale)...Questo luogo, né il sole, né la luna, né il fuoco lo rischiara; là èil mio soggiorno supremo» [Bhagavad-Gita, XV, 4 e 6. - Si puòscorgere in questi testi una interessante similitudine con questopasso della descrizione della «Gerusalemme Celeste»nell’Apocalisse, XXI, 23: «E questa città non ha bisogno diessere rischiarata dal sole né dalla luna, poiché l’illumina lagloria di Dio e l’Agnello è il suo luminare». Si può scorgere daciò che la «Gerusalemme Celeste» non è poi senza rapportocon la «città di Brahma»; per chi non ignori la relazione cheunisce l’«Agnello» del simbolismo cristiano all’Agni vedico, ilriavvicinamento è ancora più significativo. - Senza poterinsistere su quest’ultimo punto, diremo, per evitare ogni falsainterpretazione, che non pretendiamo affatto stabilire una

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relazione etimologica fra Agnus e Ignis (l’equivalente latino diAgni); ma siffatti riavvicinamenti, come quello che esiste fraqueste due parole, rappresentano spesso una parte importantenel simbolismo; del resto, per noi, a questo proposito, niente viè di fortuito: ciò che è deve avere la sua ragione d’essere ancheper le forme del linguaggio. Conviene ancora notare, nellostesso riguardo, che il veicolo d’Agni è un ariete]. Purusha èrappresentato con una luce (jyotis), perché la luce simbolizza laConoscenza, ed esso è la sorgente di ogni altra luce, che infondo è il suo riflesso, poiché la conoscenza relativa non puòesistere che per partecipazione, sia pure indiretta e lontana,all’essenza della Conoscenza suprema. Nella luce di questaConoscenza, tutte le cose sono in perfetta simultaneità, poiché,principialmente, non può esservi che un «eterno presente»,l’immutabilità escludendo ogni successione; i rapporti dellepossibilità che, in sé, sono eternamente contenute nel Principionon si traducono in modo successivo (ciò che non significanecessariamente temporale) che nell’ordine del manifestato.«Questo Purusha, della grandezza di un pollice (angushtha-matra, espressione che non deve intendersi letteralmente, comeuna dimensione spaziale, ma che si riferisce alla stessa idea delparagone con un chicco) [Si potrebbe anche, a questoproposito, stabilire un paragone con l’«endogeniadell’Immortale» della tradizione taoista], è d’una luminositàchiara come un fuoco senza fumo (senza alcun miscugliod’oscurità o di ignoranza); è il maestro del passato e del futuro(essendo eterno, dunque onnipresente, in modo che contieneattualmente tutto ciò che appare come passato e futuro, per unqualunque momento della manifestazione; questo, d’altronde,si può trasporre al di fuori del modo speciale di successioneche è propriamente il tempo); esso è oggi (nello stato attualeche costituisce l’individualità umana) e sarà domani (ed in tutti

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i cicli o stati d’esistenza) tale quale è (in sé, principialmente daogni eternità)» [Katha Upanishad, 2° Adhyaya, 4° Valli, shruti12 e 13: - Nell’esoterismo islamico, la stessa idee è espressa intermini quasi identici da Mohyddin Ibn-Arabi nel suo Trattatodell’Unità (Risalatu-l-Ahadiyah): «Egli (Allah) è ora talecom’era (da tutta l’eternità), tutti i giorni nello stato di CreatoreSublime». La sola differenza verte sull’idea di «creazione»,propria alle dottrine tradizionali che, almeno parzialmente, siriattaccano al Giudaismo; ciò non è d’altronde in fondo che unmodo speciale di esprimere ciò che si riferisce allamanifestazione universale ed alla sua relazione col Principio.

Una traduzione del Trattato dell’Unità (Risalatu-l-Ahadiyah)è stata pubblicata nei fascicoli 7 e 8 della Rivista di StudiTradizionali (N.d.Ed.)].

IV. PURUSHA E PRAKRITI

Considereremo ora Purusha, non più in se stesso, ma inrapporto alla manifestazione, per meglio rilevare in seguitocome può essere inteso sotto molteplici aspetti, anche essendouno in realtà. Diremo dunque che Purusha, perché lamanifestazione si produca, deve entrare in correlazione con unaltro principio, quantunque questa correlazione, relativamenteal suo aspetto più elevato (uttama) sia inesistente, e non vi siarealmente altro principio, se non in senso relativo, al di fuoridel Principio Supremo; ma, quando si tratta dellamanifestazione, anche principialmente, già siamo nellarelatività. Il correlativo di Purusha è allora Prakriti, la sostanzaprimordiale indifferenziata, il principio passivo, rappresentatocome femminile, mentre Purusha, chiamato anche Pumas, è ilprincipio attivo, cioè maschile; e, mentre sono entrambi non-manifestati, tuttavia sono i due poli della manifestazione.

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L’unione di questi due principi complementari produce losviluppo integrale dello stato individuale umano, e ciòrelativamente ad ogni individuo; potrebbe lo stesso asserirsi pertutti gli stati manifestati dell’essere, diversi da quello umano,poiché, se dobbiamo più specialmente studiare questo stato, èbene mai dimenticare che è solo uno stato fra gli altri; ènecessario anche ricordare che Purusha e Prakriti ci appaionorisultanti in qualche modo da una polarizzazione dell’essereprincipiale non al limite della sola individualità umana, mainvece al limite della totalità degli stati manifestati, inmolteplicità indefinita [Crediamo opportuno richiamarel’attenzione del lettore sulla parola «indefinito», che qui, comed’altronde ogni qual volta essa è usata nelle opere del Guénon,ha un senso ben preciso. L’«indefinito», infatti, procedendo dalfinito, ne è l’estensione o lo sviluppo; non può dunque averecomune misura con l’Infinito, da cui lo si deve ben distinguere.Del resto, per tutti gli altri sviluppi che da ciò derivano,rimandiamo il lettore all’altra opera del Guénon: Les Etatsmultiple de l’Etre (Ndt)].

Se, invece di considerare isolatamente ogni individuo,esaminiamo l’insieme del dominio formato da un gradodeterminato dell’Esistenza, quale il dominio individuale dovesi dispiega lo stato umano, o qualsiasi altro analogodell’esistenza manifestata, definito similmente da un certoinsieme di condizioni speciali e limitative, Purusha, per un taledominio (comprendente tutti gli esseri che vi sviluppano le loropossibilità di manifestazione corrispondenti, tantosuccessivamente quanto simultaneamente), è assimilato aPrajapati, il «Signore degli esseri prodotti», espressione diBrahma stesso, in quanto è concepito come Volontà Divina eOrdinatore Supremo [Prajapati è anche Vishwakarma, il«principio costruttivo universale»; il suo nome e la sua

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funzione sono suscettibili d’altronde di riferimenti multipli epiù o meno specializzati, secondo che li si riferisca o non allaconsiderazione di tale o tal’altro ciclo o stato determinato].Questa Volontà si manifesta più particolarmente, in ogni ciclospeciale d’esistenza, come il Manu di questo ciclo, che ad essodà la sua Legge (Dharma); infatti, Manu, già l’abbiamo altrovespiegato, non deve affatto essere considerato un personaggio néun «mito», ma invece un principio, propriamente l’Intelligenzacosmica, immagine riflessa di Brahma (ed in realtà una conLui), che si esprime come il Legislatore primordiale eduniversale [È interessante notare che, in altre tradizioni, ilLegislatore primordiale è anche designato con nome la cuiradice è la stessa di quella del Manu indù: tali sono,specialmente, il Menes degli Egiziani ed il Minos dei Greci; èdunque un errore considerare questi nomi come quelli dipersonaggi storici]. Nello stesso modo che Manu è il prototipodell’uomo (manava), la coppia Purusha-Prakriti, in rapportoad uno stato d’essere determinato, può equivalere, nel dominiodi esistenza che corrisponde a questo stato, a quella che perl’esoterismo islamico è l’«Uomo Universale» (El-Insanul-kamil) [È l’Adam Qadmon della Qabbalah ebraica; è anche il«Re» (Wang) della tradizione estremo-orientale (Tao-te-king,XXV)], concezione che può d’altronde essere poi estesa a tuttol’insieme degli stati manifestati, e che allora stabiliscel’analogia costitutiva della manifestazione universale e dellasua modalità individuale umana [Ricorderemo che su questaanalogia si fonda essenzialmente l’istituzione delle caste. -Sulla parte di Purusha considerato dal punto di vista che quiindichiamo, vedi specialmente il Purusha-Shukta del Rig-Veda,X, 90. - Vishwakarma, aspetto o funzione dell’«UomoUniversale», corrisponde al «Grande Architetto dell’Universo»delle iniziazioni occidentali], o, per usare il linguaggio di certe

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scuole occidentali, del «macrocosmo» e del «microcosmo»[Questi termini appartengono propriamente all’Ermetismo esono di quelli per i quali stimiamo non avere a preoccuparcidell’uso più o meno abusivo che ne hanno fatto i pseudo-esoteristi contemporanei].

Ora, è indispensabile aggiungere che la concezione dellacoppia Purusha-Prakriti non ha rapporti con qualsiasi«dualismo», e che, in particolare, è totalmente differente daldualismo «spirito-materia» della filosofia occidentale moderna,la cui origine è in realtà imputabile alle concezioni cartesiane.Purusha non può corrispondere alla nozione filosofica di«spirito», e l’abbiamo già indicato a proposito delladesignazione d’Atma in quanto «Spirito Universale»,accettabile a condizione di essere intesa in senso affattodifferente da quello; malgrado le asserzioni di gran numero diorientalisti, Prakriti corrisponde ancora meno alla nozione di«materia», che, d’altronde, è tanto completamente estranea alpensiero indù da non esservi in sanscrito una parola con laquale possa tradursi, neanche approssimativamente, ciò cheprova che una tale nozione non è veramente fondamentale. Delresto, è possibilissimo che gli stessi Greci non avessero lanozione della materia dei moderni, sia filosofi che fisici; inogni caso, il senso della parola «» per Aristotele è infattiquello di «sostanza» in tutta la sua universalità, e «» (chela parola «forma» rende molto male in italiano, per gli equivocia cui può facilmente dar luogo) corrisponde non menoesattamente all’«essenza» correlativa di questa «sostanza».Infatti, le parole «essenza» e «sostanza», nella loro più ampiaaccezione, sono forse, nelle lingue occidentali, quelle chemeglio rendono l’idea della concezioni di cui si tratta,concezioni d’ordine molto più universale di quella di «spirito»e «materia», e di cui quest’ultima ne rappresenta tutt’al più un

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aspetto particolarissimo, una specificazione in rapporto ad undeterminato stato d’esistenza, fuori dal quale cessa interamented’essere valida, invece di essere riferibile all’integralità dellamanifestazione universale, come la concezione di «essenza» edi «sostanza». È ancora necessario aggiungere che ladistinzione di queste ultime, per primordiale che sia in rapportoa tutt’altra, non per questo è meno relativa; essa è la primadella dualità, quella dalla quale derivano tutte le altredirettamente od indirettamente, e da dove propriamente haprincipio la molteplicità; ma questa dualità non è l’espressionedi una irriducibilità assoluta, che non potrebbe affatto trovarsi,poiché è l’Essere Universale che si polarizza in «essenza» ed in«sostanza», relativamente alla manifestazione di cui è ilprincipio, senza peraltro che la sua intima unità ne sia affattoalterata. Ricorderemo a proposito che il Vedanta, appuntoperché è puramente metafisico, è essenzialmente la «dottrinadella non-dualità» (adwaita-vada) [Abbiamo spiegato,nell’Introduction à l’Etude des Doctrines Hindoues, che nonbisogna confondere questo «non-dualismo» con il «monismo»,che, come il «dualismo», sotto qualunque forma, è di ordinesemplicemente filosofico e non metafisico; questa concezionemetafisica non può nemmeno assimilarsi al «panteismo»,poiché quest’ultima denominazione, quando è usato in sensoragionevole, sempre implica un certo «naturalismo»,propriamente anti-metafisico]; se il Sankhya può sembrare«dualista» a chi non l’ha capito, ciò dipende dal suo punto divista che si ferma alla considerazione della prima dualità, ciòche però non gli impedisce di ammettere quello chel’oltrepassa, contrariamente alle concezioni sistematiche,prerogativa dei filosofi.

Preciseremo che cos’è Prakriti, il primo dei 25 principi(tattwa) enumerati dal Sankhya; ma abbiamo dovuto rilevare

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Purusha prima di Prakriti, poiché è inammissibile che ilprincipio plastico o sostanziale (nello stretto senso etimologicodella parola, che esprime il «substratum universale», vale a direl’appoggio di tutta la manifestazione) [Aggiungiamo, perevitare ogni possibilità di erronee interpretazioni, che il sensoda noi attribuito alla parola «sostanza» non è affatto quellousato anche da Spinoza; per un effetto della confusione«panteista», egli in realtà adopera questa parola per designarel’Essere Universale stesso, almeno nella misura in cui è capacedi concepirlo: in realtà, l’Essere Universale è di là delladistinzione di Purusha e Prakriti, che si unificano in esso comenel loro principio comune] sia dotato di «spontaneità», poiché èpuramente potenziale e passivo, atto a qualunquedeterminazione, ma non possedendone attualmente alcuna.Prakriti non può dunque essere veramente causa per se stessa(alludiamo alla «causalità efficiente»), al di fuori dell’azione opiuttosto dell’influenza del principio essenziale o Purusha, chesi potrebbe chiamare il «determinante» della manifestazione;tutte le cose manifestate sono prodotte da Prakriti, di cui sonodeterminazioni o modificazioni, però, senza la presenza diPurusha, queste produzioni sarebbero sprovviste di ogni realtà.L’opinione per la quale Prakriti sarebbe sufficiente a se stessacome principio della manifestazione non potrebbe esser dedottache da una concezione completamente erronea del Sankhyaproveniente semplicemente dal fatto che, in questa dottrina, ciòche è chiamato «produzione» è sempre consideratoesclusivamente dal lato «sostanziale», e forse anche dall’esserePurusha enumerato quale venticinquesimo tattwa, d’altrondeinteramente indipendente dagli altri, che comprendono Prakritie tutte le sue modificazioni; una simile opinione, del resto,sarebbe formalmente contraria all’insegnamento del Veda.

Mula-Prakriti è la «Natura primordiale» (in arabo El-Fitrah),

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radice di ogni manifestazione («mula» significa infatti«radice»); essa è anche qualificata come Pradhana, vale a dire«ciò che è posto prima di ogni cosa», contenendo in potenzatutte le determinazioni; secondo i Purana è identificata a Maya,concepita «madre delle forme». È indifferenziata (avyakta),«indistinguibile», non avendo parti, né essendo dotata diqualità, solo potendo essere indotta per i suoi effetti, poichénon la si potrebbe percepire in se stessa, produttiva senzaessere essa stessa produzione. «Essendo radice, è senza radice,poiché non sarebbe radice, se essa stessa ne avesse» [Sankhya-sutra, 1° Adhyaya, sutra 67]. «Prakriti, radice di tutto, non èproduzione. Sette principi, il grande (Mahat, che è il principiointellettuale o Buddhi) e gli altri (Ahankara o la coscienzaindividuale, che genera la nozione dell’«io», ed i cinquetanmatra o determinazioni essenziali delle cose) sonocontemporaneamente produzioni di (Prakriti) e produttivi (inrapporto ai seguenti). Sedici (gli undici indriya o facoltà disensazione e d’azione, non escludendovi il Manas o «mentale»,ed i cinque bhuta od elementi sostanziali e sensibili) sonoproduzioni (improduttive). Purusha non è né produzione, néproduttivo (in se stesso)» [Sankhya-karika, shloka 3],quantunque la sua azione, o meglio la sua attività «non-agente», secondo una espressione della tradizione estremo-orientale, determini essenzialmente tutto ciò che è produzionesostanziale in Prakriti [Colebrooke (Essais sur la Philosophiedes Hindous, tradotti in francese da G.Pauthier, I° Essais) hasignificato con ragione la concordanza notevole che esiste fral’ultimo passo citato e i seguenti, estratti dal trattato DeDivisione Naturae di Scoto Erigena: «La divisione della Naturami sembra dover essere stabilita in quattro differenti specie, dicui la prima è ciò che crea e non è creato; la seconda, ciò che ècreato e crea a sua volta; la terza, ciò che è creato e non crea; e

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la quarta infine, ciò che non è creato e nemmeno crea» (LibroI). «Ma la prima specie e la quarta (rispettivamente assimilabilia Prakriti e da Purusha) coincidono (si confondono o piuttostosi uniscono) nella Natura Divina, poiché questa può esseredetta creatrice ed increata, come essa è in sé, ma ugualmente nécreatrice né creata, poiché, essendo infinita, non può nienteprodurre che le sia esteriore, e nemmeno vi è possibilità alcunache essa non sia in sé e per sé» (Libro III). Si noterà tuttavia lasostituzione dell’idea di «creazione» a quella di «produzione»;d’altra parte, l’espressione «Natura Divina» non èperfettamente adeguata, poiché ciò che designa è propriamentel’Essere Universale: in realtà, è Prakriti che è la Naturaprimordiale, e Purusha, essenzialmente immutabile, è al difuori della Natura, il cui nome stesso esprime un’idea di«divenire»].

Aggiungeremo, per completare queste nozioni, che Prakriti,pure essendo necessariamente una nella sua «indistinzione»,contiene in sé una triplicità che, attualizzandosi per l’influenza«ordinatrice» di Purusha, produce le sue multipledeterminazioni. Infatti, possiede tre guna o qualità costitutive,che sono in perfetto equilibrio nella sua indifferenziazioneprimordiale; ogni manifestazione o modificazione dellasostanza rappresenta una rottura di quest’equilibrio, e gli esseri,nei loro differenti stati di manifestazione, partecipano dei treguna per gradi diversi e, per così dire, secondo proporzioniindefinitamente variate. Questi guna non sono dunque stati, macondizioni dell’Esistenza universale, alle quali sono sottomessitutti gli esseri manifestati, e che è bene aver cura di distingueredalle condizioni speciali che determinano e definiscono tale otal’altro stato o modo della manifestazione. I tre guna sono:sattwa, la conformità all’essenza pura dell’Essere (Sat), che èidentificata alla Luce intelligibile od alla Conoscenza, ed è

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rappresentata come una tendenza ascendente; rajas l’impulsoespansivo, secondo il quale l’essere si sviluppa in un certo statoe, in qualche modo, ad un livello determinato dell’esistenza;infine, tamas, l’oscurità, assimilata all’ignoranza, erappresentata come una tendenza discendente. Ci limiteremoper ora a queste definizioni, che abbiamo già indicate altrove;non è qui il luogo per esporre più completamente questeconsiderazioni, che si allontanano qualche poco dal nostrosoggetto, né parlare delle applicazioni diverse alle quali essedànno luogo, specialmente per ciò che concerne la teoriacosmologica degli elementi; questi sviluppi troveranno migliorposto in altri studi.

V. PURUSHA INALTERATO DALLE MODIFICAZIONIINDIVIDUALI

Secondo la Bhagavad-Gita, «vi sono nel mondo duePurusha, l’uno distruttibile, l’altro indistruttibile: il primo èripartito fra tutti gli esseri, l’altro è l’immutabile. Ma vi è unaltro Purusha, il più alto (uttama), che si chiama Paramatma, eche, Signore imperituro, penetra e sostiene questi tre mondi (laterra, l’atmosfera, il cielo, che rappresentano i tre gradifondamentali fra i quali si dividono tutti i modi dellamanifestazione). Ora, poiché supero il distruttibile ed anchel’indistruttibile (quale Principio Supremo dell’uno e dell’altro),io sono celebrato nel mondo e nel Veda col nome di Pu-rushottama» [Bhagavad-Gita, XV, 16 a 18]. Fra i primi duePurusha, il «distruttibile» è jivatma, la cui esistenza distinta èinfatti transitoria e contingente come quella della stessaindividualità; l’«indistruttibile» è Atma in quanto personalità,principio permanente dell’essere in tutti i suoi stati dimanifestazione [Sono «i due uccelli che stanno su uno stesso

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albero», secondo testi delle Upanishad, citati in una notaprecedente. D’altra parte, anche nella Katha Upanishad, 2°Adhyaya, 6° Valli, shruti I, si parla d’un albero, ma questiriferimenti simbolici sono allora «macrocosmici», non più«microcosmici»: «Il mondo è come un fico perpetuo(ashwattha sanatana) di cui la radice è rivolta in alto ed i cuirami sono infissi nella terra»; parimenti, nella Bhagavad-Gita,XV, I: «È un fico imperituro, la radice in alto ed i rami inbasso, di cui gli inni del Veda sono le foglie; quegli che loconosce, conosce il Veda». La radice è in alto perchérappresenta il principio, ed i rami sono in basso perchérappresentano il dispiegarsi della manifestazione; la figuradell’albero è così capovolta, l’analogia dovendo usarsi, quicome dovunque, in senso inverso. Nei due casi l’albero è desi-gnato come il fico sacro (ashwattha o pippala); in questa formaod in un’altra, il simbolismo dell’«Albero del Mondo» è lungidall’essere particolare all’India: la quercia dei Celti, il tiglio deiGermani, il frassino degli Scandinavi rappresentanoesattamente la stessa cosa]; quanto al terzo, ed il testoespressamente lo dichiara, è Paramatma, di cui la personalità èuna determinazione primordiale, come precedentementel’abbiamo spiegato. Quantunque la personalità sia realmente dilà dal dominio della molteplicità, si può tuttavia, in un certomodo, parlare di una personalità per ogni essere (si trattanaturalmente dell’essere totale, e non di uno stato consideratoisolatamente): perciò il Sankhya, il cui punto di vista mais’eleva a Purushottama, spesso rileva Purusha come multiplo;ma si deve notare che, anche in questo caso, il suo nome èsempre usato al singolare, per affermare nettamente la sua unitàessenziale. Il Sankhya non ha dunque comunanze con un«monadismo» del genere di quello del Leibnitz, nel quale,d’altronde, la «sostanza individuale» è considerata un tutto

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completo, una specie di sistema chiuso, concezioneincompatibile con nozioni d’ordine veramente metafisico.

Purusha, considerato identico alla personalità, «è per cosìdire [La parola iva indica che si tratta di un paragone (upama)o d’un modo di parlare destinato a facilitare la comprensione,ma che non dev’essere inteso alla lettera. - Ecco un testo taoistache esprime una idea similare: «Le norme di ogni specie, comequella che fa un corpo di più organi (od un essere di piùstati),... sono altrettante partecipazioni del Rettore Universale.Queste partecipazioni non L’aumentano, né Lo diminuiscono,poiché sono comunicate da Lui, non distaccate da Lui»(Tchoang-tseu, cap. II; traduzione del P. Wieger, p. 217)] unaparte (ansha) del Supremo Ordinatore (che, tuttavia, non harealmente parti, essendo assolutamente indivisibile e «senzadualità»), come una scintilla l’è del fuoco (la cui natura èd’altronde interamente in ogni scintilla)» [Brahma-Sutra, 2°Adhyaya, 3° Pada, sutra 43. - Ricordiamo che noi seguiamoprincipalmente, nella nostra interpretazione, il commento diShankaracharya]. Purusha non è mai sottomesso allecondizioni che determinano l’individualità, e, anche nei suoirapporti con questa, resta inalterato dalle modificazioniindividuali (quali, per esempio, il piacere ed il dolore), chesono puramente contingenti ed accidentali, non essenzialiall’essere, e che provengono tutte dal principio plastico,Prakriti o Pradhana, come dalla loro unica radice. È da questasostanza, che contiene in potenza tutte le possibilità dimanifestazione, che le modificazioni sono prodotte nell’ordinemanifestato, per lo sviluppo stesso di queste possibilità, o, perusare un linguaggio aristotelico, per il loro passaggio dallapotenza all’atto. «Qualsiasi modificazione (parinama), diceVijnana-Bhikshu, dalla produzione originale del mondo (vale adire d’ogni ciclo d’esistenza) alla sua dissoluzione finale,

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proviene esclusivamente da Prakriti e dai suoi derivati», vale adire dai ventiquattro primi tattwa del Sankhya,

Purusha è tuttavia il principio essenziale delle cose, poichédetermina lo sviluppo delle possibilità di Prakriti; ma esso maientra nella manifestazione, per conseguenza le cose, in quantosono considerate distintivamente, gli sono differenti, e nulla diciò che le concerne come tali (costituendo quello che si puòchiamare il «divenire») potrebbe pregiudicare la suaimmutabilità. «Così la luce solare o lunare (suscettibile dimodificazioni multiple) sembra identica alla sua sorgente (lasorgente luminosa immutabile in se stessa), ma tuttavia essa neè distinta (nella sua manifestazione esteriore, e parimenti lemodificazioni o le qualità manifestate sono, come tali, distintedal loro principio essenziale, poiché non possono affattoalterarlo). Come l’immagine del sole riflessa nell’acqua tremao vacilla, secondo le ondulazioni di questa, senza tuttaviapregiudicare le altre immagini riflesse, né, a più forte ragione,l’orbe solare stesso, così le modificazioni di un individuo nonalterano un altro individuo, né soprattutto il Supremo Or-dinatore stesso» [Brahma-Sutra, 2° Adhyaya, 3° Pada, sutra 46a 53], che è Purushottama, ed al quale la personalità èrealmente identica nella sua essenza, come ogni scintilla l’è alfuoco, considerato indivisibile nella sua natura intima.

È appunto l’«anima vivente» (jivatma) che qui è paragonataall’immagine del sole nell’acqua, poiché è il riflesso (abhasa),nell’individuale ed in rapporto ad ogni individuo, della Luce,principalmente una, dello «Spirito Universale» (Atma); ilraggio luminoso che fa esistere questa immagine e la uniscealla sua sorgente, è, come vedremo, l’intelletto superiore(Buddhi), che appartiene alla manifestazione informale[Bisogna notare che il raggio presuppone un ambiente dipropagazione (manifestazione in modo non-individualizzato), e

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che l’immagine presuppone un piano di riflessione(individualizzazione per le condizioni d’un certo statod’esistenza)]. Quanto all’acqua, che riflette la luce solare, eabitualmente il simbolo del principio plastico (Prakriti),l’immagine della «passività universale»; d’altronde, questosimbolismo, con lo stesso significato, è comune a tutte ledottrine tradizionali [Si può a questo riguardo riferirsi inparticolare al principio della Genesi, I, 2: «E lo Spirito Divinoera portato sulla superficie delle Acque». Nel passo citato vi èuna nettissima indicazione in rapporto ai due principicomplementari di cui parliamo, lo Spirito corrispondendo aPurusha e le Acque a Prakriti. Ad un differente punto di vista,ma non di meno collegato analogicamente al precedente, ilRuahh Elohim del testo ebraico è anche assimilabile a Hamsa,il Cigno simbolico, veicolo di Brahma, che cova il Brahmandao l’«Uovo del Mondo», contenuto nelle Acque primordiali;bisogna notare che Hamsa è ugualmente il «soffio» (spiritus),ciò che è il senso primo di Ruahh in ebraico. Finalmente especie al punto di vista della costituzione del mondo corporeo,Ruahh è l’Aria (Vayu); se ciò non dovesse portarci a troppolunghe considerazioni, potremmo dimostrare la perfettaconcordanza fra la Bibbia ed il Veda, per quel che concernel’ordine dello sviluppo degli elementi sensibili. In ogni caso, sipuò trovare, in ciò che abbiamo detto, l’indicazione di tre sensisovrapposti, che si riferiscono rispettivamente ai tre gradifondamentali della manifestazione (informale, sottile,grossolana), che sono designati come ì «tre mondi»(Tribhuvana) dalla tradizione indù. - Questi tre mondi figuranoaltresì nella Qabbalah ebraica con i nomi di Beriah, Ietsirah,Asiah; al di sopra di tutti sta Atsiluth, lo stato principiale dellanon-manifestazione]. Tuttavia, bisogna qui restringere il suosenso generale, poiché Buddhi, pur essendo informale e so-

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pra-individuale, è ancora manifestata, e, poi, deriva da Prakritidi cui è la prima produzione; l’acqua non può dunque quirappresentare che l’insieme potenziale delle possibilità formali,vale a dire il dominio della manifestazione in modoindividuale, e così essa lascia fuori di sé quelle possibilitàinformali che, anche corrispondendo a stati di manifestazione,debbono tuttavia essere riferite all’Universale [Se si conservaal simbolo dell’acqua il significato generale che ad esso èproprio, l’insieme delle possibilità formali è designato come le«Acque inferiori», e quello delle possibilità informali come le«Acque superiori». La separazione delle «Acque inferiori» edelle Acque superiori», al punto di vista cosmogonico, si trovaanche descritta nella Genesi, I, 6 e 7; bisogna notare che laparola Maim, che designa l’acqua in ebraico, ha la forma delduale, ciò che, fra altri significati, può essere riferito al«duplice caos» delle possibilità formali ed informali allo statopotenziale. Le Acque primordiali, prima della separazione,sono la totalità delle possibilità di manifestazione, in quantocostituisce l’aspetto potenziale dell’Essere Universale, vale adire propriamente Prakriti. Lo stesso simbolismo offre ancoraun altro senso superiore che si ottiene trasponendolo di là dal-l’Essere stesso: le Acque rappresentano allora la PossibilitàUniversale, considerata in modo assolutamente totale, vale adire in quanto abbraccia contemporaneamente, nella suaInfinità, il dominio della manifestazione e quello dellanon-manifestazione. Quest’ultimo senso è il più elevato; algrado immediatamente inferiore, nella polarizzazioneprimordiale dell’Essere, vi è Prakriti, con la quale siamoancora nel principio della manifestazione. Inoltre, seguitando apercorrere altri gradi inferiori, possiamo considerare i tre gradidi questa, come precedentemente l’abbiamo fatto: avremoallora, per i due primi, il «duplice caos» di cui già abbiamo

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parlato, e finalmente, per il mondo corporeo, l’Acqua in quantoelemento sensibile (Ap), quest’ultima trovandosi d’altronde giàimplicitamente contenuta, come tutto ciò che appartiene allamanifestazione grossolana, nel dominio delle «Acqueinferiori», poiché la manifestazione sottile rappresenta la partedel Principio immediato e relativo in rapporto a questamanifestazione grossolana. - Quantunque queste spiegazionisiano un po’ lunghe, crediamo che non saranno inutili per farcomprendere, con esempi, come si possa considerare unapluralità di significati e di applicazioni nei testi tradizionali].

VI. I GRADI DELLA MANIFESTAZIONE INDIVIDUALE

Noi dobbiamo ora enumerare i diversi gradi dellamanifestazione di Atma, considerato come la personalità, inquanto questa manifestazione costituisce l’individualità umana;e possiamo ben dire che essa la costituisce effettivamente,poiché l’individualità non avrebbe esistenza se fosse separatadal suo principio, che è la personalità. Tuttavia, il nostro modod’esprimerci richiede una riserva: per la manifestazioned’Atma, intendiamo la manifestazione riferita ad Atma, come alsuo principio essenziale; ma non bisognerebbe perciò credereche Atma si manifesti in qualche modo, poiché mai entra nellamanifestazione, che non può condizionarlo. In altre parole,Atma è «Ciò per cui tutto è manifestato, senza che sia da nullamanifestato» [Kena Upanishad, 1° Khanda, shruti 5 a 9;l’intero passo sarà riprodotto in seguito]; per quel che seguemai bisognerà dimenticare quanto abbiamo detto. Ricorderemoancora che Atma e Purusha sono uno stesso ed unico principio,e che la manifestazione è prodotta da Prakriti, non da Purusha;ma, se il Sankhya rileva soprattutto questa manifestazionecome lo sviluppo o l’«attuazione» delle potenzialità di Prakriti,

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poiché il suo punto di vista è principalmente «cosmologico»,non propriamente metafisico, il Vedanta deve scorgervi altracosa, considerando Atma, che è fuori della modificazione e del«divenire», come il vero principio a cui tutto dev’essere infineriferito. Potremo dire che, a questo riguardo, v’è il punto divista della «sostanza» e quello dell’«essenza», ed è il primoche rappresenta l’aspetto «cosmologico», poiché è quello dellaNatura e del «divenire»; ma, d’altra parte, la metafisica non silimita all’«essenza», concepita correlativa della «sostanza», enemmeno all’Essere, nel quale questi due termini sonounificati; essa li supera entrambi, poiché s’estende anche aParamatma o Purushottama, il Supremo Brahma, perciò il suopunto di vista (per quanto quest’espressione possa ancorausarsi in tal caso) è veramente illimitato.

D’altra parte, quando parliamo dei differenti gradi dellamanifestazione individuale, facilmente si capisce che questigradi corrispondono a quelli della manifestazione universale,per l’analogia costitutiva del «macrocosmo» e del«microcosmo», alla quale più sopra alludevamo. Meglio ancorasi capirà se si rifletta che tutti gli esseri manifestati sonougualmente sottomessi alle condizioni generali che definisconogli stati d’esistenza nei quali essi sono posti; se, considerandoun essere qualunque, è impossibile isolarne realmente uno statodall’insieme degli altri stati fra i quali, ad un determinatolivello, gerarchicamente si colloca, similmente non si può, adun altro punto di vista, isolare questo stato da ciò cheappartiene, non più allo stesso essere, ma allo stesso gradodell’Esistenza universale; così tutto è collegato in più modi, sianella stessa manifestazione, sia in quanto questa, formando uninsieme unico nella sua molteplicità indefinita, si riattacca alsuo principio, vale a dire all’Essere, e quindi al PrincipioSupremo. La molteplicità esiste secondo il suo modo proprio,

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quando essa è possibile, ma siffatto modo è illusorio, abbiamogià avuto l’occasione di precisare in qual senso (quello di una«minore realtà»), perché l’esistenza stessa di questamolteplicità ha per base l’unità, da cui essa è prodotta e nellaquale è principialmente contenuta. Considerando in tal modol’insieme della manifestazione universale, diremo che, nellastessa molteplicità dei suoi gradi e dei suoi modi, «l’Esistenzaè unica», secondo una formula dell’esoterismo islamico; aquesto proposito, faremo notare una differenza importante fra«unicità» e «unità»: la prima comporta la molteplicità cometale, la seconda ne è il principio (non la «radice», nel senso incui questa parola è riferita solamente a Prakriti, ma in quantocontiene in sé tutte le possibilità di manifestazione, tanto«essenzialmente» quanto «sostanzialmente»). Dunque l’Essereè propriamente uno, ed è l’Unità stessa [È ciò che esprimeanche l’adagio scolastico: Esse et unum convertuntur], in sensometafisico d’altronde, non in senso matematico, poiché siamoormai di là dalla quantità: fra l’Unità metafisica e l’unitàmatematica, vi è analogia, non identità; parimenti, quando siparla della molteplicità della manifestazione universale, non sitratta nemmeno di una molteplicità quantitativa, poiché laquantità è solamente una condizione speciale di certi statimanifestati. Infine, se l’Essere è uno, il Principio Supremo è«senza dualità», come appresso vedremo: l’unità, infatti, è laprima di tutte le determinazioni, ma è già una determinazione,e, come tale, non potrebbe essere riferita propriamente alPrincipio Supremo.

Dopo queste indispensabili nozioni, ritorniamo allaconsiderazione dei gradi della manifestazione: è necessarioinnanzi tutto fare una distinzione, come già l’abbiamo veduto,fra la manifestazione informale e quella formale; ma, quando cilimitiamo all’individualità, si tratta sempre esclusivamente

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della seconda. Lo stato propriamente umano, parimenti cheogni altro stato individuale, appartiene interamente all’ordinedella manifestazione formale, poiché è precisamente lapresenza della forma, fra le condizioni d’un certo modod’esistenza, che lo caratterizza come individuale. Se dunqueconsideriamo un elemento informale, questo sarà perciò unelemento sopra-individuale, e, quanto ai suoi rapporti conl’individualità umana, dovrà essere rilevato, non perché lacostituisca o ne faccia parte ad un qualche titolo, ma perchécollega l’individualità alla personalità. Infatti quest’ultima ènon-manifestata, anche se è considerata più specialmente comeil principio degli stati manifestati, parimenti all’Essere, che,pur essendo propriamente il principio della manifestazioneuniversale, è al di fuori e di là da questa manifestazione(ricordiamo qui il «motore immobile» d’Aristotele); ma, d’altraparte, la manifestazione informale è ancora principiale, in unsenso relativo, in rapporto alla manifestazione formale; essastabilisce così un legame fra questa ed il suo principiosuperiore non-manifestato, che, del resto, è il principio comunea questi due ordini di manifestazione. Parimenti, se si distinguepoi, nella manifestazione formale od individuale, lo stato sottilee quello grossolano, il primo è, più relativamente ancora,principiale in rapporto al secondo, e, poi, si collocagerarchicamente fra quest’ultimo e la manifestazione in-formale. Si ha dunque, per una serie di principi di più in piùrelativi e determinati, un concatenamento contemporaneologico ed ontologico (d’altronde i due punti di vista sicorrispondono tanto che è impossibile separarli se nonartificialmente), che va dal non-manifestato alla manifestazionegrossolana, per l’intermediario della manifestazione informale,poi di quella sottile; questo è l’ordine generale che dev’essereseguito nello sviluppo delle possibilità di manifestazione, sia

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che si tratti del «macrocosmo» o del «microcosmo».Gli elementi di cui parleremo sono i tattwa enumerati dal

Sankhya, tranne s’intende il primo e l’ultimo, vale a direPrakriti e Purusha; come abbiamo visto, fra questi tattwa gliuni sono considerati «produzioni produttive», gli altri«produzioni improduttive». Una questione si presenta aproposito: questa divisione è equivalente a quella che abbiamoprecisato per i gradi della manifestazione, oppure lecorrisponde per lo meno in certo qual modo? Per esempio, se cilimitiamo al punto di vista dell’individualità, si potrebbe esseretentati di riferire i tattwa del primo gruppo allo stato sottile equelli del secondo allo stato grossolano, tanto più che, in uncerto senso, la manifestazione sottile è produttrice di quellagrossolana, mentre questa non è produttrice di nessun altrostato; ma le cose non vanno tanto semplicemente in realtà.Infatti, nel primo gruppo v’è soprattutto Buddhi, che èl’elemento informale al quale poc’anzi alludevamo; quanto aglialtri tattwa che vi si trovano congiunti, ahankara ed i tanmatra,essi appartengono infatti al dominio della manifestazionesottile. D’altra parte, nel secondo gruppo, i bhuta appartengonoincontestabilmente al dominio della manifestazione grossolana,poiché sono gli elementi corporei; ma il manas, non essendoaffatto corporeo, dev’essere riferito alla manifestazione sottile,per lo meno in se stesso, quantunque la sua attività si esercitianche in rapporto alla manifestazione grossolana; gli altriindriya hanno in qualche modo un aspetto duplice, potendoessere considerati nello stesso tempo come facoltà e come or-gani, dunque psichicamente e corporalmente, vale a dire allostato sottile ed a quello grossolano. Del resto, deve ben essereinteso che quanto è rilevato della manifestazione sottile, intutto ciò, non è altro propriamente se non quel che concerne lostato individuale umano, nelle sue modalità extra-corporee; e,

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quantunque queste siano superiori alla modalità corporea, inquanto ne contengono il principio immediato (nello stessotempo che il loro dominio si prolunga molto più oltre), tuttavia,se le si ricolloca nell’insieme dell’Esistenza universale, esseapparterranno ancora allo stesso grado di quest’Esistenza, nelquale è interamente compreso lo stato umano. La stessaosservazione si applica anche quando diciamo che lamanifestazione sottile è produttrice di quella grossolana:perché ciò sia rigorosamente esatto, bisogna apportarvi, perquanto riguarda la prima, quella restrizione che già abbiamoindicato, poiché lo stesso rapporto non può essere stabilito peraltri stati ugualmente individuali, ma non umani, edinteramente differenti per le loro condizioni (salvo la presenzadella forma), stati che tuttavia si è obbligati ad includere anchenella manifestazione sottile, quando l’individualità umana èpresa per termine di paragone, come è necessario inevi-tabilmente farlo, anche rendendosi conto che questo stato è inrealtà né più né meno d’un qualsiasi altro.

Un’ultima osservazione è ancora necessaria: allorché si parladell’ordine di sviluppo delle possibilità di manifestazione, odell’ordine nel quale debbono essere enumerati gli elementiche corrispondono alle differenti fasi di questo sviluppo,bisogna aver cura di precisare che un tale ordine non implicache una successione puramente logica, che traduce d’altrondeun collegamento ontologico reale, e che in nessun modopotrebbe parlarsi qui d’una successione temporale. Infatti, losviluppo nel tempo non corrisponde che ad una specialecondizione d’esistenza, che è una di quelle che definiscono ildominio nel quale è contenuto lo stato umano; e vi è una serieindefinita d’altri modi di sviluppo ugualmente possibili edugualmente compresi nella manifestazione universale.L’individualità umana non può dunque essere situata

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temporalmente in rapporto agli altri stati dell’essere, poichéessi, in modo generale, sono extra-temporali, e ciò anchequando si tratta di stati che ugualmente rilevano dellamanifestazione formale. Potremmo ancora aggiungere checerte estensioni dell’individualità umana, al di fuori della suamodalità corporea, già sfuggono al tempo, senza essere peròsottratte alle altre condizioni generali dello stato al qualeappartiene questa individualità, perciò esse si situanoveramente in semplici prolungamenti di questo stesso stato; edavremo senza dubbio l’occasione di spiegare, in altri studi, chetali prolungamenti possono precisamente essere raggiunti colsopprimere l’uno o l’altra delle condizioni il cui insiemecompleto definisce il mondo corporeo. Se così è, s’intendenaturalmente che non potrebbe, a più forte ragione, esserequestione di fare intervenire la condizione temporale in quelche non appartiene più allo stesso stato, né conseguentementenei rapporti dello stato umano integrale con altri stati; e, ancoraa più forte ragione, non lo si può fare quando si tratta di unprincipio comune a tutti gli stati di manifestazione, o di unelemento che, anche se già manifestato, è superiore ad ognimanifestazione formale, come quello che prenderemo in esamein primo luogo.

VII. BUDDHI O L’INTELLETTO SUPERIORE

Il primo grado della manifestazione d’Atma, usando questaparola nel senso già precisato nel capitolo precedente, èl’intelletto superiore (Buddhi), anche chiamato Mahat o il«grande principio»: è il secondo dei venticinque principi delSankhya, dunque la prima di tutte le produzioni di Prakriti.Questo principio è ancora d’ordine universale, poiché èinformale; tuttavia, non bisogna dimenticare che già appartiene

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alla manifestazione, perciò procede da Prakriti; infatti ognimanifestazione, in qualunque grado la si considera, presupponenecessariamente questi due termini correlativi ecomplementari, Purusha e Prakriti, l’«essenza» e la«sostanza». Non è men vero che Buddhi è in realtà di là daldominio, non soltanto dell’individualità umana, ma di ognistato individuale, qualunque esso sia; ciò giustifica il suo nomedi Mahat; essa non è dunque mai individualizzata in realtà, enon è che allo stadio seguente che noi troveremo l’individualitàeffettuata con la coscienza particolare (o meglio«particolarista») dell’«io».

Buddhi, considerata in rapporto all’individualità umana odagli altri stati individuali, ne è dunque il principio immediato,ma trascendente, come, al punto di vista dell’Esistenzauniversale, la manifestazione informale l’è per quella formale;essa è contemporaneamente ciò che si potrebbe chiamarel’espressione della personalità nella manifestazione, dunque ciòche unifica l’essere attraverso la molteplicità indefinita dei suoistati individuali (poiché lo stato umano, in tutta la sua esten-sione, è appena uno di questi stati). In altre parole, se siconsidera il «Sé» (Atma) o la personalità come il Sole spirituale[Per il senso che conviene dare a quest’espressione, rinviamoall’osservazione già fatta a proposito dello «SpiritoUniversale»] che brilla al centro dell’essere totale, Buddhi saràil raggio direttamente emanato da questo Sole ed illuminante,nella sua integralità, lo stato individuale che considereremo piùspecialmente; questo raggio ricollega al tempo stesso lo statoconsiderato agli altri stati individuali dello stesso essere, odanche, più generalmente, a tutti i suoi stati manifestati(individuali e non-individuali), e di la da essi al centro stesso. Èbene d’altronde notare, senza troppo insistervi, per attenerci alseguito della nostra esposizione, che, per l’unità fondamentale

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dell’essere in tutti i suoi stati, si deve considerare il centro diogni stato, nel quale si proietta questo raggio spirituale, comeidentificato virtualmente, se non effettivamente, col centrodell’essere totale; perciò qualunque stato, tanto l’umano quantogli altri, può essere la base per realizzare l’«Identità Suprema».È precisamente in questo senso ed in virtù di questa iden-tificazione che si può asserire, come l’abbiamo detto fin dalprimo momento, che Purusha stesso risiede al centrodell’individualità umana, vale a dire al punto dovel’intersezione del raggio spirituale con le possibilità vitalidetermina l’«anima vivente» (jivatma) [È evidente che quivogliamo parlare non d’un punto matematico, ma di ciò che sipotrebbe chiamare analogicamente un punto metafisico, senzatuttavia che una tale espressione debba evocare l’idea dellamonade leibnitziana, poiché jivatma non è che una mani-festazione particolare e contingente d’Atma: la sua esistenzaseparata è propriamente illusoria. Il simbolismo geometrico alquale ci riferiamo sarà d’altronde esposto in un altro studio congli sviluppi ai quali è suscettibile].

D’altra parte, Buddhi, come tutto ciò che proviene dallosviluppo delle potenzialità di Prakriti, partecipa dei tre guna;perciò, considerata nel rapporto della conoscenza distintiva(vjinana), essa è concepita come ternaria, e, nell’ordinedell’Esistenza universale, è allora identificata alla Trimurtidivina: «Mahat è concepito distintamente come tre Dii (nelsenso di tre aspetti della Luce intelligibile; tale è propriamenteil significato del vocabolo sanscrito Deva, di cui il nome «Dio»è etimologicamente d’altronde l’esatto equivalente) [Se sidesse al termine «Dio» il senso che ad esso è stato ulte-riormente attribuito nelle lingue occidentali, il plurale sarebbeun non-senso, sia dal punto di vista indù che da quellogiudaico-cristiano ed islamico, poiché questo termine, come

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precedentemente l’abbiamo spiegato, non potrebbe alloraapplicarsi che ad Ishwara esclusivamente, nella sua indivisibileunità, che è quella dell’Essere Universale, qual che sia lamolteplicità degli aspetti che vi si possono consideraresecondariamente], per l’influenza dei tre guna, poiché è unasola manifestazione (murti) in tre Dii. Nell’Universale, esso èla Divinità (Ishwara, non in sé, ma nei suoi tre aspettiprincipali di Brahma, Vishnu e Shiva, cioè la Trimurti o«triplice manifestazione»); ma, considerato distributivamente(nell’aspetto, d’altronde puramente contingente, della«separativita»), appartiene (senza peraltro essereindividualizzato) agli esseri individuali (ai quali comunica lapossibilità di partecipazione agli attributi divini, vale a dire allanatura stessa dell’Essere Universale, principio di ogniesistenza)» [Matsya-Purana. - Si noterà che Buddhi non èsenza relazione col Logos alessandrino]. È facile vedere cheBuddhi è qui rilevata in relazione rispettiva con i primi due deitre Purusha della Bhagavad-Gita: nell’ordine «macro-cosmico», infatti, quello che è designato «immutabile» èIshwara stesso, di cui la Trimurti ne è l’espressione in modomanifestato (si tratta della manifestazione informale, poiché inquesto caso niente v’è d’individuale); l’altro Purusha invece èdetto «ripartito fra tutti gli esseri». Ugualmente, nell’ordine«microcosmico», Buddhi può essere nello stesso tempoconsiderata in rapporto alla personalità (Atma) ed all’«animavivente» (jivatma), quest’ultima d’altronde non essendo che ilriflesso della personalità nello stato individuale umano, riflessoche non potrebbe esistere senza l’intermediario di Buddhi:ricordiamo a proposito il simbolo del sole e della sua immagineriflessa nell’acqua; Buddhi è, già l’abbiamo detto, il raggio chedetermina la formazione dell’immagine e che,contemporaneamente, la ricollega alla sorgente luminosa.

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È proprio in virtù del duplice rapporto indicato, e di questaparte d’intermediario fra la personalità e l’individualità, che sipuò considerare, malgrado tutto ciò che v’è di necessariamenteinadeguato in tali espressioni, l’intelletto come passante in uncerto senso dallo stato di potenza universale allo statoindividualizzato. D’altronde, l’intelletto non cessa perciòveramente di essere quello che era; la sua apparenteindividualizzazione non esiste che per il fatto della suaintersezione col dominio speciale di certe condizionid’esistenza, dalle quali è definita l’individualità considerata;esso produce allora, come risultante di questa intersezione, lacoscienza individuale (ahankara), implicita nell’«animavivente» (jivatma), alla quale è inerente. Questa coscienza, cheè il terzo principio del Sankhya, dà nascita alla nozionedell’«io» (aham, da dove proviene il nome d’ahankara,letteralmente, «ciò che fa l’io»), poiché ha per funzione propriadi prescrivere la convinzione individuale (abhimana), vale adire precisamente la nozione dell’«io sono» in rapporto aglioggetti esterni (bahya) ed interni (abhyantara), rispettivamenteoggetti di percezione (pratyaksha) e di contemplazione(dhyana); l’insieme di questi oggetti è designato con la parolaidam, «questo», quando è così concepito in opposizione conaham o l’«io», opposizione tutta relativa del resto e moltodifferente da quella che i filosofi moderni pretendono stabilirefra «soggetto» ed «oggetto», o fra lo «spirito» e le «cose». Cosìla coscienza individuale procede immediatamente, ma a titolodi semplice modalità «condizionale», dal principio intellettuale,e, a sua volta, produce gli altri principi od elementi specialidell’individualità umana, di cui ora ci occuperemo.

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VIII. MANAS O IL SENSO INTERNO; LE DIECI FACOLTÀESTERNE DI SENSAZIONE E D’AZIONE

Dopo la coscienza individuale (ahankara), l’enumerazionedei tattwa del Sankhya comporta, nello stesso gruppo delle«produzioni produttive», i cinque tanmatra, determinazionielementari sottili, dunque incorporee e non percettibiliesteriormente; i tanmatra sono, in modo diretto, i principirispettivi dei cinque bhuta od elementi corporei e sensibili, edhanno la loro definita espressione nelle condizioni stessedell’esistenza individuale al grado dove si colloca lo statoumano. La parola tanmatra significa letteralmenteun’«assegnazione» (matra, misura, determinazione) chedelimita l’estensione propria d’una certa qualità (tad o tat,pronome neutro «quello», nel senso di «quiddità», comel’arabo dhat) [Crediamo opportuno far notare che i termini tat edhat sono foneticamente identici fra loro, e lo sono anche conla parola inglese that, che ha lo stesso significato]nell’Esistenza universale; ma non è qui il luogo di svilupparepiù ampiamente questo punto. Diremo soltanto che i cinquetanmatra sono abitualmente designati con i nomi delle qualitàsensibili: auditiva o sonora (shabda), tangibile (sparsha),visibile (rupa, nel duplice significato di forma e di colore),sapida (rasa), olfattiva (gandha); ma siffatte qualità, poichésaranno effettivamente manifestate nell’ordine sensibilesoltanto dai bhuta, non possono essere qui considerate che allostato principiale e «non-sviluppato»; la relazione dei tanmatraai bhuta è analoga, nel suo grado relativo, a quella fral’«essenza» e la «sostanza», perciò i tanmatra potrebberogiustamente chiamarsi «essenze elementari» [In un senso moltovicino alla considerazione dei tanmatra, Fabre d’Olivet, nellasua interpretazione della Genesi (La Langue hebraïque

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restituée), usa l’espressione d’«elementizzazione intelligibile»].I cinque bhuta sono, nell’ordine della loro produzione o dellaloro manifestazione (che corrisponde a quello già indicato per itanmatra, poiché ad ogni elemento è propria una qualitàsensibile), l’Etere (Akasha), l’Aria (Vayu), il Fuoco (Tejas),l’Acqua (Ap) e la Terra (Prithvi o Prithivi); tutta lamanifestazione grossolana o corporea è appunto formata daquesti elementi.

Fra i tanmatra ed i bhuta, e costituendo con questi ultimi ilgruppo delle «produzioni improduttive», vi sono undici facoltàdistinte, propriamente individuali, che procedono d’ahankara,e che partecipano tutte contemporaneamente dei cinquetanmatra. Dieci di queste undici facoltà sono esterne: cinque disensazione ed altrettante d’azione; l’undecima, la cui naturapartecipa contemporaneamente di queste e di quelle, è il sensointerno o la facoltà mentale (manas), che è unita alla coscienza(ahankara) direttamente [Sulla produzione di questi lavoriprincipi, dal punto di vista «macrocosmico», cfr.Manava-Dharma-Shastra (Legge di Manu), 1° Adhyaya,shloka 14 a 20]. A questo manas deve essere riferito il pensieroindividuale, d’ordine formale (e vi includiamo tanto la ragionequanto la memoria e l’immaginazione) [Indubbiamente bisognaintendere in questo senso ciò che dice Aristotele: «l’uomo (inquanto individuo) mai pensa senza immagini», vale a diresenza forme], e per nulla inerente all’intelletto trascendente(Buddhi), le cui attribuzioni sono essenzialmente informali.Ugualmente per Aristotele, l’intelletto puro è d’ordinetrascendente ed ha per oggetto proprio la conoscenza deiprincipi universali; questa conoscenza, nient’affatto discorsiva,è ottenuta direttamente ed immediatamente dall’intuizioneintellettuale, la quale, aggiungiamo subito per evitareconfusioni, non ha alcun punto comune con la pretesa

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«intuizione», d’ordine unicamente sensitivo e vitale, così invoga nelle teorie nettamente antimetafisiche di certi filosoficontemporanei.

Sullo sviluppo delle differenti facoltà dell’uomo individuale,riprodurremo l’insegnamento dei Brahma-Sutra: «L’intelletto,il senso interno e le facoltà di sensazione e d’azione sonosviluppati (nella manifestazione) e riassorbiti (nelnon-manifestato) in un simile ordine (ma, per il riassorbimento,in senso inverso che per lo sviluppo) [Ricorderemo che non sitratta d’un ordine di successione temporale], ordine che èsempre quello degli elementi da cui procedono queste facoltàper la loro costituzione [Può trattarsi contemporaneamente deitanmatra e dei bhuta, secondo che gli indriya siano consideratiallo stato sottile o a quello grossolano, cioè come facoltà ocome organi] (tranne tuttavia l’intelletto, che è sviluppato,nell’ordine informale, precedentemente ad ogni principioformale o propriamente individuale). Riguardo a Purusha (oAtma), la sua emanazione (in quanto è considerato come lapersonalità d’un essere) non è una nascita (neanche nella piùvasta accezione della parola [Si può, infatti, chiamare «nascita»e «morte» il principio e la fine d’un ciclo qualunque, vale adire dell’esistenza in uno qualsiasi degli stati dimanifestazione, e non solamente in quello umano; comeappresso lo spiegheremo, il passaggio da uno stato ad un altro èallora contemporaneamente una morte ed una nascita, secondolo si considera in rapporto allo stato antecedente oconseguente] e tanto meno una produzione (che determini unpunto di partenza per la sua effettiva esistenza, come per tuttociò che proviene da Prakriti). Non può infatti essere ad essoattribuita alcuna limitazione (per qualche particolarecondizione d’esistenza), poiché, essendo identificato alSupremo Brahma, partecipa della Sua essenza infinita [La

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parola «essenza», quando si applica così analogicamente, non èpiù il correlativo di «sostanza»; d’altronde, ciò che ha un qua-lunque correlativo non può essere infinito. Parimenti, la parola«natura», riferita all’Essere Universale od anche di làdall’Essere, perde interamente il suo senso proprio edetimologico, con l’idea di «divenire» che vi si trova implicita](che implica il possesso degli attributi divini, per lo menovirtualmente, ed anche attualmente in quanto questapartecipazione è realizzata effettivamente nell’«IdentitàSuprema», senza parlare di tutto ciò che è di la da ogniattribuzione, poiché qui si tratta del Supremo Brahma, che ènirguna, non soltanto di Brahma saguna, vale a dired’Ishwara) [Il possesso degli attributi divini è chiamato insanscrito aishwarya, poiché è una vera «connaturalità» conIshwara]. Esso è attivo, ma solo principialmente (dunque«non-agente») [Aristotele ha avuto ragione d’insistere anche suquesto punto, che il primo motore delle cose (o il principio delmovimento) dev’essere immobile; ciò, in altre parole, significache il principio di ogni azione dev’essere «non-agente»],poiché questa attività (kartritwa) non gli è né essenziale néinerente, bensì eventuale e contingente (relativa solamente aisuoi stati di manifestazione). Come il carpentiere, che ha inmano l’ascia e gli altri suoi utensili, li mette poi da parte e godedella tranquillità e del riposo, così quest’Atma, nell’unione coni suoi strumenti (per cui le sue facoltà principiali sono espressee sviluppate in ogni suo stato di manifestazione, e che quindisono queste facoltà manifestate con i loro rispettivi organi), èattivo (quantunque questa attività non ne alteri l’intima natura),e, deponendoli, gode del riposo e della tranquillità (nel«non-agire», da cui, in se, non è mai uscito)» [Brahma-Sutra,2° Adhyaya, 3° Pada, sutra 15 a 17 e 33 a 40].

«Le diverse facoltà di sensazione e d’azione (designate con la

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parola prana in un’accezione secondaria) sono undici: cinquedi sensazione (buddhindrya o jnanendrya, mezzi o strumenti diconoscenza nel loro campo particolare), cinque d’azione(karmendriya), ed il senso interno (manas). Quando un numeropiù grande (tredici) è specificato, il vocabolo indriya è usatonel suo senso più ampio e comprensivo, distinguendo nelmanas, per la pluralità delle sue funzioni, l’intelletto (non in sée nell’ordine trascendente, ma come determinazione particolarein rapporto all’individuo), la coscienza individuale (akankara,da cui il manas non può essere separato), ed il senso internopropriamente detto (quello che i filosofi scolastici chiamano«sensorium commune»). Quando un numero più piccolo èmenzionato (ordinariamente sette), la stessa parola è usata inun’accezione più limitata: così è detto di sette organi sensitivi,relativi ai due occhi, ai due orecchi, alle due narici ed allabocca od alla lingua (perciò in questo caso, si tratta soltantodelle sette aperture od orifizi della testa). Le undici facoltàmenzionate (quantunque designate nel loro insieme con laparola prana) non sono (come i cinque vayu, di cui parleremo)semplici modificazioni del mukhya-prana o dell’atto vitaleprincipale (la respirazione, con l’assimilazione che ne risulta),ma invece principi distinti (al punto di vista speciale del-l’individualità umana)» [Brahma-Sutra, 2° Adhyaya, 4° Pada,sutra 1 a 7].

La parola prana, nella sua più abituale accezione, significapropriamente «soffio vitale»; ma, in certi testi vedici, ciò che ècosì designato è, in senso universale, identificato in principioallo stesso Brahma; infatti è detto che nel sonno profondo(sushupti) le facoltà sono riassorbite nel prana, poiché,«mentre un uomo dorme senza sognare, il suo principiospirituale (Atma, considerato in rapporto ad esso) è uno conBrahma» [Commento di Shankaracharya sui Brahma-Sutra, 3°

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Adhyaya, 2° Pada, sutra 7], questo stato essendo oltre ladistinzione, dunque veramente sopra-individuale; perciò laparola swapiti, «dorme», è interpretata con swam apito bhavati,«è entrato nel suo proprio («Sé»)» [Chhandogya Upanishad, 6°Prapathaka, 8° Khanda, shruti 1. - È inutile dire che si trattad’una interpretazione per i procedimenti del Nirukta, non diuna derivazione etimologica].

Il vocabolo indriya significa propriamente «potere», ciò che èanche il senso primo della parola «facoltà»; ma, per estensione,il suo significato, come già l’abbiamo indicato, implicacontemporaneamente la facoltà ed il suo organo corporeo, il cuiinsieme costituisce uno strumento sia di conoscenza (buddhi ojnana, queste parole sono qui prese nella loro più vastaaccezione), sia d’azione (karma), e che sono così designate dauno stesso ed un unico vocabolo. I cinque strumenti di sensa-zione sono: gli orecchi o l’udito (shrotra), la pelle o il tatto(twach), gli occhi o la vista (cakshus), la lingua od il gusto(rasana), il naso o l’odorato (ghrana), essendo così enumeratinell’ordine dello sviluppo dei sensi, vale a dire quello deglielementi (bhuta) corrispondenti; ma, per esporredettagliatamente questa corrispondenza, bisognerebbespecificare completamente le condizioni dell’esistenzacorporea, ciò che non possiamo fare a questo proposito. Icinque strumenti d’azione sono: gli organi di escrezione (payu),gli organi generatori (upastha), le mani (pani), i piedi (pada), efinalmente la voce o l’organo della parola (vach) [Il terminevach è identico al latino vox], che è enumerato decimo. Ilmanas dev’essere considerato l’undecimo, poiché implica perla sua propria natura la duplice funzione, serve cioè allasensazione ed all’azione, e poi, partecipa alle proprietà degliuni e degli altri strumenti, che centralizza in certo modo in sestesso [Manava-Dharma-Shastra, 2° Adhyaya, shloka 89 a

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92].Per il Sankhya, queste facoltà, con i loro organi rispettivi,

sono, distinguendo tre princìpi nel manas, i tredici strumentidella conoscenza nel dominio dell’individualità umana (poichél’azione non ha il suo fine in se stessa, ma solo in relazione conla conoscenza): tre interni e dieci esterni, paragonati a tresentinelle ed a dieci porte (il carattere cosciente essendoinerente ai primi, non ai secondi, se consideratidistintivamente). Un senso corporeo percepisce, ed un organod’azione esegue (l’uno è in certo senso una «entrata», l’altrouna «uscita»: sono due fasi successive e complementari, di cuila prima e un movimento centripeto e la seconda centrifugo);fra i due, il senso interno (manas) esamina; la coscienza(ahankara) compie il riferimento individuale, vale a direl’assimilazione della percezione all’«io», di cui essa ormai faparte a titolo di modificazione secondaria; e, finalmente,l’intelletto puro (Buddhi) traspone nell’Universale i dati dellefacoltà precedenti.

IX.GLI INVOLUCRI DEL «SÉ»;I CINQUE VAYU O FUNZIONI VITALI

Purusha o Atma, manifestandosi come jivatma nella formavivente dell’essere individuale, secondo il Vedanta, si rivestecon una serie d’«involucri» (kosha) o «veicoli» successivi, cherappresentano altrettante fasi della sua manifestazione; sarebbeperò completamente erroneo assimilare a «corpi» questiinvolucri, perché l’ultima fase soltanto è d’ordine corporeo.Del resto, non si può rigorosamente affermare che Atma sia inrealtà contenuto in questi involucri, perché, per la sua proprianatura, non è suscettibile di alcuna limitazione, né può esserecondizionato da qualche stato di manifestazione [Nella

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Taittiriya Upanishad, 2° Valli, 8° Anuvaka, shruti 1, e 3° Valli,10° Anuvaka, shruti 5, le designazioni dei diversi involucrisono direttamente riferite al «Sé», secondo lo si consideri inrapporto a tale o talaltro stato di manifestazione].

Il primo involucro (anandamaya-kosha, la particella mayasignifica «che è fatto di» o «che consiste in» ciò che specifica ilvocabolo al quale è unita) è l’insieme di tutte le possibilità dimanifestazione che Atma comporta in sé, nella sua«permanente attualità», allo stato principiale ed indifferenziato.Si dice «fatto di Beatitudine» (Ananda), poiché il «Sé», inquesto stato primordiale, gode della pienezza del suo proprioessere, e non è affatto veramente distinto dal «Sé»; esso è supe-riore all’esistenza condizionata, che lo presuppone, ed è algrado dell’Essere puro: perciò è ritenuto come caratteristicad’Ishwara [Mentre le altre designazioni (quelle dei quattroinvolucri seguenti) possono essere considerate comecaratterizzanti jivatma, quella d’anandamaya conviene, nonsolamente ad Ishwara, ma, per trasposizione, anche aParamatma od al Supremo Brahma; perciò è detto nellaTaittiriya Upanishad, 2° Valli, 5° Anuvaka, shruti 1: «L’altroSé interiore (anyo’ntara Atma), che consiste in Beatitudine(anandamaya), è differente da quello che consiste inconoscenza distintiva (vijnanamaya)». - Cfr. Brahma-Sutra, 1°Adhyaya, 1° Pada, sutra 12 a 19]. Siamo qui dunquenell’ordine informale; è solamente quando lo si considera inrapporto alla manifestazione formale, ed in quanto il principiodi questa vi si trova contenuto, che si può dire che è la formaprincipiale o causale (karana-sharira), ciò per cui la formasarà manifestata ed attualizzata agli stadi seguenti.

Il secondo involucro (vijnanamaya-kosha) è formato dallaLuce (nel senso intelligibile), direttamente riflessa, dellaConoscenza integrale ed universale (jnana, la particella vi

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implicando il modo distintivo) [La parola sanscrita jnana èidentica al greco per la radice, che, d’altronde, è anchequella del vocabolo «conoscenza» (da co-gnoscere), e cheesprime un’idea di «produzione» o di «generazione», poichél’esame «diviene» ciò che conosce e si realizza appunto perquesta conoscenza]; esso è altresì composto delle cinque«essenze elementari» (tanmatra), «concepibili», ma non«percettibili», nel loro stato sottile; e consiste nellacongiunzione dell’intelletto superiore (Buddhi) alle facoltàprincipiali di percezione che procedono rispettivamente daicinque tanmatra, ed il cui sviluppo esteriore costituirà i cinquesensi nell’individualità corporea [Il vocabolo sharira s’applicapropriamente a partire da questo secondo involucro, soprattuttose si dà a questa parola, interpretata per i metodi del Nirukta, ilsenso di «dipendente dai sei (principi)», vale a dire da Buddhi(o d’ahankara, che direttamente ne deriva e che è il primoprincipio d’ordine individuale) e dai cinque tanmatra(Manava-Dharma-Shastra, 1° Adhyiya, shloka 17)]. Il terzoinvolucro (manomaya-kosha), nel quale il senso interno(manas) è unito con il precedente involucro, implicaspecialmente la coscienza mentale [Con questa espressionevogliamo intendere qualche cosa di più, quantodeterminazione, della coscienza individuale pura e semplice: sipotrebbe dire che è la risultante dell’unione del manas conahankara] o facoltà pensante, che, come precedentementeabbiamo detto, è d’ordine esclusivamente individuale eformale, ed il cui sviluppo procede dall’irradiazione in modoriflesso dell’intelletto superiore in uno stato individualedeterminato, che è qui lo stato umano. Il quarto involucro(pranamaya-kosha) comprende le facoltà che procedono dal«soffio vitale» (prana), cioè i cinque vayu (modalità di questoprana), nonché le facoltà d’azione e di sensazione (queste

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ultime già esistevano principialmente nei due precedenti invo-lucri, come facoltà puramente «concettive», quando, d’altraparte, non poteva essere affatto questione di alcuna specied’azione, e nemmeno di percezione esteriore). L’insieme diquesti tre involucri (vijnanamaya, manomaya e pranamaya)costituisce la forma sottile (sukshma-sharira o linga-sharira),in opposizione a quella grossolana o corporea (sthula-sharira);ritroviamo qui dunque la distinzione dei due modi dimanifestazione formale, di cui già più volte abbiamo parlato.

Le cinque funzioni od azioni vitali sono chiamate vayu,quantunque non siano propriamente l’aria od il vento (che è ilsenso generale della parola vayu o vata, dalla radice verbale va,andare, muoversi, che abitualmente designa l’elemento aria, dicui la mobilità è una proprietà caratteristica) [Ci riferiremo, aquesto proposito, a quello che abbiamo detto in una precedentenota in merito alle differenti applicazioni della parola ebraicaRuahh, che corrisponde abbastanza esattamente al sanscritoVayu], tanto più che si riferiscono allo stato sottile, non a quellocorporeo; ma, come dicemmo, esse sono modalità del «soffiovitale» (prana, o più generalmente ana) [La radice an siritrova, con lo stesso senso, nel greco «soffio» o«vento», e nel latino anima, il cui senso proprio e primitivo èesattamente quello di «soffio vitale»], rilevato principalmentein rapporto alla respirazione. Queste funzioni sono: 1° l’a-spirazione, vale a dire la respirazione ascendente nella sua faseiniziale (prana, nel senso più stretto della parola), che attira glielementi non ancora individualizzati dell’ambiente cosmico,per farli partecipare, per assimilazione, alla coscienzaindividuale; 2° l’ispirazione discendente in una fase successiva(apana), per la quale questi elementi penetranonell’individualità; 3° una fase intermediaria fra le dueprecedenti (vyana), che, da una parte, consiste nell’insieme

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delle azioni e reazioni reciproche, prodotte dal contatto fral’individuo e gli elementi ambienti, e, d’altra parte, nei diversimovimenti vitali che ne risultano, la cui corrispondenzanell’organismo corporeo è la circolazione sanguigna; 4° laespirazione (udana), che proietta il soffio, e lo trasforma, di làdai limiti dell’individualità ristretta (cioè ridotta alle solemodalità che sono comunemente sviluppate per tutti gliuomini), nel campo delle possibilità dell’individualità estesa,considerata nella sua integralità [La parola «espirare» significacontemporaneamente «ricacciare il soffio» (nella respirazione)e «morire» (quanto alla parte corporea dell’individualitàumana); questi due sensi sono entrambi in rapporto conl’udana di cui si tratta]; 5° la digestione, o l’assimilazionesostanziale intima (samana), per la quale gli elementi assorbitidivengono parte integrante dell’individualità [Brahma-Sutra,2° Adhyaya, 4° Pada, sutra 8 a 13. - Chhandogya Upanishad,5° Prapathaka, 19° a 23° Khanda; Maitri Upanishad 2°Prapathaka, shruti 6]. È nettamente specificato che non si trattad’una semplice operazione d’uno o più organi corporei; ciòinfatti non dev’essere considerato solamente per le funzionifisiologiche analogicamente corrispondenti, ma anche perl’assimilazione vitale nel suo più vasto senso.

La forma corporea o grossolana (sthula-sharira) è il quintoed ultimo involucro, quello che corrisponde, per lo statoumano, al modo di manifestazione più esteriore; è l’involucroalimentare (annamaya-kosha), composto dei cinque elementisensibili (bhuta), a cominciare dai quali sono costituiti tutti icorpi. Esso si assimila gli elementi composti che ha ricevutodal cibo (anna, parola derivata dalla radice verbale ad,mangiare) [Questa radice è quella del latino edere, ed anche,quantunque in una forma più alterata, dell’inglese eat e deltedesco essen], secernendo le parti più fini, che stanno nella

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circolazione organica, ed escretando o rigettando le piùgrossolane, tranne tuttavia quelle deposte nelle ossa. Comerisultato di questa assimilazione, le sostanze terree diventano lacarne, quelle acquee il sangue, quelle ignee il grasso, il midolloed il sistema nervoso (materia fosforica); poiché vi sonosostanze corporee nelle quali la natura di taluno o talaltroelemento predomina, quantunque tutte siano formatedall’unione dei cinque elementi [Brahma-Sutra, 2° Adhyaya,4° Pada, sutra 21. - Cfr. Chhandogya Upanishad, 6°Prapathaka, 5° Khanda, shruti 1 a 3].

Qualunque essere organizzato, che sta in una siffatta formacorporea, possiede, ad un grado di sviluppo più o menocompleto, le undici facoltà individuali di cui abbiamoprecedentemente parlato; come già ugualmente l’abbiamodetto, queste facoltà sono manifestate nella forma dell’esseredagli undici organi corrispondenti (avayava, designazione cheè del resto riferita anche allo stato sottile, ma soltanto peranalogia con quello grossolano). Per Shankaracarya[Commento sui Brahma-Sutra, 3° Adhyaya, 1° Pada, sutra 10 e21. - Cfr. Chhandogya Upanishad, 6° Prapathaka, 3° Khanda,shruti 1; Aitareya Upanishad, 5° Khanda, shruti 3.Quest’ultimo testo, oltre le tre classi d’esseri viventi enumeratenegli altri, ne menziona una quarta: gli esseri nati dal caloreumido (swedaja); ma questa classe può essere riferita a quelladei germinipari], si distinguono tre classi d’esseri organizzati,secondo il loro modo di riproduzione: 1° i vivipari (jivaja oyonija, od ancora jarayuja), cioè l’uomo ed i mammiferi; 2° gliovipari (andaia), cioè gli uccelli, i rettili, i pesci, gl’insetti; 3° igerminipari (udbhijja), che comprendono contemporaneamentegli animali inferiori ed i vegetali, i primi, mobili, che nasconoprincipalmente nell’acqua, mentre i secondi, che sono fissi,nascono abitualmente dalla terra; tuttavia, secondo certi passi

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dei Veda, il cibo (anna), cioè il vegetale (oshadhi), procedeanche dall’acqua, poiché è la pioggia (varsha) che fertilizza laterra [Specialmente vedi Chhandogya Upanishad, 1°Prapathaka, 1° Khanda, shruti 2: «i vegetali sono l’essenza(rasa) dell’acqua»; 3° Prapathaka, 6° Khanda, shruti 2, e 7°Prapathaka, 4° Kanda, shruti 2: anna proviene o procede davarsha. - La parola rasa letteralmente significa «linfa», e, comegià dicemmo, significa anche «gusto» o «sapore»; del resto, infrancese ugualmente, le parole sève, «linfa», e saveur,«sapore», hanno una stessa radice (sap), che è nello stessotempo quella di savoir, «sapere», per l’analogia che esiste fral’assimilazione nutritiva nell’ordine corporeo e quella cognitivanell’ordine intellettuale e mentale. - È d’uopo significare che laparola anna designa qualche volta l’elemento terra, l’ultimonell’ordine dello sviluppo, e che deriva anche dall’elementoacqua, che immediatamente lo precede (ChhandogyaUpanishad, 6° Prapathaka, 2° Khanda, shruti 4)].

X. UNITÀ ED IDENTITÀ ESSENZIALI DEL «SÉ»IN TUTTI GLI STATI DELL’ESSERE

Crediamo qui opportuno insistere su un punto essenziale: tuttii principi o gli elementi di cui abbiamo parlato, che sonodescritti come distinti, e che effettivamente lo sono dal punto divista individuale, ma tuttavia esclusivamente a questo punto divista, costituiscono realmente altrettante modalità manifestatedello «Spirito Universale» (Atma). In altre parole, quantunqueaccidentali e contingenti in quanto manifestati, essi sonol’espressione di alcune essenziali possibilità d’Atma (quelleche, per la loro natura, sono possibilità di manifestazione);queste possibilità, in principio e nella loro profonda realtà, nonsi distinguono affatto da Atma. Perciò le si deve considerare,

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nell’Universale (e non più in rapporto agli esseri individuali),come veramente Brahma stesso, che è «senza dualità», e fuoridel quale niente vi è, né manifestato né non-manifestato[Mohyiddin ibn Arabi, nel suo Trattato dell’Unità (Risalatul-Ahadiyah), dice nello stesso senso: «Allah - che sia esaltato -non ha simili né rivali ed è libero da ogni contrario odopposto». Ancora a questo riguardo vi è una perfettaconcordanza fra il Vedanta e l’esoterismo islamico]. D’al-tronde, quel che ha qualche cosa fuori di sé non può essereinfinito, poiché è proprio limitato da ciò che gli è esteriore;perciò il Mondo, intendendo con questa parola l’insieme dellamanifestazione universale, non può distinguersi da Brahma chein modo illusorio, mentre Brahma, invece, è assolutamente«distinto da quello che penetra» [Vedi il testo del trattato dellaConoscenza del Sé (Atma-Bodha) di Shankaracharya, che saràcitato più avanti], vale a dire dal Mondo, perché non Gli sipossono attribuire le qualifiche determinative che a questoconvengono, ed anche perché l’intera manifestazioneuniversale è rigorosamente nulla di fronte alla Sua Infinità.Altrove abbiamo notato che questa irreciprocità di relazioneimplica la condanna formale tanto del «panteismo» che diqualsiasi «immanentismo»; ciò è anche affermato moltonettamente nella Bhagavad-Gita in questi termini: «Tutti gliesseri sono in me, mentre io non sono in essi... La mia Essenza,che sostiene tutti gli esseri, i quali esistono soltanto per essa,non è negli esseri» [Bhagavad-Gita, IX, 4 e 5]. Si potrebbeancora dire che Brahma è il Tutto assoluto, appunto perché èinfinito; ma, d’altra parte, se le cose sono in Brahma, non sonoBrahma, se considerate nel loro aspetto distintivo, appuntoprecisamente perché cose relative e condizionate; la loroesistenza d’altronde è pura illusione per la realtà suprema; ciòche è detto per le cose e non potrebbe convenire a Brahma, non

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è che l’espressione della relatività, e, giacché questa è illusoria,la distinzione lo è ugualmente, poiché l’uno dei suoi terminis’annulla dinnanzi all’altro; infatti niente può entrare incorrelazione con l’Infinito; le cose sono Brahma solamente inprincipio, ma e proprio questa la loro realtà profonda; è benericordare quanto abbiamo detto se si vuol meglio comprendereciò che seguirà [Citeremo un testo taoista nel quale si trovanoespresse le stesse idee: «Non domandate se il Principio è inquesto od in quello; Esso è in ogni essere. Perciò Gli si dànnogli epiteti di grande, supremo, intero, universale, totale... Coluiper il quale gli esseri sono esseri, non è sottomesso alle stesseleggi degli esseri. Colui per il quale gli esseri sono limitati, èillimitato, infinito... Quanto alla manifestazione, il Principioproduce la successione delle sue fasi, ma non è questa suc-cessione (né vi è implicato). Esso è l’autore delle cause e deglieffetti (la causa prima), ma non è le cause e gli effetti(particolari e manifestati). Esso è l’autore delle condensazioni edelle dissipazioni (nascite e morti, cambiamenti di stato), manon è condensazione o dissipazione. Tutto da Esso procede e simodifica per e sotto la Sua influenza. È in tutti gli esseri, perun termine di norma, ma non è identico agli esseri, non essendoné differenziato, né limitato» (Tchoang-tseu, cap. XXII; trad.del P. Wieger, pp. 395-397)].

«Alcuna distinzione (che verta su modificazioni contingenti,come la distinzione dell’agente, dell’azione e dello scopo o delrisultato di questa) può alterare l’unità e l’identità essenziale diBrahma come causa (karana) ed effetto (karya) [Brahma èkarana in quanto è nirguna, ed è karya in quanto è saguna; ilprimo è il «Supremo» o Para-Brahma, il secondo è il«Non-Supremo» o Apara-Brahma (che è Ishwara); ma nonrisulta affatto che Brahma cessi in qualche modo di essere«senza dualità» (adwaita), poiché lo stesso «Non-Supremo» è

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illusorio se è distinto dal «Supremo», come l’effetto non èniente che sia veramente ed essenzialmente differente dalla suacausa. Notiamo che mai bisogna tradurre Para-Brahma edApara-Brahma per «Brahma superiore» e «Brahma inferiore»,poiché queste espressioni suppongono un paragone o unacorrelazione che non potrebbe affatto trovarsi]. Il mare è lostesso delle sue acque e non ne è differente (in natura),quantunque le onde, gli spruzzi, la schiuma, le gocce, e le altremodificazioni accidentali, che queste acque subiscono, esistanoseparatamente od unitamente come differenti le une dalle altre(se considerate particolarmente, sia nell’aspetto dellasuccessione od in quello della simultaneità, ma senza che laloro natura cessi d’essere la stessa) [Questo paragone col maree le sue acque mostra che Brahma è qui considerato come laPossibilità Universale, che è la totalità assoluta delle possibilitàparticolari]. Un effetto non è altro (in essenza) che la sua causa(ma questa è invece più dell’effetto); Brahma è uno (in quantoEssere) e senza dualità (in quanto Principio Supremo); Séstesso, Egli non è affatto separato (per alcuna limitazione) dalleSue modificazioni (sia formali che informali); Egli è Atma (intutti gli stati possibili), ed Atma (in sé, allo statoincondizionato) è Lui (e non altro che Lui) [È la formula stessadell’«Identità Suprema», espressa nel modo più netto che siapossibile]. Una stessa terra offre diamanti ed altri mineralipreziosi, rocce di cristallo e pietre volgari e senza valore; unostesso suolo produce una diversità di piante, di grande varietà enelle foglie e nei fiori e nelle frutta; lo stesso cibo è convertitonell’organismo in sangue, in carne, in varie escrescenze come icapelli e le unghie. Parimenti che il latte si cambiaspontaneamente in cagliato e l’acqua in ghiaccio (senza chequesto passaggio da uno stato ad un altro implichi uncambiamento di natura), così Brahma Si modifica

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diversamente (nella molteplicità indefinita della manifestazioneuniversale), senza bisogno di strumenti o mezzi esteriori diqualsiasi specie (e senza che la Sua identità ed unità ne siaalterata, dunque senza che si possa affermare che Egli siarealmente modificato, quantunque le cose esistano effet-tivamente solo quali Sue modificazioni) [Non bisognadimenticare, per risolvere quest’apparente difficoltà, che quisiamo oltre la distinzione di Purusha e Prakriti, e che entrambi,essendo già unificati nell’Essere, sono a più forte ragionecompresi nel Supremo Brahma; perciò, se così è permessod’esprimerci, essi sono due aspetti complementari delPrincipio, ma solo d’altronde in rapporto alla nostraconcezione: in quanto Egli Si modifica, è l’aspetto analogo diPrakriti; in quanto tuttavia non è modificato, è l’aspettoanalogo di Purusha; e si noterà che quest’ultimo risponde piùprofondamente e più adeguatamente dell’altro alla realtàsuprema nella sua immutabilità. Perciò Brahma stesso èPurushottama, mentre Prakriti rappresenta soltanto, inrapporto alla manifestazione, la Sua Shakti, vale a dire la Sua«Volontà produttrice», che è propriamente l’«onnipotenza»(attività «non-agente» quanto al Principio, che diventa passivitàquanto alla manifestazione). Conviene aggiungere che, se cosìsi traspone la concezione di là dall’Essere, non si tratta piùdell’«essenza» e della «sostanza», ma invece dell’Infinito edella Possibilità, come indubbiamente lo spiegheremo inun’altra occasione; la tradizione estremo-orientale chiama ciòla «perfezione attiva» (Khien) e la «perfezione passiva»(Khouen), che coincidono d’altronde nella Perfezione in sensoassoluto]. Così il ragno tesse la tela con la propria sostanza, gliesseri sottili assumono forme diverse (non corporee), ed il lotocresce senza organi di locomozione da palude a palude. CheBrahma sia indivisibile e senza parti (come Egli lo è), non è

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un’obiezione (a questa concezione della molteplicità universalenella Sua unità, o piuttosto nella Sua «non-dualità»); non è laSua totalità (eternamente immutabile) che è modificata dalleapparenze del Mondo (né qualcuna delle Sue parti, poiché nonne ha, ma Lui stesso rilevato nell’aspetto speciale delladistinzione o della differenziazione, vale a dire come saguna osavishesha; ed Egli può essere così considerato perché com-porta in Sé tutte le possibilità, senza che queste siano affattoparti di Lui stesso) [Anche per l’esoterismo islamico, l’Unità,considerata in quanto contiene tutti gli aspetti della Divinità(Asrar rabbanyah o «misteri domenicali»), «è dell’Assoluto lasuperficie riverberante ad innumerevoli facce, che magnificaogni creatura che vi si specchi direttamente». Questa superficieè ugualmente Maya considerata nel suo senso più elevato,come la Shakti di Brahma, vale a dire l’«onnipotenza» delPrincipio Supremo. - Ancora e parimenti nella Qabbalahebraica, Kether (la prima delle dieci Sephiroth) è la «veste» diAin-Soph (l’Infinito o l’Assoluto)]. Diversi cambiamenti (dicondizioni e di modi d’esistenza) sono offerti alla stessa anima(individuale) che sogna (e percepisce in questo stato gli oggettiinterni, vale a dire quelli del dominio della manifestazionesottile) [Le modificazioni che si producono nel sognoforniscono una delle più importanti analogie per aiutare acomprendere la molteplicità degli stati dell’essere; avremodunque a riparlarne, se, come ne abbiamo l’intenzione,esporremo un giorno più completamente questa dottrinametafisica]; diverse forme illusorie (che corrispondono a variemodalità della manifestazione formale, differenti da quellacorporea) sono rivestite dallo stesso essere sottile senza affattoalterarne l’unità (una siffatta forma illusoria, mayavi-rupa,essendo considerata come puramente accidentale e non propriadell’essere che se ne riveste, che perciò deve considerarsi

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inalterato da questa modificazione puramente apparente) [Suquesto punto vi sarebbe un paragone interessante con ciò che iteologi cattolici, e specialmente san Tommaso d’Aquino, inse-gnano in merito alle forme di cui possono rivestirsi gli angeli;la rassomiglianza è altrettanto più notevole in quanto i punti divista sono necessariamente molto differenti. Ricorderemo delresto, a questo proposito, come già abbiamo avuto occasione disignificarlo altrove, che quasi tutto ciò che è dettoteologicamente degli angeli può essere anche dettometafisicamente degli stati superiori dell’essere]. Brahma èonnipotente (poiché contiene tutto in principio), proprio adogni atto (quantunque «non-agente», o appunto per questo);Egli è senza qualunque organo o strumento d’azione; perciònon si deve attribuire alla determinazione dell’Universo unmotivo od uno scopo speciale (quale quello d’un attoindividuale), diverso dalla Sua volontà (che non è affattodistinta dalla Sua onnipotenza) [È la Sua Shakti, di cui abbiamoparlato nelle precedenti note, ed è anche Lui stesso in quantoPossibilità Universale; d’altronde, in sé, la Shakti non puòessere che un aspetto del Principio, e, se la si distingue perconsiderarla «separativamente», non è più che la «GrandeIllusione» (Maha-Moha), vale a dire Maya nel suo significatoinferiore ed esclusivamente cosmico]. Non Gli si può nem-meno imputare (come ad una particolare causa) alcunadifferenziazione accidentale, poiché gli esseri individuali simodificano (sviluppando le loro possibilità) conformementealla propria natura [È l’idea stessa del Dharma, come«conformità alla natura essenziale degli esseri», riferitaall’ordine totale dell’Esistenza universale]; così la nuvoladistribuisce la pioggia imparzialmente (senza riguardo per glispeciali risultati che avverranno per circostanze secondarie), equesta stessa pioggia fecondante fa crescere diversamente semi

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differenti, producendo una varietà di piante, secondo la lorospecie (in ragione delle differenti potenzialità rispettivamenteproprie a questi semi) [«O Principio! Tu che dai ad ogni essereciò che gli conviene, mai hai preteso d’essere chiamato equo.Tu i cui benefici si distendono a tutti i tempi, mai hai pretesod’essere chiamato caritatevole. Tu che fosti prima dell’origine,non pretendi d’essere chiamato venerabile. Tu che avvolgi esostieni l’Universo, producendo tutte le forme, non pretendid’essere chiamato abile; è in Te che io mi muovo»(Tchoang-tseu, cap. VI; trad. del P. Wieger, p. 261). - «DelPrincipio si può dire soltanto che Esso è l’origine di tutto, e chetutto influenza restando indifferente» (id., cap. XXII; ibid., p.391). - «Il Principio, indifferente, imparziale, lascia che tutte lecose seguano il loro corso, senza influenzarle. Esso nonpretende a nessun titolo (qualificazioni od attribuzioni chesiano). Non agisce; non agendo, niente vi è che Esso nonfaccia» (id., cap. XXV; ibid., p. 437)]. Ogni attributo d’unacausa prima è (in principio) in Brahma, che (in Se stesso) ètuttavia libero da ogni qualità (distinta)» [Brama-Sutra, 2°Adhyaya, 1° Pada, sutra 13 a 37. - Cfr. Bhagavad-Gita, IX, 4 e8: «Io, sprovvisto di ogni forma sensibile, ho sviluppatoquest’Universo... Immutabile nella mia potenza produttrice (laShakti, che è qui chiamata Prakriti, poiché è considerata in rap-porto alla manifestazione), produco e riproduco (in tutti i cicli)la moltitudine degli esseri, senza scopo determinato, e per lasola virtù di questa potenza produttrice»].

«Ciò che fu, è, sarà, tutto è veramente Omkara (l’Universoprincipialmente identificato a Brahma, e simbolizzato, cometale, dal monosillabo sacro Om); ed è veramente Omkara anchetutto ciò che non è sottomesso al triplice tempo (trikala, vale adire la condizione temporale nelle sue tre modalità di passato,presente e futuro). Sicuramente, quest’Atma (di cui tutte le cose

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non sono che la manifestazione) è Brahma; e quest’Atma (inrapporto ai diversi stati dell’essere) ha quattro condizioni(pada, che letteralmente significa «piedi»). Tutto questo, inverità, è Brahma» [Mandukya Upanishad, shruti 1 e 2].

«Tutto questo» deve intendersi, come d’altronde lo mostrachiaramente il seguito di quest’ultimo testo, che appressoesporremo, delle differenti modalità dell’essere individuale,considerato nella sua integralità, nonché degli statinon-individuali dell’essere totale. Tuttavia, prima diconsiderare più particolarmente questi diversi stati, che sonoqui designati come le condizioni d’Atma (quantunquequest’Atma in sé sia veramente incondizionato e mai cesseràd’esserlo), dobbiamo ancora studiare la formazionedell’individualità umana da un punto di vista alquantodifferente da quello che abbiamo esposto finora.

XI.LE DIFFERENTI CONDIZIONI D’ATMANELL’ESSERE UMANO

Dopo la precedente digressione, che era necessaria per farconoscere tutti gli aspetti della questione, possiamo cominciarelo studio delle differenti condizioni dell’essere individuale,residente nella forma vivente, che, come più sopra l’abbiamospiegato, comprende, da una parte, la forma sottile(sukshma-sharira o linga-sharira), e, dall’altra, quellagrossolana o corporea (sthula-sharira). Quando parliamo diqueste condizioni, non intendiamo affatto la condizionespeciale che, secondo quanto dicemmo, è propria ad ogniindividuo e lo distingue dagli altri, né l’insieme dellecondizioni limitative che definisce ciascuno stato d’esistenza,considerato in particolare; si tratta invece, esclusivamente, deidiversi stati o, se si preferisce, delle diverse modalità di cui è

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suscettibile, in un modo completamente generale, uno stessoessere individuale, qualunque esso sia. Queste modalitàpossono sempre, nel loro insieme, riferirsi allo stato grossolanoed a quello sottile, il primo limitandosi alla sola modalitàcorporea, ed il secondo comprendendo il restodell’individualità (non è questione degli altri stati individuali,poiché è specialmente rilevato lo stato umano). Ciò che è oltrequesti due stati non appartiene più all’individuo come tale:alludiamo a ciò che si potrebbe chiamare lo stato «causale»,vale a dire quello che corrisponde al karana-sharira, e che, perconseguenza, è d’ordine universale ed informale. Con questostato «causale», d’altronde, se non siamo più nell’esistenzaindividuale, siamo ancora nel dominio dell’Essere; bisognadunque considerare altresì, di là dall’Essere, un quarto statoprincipiale, assolutamente incondizionato. Metafisicamente,tutti questi stati, anche quelli che propriamente appartengonoall’individuo, sono riferiti ad Atma, vale a dire alla personalità,perché questa sola costituisce la realtà profonda dell’essere, edanche perché ogni stato di quest’essere sarebbe puramenteillusorio se si pretendesse separarlo dalla personalità. Gli statidell’essere, qualunque siano, rappresentano le possibilitàd’Atma e non altro; perciò si può parlare delle diversecondizioni nelle quali è l’essere, come veramente dellecondizioni stesse d’Atma; è bene però intendere che Atma, insé, non ne è affatto pregiudicato, né cessa nemmeno d’essereincondizionato, nello stesso modo che mai diviene manifestato,anche se é il principio essenziale e trascendente dellamanifestazione in tutti i suoi modi.

Mettendo momentaneamente da parte il quarto stato, sul qualeritorneremo in seguito, diremo che i primi tre sono: quello diveglia, che corrisponde alla manifestazione grossolana; quellodi sogno, che corrisponde alla manifestazione sottile; ed il

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sonno profondo, che è lo stato «causale» ed informale. A questitre stati, se ne aggiunge qualche volta un altro, quello dellamorte, ed anche un altro ancora, quello estatico, consideratol’intermediario (sandhya) [Questa parola sandhya (derivata dasandhi, punto di contatto o di congiunzione fra due cose) serveanche, in un’accezione più ordinaria, a designare il crepuscolo(del mattino o della sera), considerato parimenti comeintermediario fra il giorno e la notte; nella teoria dei ciclicosmici, designa l’intervallo fra due Yuga] fra il sonnoprofondo e la morte, come il sogno è l’intermediario fra laveglia ed il sonno profondo [Su questo stato, cfr.Brahma-Sutra, 3° Adhyaya, 2° Pada, sutra 10]. Tuttavia, questidue ultimi stati, in generale, non sono enumerati a parte, poichénon sono essenzialmente distinti da quello del sonno profondo,stato extra-individuale in realtà, come abbiamo spiegatopoc’anzi, e per cui l’essere rientra ugualmente nella non--manifestazione, o per lo meno nell’informale, «l’animavivente» (jivatma) ritirandosi in seno allo Spirito Universale(Atma) per la via che conduce al centro stesso dell’essere, ladove è il soggiorno di Brahma» [Brahma-Sutra, 30 Adhyaya,20 Pada, sutra 7 e 8].

Per la descrizione dettagliata di questi stati, è bene riferirsi altesto della Mandukya Upanishad, di cui abbiamo già citatopoc’anzi il principio, tranne tuttavia una frase, la prima di tutte,cioè questa: «Om, questa sillaba (akshara) [La parola akshara,nella sua etimologia, significa «indissolubile» od«indistruttibile», la sillaba è designata da questa parola perchéessa (e non il carattere alfabetico) costituisce l’unità primitiva el’elemento fondamentale del linguaggio; ogni radice verbale èd’altronde sillabica. La radice verbale è chiamata in sanscritodhatu, parola che significa propriamente «seme», perché, per lepossibilità di modificazioni multiple che comporta e in sé

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racchiude, è veramente il seme dal cui sviluppo ha nascital’intero linguaggio. La radice è l’elemento fisso ed invariabiledella parola, che rappresenta la sua natura fondamentaleimmutabile, ed al quale vengono poi ad aggiungersi elementisecondari e variabili, che sono accidenti (in senso etimologico)o modificazioni dell’idea principale] è tutto ciò che è; la suaspiegazione segue». Il monosillabo sacro Om, nel quales’esprime l’essenza del Veda [Cfr. Chhandogya Upanishad, 1°Prapathaka, 1° Khanda, e 2° Prapathaka, 23° Khanda;Brihad-Aranyaka Upanishad, 5° Adhyaya, 1° Brahmana, shruti1], è considerato il simbolo ideografico d’Atma; e, come questasillaba, composta di tre caratteri (matra, questi caratteri sono a,u e m, i cui due primi si contraggono in o) [In sanscrito, lavocale o è infatti formata dall’unione di a e u; parimenti lavocale e è formata dall’unione di a e i. - Anche in arabo, le trevocali a, i e u sono considerate le sole fondamentali everamente distinte], ha quattro elementi, di cui il quarto, che èil monosillabo stesso considerato sinteticamente nel suo aspettoprincipiale, è «non-espresso» da un carattere (amatra), poiché èanteriore ad ogni distinzione nell’«indissolubile» (akshara),parimenti Atma ha quattro condizioni (pada), di cui la quartanon è in verità una condizione speciale, ma Atma in Se stesso,in un modo assolutamente trascendente ed indipendentementeda ogni condizione, perciò non è suscettibile d’alcunarappresentazione. Esporremo ora successivamente ciò che èdetto, nel testo al quale ci riferiamo, in merito ad ognuna diqueste quattro condizioni d’Atma, cominciando dall’ultimogrado di manifestazione, e poi risalendo fino allo statosupremo, totale ed incondizionato.

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XII. LO STATO DI VEGLIA O LA CONDIZIONE DIVAISHWANARA

«La prima condizione è Vaishwanara, il cui seggio [Èevidente che quest’espressione e quelle simili come soggiorno,residenza, ecc., debbono essere intese simbolicamente, nonletteralmente, vale a dire in quanto designano non un luogoqualunque, ma una modalità dell’esistenza. L’uso delsimbolismo spaziale è d’altronde estremamente diffuso, ciò chesi spiega per la natura stessa delle condizioni alle quali èsottomessa l’individualità corporea; la traduzione delle veritàche concernono gli altri stati dell’essere deve effettuarsi, nellamisura del possibile, in rapporto a questa individualità. - Laparola sthana ha per equivalente esatto la parola «stato»,status, poiché la sua radice stha si ritrova, con gli stessisignificati del sanscrito, nel latino stare e nei suoi derivati] ènello stato di veglia (jagarita-sthana); esso ha la conoscenzadegli oggetti esterni (sensibili), ha sette membra e diciannovebocche, ed ha per dominio il mondo della manifestazionegrossolana» [Mandukya Upanishad, shruti 3].

Vaishwanara è, come l’indica la derivazione etimologica diquesto nome [Su questa derivazione, vedi il commento diShankaracharya sul Brahma-Sutra, 1° Adhyaya, 2° Pada, sutra28: è Atma che contemporaneamente è «tutto» (vishwa), inquanto personalità, ed «uomo» (nara), in quanto individualità(vale a dire come jivatma). Vaishwanara è dunque unadenominazione che s’appropria benissimo ad Atma; d’altraparte, è anche un nome d’Agni, come lo vedremo appresso (cfr.Shatapata Brahmana)], ciò che abbiamo chiamato l’«UomoUniversale», ma considerato più particolarmente nello sviluppocompleto dei suoi stati di manifestazione e nell’aspetto specialedi questo sviluppo. L’estensione di tale parola può qui anche

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sembrare limitata ad uno di questi stati, il più esteriore, quellodella manifestazione grossolana, che costituisce il mondocorporeo; ma questo stato particolare può essere un simboloper designare l’insieme della manifestazione universale, di cuiè un elemento, proprio perché esso è per l’essere umano la baseed il punto di partenza obbligato di tutta la realizzazione; saràdunque sufficiente, come per il simbolismo in generale,effettuare le trasposizioni convenienti secondo i gradi ai qualila concezione dovrà applicarsi. È appunto in questo senso chelo stato di cui si tratta può riferirsi all’«Uomo Universale» epuò essere descritto come costituente il suo corpo, concepito inanalogia con quello dell’uomo individuale, analogia che, comegià l’abbiamo detto, è quella del «macrocosmo» (adhidevaka) edel «microcosmo» (adhjatmika). Sotto quest’aspetto,Vaishwanara è anche identificato a Viraj, vale a direall’Intelligenza cosmica in quanto regge ed unifica nella suaintegralità l’insieme del mondo corporeo. Finalmente, ad unaltro punto di vista, che corrobora d’altronde il precedente,Vaishwanara significa «ciò che è comune a tutti gli uomini»; èallora la specie umana, intesa come natura specifica, o piùprecisamente ciò che si potrebbe chiamare il «genio della spe-cie» [Sotto questo rapporto, nara, o nri, è l’uomo comeindividuo appartenente alla specie umana, mentre manava è piùpropriamente l’uomo come essere pensante, vale a dire dotatodi «mentale»; ciò è d’altronde l’attributo essenziale inerentealla sua specie, dal quale la sua natura è caratterizzata. D’altraparte, il nome Nara non è meno suscettibile di unatrasposizione analogica, per la quale s’identifica a Purusha;perciò spesse volte Vishnu è chiamato Narottama o l’«UomoSupremo», designazione nella quale non bisogna scorgere ilminimo antropomorfismo, come nemmeno nella concezionestessa dell’«Uomo Universale» in tutti i suoi aspetti, e ciò

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precisamente in ragione di questa trasposizione. Non possiamoaccingerci per ora a sviluppare i sensi multipli e complessi chesono impliciti nella parola nara; per quanto riguarda la naturadella specie, occorrerebbe tutto uno studio speciale per esporrele considerazioni alle quali essa può dar luogo]; inoltre èd’uopo significare che lo stato corporeo è effettivamentecomune a tutte le individualità umane, qualunque siano le altremodalità nelle quali sono suscettibili di svilupparsi perrealizzare, in quanto individualità e senza uscire dal gradoumano, l’estensione integrale delle loro possibilità rispettive[Converrebbe ancora stabilire dei confronti con la concezionedella natura «adamica» nelle tradizioni giudaica e islamica,concezione che, anch’essa, si applica a gradi diversi ed insignificati gerarchicamente sovrapposti; ma ciò è estraneo alnostro soggetto, e presentemente dobbiamo limitarci a questesemplici indicazioni].

Da ciò che abbiamo detto, è facile rendersi conto in qualmodo bisogna intendere le sette membra di cui parla il testodella Mandukya Upanishad, e che sono le sette parti principalidel corpo «macrocosmico» di Vaishwanara: 1° l’insieme dellesfere luminose superiori, vale a dire degli stati superioridell’essere, ma unicamente considerati nei loro rapporti con lostato di cui specialmente si tratta, è paragonato alla parte dellatesta che contiene il cervello, il quale, infatti, corrispondeorganicamente alla funzione «mentale», che è un riflesso dellaLuce intelligibile o dei principi sopra-individuali; 2° il Sole e laLuna, o più esattamente i principi rappresentanti nel mondosensibile da questi due astri [Si ricorderanno qui i significatisimbolici che hanno anche, in Occidente, il Sole e la Luna nellatradizione ermetica e nelle teorie cosmologiche che glialchimisti hanno fondato su di essa; la designazione di questiastri non dev’essere intesa letteralmente, né nel primo e

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nemmeno nell’altro caso. D’altronde, si deve notare che ilpresente simbolismo è differente da quello al quale abbiamofatto allusione precedentemente, e nel quale il Sole e la Lunacorrispondono rispettivamente al cuore ed al cervello;sarebbero necessari ancora lunghi sviluppi per dimostrare comequesti diversi punti di vista si conciliano e s’armonizzanonell’insieme delle concordanze analogiche], sono i due occhi;3° il principio igneo è la bocca [Abbiamo già notato cheVaishwanara è qualche volta un nome di Agni, che è alloraconsiderato soprattutto come calore animatore, in quanto essorisiede in ogni essere vivente; avremo ancora l’occasione diritornarvi più appresso. D’altra parte, mukhya-prana è nellostesso tempo il soffio della bocca (mukha) e l’atto vitaleprincipale (è in questo secondo significato che i cinque vayusono le sue modalità); e il calore è intimamente associato allavita stessa]; 4° le direzioni dello spazio (dish) sono gli orecchi[Si noterà il rapporto notevolissimo che ciò presenta con la fun-zione fisiologica dei canali semicircolari]; 5° l’atmosfera, valea dire l’ambiente cosmico da cui procede il «soffio vitale(prana), corrisponde ai polmoni; 6° la regione intermediaria(Antariksha), che si distende fra la Terra (Bhu o Bhumi) e lesfere luminose od i Cieli (Swar o Swarga), regione che èconsiderata come l’ambiente dove si elaborano le forme(ancora potenziali relativamente allo stato grossolano),corrisponde allo stomaco [In un certo senso, la parolaAntariksha comprende anche l’atmosfera, considerata alloracome l’ambiente di propagazione della luce; d’altronde, ènecessario notare che l’agente di questa propagazione non èl’Aria (Vayu), bensì l’Etere (Akasha). Quando si traspongono itermini, per renderli appropriati a tutto l’insieme degli statidella manifestazione universale, nella considerazione delTribhuvana, Antariksha s’identifica a Bhuvas, che

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ordinariamente si designa come l’atmosfera, ma prendendoquesta parola in un’accezione molto più estesa e menodeterminata di quella precedente. - I nomi dei tre mondi, Bhu,Buvas, Swar, sono i tre vyahriti, parole che sono pronunziateabitualmente, dopo il monosillabo Om, nei riti indù dellasandhya-upasana (meditazione ripetuta al mattino, amezzogiorno ed alla sera). Si noterà che i primi due di questitre nomi hanno la stessa radice, perché si riferiscono a dellemodalità di uno stesso stato d’esistenza, quellodell’individualità umana, mentre il terzo rappresenta, in questadivisione, l’insieme degli stati superiori]; 7° finalmente, laTerra, vale a dire, in senso simbolico, l’ultimo attuarsi di tuttala manifestazione corporea, corrisponde ai piedi, che sono quil’emblema di tutta la parte inferiore del corpo. Le relazioni diqueste diverse membra tra loro e le loro funzioni nell’insiemecosmico al quale appartengono, sono analoghe (ma nonidentiche, beninteso) a quelle delle corrispondenti partidell’organismo umano. Si noterà che qui non si è parlato delcuore, perché la sua diretta relazione con l’Intelligenzauniversale lo esclude dal dominio delle funzioni propriamenteindividuali, ed anche perché questo «soggiorno di Brahma» èveramente il punto centrale, tanto nell’ordine cosmico che inquello umano, mentre tutto ciò che fa parte dellamanifestazione, e specialmente della manifestazione formale, èesteriore e «periferico», se così possiamo esprimerci,appartenendo esclusivamente alla circonferenza della «ruotadelle cose».

Nella condizione di cui si tratta, Atma, in quantoVaishwanara, ha coscienza del mondo della manifestazionesensibile (considerato anche come il dominio di quest’aspettodel «Non-Supremo» Brahma che è chiamato Viraj), per mezzodi diciannove organi, designati come altrettante bocche, perché

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sono le «entrate» della conoscenza per tutto quel che siriferisce a questo dominio particolare; l’assimilazioneintellettuale che s’opera nella conoscenza è spessosimbolicamente paragonata all’assimilazione vitale ches’effettua per mezzo della nutrizione. Questi diciannove organi(implicando d’altronde in questa parola le corrispondentifacoltà, conformemente a quanto abbiamo detto sul significatogenerale della parola indriya) sono: i cinque organi disensazione, i cinque organi d’azione, i cinque soffi vitali(vayu), il «mentale» od il senso interno (manas), l’intelletto(Buddhi, qui esclusivamente considerata nei suoi rapporti conlo stato individuale), il pensiero (chitta), concepito come lafacoltà che dà forma alle idee e le associa tra di loro, efinalmente la coscienza individuale (ahankara); queste facoltàsono quelle che precedentemente abbiamo studiato piùparticolarmente. Ogni organo ed ogni facoltà dell’essereindividuale compreso nel dominio considerato, vale a dire nelmondo corporeo, procedono rispettivamente dall’organo e dallafacoltà che loro corrispondono in Vaishwanara, organo efacoltà di cui sono in qualche modo uno degli elementicostitutivi, allo stesso titolo che l’individuo, al qualeappartengono, è un elemento dell’insieme cosmico, nel quale,per la sua parte ed al posto che propriamente gli conviene (peril fatto che è quest’individuo e non un altro), concorrenecessariamente alla costituzione dell’armonia totale [Questaarmonia è ancora un aspetto del Dharma: esso è l’equilibrio nelquale si compensano tutti gli squilibri, l’ordine che è fatto dallasomma di tutti i disordini parziali ed apparenti].

Lo stato di veglia, nel quale si esercita l’attività degli organi edelle facoltà di cui è stato detto, è considerato come la primacondizione d’Atma, quantunque la modalità grossolana ocorporea, alla quale corrisponde, costituisca l’ultimo grado

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nell’ordine dello sviluppo (prapancha) del manifestato,partendo dal suo principio primordiale e non-manifestato, edefinisca il termine di questo sviluppo, per lo meno in rapportoallo stato d’esistenza nel quale si situa l’individualità umana.La ragione di quest’apparente anomalia è già stata indicata: èinfatti in questa modalità corporea che noi scorgiamo la base edil punto di partenza della realizzazione individuale dapprima(vogliamo dire dell’estensione integrale resa effettiva perl’individualità), e poi di ogni altra realizzazione che oltrepassile possibilità dell’individuo ed implichi una presa di possessodegli stati superiori dell’essere. Dunque, se ci si pone, come lofacciamo a questo proposito, non al punto di vista dellosviluppo della manifestazione, ma a quello e nell’ordine diquesta realizzazione con i suoi diversi gradi, ordine che vanecessariamente in senso contrario, dal manifestato al non-manifestato, questo stato di veglia deve ben essere consideratocome precedente in effetto gli stati di sogno e di sonnoprofondo, che corrispondono, l’uno alle modalitàextra-corporee dell’individualità, l’altro agli statisopra-individuali dell’essere.

XIII. LO STATO DI SOGNO O LA CONDIZIONE DITAIJASA

«La seconda condizione è Taijasa (il «Luminoso», nomederivato da Tejas, che è la designazione dell’elemento igneo), ilcui seggio è nello stato di sogno (swapna-sthana); esso ha laconoscenza degli oggetti interni (mentali), ha sette membra ediciannove bocche, ed ha per dominio il mondo dellamanifestazione sottile» [Mandukya Upanishad, shruti 4. - Lostato sottile è chiamato in questo testo pravivikta, letteralmente«predistinto», poiché è uno stato di distinzione che precede la

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manifestazione grossolana; questa parola significa anche«separato», poiché l’«anima vivente», nello stato di sogno, è inqualche modo racchiusa in se stessa, contrariamente a quantoaccade nello stato di veglia, «comune a tutti gli uomini»].

In questo stato, le facoltà esterne, anche sussistendopotenzialmente, si riassorbono nel senso interno (manas), chene è la comune sorgente, il loro appoggio ed il loro fineimmediato; esso risiede nelle arterie luminose (nadi) dellaforma sottile, dove è diffuso in modo indiviso come il calore.D’altronde, lo stesso elemento igneo, considerato nelle sueproprietà essenziali, è contemporaneamente luce e calore; comel’indica il nome stesso di Taijasa riferito allo stato sottile,questi due aspetti, convenientemente trasposti (poiché non sitratta più allora di qualità sensibili), debbono ugualmenteritrovarsi in siffatto stato. Come già abbiamo avuto l’occasionedi farlo notare in altre circostanze, tutto ciò che si riferisce aquesto stato riguarda molto da vicino la natura stessa della vita,che è inseparabile dal calore; ricorderemo, a questo proposito,che le concezioni d’Aristotele si accordano pienamente suquesto e su molti altri punti con quelle degli Orientali. Quantoalla luminosità di cui si tratta, bisogna intendere da ciò ilriflesso e la diffrazione della Luce intelligibile nelle modalitàextra-sensibili della manifestazione formale (di cui d’altrondeci limitiamo a rilevare, in tutto questo, ciò che concerne lo statoumano). D’altra parte, la forma sottile stessa (sukshma-sharirao linga-sharira), nella quale risiede Taijasa, è anche assimilataad un veicolo igneo [Abbiamo altrove ricordato, a questoproposito, il «carro di fuoco» sul quale il profeta Elia salì aicieli (II Libro dei Re, II, 11)], quantunque debba distinguersidal fuoco corporeo (l’elemento Tejas o ciò che ne procede) cheè percepito dai sensi della forma grossolana (sthula-sharira),veicolo di Vaishwanara, e più specialmente dalla vista, poiché

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la visibilità, supponendo necessariamente la presenza dellaluce, è fra le qualità sensibili quella che propriamenteappartiene a Tejas; ma, nello stato sottile, non può più trattarsiaffatto dei bhuta, bensì soltanto dei tanmatra corrispondenti,che ne sono i princìpi determinanti immediati. Per le nadi odarterie della forma sottile, esse non debbono essere affattoconfuse con le arterie corporee per le quali si effettua lacircolazione del sangue, ma piuttosto corrispondonofisiologicamente, alle ramificazioni del sistema nervoso, poichésono espressamente descritte come luminose; ora, essendo ilfuoco in qualche modo polarizzato in luce e calore, lo statosottile è collegato a quello corporeo in due modi differenti ecomplementari: per il sangue, quanto alla qualità calorica, peril sistema nervoso, quanto a quella luminosa [Già abbiamoindicato, a proposito della costituzione dell’annamaya-kosha,cioè l’organismo corporeo, che gli elementi del sistemanervoso provengono dall’assimilazione delle sostanze ignee. Ilsangue, poiché è liquido, è formato a partire dalle sostanzeacquee, ma è necessario che esse abbiano dapprima subitoun’elaborazione dovuta all’azione del calore vitale, che è lamanifestazione d’Agni Vaishwanara; esse rappresentanosolamente un «appoggio» plastico che serve alla fissazione diun elemento di natura ignea: il fuoco e l’acqua sono qui, l’unoin rapporto all’altra, «essenza» e «sostanza» in un sensorelativo. Si potrebbe facilmente trovare un avvicinamento concerte teorie alchemiche, come quelle per esempio doveinterviene la considerazione dei principi chiamati «zolfo» e«mercurio», l’uno attivo e l’altro passivo, e rispettivamenteanaloghi, nell’ordine dei «misti», del fuoco e dell’acquanell’ordine degli elementi, senza parlare delle altredesignazioni multiple che sono ancora date simbolicamente,nel linguaggio ermetico, ai due termini correlativi d’una simile

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dualità]. Tuttavia, è bene intendere che, fra le nadi ed i nervi,non vi è ancora che una semplice corrispondenza, non unaidentificazione, poiché le prime non sono corporee, ed ancheperché si tratta in realtà di due differenti domininell’individualità integrale. Parimenti, quando si stabilisce unrapporto tra le funzioni di queste nadi e la respirazione[Alludiamo più specialmente agli insegnamenti che siriattaccano allo Hatha-Yoga, vale a dire ai metodi preparatoriall’«Unione» (Yoga, nel senso proprio della parola) fondatisull’assimilazione di certi ritmi, principalmente legati alregolamento della respirazione. Ciò che è chiamato dhikr nellescuole esoteriche arabe ha esattamente la stessa ragioned’essere, e spesso anche i procedimenti messi in opera sonocompletamente similari nelle due tradizioni, ciò che d’altrondenon è affatto per noi l’indizio di un plagio; la scienza del ritmoinfatti può essere stata conosciuta da una parte e dall’altra inmodo completamente indipendente, poiché si tratta d’unascienza che ha il suo oggetto proprio e corrisponde ad unordine di realtà nettamente definito, quantunque essa siainteramente ignorata dagli Occidentali], perché questa èessenziale al mantenimento della vita e corrisponde veramenteall’atto vitale principale, non bisogna affatto concludere dipoterle rappresentare quasi come una specie di canali nei qualil’aria circolerebbe; sarebbe confondere con un elementocorporeo il «soffio vitale» (prana), che appartiene pro-priamente all’ordine della manifestazione sottile [Questaconfusione è effettivamente commessa da certi orientalisti, lacui comprensione è indubbiamente incapace d’oltrepassare ilimiti del mondo corporeo]. È detto che il numero totale dellenadi è di settantaduemila; per altri testi tuttavia sarebbe disettecentoventi milioni; ma la differenza è più apparente chereale, poiché, come sempre accade in simili casi, questi numeri

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debbono essere intesi simbolicamente, non letteralmente; èfacile rendersene conto considerando che sono in relazioneevidente con i numeri ciclici [I numeri ciclici fondamentalisono: 72 = 2³x3²; 108 = 2²x3³; 432 = 2^4x3³ = 72 x 6 = 108 x4; essi si riferiscono specialmente alla divisione geometrica delcerchio (360 = 72 x 5 = 12 x 30) ed alla durata del periodoastronomico della precessione degli equinozi (72 x 360 = 432 x60 = 25920 anni); ma queste sono semplicemente le loro piùimmediate e più elementari applicazioni, né ci è possibilesoffermarci sulle considerazioni propriamente simboliche allequali si giunge per la trasposizione di questi dati in ordinidifferenti]. Avremo ancora l’occasione di sviluppare laquestione delle arterie sottili, ed anche il processo dei diversigradi di riassorbimento delle facoltà individuali, riassorbimentoche, l’abbiamo già detto, si effettua in senso inverso dellosviluppo di queste stesse facoltà.

Nello stato di sogno, l’«anima vivente» individuale (jivatma)«è per se stessa la sua propria luce», e produce, per l’effetto delsuo solo desiderio (kama), un mondo che procede interamenteda se stessa, ed i cui oggetti consistono esclusivamente inconcezioni mentali, vale a dire in combinazioni d’idee rivestitedi forme sottili, che dipendono sostanzialmente dalla formasottile dell’individuo stesso, di cui questi oggetti ideali sonoaltrettante modificazioni accidentali e secondarie [Cfr.Brihad-Aranyaka Upanishad, 40 Adhyaya, 30 Brahmana,shruti 9 e 10]. Questa produzione, d’altronde, ha semprequalche cosa d’incompleto e d’incoordinato; perciò èconsiderata come illusoria (mayamaya), o come se avessesolamente un’esistenza apparente (pratibhasika), mentre, nelmondo sensibile, dov’è allo stato di veglia, la stessa «animavivente» ha la facoltà d’agire nel senso d’una produzione«pratica» (vyavaharika), anche indubbiamente illusoria in

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rapporto alla realtà assoluta (paramartha), e transitoria comeogni manifestazione, ma che tuttavia ha una realtà relativa eduna stabilità sufficiente per servire ai bisogni della vitaordinaria e «profana» (laukika, parola derivata da loka, il«mondo», da intendersi in un senso completamenteparagonabile a quello che ha abitualmente nel Vangelo).Tuttavia conviene notare che questa differenza, quantoall’orientazione rispettiva dell’attività dell’essere nei due stati,non implica una superiorità effettiva dello stato di veglia suquello di sogno, quando ogni stato è considerato in se stesso;una superiorità valida dal solo punto di vista «profano», nonpuò metafisicamente essere considerata una vera superiorità; edanche, sotto un altro rapporto, le possibilità dello stato di sognosono più estese di quelle dello stato di veglia, e permettonoall’individuo di sfuggire, in una certa misura, a qualcuna dellecondizioni limitative alle quali è sottomesso nella sua modalitàcorporea [Sullo stato di sogno, cfr. Brahma-Sutra, 3° Adhyaya,2° Pada, sutra 1 a 6]. Checché ne sia, l’unica cosaassolutamente reale (paramarthika) è esclusivamente il «Sé»(Atma), che però non può essere in nessun modo raggiunto daconcezioni che in qualche modo si limitano alla considerazionedegli oggetti esterni ed interni, la cui conoscenza costituiscerispettivamente lo stato di veglia e quello di sogno, e che perciònon spingendosi oltre l’insieme di questi due stati, restanointeramente nei limiti della manifestazione formale edell’individualità umana.

Il dominio della manifestazione sottile può, in ragione dellasua natura «mentale», designarsi come un mondo ideale, al finedi così distinguerlo dal mondo sensibile, che è il dominio dellamanifestazione grossolana; ma questa designazione non deveintendersi nel senso di quella del «mondo intelligibile» diPlatone, poiché le «idee» del filosofo greco sono le possibilità

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allo stato principiale, che debbono riferirsi all’essere informale(malgrado le espressioni troppo immaginose con cui Platone haspessissimo racchiuso il suo pensiero); nello stato sottile, nonpuò ancora trattarsi che di idee rivestite di forme, poiché lepossibilità che comporta non oltrepassano l’esistenzaindividuale [Lo stato sottile è propriamente il dominio della non quello del ; poiché quest’ultimo corrisponde aBuddhi, vale a dire all’intelletto sopraindividuale]. Soprattuttonon bisognerebbe qui pensare all’opposizione che certi filosofimoderni si compiacciono di stabilire fra «ideale» e «reale»,opposizione che non ha, per noi nessun significato: ciò che è,sotto qualunque aspetto, è reale appunto perciò, e possiedeprecisamente il genere ed il grado di realtà che convengono allasua propria natura; ciò che consiste in idee (questo è tutto ilsenso che diamo alla parola «ideale») non è né più né menoreale di quello che consiste in altra cosa, ogni possibilità tro-vando posto necessariamente nel rango che la sua stessadeterminazione gli assegna gerarchicamente nell’Universo.

Nell’ordine della manifestazione universale, parimenti che ilmondo sensibile nel suo insieme è identificato a Viraj, questomondo ideale di cui abbiamo parlato è identificato aHiranyagarbha (vale a dire letteralmente l’«Embrione d’Oro»)[Questo nome ha un senso vicinissimo a quello di Taijasa,poiché l’oro, secondo la dottrina indù, è la «luce minerale»; glialchimisti lo consideravano anche come corrispondenteanalogicamente, fra i metalli, al sole fra i pianeti; è per lo menostrano notare che il nome stesso dell’oro (aurum) é identicoalla parola ebraica aor, che significa «luce»], che è Brahmâ(determinazione di Brahma come effetto, karya) [Bisognanotare che Brahmâ è una forma maschile, mentre Brahma èneutro; questa distinzione indispensabile, della più grandeimportanza (poiché non è altro che quella del «Supremo» e del

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«Non-Supremo»), non può essere fatta con l’uso, molto in vogafra gli orientalisti, dell’unica forma Brahman, che ugualmenteappartiene ad entrambi i generi; perciò sopravvengonocontinue confusioni, soprattutto in una lingua come l’italiana,dove il genere neutro non esiste] che si racchiude nell’«Uovodel Mondo» (Brahmanda) [Questo simbolo cosmogonicodell’«Uovo del Mondo» non è particolare all’India; loritroviamo specialmente nel Mazdeismo, nella tradizioneegiziana (l’Uovo di Kneph), in quella dei Druidi e in quelladegli Orfici. - La condizione embrionale che corrisponde perogni essere individuale a ciò che è il Brahmanda nell’ordinecosmico, è chiamata in sanscrito pinda; l’analogia costitutivadel «microcosmo» e del «macrocosmo», considerati sottoquest’aspetto, è espressa da questa formula: Yatha pinda tathaBrahmanda, «tale l’embrione individuale, tale l’Uovo delMondo»], dal quale si svilupperà, secondo il suo modo direalizzazione, l’intera manifestazione formale che vi èvirtualmente contenuta come concezione di questoHiranyagarbha, germe primordiale della Luce cosmica [PerciòViraj procede da Hiranyagarbha, e Manu, a sua volta, procededa Viraj]. Altresì, Hiranyagarbha è designato come «insiemesintetico di vita (jiva-ghana) [La parola ghana significaprimieramente una nuvola, e poi una massa compatta edindifferenziata]; infatti, è veramente la «Vita Universale» [«Ela Vita era la Luce degli uomini» (S. Giovanni, I, 4)], in ragionedella connessione già segnalata dello stato sottile con la vita;quest’ultima, anche considerata in tutta l’estensione di cui èsuscettibile (e non limitata alla sola vita organica o corporea, acui si limita il punto di vista fisiologico) [Alludiamo piùparticolarmente all’estensione dell’idea di vita che è implicitanel punto di vista delle religioni occidentali, e che si riferisceeffettivamente a possibilità insite in un prolungamento del-

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l’individualità umana; abbiamo altrove spiegato che latradizione estremo-orientale chiama ciò la «longevità»], non èd’altronde che una delle speciali condizioni dello statod’esistenza al quale appartiene l’individualità umana; ildominio della vita non oltrepassa dunque le possibilità checomporta questo stato, che, naturalmente, deve qui essereconsiderato nella sua integralità, e di cui fanno parte tanto lemodalità sottili quanto quella grossolana.

Sia che lo si consideri al punto di vista «macrocosmico»,come l’abbiamo fatto ultimamente, od a quello«microcosmico», che abbiamo rilevato sin dal principio, ilmondo ideale di cui si tratta è concepito da facoltà checorrispondono analogicamente a quelle per le quali è percepitoil mondo sensibile, o, se si preferisce, che sono quelle stessefacoltà in principio (poiché sono sempre le facoltà individuali),ma considerate in un altro modo d’esistenza e ad un altro gradodi sviluppo, la loro attività esercitandosi in un dominiodifferente. Perciò Atma, in questo stato di sogno, vale a dire inquanto è Taijasa, ha lo stesso numero di membra e di bocche (ostrumenti di conoscenza) che in quello di veglia, in quanto èVaiswanara [Queste facoltà debbono considerarsi ripartite neitre «involucri», la cui riunione costituisce la forma sottile(vijnanamaya-kosha, manomaya-kosha, pranamaya-kosha)], èinutile, del resto, ripeterne l’enumerazione, poiché ledefinizioni che precedentemente ne abbiamo dato possonoegualmente applicarsi, per una trasposizione appropriata, ai duedomini della manifestazione grossolana o sensibile e di quellasottile o ideale.

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XIV. LO STATO DI SONNO PROFONDO O LACONDIZIONE DI PRAJNA

«Quando l’essere che dorme non prova più desideri, non è piùsoggetto a sogni, esso è nello stato di sonno profondo(sushupta-sthana); colui (vale a dire Atma stesso in siffattacondizione) che in questo stato è divenuto uno (senza alcunadistinzione o differenziazione) [«Tutto è uno, dice ugualmenteil Taoismo; durante il sonno, l’anima, non distratta, siconcentra in questa unità; ma, durante la veglia, distratta, essadistingue diversi esseri» (Tchoang-tseu, cap. II; trad. del P.Wieger, p. 215)], che si è identificato ad un insieme sintetico(unico e senza particolare determinazione) di Conoscenzaintegrale (Prajnana-ghana) [«Concentrare tutta la propriaenergia intellettuale come in una massa», aggiunge, anche nellostesso senso, la dottrina taoista (Tchoang-tseu, cap. IV; trad.del P. Wieger, p. 233). - Prajnana o la Conoscenza integrales’oppone qui a vijnana o la conoscenza distintiva, che,riferendosi specialmente all’individuale od al formale, caratte-rizza i due stati precedenti; vijnanamaya-kosha è il primo degli«involucri» di cui si riveste Atma penetrando nel «mondo deinomi e delle forme», vale a dire manifestandosi come jivatma],che è (per penetrazione ed assimilazione intima) pieno diBeatitudine (ananda-maya) e che gode veramente di questaBeatitudine (Ananda, quale dominio a lui proprio), e la cuibocca (lo strumento di conoscenza) è (unicamente) laCoscienza totale (Chit) stessa (senza intermediario o particola-rizzazione), quegli e chiamato Prajna (vale a dire Colui checonosce al di fuori e di là da ogni condizione speciale): èquesta la terza condizione» [Mandukya Upanishad, shruti 5].

Come immediatamente possiamo rendercene, conto, ilveicolo d’Atma, nello stato di Prajna, è il karana-sharira,

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poiché questo è anandamaya-kosha; e, quantunque qui se neparli analogicamente come di un veicolo o d’un involucro, essonon è affatto distinto veramente dallo stesso Atma, poichéormai siamo di là dalla distinzione. La Beatitudine è fatta datutte le possibilità d’Atma, si potrebbe dire che essa ne sia lasomma stessa; Atma, in quanto Prajna, gode di questaBeatitudine come del suo proprio dominio, perché essa è, inrealtà, la pienezza del suo essere, secondo quanto precedente-mente abbiamo indicato. È uno stato essenzialmente informalee sopra-individuale; non potrebbe dunque trattarsi d’uno stato«psichico» o comunque «psicologico», come l’hanno suppostoalcuni orientalisti. Ciò che è propriamente «psichico», infatti, èlo stato sottile; in questa assimilazione, la parola «psichico» èda noi considerata nel suo senso primitivo, quello che avevaper gli antichi, né ci preoccupiamo delle diverse accezionimolto più specializzate che ulteriormente hanno dato ad essa, eper le quali ormai non potrebbe nemmeno più riferirsi all’interostato sottile. Quanto alla psicologia degli Occidentali moderni,essa non concerne che una parte ristrettissima dell’individualitàumana, quella per cui il «mentale» è in relazione immediatacon la modalità corporea, e per gli stessi metodi che essa usa èincapace di oltrepassare questi limiti; in ogni caso, l’oggettostesso che si propone, vale a dire lo studio esclusivo deifenomeni mentali, la limita rigorosamente all’individualità;perciò lo stato di cui ora si tratta sfugge necessariamente allesue investigazioni, e si potrebbe anche dire che le èinaccessibile in doppio modo: prima, perché questo stato è di ladal «mentale» o dal pensiero discorsivo e differenziato, poi,perché è ugualmente di là da ogni «fenomeno», qual che essosia, vale a dire oltre tutta la manifestazione formale.

Questo stato d’indifferenziazione, nel quale l’interaconoscenza, non esclusa quella degli altri stati, è centralizzata

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sinteticamente nell’unità essenziale e fondamentale dell’essere,è lo stato non-manifestato o «non-sviluppato» (avyakta),principio e causa (karana) di tutta la manifestazione, e a partiredal quale essa è sviluppata nella molteplicità dei suoi diversistati, e più particolarmente, per quel che concerne l’essereumano, nei suoi stati sottile e grossolano. Questo non-manife-stato, concepito come radice del manifestato (vyakta), che èsoltanto il suo effetto (karya), è identificato, sotto questorapporto, a Mula-Prakriti, la «Natura primordiale»; ma, inrealtà, esso è contemporaneamente Purusha e Prakriti, poichéli contiene entrambi nella sua stessa indifferenziazione,essendo causa nel senso totale della parola, vale a direcontemporaneamente «causa efficiente» e «causa materiale»,per usare la terminologia ordinaria; preferiremmo, però, aqueste espressioni quelle di «causa essenziale» e «causasostanziale», poiché questi due aspetti complementari dellacausalità si riferiscono infatti rispettivamente all’«essenza» edalla «sostanza», definite come precedentemente l’abbiamofatto. Se, in questo terzo stato, Atma è oltre la distinzione diPurusha e di Prakriti o dei due poli della manifestazione, èperché esso non è più nell’esistenza condizionata, ma invece algrado dell’Essere puro; tuttavia noi dobbiamo inoltreincludervi Purusha e Prakriti, ancora non-manifestati, edanche, in un certo senso, come lo vedremo a suo tempo, glistati informali della manifestazione, che abbiamo già dovutoriferire all’Universale, poiché sono veramente altrettanti statisopra-individuali dell’essere; e, d’altronde, ricordiamoloancora, tutti gli stati manifestati sono contenuti, in principio esinteticamente, nell’Essere non-manifestato.

In questo stato, i diversi oggetti della manifestazione, anchequelli della manifestazione individuale, sia esterni che interni,non sono d’altronde affatto distrutti, ma sussistono in modo

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principiale, essendo unificati appunto perché non più concepitinell’aspetto secondario e contingente della distinzione; essi siritrovano necessariamente fra le possibilità del «Sé», che,quando ha coscienza della sua permanenza nell’«eternopresente», è per se stesso cosciente di tutte queste possibilità,considerate «non-distintivamente» nella Conoscenza integrale[È proprio ciò che permette di trasporre metafisicamente la dot-trina teologica della «resurrezione dei morti», nonché laconcezione del «corpo di gloria»; questo, del resto, non èaffatto un corpo nel senso proprio della parola, ma ne è la«trasformazione» (o la «trasfigurazione»), vale a dire latrasposizione fuori della forma e delle altre condizionidell’esistenza individuale, od anche, in altre parole, è la«realizzazione» della possibilità permanente ed immutabile dicui il corpo non è che l’espressione transitoria in modomanifestato]. Se fosse altrimenti, e se gli oggetti della manife-stazione non sussistessero così principialmente (supposizioneche d’altronde è impossibile in se stessa poiché questi oggettisarebbero allora un puro niente, che non potrebbe affattoesistere, neppure in modo illusorio), non vi potrebbe essere unritorno dallo stato di sonno profondo agli stati di sogno e diveglia, poiché tutta la manifestazione formale sarebbe allorairrimediabilmente distrutta per l’essere appena esso entrassenel sonno profondo; ora, un tale ritorno è invece sempre possi-bile e si produce effettivamente, almeno per l’essere che non èattualmente «liberato», vale a dire definitivamente svincolatodalle condizioni dell’esistenza individuale.

La parola Chit non deve intendersi, come il suo derivatochitta, nel senso limitato del pensiero individuale e formale(questa determinazione ristrettiva, che implica unamodificazione per riflesso, essendo messa in buona evidenza,nel derivato, dal suffisso kta, che è il termine del participio

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passivo), ma invece in senso universale, come la Coscienzatotale del «Sé», considerata in rapporto al suo unico oggetto,che è Ananda o la Beatitudine [Lo stato di sonno profondo èstato qualificato d’«incosciente» da alcuni orientalisti, chesembrano anche volerlo identificare all’«Incosciente» diqualche filosofo tedesco, quale l’Hartmann; questo erroredipende soprattutto dacché essi non possono concepire la co-scienza che come individuale e «psicologica»; ma esso cisembra non meno inesplicabile, poiché non scorgiamo come sipossa comprendere con una simile interpretazione parole comeChit, Prajnana e Prajna]. Questo oggetto, pur costituendoallora in qualche modo l’involucro del «Sé»(anandamaya-kosha), come dianzi l’abbiamo spiegato, èidentico al soggetto stesso, che è Sat o l’Essere puro, e non ne èpunto veramente distinto, né può esserlo, infatti, quando non viè più alcuna distinzione reale [Le parole «soggetto» ed«oggetto», nel senso nel quale noi qui le usiamo, non possonoprestarsi ad equivoci: il soggetto è «ciò che conosce», l’oggettoè «ciò che è conosciuto»; il loro rapporto è la conoscenzastessa. Tuttavia, nella filosofia moderna, il significato di questeparole, e soprattutto quello dei loro derivati «subiettivo» ed«obiettivo», hanno tanto variato da ricevere accezionidiametralmente opposte. Certi filosofi le adoperanoindistintamente in sensi molto differenti; il loro uso presentadunque spesso inconvenienti gravi per la chiarezza, e, in molticasi, è preferibile astenersi dell’usarle, per quanto è possibile].Così questi tre, Sat, Chit, Ananda (generalmente riuniti inSachchidananda) [In arabo, l’Intelligenza (El-Aqlu),l’Intelligente (El-Aqli) e l’Intelligibile (El-Maqul) sonoequivalenti a questi tre termini: la prima è la Coscienzauniversale (Chit), il secondo è il soggetto (Sat), il terzo ne èl’oggetto (Ananda), i tre non essendo che uno nell’Essere «che

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conosce Se stesso per Se stesso»], sono assolutamente unostesso ed unico essere, e quest’«uno» è Atma, considerato al difuori e di là da tutte le condizioni particolari che determinanociascuno dei suoi diversi stati di manifestazione.

Nello stato di Prajna, che è anche spesso designato col nomedi samprasada o «serenità» [Brihad-Aranyaka Upanishad, 4°Adhyaya, 3° Brahmana, shruti 15; cfr. Brahma-Sutra, 1°Adhyaya, 3° Pada, sutra 8. - Vedi anche ciò che più innanzidiremo sul significato della parola Nirvana], la Luce intelli-gibile è colta direttamente, ciò che costituisce l’intuizioneintellettuale, e non più per riflesso attraverso il «mentale»(manas) come negli stati individuali. Abbiamoprecedentemente riferito l’espressione d’«intuizioneintellettuale» a Buddhi, facoltà di conoscenza soprarazionale esopra-individuale, quantunque già manifestata; sotto questorapporto, è necessario includere, in un certo modo, ancheBuddhi nello stato di Prajna, che comprenderà così tutto ciòche è oltre l’esistenza individuale. Dobbiamo allora considerarenell’Essere un nuovo ternario, costituito da Purusha, Prakriti eBuddhi, vale a dire dai due poli della manifestazione, «es-senza» e «sostanza», e dalla prima produzione di Prakriti sottol’influenza di Purusha, produzione che è la manifestazioneinformale. Bisogna aggiungere che, del resto, questo ternariorappresenta solamente ciò che si potrebbe chiamarel’«esteriorità» dell’Essere, e quindi non coincide affatto conl’altro ternario principiale che abbiamo considerato, e che siriferisce veramente alla sua «interiorità», ma che ne potrebbeessere piuttosto una prima particolarizzazione in mododistintivo [Si potrebbe dire, con le riserve che abbiamo fattosull’uso di queste parole, che Purusha è il polo «subiettivo»della manifestazione, e Prakriti ne è il polo «obiettivo»;Buddhi corrisponde allora naturalmente alla conoscenza che è

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quasi una risultante del soggetto e dell’oggetto, od il loro «attocomune», per usare un linguaggio aristotelico. Tuttavia, è benenotare che, nell’ordine dell’Esistenza universale, è Prakriti che«concepisce» le sue produzioni per l’influenza «non-agente» diPurusha, mentre, nell’ordine delle esistenze individuali, ilsoggetto conosce al contrario per l’azione dell’oggetto; l’ana-logia è dunque qui invertita, come nei casi incontratiprecedentemente. Infine, se si considera l’intelligenza comeinerente al soggetto (quantunque la sua «attualità» supponga lapresenza dei due termini complementari), si dovrà dire chel’Intelletto universale é essenzialmente attivo, mentrel’intelligenza individuale è passiva, per lo meno relativamente(anche se contemporaneamente è attiva sotto un altro rapporto),ciò che del resto implica il suo carattere di “riflesso”; anchequeste considerazioni concordano interamente con le teorie diAristotele]; è beninteso che, parlando qui d’«esteriore» ed’«interiore», noi usiamo un linguaggio puramente analogico,fondato su un simbolismo spaziale, che non potrebbeletteralmente applicarsi all’Essere puro. D’altronde, il ternariodi Sachchidananda, che è coestensivo all’Essere, si traduceancora, nell’ordine della manifestazione informale, col ternarioche abbiamo già distinto in Buddhi: il Matsya-Purana, cheallora citavamo, dichiara che, «nell’Universale, Mahat (oBuddhi) è Ishwara»; Prajna è anche Ishwara, a cuipropriamente appartiene il karana-sharira. Si può aggiungerealtresì che la Trimurti o «triplice manifestazione» è soltantol’«esteriorità» d’Ishwara, che, in sé, è indipendente da ognimanifestazione, di cui è il principio, poiché è l’Essere stesso;tutto quello che abbiamo detto d’Ishwara, tanto in sé, quanto inrapporto alla manifestazione, possiamo ugualmente dirlo diPrajna che ad esso è identificato. Così, al di fuori del punto divista speciale della manifestazione e dei diversi stati

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condizionati che da esso dipendono in questa manifestazione,l’intelletto non è affatto differente da Atma, che deve essereconsiderato come «ciò che conosce se stesso per se stesso»,poiché non vi è più allora realtà che da esso sia veramentedistinta, tutto essendo compreso nelle sue proprie possibilità;appunto in questa «Conoscenza di Sé» risiede propriamente laBeatitudine.

«Egli (Prajna) è il Signore (Ishwara) di tutto (sarva, parolache implica qui, nella sua estensione universale, l’insieme dei«tre mondi», vale a dire di tutti gli stati di manifestazionesinteticamente compresi nel loro principio); Egli è onnisciente(poiché tutto Gli è presente nella Conoscenza integrale, ed Egliconosce direttamente tutti gli effetti nella causa principialetotale, che non è affatto distinta da Lui) [Gli effetti sono«eminentemente», nella causa, come dicono i filosofiscolastici, e sono perciò fra i costituenti della sua natura stessa,poiché non può essere negli effetti ciò che prima non è statonella causa; così la causa prima, che si conosce per se stessa,appunto perciò conosce tutti gli effetti, vale a dire tutte le cose,in modo assolutamente immediato e «non-distintivo»]. Egli èl’ordinatore interno (antar-yami, che stando al centro stessodell’essere, regge e controlla tutte le facoltà corrispondenti aisuoi diversi stati, anche se Lui stesso è «non-agente» nellapienezza della Sua attività principiale) [Questo «ordinatoreinterno» è identico al «Rettore Universale» di un testo taoistache abbiamo citato in una precedente nota. La tradizioneestremo-orientale aggiunge ancora che «l’Attività del Cielo ènon-agente»; nella sua terminologia, il Cielo (Tien) corrispondea Purusha (considerato ai diversi gradi che precedentementeabbiamo indicato), e la Terra (Ti) a Prakriti; non si trattadunque di ciò che si è obbligati ad esprimere con le stesseparole nell’enumerazione dei termini del Tribhuvana indù];

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Egli è la sorgente (yoni, matrice o radice primordiale, econtemporaneamente principio o causa prima) di tutto (quelloche esiste sotto qualsiasi modo); Egli è l’origine (prabhava, perla Sua espansione nella moltitudine indefinita delle Suepossibilità) e la fine (apyaya, per il Suo racchiudersi nell’unitadi Se stesso) [Ciò è riferibile, nell’ordine cosmico, alle due fasidi «espirazione» e di «aspirazione» che si possono considerareparticolarmente in ogni ciclo; però qui si tratta della totalità deicicli o degli stati che costituiscono la manifestazioneuniversale] dell’universalità degli esseri (essendo Egli stessol’Essere Universale)» [Mandukya Upanishad, shruti 6].

XV. LO STATO INCONDIZIONATO D’ATMA

«Veglia, sogno, sonno profondo, e ciò che è oltre, sono iquattro stati d’Atma; il più grande (mahattara) è il Quarto(Turiya). Nei primi tre, sta Brahma con uno dei suoi piedi;nell’ultimo, egli vi sta con tre piedi» [Maitri Upanishad, 7°Prapathaka, shruti 11]. Così, le proporzioni precedentementestabilite da un certo punto di vista, sono invertite se considerateda un altro punto di vista: dei quattro «piedi» (pada) d’Atma, iprimi tre quanto alla distinzione degli stati non ne sono che unoper l’importanza metafisica, e l’ultimo ne è per se solo tre sottolo stesso rapporto. Se Brahma non fosse «senza parti»(akhanda), si potrebbe dire che soltanto un quarto di Lui ènell’Essere (comprendendovi tutto ciò che ne dipende, vale adire la manifestazione universale di cui è il Principio), gli altriSuoi tre quarti essendo oltre l’Essere stesso [Pada significa«piede» ed anche «quarto»]. Questi tre quarti possonoconsiderarsi nel modo seguente: 1° la totalità delle possibilitàdi manifestazione in quanto non si manifestano, dunque allostato assolutamente permanente ed incondizionato, come tutto

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ciò che rileva del «Quarto» (se esse invece si manifestano,appartengono ai due primi stati; ed in quanto «manifestabili»,al terzo, principiale in rapporto agli altri primi); 2° la totalitàdelle possibilità di non-manifestazione (che designamo alplurale solo per pura analogia, poiché sono evidentemente di làdalla molteplicità, ed anche dall’unita); 3° finalmente, ilPrincipio Supremo di queste e di quelle, la PossibilitàUniversale, totale, infinita, assoluta [Analogamente,considerando i primi tre stati, il cui insieme costituisce ildominio dell’Essere, si potrebbe ancora dire che i due priminon rappresentano che un terzo dell’Essere, poiché contengonosoltanto la manifestazione formale, mentre il terzo nerappresenta da solo i due terzi, comprendendocontemporaneamente la manifestazione informale e l’Esserenon-manifestato. – È essenziale notare che le sole possibilità dimanifestazione entrano nel dominio dell’Essere, anche seconsiderato in tutta la sua universalità].

«I Saggi pensano che il Quarto (Chaturtha) [Le due paroleChaturtha e Turiya hanno lo stesso significato e si applicanoidenticamente allo stesso stato: Yad vai Chaturtham tatTuriyam, «ciò sicuramente che è Chaturtha, ciò è Turiya»(Brihad-Aranyaka Upanishad, 5° Adhyaya, 14° Brahmana,shruti 3)], che non ha conoscenza né degli oggetti interni né diquelli esterni (in modo distintivo ed analitico), né contempo-raneamente di questi e di quelli (sinteticamente e prin-cipialmente), e che infine non è (nemmeno) un insiemesintetico di Conoscenza integrale, poiché non è né conoscentené non-conoscente, è invisibile (adrishta, ed ugualmentenon-percettibile da qualsiasi facoltà), non-agente(avyavaharya, nella Sua immutabile identità), incomprensibile(agrahya, poiché tutto comprende), indefinibile (alakshana,poiché illimitato), impensabile (achintya, poiché non può

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essere rivestito da forme), indescrivibile (avyapadeshya, nonpotendo essere qualificato da attribuzioni o da determinazioniparticolari); Esso è l’unica essenza fondamentale(pratyaya-sara) del “Sé” (Atma, presente in tutti gli stati),senza alcuna traccia di sviluppo della manifestazione(prapancha-upashama, e per conseguenza assolutamente etotalmente liberato dalle condizioni speciali di qualunque modo(d’esistenza), pienezza di Pace e di Beatitudine, senza dualità:è Atma (al di fuori ed indipendentemente d ogni condizione);(così) Esso dev’essere conosciuto» [Mandukya Upanishad,shruti 7].

Si noterà che quanto concerne questo stato incondizionatod’Atma è espresso in una forma negativa; ciò si comprendefacilmente, poiché, nel linguaggio, ogni affermazione diretta ènecessariamente una affermazione particolare e determinata,l’affermazione di qualche cosa che ne esclude altre, e cheperciò limita ciò di cui è possibile l’affermazione [È per lastessa ragione che questo stato, non potendo affatto esserecaratterizzato, è semplicemente specificato come il «Quarto»;ma questa spiegazione, sebbene evidente, è sfuggita agliorientalisti. A questo proposito, possiamo citare un curiosoesempio della loro incomprensione: l’Oltramare ha creduto cheil nome «Quarto» indicasse una «costruzione logica», poichégli ha ricordato «la quarta dimensione dei matematici»; ecco unavvicinamento per lo meno inatteso, che sarebbeindubbiamente difficile giustificare seriamente]. Ognideterminazione è una limitazione, dunque una negazione[Spinoza stesso l’ha espressamente riconosciuto: «Omnisdeterminatio negatio est»; ma è appena necessario aggiungereche l’applicazione che egli ne fa ricorda piuttostol’indeterminazione di Prakriti che quella d’Atma nel suo statoincondizionato]; e perciò è invece la negazione di una

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determinazione che è una vera affermazione; quindi leespressioni d’apparenza negative, che qui incontriamo, sono,nel loro senso reale, eminentemente affermative. D’altronde, laparola «Infinito», la cui forma è simile, esprime la negazione diqualunque limite, perciò equivale all’affermazione totale edassoluta, che comprende o racchiude tutte le affermazioniparticolari, ma senza essere qualcuna di queste soltantoall’esclusione delle altre, precisamente perché le implica tutteugualmente e «non-distintivamente»; e così la PossibilitàUniversale comporta assolutamente tutte le possibilità. Tuttociò che si può esprimere in forma affermativa ènecessariamente racchiuso nel dominio dell’Essere, poichéquesto è la prima affermazione o la prima determinazione,quella da cui procedono tutte le altre, come l’unità è il primodei numeri, da cui tutti ne derivano; ma, qui, non si trattadell’unità, bensì della «non-dualità», od, in altre parole, siamodi là dall’Essere, appunto perché ogni determinazione, ancheprincipiale, è ormai superata [Noi ci poniamo qui al punto divista puramente metafisico, ma dobbiamo aggiungere chequeste considerazioni possono anche applicarsi al punto divista teologico; quantunque quest’ultimo si tengaordinariamente nei limiti dell’Essere, alcuni riconosconotuttavia che la «teologia negativa» è la sola rigorosa, vale a direche soltanto gli attributi di forma negativa convengonoveramente a Dio. – Cfr. S. Dionigi l’Areopagita, De TheologiaMystica, di cui gli ultimi due capitoli si riavvicinano in modonotevole, anche nelle espressioni, al testo che abbiamo citato].

In Se stesso, Atma non è dunque né manifestato (vyakta), nénon-manifestato (avyakta), per lo meno se si considera ilnon-manifestato soltanto come il principio immediato delmanifestato (ciò che si riferisce allo stato di Prajna); ma Esso ècontemporaneamente il principio del manifestato e del

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non-manifestato (quantunque questo Principio Supremo possad’altronde anche esser detto non-manifestato in un sensosuperiore, non fosse che per affermare la Sua immutabilitàassoluta e l’impossibilità di caratterizzarLo con qualsiasi at-tribuzione positiva). «Egli (il Supremo Brahma, al quale Atmaincondizionato è identico) non può essere raggiunto né dallosguardo [Parimenti, il Qoran dice parlando d’Allah: «Glisguardi non possono raggiungerLo». - «Il Principio non èraggiunto né dalla vista né dall’udito» (Tchoang-tseu, cap.XXII; trad. del P. Wieger, p. 397)], né dalla parola o dal «men-tale» [L’occhio rappresenta qui le facoltà di sensazione e laparola quelle d’azione; si è visto precedentemente che ilmanas, per la sua natura e per le sue funzioni, partecipa aqueste e a quelle. Brahma non può essere raggiunto da facoltàindividua né percepito dai sensi come gli oggetti grossolani, néconcepito dal pensiero come gli oggetti sottili, né può essereespresso in modo sensibile dalle parole, né in modo ideale dalleimmagini mentali], né possiamo riconoscerLo (comecomprensibile da altri che Se stesso); perciò non sappiamocome spiegare la Sua natura (con qualche descrizione). Egli èsuperiore al conosciuto (distintivamente, o all’Universomanifestato), ed è altresì anche di là da ciò che non èconosciuto (distintivamente, o dall’Universo non-manifestato,uno con l’Essere puro) [Cfr. il passo già citato dellaBhagavad-Gita (XV, 18), dal quale si rileva che Paramatma«oltrepassa il distruttibile ed anche l’indistruttibile»; il primo èil manifestato, il secondo il non-manifestato, inteso come giàl’abbiamo spiegato]; questo è l’insegnamento che abbiamoricevuto dagli antichi Saggi. Si deve considerare come Brahma(nella Sua Infinità) Ciò che non è manifestato dalla parola (o daaltra cosa), ma da cui la parola è manifestata (come tutt’altracosa), e non quello che è considerato (in quanto oggetto di

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meditazione) come «questo» (un essere individuale o un mon-do manifestato, secondo che il punto di vista si riferisca al«microcosmo» od al «macrocosmo») o «quello» (Ishwara ol’Essere Universale stesso, al di fuori di ogniindividualizzazione e di ogni manifestazione)» [KenaUpanishad, 1° khanda, shruti 3 a 5. – Ciò che è stato detto perla parola (vach) è poi successivamente ripetuto nelle shruti 6 a9, in termini identici, per il «mentale» (manas), l’occhio(chaksus), l’udito (shrotra) ed il «soffio vitale» (prana)].

Shankaracharya aggiunge il seguente commento: «Undiscepolo che ha seguito attentamente l’esposizione dellanatura di Brahma, potrebbe supporre di conoscerLoperfettamente (almeno teoricamente); però, malgrado leapparenze, una tale opinione è errata. Infatti, il significato benstabilito dei testi concernenti il Vedanta è che il «Sé» diqualunque essere che possiede la Conoscenza è identico aBrahma (poiché questa Conoscenza stessa realizza appuntol’«Identità Suprema»). Ora, è possibile una conoscenzadistintiva e definita per quelle cose che sono suscettibili didiventare oggetti di conoscenza, ma non è così per Quello chenon può diventare un tale oggetto. Ciò è Brahma, poiché Egli eil Conoscitore (totale), e il Conoscitore può conoscere le altrecose (che racchiude tutte nella Sua infinita comprensione,identica alla Possibilità Universale), ma non può Egli stessoessere l’oggetto della Sua propria Conoscenza (poiché, nellaSua identità, che non risulta da alcuna identificazione, non èpiù possibile distinguere nemmeno principialmente, come nellacondizione di Prajna, un soggetto ed un oggetto, che sonotuttavia «lo stesso»; né Egli può cessare d’essere Se stesso,«tutto-conoscente», per diventare «tutto-conosciuto» [Abbiamotradotto così letteralmente i due termini francesitout-connaissant e tout-connu, pur riconoscendo che questa

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maniera è alquanto inadeguata, ma non abbiamo trovato altreparole che meglio esprimessero un tale concetto. Si potevaforse tradurre tout-connaissant per «onnisciente», ma ladifficoltà stava allora nel trovare un termine simmetrico pertout-connu, e ciò ci è stato impossibile (Ndt)], che sarebbe unaltro Se stesso), come, per esempio, il fuoco può bruciare altrecose, ma non può bruciare se stesso (poiché la sua naturaessenziale è indivisibile, come, analogicamente, Brahma è«senza dualità») [Cfr. Brihad-Aranyaka Upanishad, 4°Adhyaya, 5° Brahmana, shruti 14: «Come il Conoscitore(totale) potrebbe essere conosciuto?»]. D’altra parte, non puònemmeno dirsi che Brahma possa essere oggetto di conoscenzaper un altro Se stesso; al di fuori di Lui non vi è infatti unconoscente (poiché ogni conoscenza, anche se relativa, è sem-pre una partecipazione della Conoscenza assoluta e suprema)»[Anche qui possiamo stabilire un avvicinamento con una frasedel Trattato dell’Unità (Risalatul-Ahadiyah) di Mohyiddin ibnArabi: «Nulla, nulla assolutamente esiste, eccetto Lui (Allah),ma Egli comprende la Sua propria esistenza senza (tuttavia)che questa comprensione esista in qualche modo»].

Perciò il testo aggiunge: «Se tu pensi che ben conosci(Brahma), poco della Sua natura tu conosci; perciò tu deviconsiderare Brahma ancora più attentamente. (La risposta èquesta): Non penso di conoscerLo, cioè non Lo conosco bene(in modo distinto, come potrei conoscere un oggettosuscettibile di descrizione o di definizione); tuttavia Loconosco (per l’insegnamento che ho ricevuto sulla Sua natura).Chiunque comprende queste parole (nel loro vero significato):«Non Lo conosco, e tuttavia Lo conosco», quegli veramente Loconosce. Da chi pensa che Brahma è «non-compreso» (da unaqualunque facoltà), Brahma è compreso (poiché, per laConoscenza di Brahma, egli è diventato realmente ed

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effettivamente identico a Brahma stesso); ma chi pensa cheBrahma è compreso (da qualche facoltà sensibile o mentale),quegli non Lo conosce affatto. Brahma (in Se stesso, nella Suaincomunicabile essenza) è conosciuto da quelli che Loconoscono (come un qualsiasi oggetto di conoscenza, sia che sitratti d’un essere particolare o dell’Essere Universale), ed èconosciuto appunto da quelli che non Lo conoscono (come«questo» o «quello») [Kena Upanishad, 2° Khanda, shruti 1 a3. - Ecco un testo taoista completamente identico: «L’Infinitoha detto: non conosco il Principio; questa è una rispostaprofonda. L’Inazione ha detto: io conosco il Principio; questa èuna risposta superficiale. L’Infinito ha avuto ragione asserendod’ignorare l’essenza del Principio; l’Inazione ha potuto asseriredi conoscerLo solo per le Sue manifestazioni esteriori... NonconoscerLo è infatti conoscerLo (nella Sua essenza);conoscerLo (nelle Sue manifestazioni) è non conoscerLo(quale è in realtà). Ma come spiegare che è non conoscendoLoche Lo si conosce? - Ecco come, dice lo Stato primordiale. IlPrincipio non può essere udito; ciò che si ode non è Esso. IlPrincipio non può essere visto; ciò che si vede non è Esso. IlPrincipio non può essere enunciato; ciò che s’enuncia non èEsso... Il Principio, non potendo essere immaginato, non puònemmeno essere descritto. Colui che propone delle questionisul Principio e chi risponde a queste domande, ambeduedimostrano d’ignorare ciò che Esso è, poiché non si puòdomandare né rispondere in merito» (Tchoang-tseu, cap. XXII;trad. del P. Wieger, pp. 397-399)]

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XVI. RAPPRESENTAZIONE SIMBOLICA D’ATMA EDELLE SUE CONDIZIONI FIGURATA DAL

MONOSILLABO SACRO OM

Il seguito della Mandukya Upanishad si riferisce allacorrispondenza del monosillabo sacro Om e dei suoi elementi(matra) con Atma e le sue condizioni (pada); da una parte, essoindica le ragioni simboliche di questa corrispondenza, e,dall’altra, gli effetti della meditazione del simbolo e di ciò cherappresenta, vale a dire d’Om e d’Atma: in questacorrispondenza, il primo rappresenta un «appoggio» perottenere la conoscenza del secondo. Daremo ora la traduzionedi quest’ultima parte del testo; ma non potremo completamentecommentarla, poiché ciò ci allontanerebbe dal soggetto del pre-sente studio.

«Quest’Atma e rappresentato dalla sillaba (per eccellenza)Om, che, a sua volta, e rappresentata da caratteri (matra), (percui) le condizioni (d’Atma) sono le matra (d’Om), e(inversamente) le matra (d’Om) sono le condizioni (d’Atma):questi caratteri sono A, U e M.

«Vaishwanara, il cui seggio è nello stato di veglia, è(rappresentato da) A, la prima matra, perché essa è laconnessione (apti, di tutti i suoni, il suono primordiale A,quello emesso dagli organi della parola nella loro posizionenaturale, essendo come immanente in tutti gli altri, che ne sonomodificazioni diverse e che si unificano in esso, comeVaishwanara è presente in tutte le cose del mondo sensibile,che riconduce all’unità), ed anche perché questa prima matra eil principio (adi, contemporaneamente dell’alfabeto e delmonosillabo Om, come Vaishwanara è la prima dellecondizioni d’Atma, la base da cui deve compiersi, per l’essereumano, la realizzazione metafisica). Quegli che ciò conosce

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ottiene in verità (la realizzazione di) tutti i suoi desideri(poiché, per la sua identificazione con Vaishwanara, tutti glioggetti sensibili divengono dipendenti da lui e parte integrantedel suo proprio essere), ed egli è allora il primo (nel dominio diVaishwanara o di Viraj, di cui diviene il centro in virtù diquesta conoscenza stessa e per l’identificazione che implicaquando è pienamente effettiva).

«Taijasa, il cui seggio è nello stato di sogno, è (rappresentatoda) U, la seconda matra, perché essa è l’elevazione (utkarsha,del suono, prendendo come punto di partenza la sua primamodalità, come lo stato sottile è, nella manifestazione formale,d’un ordine più elevato dello stato grossolano), ed ancheperché partecipa di entrambe (ubhaya, vale a dire che, per lasua natura e per la sua posizione, è intermediaria fra i dueelementi estremi del monosillabo Om, come lo stato di sogno èintermediario, sandhya, fra la veglia ed il sonno profondo).Quegli che ciò conosce procede in verità sulla via dellaConoscenza (in virtù della sua identificazione conHiranyagarbha), e (così illuminato) è in armonia (samana, contutte le cose, poiché considera l’Universo manifestato come laproduzione della sua propria conoscenza, che gli èinseparabile); non uno dei discendenti di chi ciò conosce (valea dire la sua «posterità spirituale») [Questo senso ha anche qui,in virtù dell’identificazione con Hiranyagarbha, un particolarerapporto con l’«Uovo del Mondo» e con le leggi cicliche]ignorerà Brahma.

«Prajna, il cui seggio è nello stato di sonno profondo, è(rappresentato da) M, la terza matra, perché essa è la misura(miti, delle altre due, come, in un rapporto matematico, ildenominatore è la misura del numeratore), ed anche perché è loscopo ultimo (del monosillabo Om, considerato racchiudente lasintesi di tutti, suoni, come il non-manifestato contiene,

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sinteticamente ed in principio, tutto il manifestato con i suoidiversi modi possibili; questo manifestato può essereconsiderato come compreso nel non-manifestato, da cuigiammai s’è distinto se non in modo illusorio e transitorio: lacausa prima è contemporaneamente la causa finale, e la fine ènecessariamente identica al principio) [Per ben comprendere ilsimbolismo qui indicato, bisogna considerate che i suoni di A edi U si unificano in quello di O, e questo a sua volta, sidisperde nel suono finale e nasale di M, senza tuttavia esseredistrutto, ma anzi prolungandosi indefinitamente, anche seindistinto ed impercettibile. - D’altra parte, le formegeometriche che corrispondono rispettivamente alle tre matrasono una linea retta, una semi-circonferenza (o meglio unelemento di spirale) ed un punto: la prima simbolizza ildispiegarsi completo della manifestazione; la seconda, unostato d’inviluppo relativo, in rapporto a questo dispiegarsi, matuttavia ancora sviluppato o manifestato; e finalmente la terza,lo stato informale e «senza dimensioni» o condizioni limitativespeciali, vale a dire il non-manifestato. Si noterà anche che ilpunto è il principio primordiale di tutte le figure geometriche,come parimenti il non-manifestato è il principio di tutti gli statidi manifestazione, e che esso è, nel suo ordine, l’unità vera edindivisibile perciò è il simbolo naturale dell’Essere puro].Quegli che ciò conosce misura in verità questo tutto (vale adire l’insieme dei «tre mondi» o dei differenti gradidell’Esistenza universale, di cui l’Essere puro è il «de-terminante») [Se ciò non fosse qui fuori di luogo, si potrebberofare delle interessanti considerazioni linguistichesull’espressione dell’Essere concepito come «soggettoontologico» e «determinante universale»; osserveremosemplicemente che, in ebraico, il nome divino El vi si riferiscepiù particolarmente. - Tale aspetto dell’Essere è designato dalla

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tradizione indù come Swayambhu, «Colui che sussiste per Sestesso»; nella teologia cristiana, è il Verbo Eterno consideratocome il «luogo dei possibili»; il simbolo estremo-orientale delDragone vi si riferisce ugualmente]; egli diviene lo scopoultimo (di tutte cose, per la concentrazione nel suo proprio Se ola sua personalità, in cui si ritrovano, «trasformati» inpossibilità permanenti, tutti gli stati di manifestazione del suoessere) [Soltanto in questo stato d’universalizzazione, non inquello individuale, si potrebbe veramente dire «l’uomo è lamisura di tutte le cose, di quelle che sono in quanto sono, e diquelle che non sono in quanto non sono», vale a dire,metafisicamente, del manifestato e del non-manifestato,quantunque, rigorosamente parlando, non si possa attribuireuna «misura» al non-manifestato, se con ciò s’intende ladeterminazione per speciali condizioni d’esistenza, comequelle che definiscono ciascuno stato di manifestazione.D’altra parte, sarebbe inutile dire che il sofista greco Protagora,a cui si attribuisce la formula che abbiamo riprodotta,trasponendone il significato per riferirlo all’«UomoUniversale», certamente è stato molto lontano dall’elevarsi finoa questa concezione; perciò, riferendola all’essere umano inquanto individuo, egli aveva semplicemente l’intenzione diesprimere ciò che i moderni chiamerebbero un «relativismo»radicale, mentre, per noi, rappresenta evidentemente tutt’altracosa, come facilmente comprenderanno coloro che conosconoquali rapporti intercorrono fra l’«Uomo Universale» ed ilVerbo Divino (cfr. specialmente S. Paolo, I Epistola aiCorinzii, XV].

«Il Quarto è «non-caratterizzato» (amatra, dunqueincondizionato); esso è non-agente (avyavaharya), senza unatraccia di sviluppo della manifestazione(prapancha-upashama), tutto Beatitudine e senza dualità

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(Shiva Adwaita): ciò è Omkara (il monosillabo sacro conside-rato indipendentemente dalle sue matra), ciò sicuramente éAtma (in Sé, al di fuori ed indipendentemente da qualsiasicondizione o determinazione, non esclusa la determinazioneprincipiale che è l’Essere stesso). Quegli che ciò conosce entrain verità nel suo proprio «Sé» per questo stesso «Sé» (senza unintermediario di qualunque ordine, senza l’uso d’un qualunquestrumento, quale una facoltà di conoscenza, che può soloraggiungere uno stato del «Sé», non Paramatma, il «Sé»supremo ed assoluto)» [Mandukya Upanishad, shruti 8 a 12. -Sulla meditazione di Om ed i suoi effetti in ordini diversi, inrapporto con i tre mondi, si possono trovare altre indicazioninella Prashna Upanishad, 5° Prashna, shruti 1 a 7. Cfr. ancheChhandogya Upanishad, 1° Prapathaka, 1° 4° e 5° Khanda].

Per ciò che concerne gli effetti che si ottengono in virtù dellameditazione (upasana) del monosillabo Om, per ognuna dellesue tre matra dapprima, e poi in se stesso, indipendentementeda queste matra, aggiungeremo soltanto che questi effetticorrispondono alla realizzazione di differenti gradi spirituali,che possono caratterizzarsi come segue: il primo è il pienosviluppo dell’individualità corporea; il secondo è l’estensioneintegrale dell’individualità umana nelle sue modalitàextra-corporee; il terzo è l’attuazione degli stati sopra-individuali dell’essere; finalmente, il quarto è la realizzazionedell’«Identità Suprema».

XVII. L’EVOLUZIONE POSTUMA DELL’ESSEREUMANO

Fin qui abbiamo considerato la costituzione dell’essereumano ed i differenti stati di cui è suscettibile finché sussistecomposto dei diversi elementi che abbiamo distinto in questa

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costituzione, vale a dire per tutta la durata della sua vitaindividuale. Su questo punto è necessario tuttavia insistere: glistati che sono veramente propri all’individuo come tale, vale adire non soltanto lo stato grossolano o corporeo, per cui la cosaè evidente, ma anche lo stato sottile (a condizione s’intende dicomprendervi solamente le modalità extra-corporee dello statoumano integrale, e non gli altri stati individuali dell’essere),sono propriamente ed essenzialmente degli stati dell’uomovivente. Non bisogna con ciò credere che lo stato sottile cessiall’istante stesso e soltanto per il fatto della morte corporea; inseguito vedremo che allora si produce, al contrario, unpassaggio dell’essere nella forma sottile, ma questo passaggionon costituisce che una fase transitoria nel riassorbimento dellefacoltà individuali dal manifestato al non-manifestato, fase lacui esistenza si spiega naturalmente per il carattered’intermediario che già abbiamo riconosciuto allo stato sottile.È possibile, tuttavia, in verità, considerare in un certo senso, eper lo meno in certi casi, un prolungamento ed anche unprolungamento indefinito dell’individualità umana, chebisognerà necessariamente riferire alle modalità sottili, cioèextra-corporee, di questa individualità; ma tale prolungamentonon è affatto la stessa cosa dello stato sottile quale esistevadurante la vita terrestre. Bisogna ben rendersi conto, infatti,che, sotto la stessa denominazione di «stato sottile», è d’uopocomprendere modalità differentissime ed estremamentecomplesse, anche se ci limitiamo a rilevare solamente lepossibilità propriamente umane; perciò abbiamo avuto cura, findal principio, di prevenire che questa denominazione dovevasempre essere intesa in rapporto allo stato corporeo, presocome punto di partenza e termine di paragone, per cui nonacquista un senso preciso che se opposta a questo statocorporeo o grossolano, che, da parte sua, ci appare

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sufficientemente definito per se stesso, perché è quello nelquale presentemente noi ci troviamo. Si sarà potuto anchenotare che, fra i cinque involucri del «Sé», tre ne costituisconola forma sottile (mentre uno solo corrisponde ad ognuno deglialtri due stati condizionati d’Atma: per l’uno, perché è in realtàappena una modalità speciale e determinata dell’individuo; perl’altro, perché è uno stato essenzialmente unificato e«non-distinto»); ciò è ancora una prova ben manifesta dellacomplessità dello stato nel quale il «Sé» ha questa forma perveicolo, complessità che sempre bisogna ricordare se si vuolben comprendere ciò che potrà dirsene quando sarà consideratoda punti di vista differenti.

Dobbiamo ora affrontare l’argomento che ordinariamente sidenomina l’«evoluzione postuma» dell’essere umano, vale adire le conseguenze che derivano per quest’essere dalla morteo, per meglio precisare come intendiamo questa parola, dalladissoluzione di quel composto di cui abbiamo parlato e checostituisce la sua individualità attuale. È bene d’altronde notareche, quando questa dissoluzione è avvenuta, non vi è piùpropriamente l’essere umano, poiché è appunto essenzialmentequesto composto che costituisce l’uomo individuale; il solocaso in cui è ancora possibile chiamarlo umano, in un certosenso, è quando, dopo la morte corporea, l’essere resta inqualcuno di quei prolungamenti dell’individualità a cuialludevamo, perché, in tal caso, quantunque questaindividualità non sia più completa nel rapporto dellamanifestazione (poiché lo stato corporeo ormai manca ad essa,le possibilità che vi corrispondono avendo compiuto l’interociclo del loro sviluppo), alcuni dei suoi elementi psichici osottili sussistono, in un certo qual modo, senza dissolversi.Negli altri casi, l’essere non può più considerarsi umano,poiché, dallo stato al quale s’applica questo nome, è passato ad

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un altro stato, che può essere individuale o non; così, l’essereche prima era umano non lo è più, diventando altra cosa, comeparimenti, per la nascita, esso era divenuto umano, passando daun altro stato a quello che presentemente è il nostro. Del resto,se si considera la nascita e la morte nel senso più generale, valea dire come cambiamenti di stato, ci renderemo contoimmediatamente che sono delle modificazioni che sicorrispondono analogicamente, essendo il principio e la fined’un ciclo d’esistenza individuale; ed anche, quando si esce dalpunto di vista speciale d’uno stato determinato per considerareil concatenamento dei diversi stati fra loro, ci accorgiamo che,in realtà, sono fenomeni rigorosamente equivalenti, la morte,per uno stato, essendo nello stesso tempo la nascita in un altro.In altre parole, è la stessa modificazione che è una morte oduna nascita, secondo lo stato od il ciclo d’esistenza in rapportoal quale la si considera, poiché è propriamente il punto comuneai due stati, od il passaggio dall’uno all’altro; e ciò che è veroqui per stati differenti, lo è anche, ad un altro grado, permodalità diverse d’uno stesso stato, se si considerano questemodalità come costituenti, quanto allo sviluppo delle loropossibilità rispettive, altrettanti cicli secondari che s’integranonell’insieme d’un ciclo più vasto [Queste considerazioni sullanascita e sulla morte son d’altronde riferibili tanto al punto divista «macrocosmico» che a quello «microcosmico»; anchesenza insistervi presentemente, si potranno senza dubbiointravvedere le conseguenze che ne risultano per quel che con-cerne la teoria dei cicli cosmici]. In fine, è necessarioaggiungere espressamente che la «specificazione», nel senso danoi dianzi attribuito alla parola, vale a dire l’appartenenza aduna specie definita, quale la specie umana, che impone ad unessere certe condizioni generali costituenti la natura specifica, èvalida solamente in uno stato determinato, ne può estendersi di

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là da questo stato; è impossibile che sia altrimenti, dacché laspecie non è affatto un principio trascendente in rapporto aquesto stato individuale, ma rileva esclusivamente del dominiodi questo, essendo essa stessa sottomessa alle condizioni limi-tative che lo definiscono; perciò l’essere che è passato ad unaltro stato non è più umano, poiché non più appartiene allaspecie umana [Ben inteso, in tutto questo, la parola «umano» èda noi usata solamente nel suo senso proprio e letterale, quelloche si applica soltanto all’uomo individuale; non si trattaaffatto della trasposizione analogica che permette la concezionedell’«Uomo Universale»].

Dobbiamo ancora fare delle riserve sull’espressione di«evoluzione postuma», che potrebbe facilmente dar luogo adiversi equivoci; prima di tutto, la morte essendo concepitacome la dissoluzione del composto umano, è ben evidente chela parola «evoluzione» non può essere qui intesa nel senso diuno sviluppo individuale, poiché, al contrario, si tratta d’unriassorbimento dell’individualità nello stato non-manifestato[Non si deve però credere che ciò sia una distruzionedell’individualità, poiché, nel non-manifestato, le possibilitàche la costituiscono sussistono in principio, in un modopermanente, come tutte le altre possibilità dell’essere, ma,tuttavia, poiché l’individualità non è tale che quando è nellamanifestazione, si può ben dire che, rientrando nelnon-manifestato, essa svanisce infatti o cessa comunqued’esistere come individualità: essa però è «trasformata», nonannientata (poiché ciò che è non può cessare d’essere)]; potreb-be essere dunque piuttosto un’«involuzione» dal punto di vistaspeciale dell’individuo. Etimologicamente, infatti, le parole«evoluzione» ed «involuzione» significano né più né meno che«sviluppo» ed «inviluppo» [In questo senso, ma soltanto inquesto, si potrebbero applicare tali parole alle due fasi che si

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distinguono in ogni ciclo d’esistenza, come precedentementel’abbiamo indicato]; ma ben sappiamo che, nel linguaggiomoderno, la parola «evoluzione» ha ricevuto comunemente tut-t’altra accezione, che ne ha fatto quasi un sinonimo di«progresso». Abbiamo già avuto l’occasione di spiegarcisufficientemente su queste idee recentissime di «progresso» odi «evoluzione», che, ampliandosi oltre ogni misuraragionevole, sono riuscite a falsare completamente la mentalitàoccidentale attuale: non v’insisteremo ulteriormente. Diremoperò soltanto che si può validamente parlare di «progresso»solamente in modo tutto relativo, avendo sempre cura diprecisare sotto quale rapporto lo si intende e fra quali limiti losi considera; ridotto a queste proporzioni, non ha più comunemisura con quel «progresso» assoluto, di cui si è cominciato aparlare verso la fine del XVIII secolo, e che i nostricontemporanei si compiacciono di decorare col nomed’«evoluzione», sedicente più «scientifico» [Rimandiamo illettore all’altro importante studio del Guénon, Orient etOccident, dove sono ampiamente sviluppate ed affrontate lequestioni di cui presentemente l’Autore si è limitato a sempliciaccenni (Ndt)]. Il pensiero orientale, come il pensierodell’Occidente antico e medioevale, non potrebbe ammettere lanozione di «progresso» che nel senso relativo da noi indicato,vale a dire come un’idea del tutto secondaria e di portataestremamente limitata, senza alcun valore metafisico, poiché èdi quelle che possono riferirsi solamente a possibilità d’ordineparticolare, né possono trasporsi oltre certi limiti. Il punto divista «evolutivo» non è suscettibile d’universalizzazione, né sipuò concepire l’essere vero come qualche cosa che «evolva»fra due punti definiti o che comunque «progredisca», anche in-definitamente, in un senso determinato; tali concezioni sonointeramente sprovviste di ogni significato e provano una

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completa ignoranza dei dati i più elementari della metafisica. Sipotrebbe tutt’al più parlare, in un certo modo, d’«evoluzione»per l’essere nel senso d’un passaggio ad uno stato superiore;ma bisognerebbe ancora ammettere una restrizione chegarantisca al termine la sua relatività: infatti, per l’essereconsiderato in sé e nella sua totalità, non può mai trattarsid’«evoluzione» o d’«involuzione», in qualsiasi senso si vo-gliano intendere queste parole, poiché la sua identità essenzialenon è mai alterata dalle modificazioni particolari e contingentiche pregiudicano soltanto tale o tal altro dei suoi staticondizionati.

Un’altra riserva è ancora necessaria per l’uso della parola«postumo»: è soltanto dal punto di vista specialedell’individualità umana, ed in quanto questa è condizionatadal tempo, che si può parlare di ciò che si produrrà «dopo lamorte», ed anche di ciò che avveniva «prima della nascita», perlo meno se s’intende conservare alle parole «prima» e «dopo»quel significato cronologico che hanno ordinariamente. In sestessi, gli stati considerati, se sono al di fuori dell’individualitàumana, non sono affatto temporali, né possono, perconseguenza, essere rilevati cronologicamente; e questo è veroanche per quegli stati che possono avere fra le loro condizioniun certo modo di durata, vale a dire di successione, ma che nonsia più la successione temporale. Quanto allo statonon-manifestato, si capisce naturalmente che è libero da ognisuccessione, perciò le idee d’anteriorità e di posteriorità, anchese considerate nella loro più vasta accezione, non vi si possonoaffatto riferire; è l’occasione di notare, a questo proposito, che,anche durante la vita, l’essere non ha più nozione del tempoquando la sua coscienza è al di fuori dell’individualità, comenel sonno profondo o nello stato estatico: finche l’essere è inquesti stati, che sono veramente non-manifestati, il tempo non

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esiste più per lui. Resterebbe da esaminare il caso per cui lostato «postumo» è un semplice prolungamentodell’individualità umana: in verità, questo prolungamento puòsituarsi nella «perpetuità», vale a dire nell’indefinità temporale,o, in altre parole, in un modo di successione ancora nel tempo(poiché non si tratta d’uno stato sottomesso ad altre condizionidi quelle del nostro), ma un tempo che non ha più comunemisura con quello nel quale si svolge l’esistenza corporea.D’altronde, metafisicamente, un tale stato non c’interessa inparticolar modo, poiché, al contrario, dobbiamo rilevareessenzialmente, allo stesso punto di vista metafisico, lapossibilità di uscire dalle condizioni individuali, e non quella dipermanervi indefinitamente; se dobbiamo però tuttaviaparlarne, è appunto per non tralasciare nemmeno uno dei casipossibili, ed anche perché, come in seguito lo vedremo, questoprolungamento dell’esistenza umana riserba all’essere unapossibilità di raggiungere la «Liberazione» senza passare peraltri stati individuali. Checché ne sia, e mettendo da partequest’ultimo caso, possiamo dire questo: se si parla degli statinon-umani come posti «prima della nascita» e «dopo la morte»,è, in primo luogo, perché così essi appaiono in rapportoall’individualità; ma bisogna d’altronde aver molta cura dispecificare che non è affatto l’individualità che passa in questistati, né li percorre successivamente, poiché sono degli statiche stanno al di fuori del suo dominio e che non la concernonoin quanto individualità. D’altra parte, vi è un senso nel quale sipossono applicare le idee d’anteriorità e di posteriorità al difuori di ogni punto di vista di successione temporale o nontemporale: intendiamo quell’ordine, contemporaneamentelogico ed ontologico, secondo cui i diversi stati si concatenanoe si determinano l’un l’altro; se uno stato è così la conseguenzad’un altro, si potrà dire che è ad esso posteriore, usando in un

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tal modo di parlare lo stesso simbolismo temporale che servead esprimere tutta la teoria dei cicli, quantunque,metafisicamente, vi sia perfetta simultaneità fra tutti gli stati,un punto di vista di successione effettiva non applicandosi chedentro ad uno stato determinato.

Ci siamo soffermati su queste considerazioni affinché non siattribuisse all’espressione d’«evoluzione postuma», se si vuolconservarla per mancanza di un’altra più adatta e perconformarsi a certe abitudini, una importanza ed un significatoche in realtà non ha né potrebbe avere; ritorniamo dunque allostudio della questione alla quale essa si riferisce, e la cuisoluzione, d’altronde, risulta quasi immediatamente da tutte leconsiderazioni che precedono. L’esposizione che seguirà ètratta dai Brahma-Sutra [4° Adhyaya, 2°, 3° e 4° Pada. - Il 1°Pada di questo 4° Adhyaya è dedicato all’esame dei mezzi dellaConoscenza Divina, i cui risultati saranno esposti in quel chesegue] e dai loro commenti tradizionali (intendiamo soprattuttoquello di Shankaracharya), ma dobbiamo mettere sull’avvisoche non ci limiteremo ad una traduzione letterale; qualche voltaabbiamo dovuto riassumere il commento [Colebrooke ha datoun riassunto di questo genere nei suoi Essais sur laPhilosophie des Hindous (IV Essai), ma la sua interpretazione,quantunque non deformata da pregiudizi sistematici come se neriscontrano troppo frequentemente nei lavori di altriorientalisti, è estremamente difettosa da punto di vistametafisico, per l’incomprensione pura e semplice di questopunto di vista stesso] ed altre volte commentarlo a sua volta,perché, diversamente, questo riassunto sarebbe stato quasiincomprensibile, come spesso avviene quando si trattadell’interpretazione dei testi orientali [Faremo notare che, inarabo, la parola tarjumah significa contemporaneamente«traduzione» e «commento», poiché entrambi sono considerati

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inseparabili; il suo equivalente più esatto sarebbe dunque«spiegazione» od «interpretazione». Si può anche dir quando sitratta dei testi tradizionali, che una traduzione in linguavolgare, per essere intelligibile, deve corrispondere esattamentead un commento fatto nella lingua stessa del testo; latraduzione letterale da una lingua orientale in una occidentale ègeneralmente impossibile, e quando più rigorosamente si seguela lettera, tanto più ci si allontana dallo spirito; ma,disgraziatamente, i filologi non riescono a comprendere questecose].

XVIII.IL RIASSORBIMENTODELLE FACOLTÀ INDIVIDUALI

«Quando un uomo sta per morire, la parola e poi il resto delledieci facoltà esterne (le cinque facoltà d’azione e le cinque disensazione, manifestate esteriormente dagli organi corporei chevi corrispondono, ma non confuse con essi, poiché qui se neseparano) [La parola è enumerata l’ultima quando questefacoltà sono considerate nel loro ordine di sviluppo; essa devedunque essere la prima nell’ordine di riassorbimento, inversodell’ordine precedente], è riassorbita nel senso interno (manas),poiché l’attività degli organi esteriori cessa prima di questafacoltà interiore (che è così lo scopo ultimo di tutte le facoltàindividuali di cui si tratta, come ne è parimenti il punto dipartenza e l’origine comune) [Chhandogya Upanishad, 6°Prapathaka, 8° Khanda, shruti 6]. Questa facoltà interiore, nellostesso modo, si riassorbe poi nel «soffio vitale» (prana),accompagnata similmente da tutte le funzioni vitali (i cinquevayu, che sono delle modalità di prana, e che così ritornanoallo stato indifferenziato), poiché queste funzioni sonoinseparabili dalla vita stessa; d’altronde, lo stesso

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riassorbimento del senso interno si nota anche nel sonnoprofondo e nello stato estatico (con la completa sospensione diogni manifestazione esteriore della coscienza)». Aggiungiamoche questa cessazione non implica tuttavia sempre,necessariamente, la sospensione totale della sensibilitàcorporea, specie di coscienza organica, se così è datoesprimerci, quantunque la coscienza individuale propriamentedetta non rappresenti allora alcuna parte nelle manifestazioni diquesta, con la quale non comunica più come avviene normal-mente negli stati ordinari dell’essere vivente; la ragione è facilea comprendersi, non essendovi, a vero dire, più coscienzaindividuale nei casi di cui si tratta, poiché la coscienza veradell’essere si è trasferita in un altro stato, che, in realtà, è unostato sopra-individuale. Questa coscienza organica, alla qualealludevamo, non è una coscienza nel vero senso della parola,ma ne partecipa in qualche modo, dovendo la sua origine allacoscienza individuale di cui è come un riflesso; separata daquesta, essa non è più che un’illusione di coscienza, ma puòancora averne l’apparenza per coloro che osservano le cosesolamente dall’esterno [Perciò, in un’operazione chirurgica,l’anestesia la più completa non impedisce sempre i sintomiesteriori del dolore]; parimenti, dopo la morte, la persistenza dicerti elementi psichici, più o meno dissociati, quando hanno lapossibilità di manifestarsi, come l’abbiamo spiegato in altrecircostanze, può presentare la stessa apparenza, non menoillusoria [La coscienza organica di cui si tratta rientranaturalmente in ciò che gli psicologi chiamano la«subcoscienza»; ma il loro grave torto consiste nel credere diavere sufficientemente spiegato quello a cui in realtà si sonolimitati ad attribuire una semplice denominazione, sotto laquale, del resto, classificano gli elementi più disparati, senzanemmeno poter stabilire la distinzione fra ciò che è veramente

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cosciente a qualche grado e ciò che ne ha soltanto l’apparenza,e neanche fra il «subcosciente» vero ed il «supercosciente»,vogliamo dire fra ciò che procede da stati rispettivamenteinferiori e superiori in rapporto allo stato umano].

«Il «soffio vitale», accompagnato similmente da tutte le altrefunzioni e facoltà (già in esso riassorbite e non sussistendoviche come possibilità, poiché sono ormai ritornate allo statod’indifferenziazione da cui erano dovute uscire per manifestarsieffettivamente durante la vita), a sua volta, è riassorbitonell’«anima vivente» (jivatma, manifestazione particolare del«Sé» al centro dell’individualità umana, come precedentementel’abbiamo spiegato, e distinguentesi dal «Sé» finché questaindividualità sussiste come tale, quantunque questa distinzionesia d’altronde del tutto illusoria in rapporto alla realtà assoluta,per la quale non vi è altro che il «Sé»); ed è appuntoquest’«anima vivente» (come riflesso del «Sé» e principiocentrale dell’individualità) che governa l’insieme delle facoltàindividuali (considerate nella loro integralità, e non soltanto inciò che concerne la modalità corporea) [Si può notare cheprana, anche se si manifesta esteriormente con la respirazione,è, in realtà, tutt’altro che la respirazione stessa, poiché non sicomprenderebbe come la respirazione, funzione fisiologica, sisepari dall’organismo e si riassorba nell’«anima vivente»;ricorderemo ancora che prana e le sue diverse modalitàappartengono essenzialmente allo stato sottile]. Come i servid’un re si riuniscono intorno a lui quando egli è in procintod’intraprendere un viaggio, così tutte le funzioni vitali e lefacoltà (esterne ed interne) dell’individuo si riuniscono intornoall’«anima vivente» (o piuttosto proprio in essa, da cuiprocedono tutte e nella quale sono riassorbite) all’ultimomomento (della vita nel senso ordinario della parola, vale adire dell’esistenza manifestata nello stato grossolano), quando

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quest’«anima vivente» sta per ritirarsi dalla sua forma corporea[Brihad-Aranyaka Upanishad, 4° Adhyaya, 3° Brahmana,shruti 38]. Così, accompagnata da tutte le sue facoltà (poiché lecontiene e le conserva in sé a titolo di possibilità) [Del resto,una facoltà è propriamente un potere, vale a dire unapossibilità, che, in se stessa, è indipendente da ogni esercizioattuale], essa si ritira in un’essenza individuale luminosa (valea dire nella forma sottile, assimilata ad un veicolo igneo, comel’abbiamo spiegato a proposito di Taijasa, la secondacondizione d’Atma), che è composta dei cinque tanmatra oessenze elementari soprasensibili (come la forma corporea écomposta dei cinque bhuta o elementi corporei e sensibili), inuno stato sottile (in opposizione allo stato grossolano, che èquello della manifestazione esteriore o corporea, il cui ciclo èormai compiuto per l’individuo considerato).

«Per conseguenza (in virtù di questo passaggio nella formasottile, descritta come luminosa), si dice che il «soffio vitale» siritira nella Luce, senza che s’intenda da ciò il principio igneo inmodo esclusivo (poiché si tratta in realtà d’un riflessoindividualizzato dalla Luce intelligibile, riflesso la cui natura èin fondo la stessa di quella del «mentale» durante la vitacorporea, e che, d’altronde, implica come appoggio o veicolouna combinazione dei principi essenziali dei cinque elementi),e senza che questo ritrarsi si effettui necessariamente per unatransizione immediata; infatti (per usare un paragone), si diceche un viaggiatore si reca da una città ad un’altra, anche se siferma successivamente ad una od a più città intermedie.

«Questo ritrarsi o quest’abbandono della forma corporea(quale fin qui è stato descritto) è d’altronde comune al popoloignorante (avidwan) ed al Saggio contemplativo (vidwan), findove cominciano, per l’uno e per l’altro, le loro vie rispettive (ed’ora innanzi differenti); l’immortalità (amrita, senza tuttavia

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che l’Unione immediata col Supremo Brahma sia subitoottenuta) è il risultato della semplice meditazione (upasana,compiuta durante la vita, senza però essere stata accompagnatada una realizzazione effettiva degli stati superiori dell’essere),quando i vincoli individuali, che risultano dall’ignoranza(avidya), non possono ancora essere completamente distrutti»[Brahma-sutra, 4° Adhyaya, 2° Pada, sutra 1 a 7].

Qui torna a proposito fare un’importante nota sul senso nelquale deve intendersi l’«immortalità» di cui è questione: infatti,abbiamo detto altrove che la parola sanscrita amrita si riferisceesclusivamente ad uno stato che è superiore ad ognicambiamento, mentre, con una corrispondente parola, gliOccidentali intendono semplicemente un’estensione dellepossibilità dell’ordine umano, che consiste in unprolungamento indefinito della vita (ciò che la tradizioneestremo-orientale chiama «longevità»), in condizioni che sonoin un certo qual modo trasposte, ma che sempre restano più omeno paragonabili a quelle dell’esistenza terrestre, poichéconcernono ugualmente l’individualità umana. Ora, nel casopresente, si tratta d’uno stato che è ancora individuale, etuttavia si sostiene che l’immortalità può essere ottenutaappunto in questo stato; ciò può sembrare contraddittorio conquanto abbiamo ricordato, poiché si potrebbe credere che sitratti dell’immortalità relativa, intesa nel senso degliOccidentali; ma, in realtà, è tutt’altra cosa. È ben vero, infatti,che l’immortalità, in senso metafisico ed orientale, perché siapienamente effettiva, non può essere raggiunta cheoltrepassando tutti gli stati condizionati, individuali o non,perciò s’identifica all’Eternità stessa, essendo assolutamenteindipendente da ogni modo possibile di successione; sarebbedunque del tutto abusivo attribuire lo stesso nome alla«perpetuità» temporale o all’indefinità d’una qualsiasi durata;

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ma non è in tal senso che bisogna considerare l’immortalità dicui si tratta. È necessario ritenere che l’idea di «morte» èessenzialmente sinonimo di cambiamento di stato, che, comegià l’abbiamo spiegato, è la sua accezione più vasta; quando sidice che l’essere ha virtualmente raggiunto l’immortalità,bisogna intendere che esso non dovrà più passare per altri staticondizionati, differenti da quello umano, o percorrere altri ciclidi manifestazione. Non è dunque ancora la «Liberazione»attualmente realizzata, per la quale l’immortalità sarebbe resaeffettiva, poiché i «vincoli individuali», vale a dire lecondizioni limitative alle quali l’essere è sottomesso, non sonointeramente distrutti; ma è la possibilità d’ottenere questa«Liberazione» prendendo come punto di partenza lo statoumano, nel cui prolungamento l’essere si trova mantenuto pertutta la durata dei ciclo al quale questo stato appartiene (ciò checostituisce propriamente la «perpetuità») [La parola greca significa realmente «perpetuo», non «eterno», poichéderiva da (identico al latino aevum), che designa un cicloindefinito, ciò che, del resto, era anche il significato primitivodel latino saeculum, «secolo», col quale lo si traduce talvolta],affinché esso possa essere compreso nella «trasformazione»finale che si compirà quando questo ciclo sarà compiuto,riconducendo quello che allora vi sarà contenuto allo statoprincipiale di non-manifestazione [Vi sarebbero da fare delleconsiderazioni sulla traduzione di questa «trasformazione»finale in linguaggio teologico nelle religioni occidentali, eparticolarmente sulla concezione dell’«Ultimo Giudizio» che viè strettamente legata; ma sarebbero necessarie spiegazionitanto circostanziate ed una messa a punto tanto complessa, percui non è affatto possibile soffermarci sulla questione, tanto piùche, infatti, il punto di vista propriamente religioso si limitaalla considerazione della fine d’un ciclo secondario, di là dal

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quale può esservi ancora una continuazione dell’esistenza nellostato individuale umano, ciò che sarebbe impossibile se sitrattasse dell’integralità del ciclo al quale appartiene questostato. Ciò non significa, però, che la trasposizione non possafarsi prendendo come punto di partenza il punto di vistareligioso, come l’abbiamo più sopra indicato in merito alla«resurrezione dei morti» ed al «corpo di gloria»; ma,praticamente, questa trasposizione non è fatta da quelli che siattengono alle concezioni ordinarie ed «esteriori», per i qualinulla vi è di là dall’individualità umana; ritorneremo su questeconsiderazioni a proposito della differenza essenziale che esistefra la nozione religiosa della «salvezza» e quella metafisicadella «Liberazione»]. Perciò si attribuisce a questa possibilità ilnome di «Liberazione differita» o di «Liberazione per gradi»(krama-mukti), perché essa non sarà ottenuta che dopo tappeintermedie (stati postumi condizionati), e non direttamente edimmediatamente come negli altri casi di cui sarà fatto parolapiù innanzi [S’intende che la «Liberazione differita» è la solache possa essere considerata per l’immensa maggioranza degliesseri, ciò che, d’altronde, non significa che tutti,indistintamente, vi perverranno, poiché bisogna ancoraammettere il caso per cui l’essere, non avendo ottenutonemmeno l’immortalità virtuale, deve passare ad un altro statoindividuale, nel quale avrà naturalmente la stessa possibilità diraggiungere la «Liberazione» come nello stato umano, maanche, se così si può dire, la stessa possibilità di nonpervenirvi].

XIX. DIFFERENZA DELLE CONDIZIONI POSTUMESECONDO I GRADI DELLA CONOSCENZA

«Finché in questa condizione (ancora individuale), lo spirito

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(che, per conseguenza, è ancora jivatma) di colui che hapraticato la meditazione (durante la sua vita, senza raggiungereil possesso effettivo degli stati superiori del suo essere) restaunito alla forma sottile (che può considerarsi anche il prototipoformale dell’individualità, poiché la manifestazione sottilerappresenta uno stadio intermediario fra il non-manifestato e lamanifestazione grossolana, e rappresenta anche il principioimmediato in rapporto a quest’ultima); in questa forma sottile,esso è associato alle facoltà vitali (allo stato di riassorbimento odi contrazione principiale di cui, presentemente, è stato fattoparola)». È, infatti, necessario che vi sia ancora una forma dicui l’essere si rivesta, appunto perché la sua condizione semprerileva dall’ordine individuale; questa forma non può essere chequella sottile, poiché esso è uscito da quella corporea, ed ancheperché, d’altronde, la forma sottile deve sussistere all’altra,avendola preceduta nell’ordine dello sviluppo in modomanifestato, che trovasi riprodotto in senso inverso nel ritornoal non-manifestato; ma ciò non significa che questa formasottile debba conservarsi allora esattamente quale era durante lavita corporea, come veicolo dell’essere umano nello stato disogno [Vi è una certa continuità fra i differenti stati dell’essere,ed a più forte ragione fra le diverse modalità che fanno parte diuno stesso stato di manifestazione; l’individualità umana,anche nelle sue modalità extra-corporee, deve necessariamenteessere pregiudicata dalla scomparsa della sua modalitàcorporea; d’altronde, vi sono elementi psichici, mentali ed altri,la cui unica ragione d’essere è nel rapporto che hanno conl’esistenza corporea, perciò la disintegrazione del corpo devecondurre alla disintegrazione di questi elementi, che vi stannolegati e che, per conseguenza, sono anche abbandonatidall’essere al momento della morte intesa nel senso ordinariodella parola]. Abbiamo già asserito che la condizione

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individuale stessa, in modo del tutto generale e non soltanto perquel che concerne lo stato umano, può definirsi lo stato dell’es-sere che è limitato da una forma; ma è bene intendere chequesta forma non è necessariamente determinata in modospaziale e temporale, come nel caso particolare dello statocorporeo; essa non può affatto esserlo negli stati non-umani,non sottomessi allo spazio ed al tempo, ma a tutt’altrecondizioni. Quanto alla forma sottile, se non sfuggeinteramente al tempo (quantunque questo non sia più quello nelquale si svolge l’esistenza corporea), essa sfugge per lo menoallo spazio, e perciò non bisogna affatto rappresentarsela comeuna specie di «doppio» del corpo [Gli stessi psicologiriconoscono che il «mentale» o il pensiero individuale, l’unicacosa a loro accessibile, è al di fuori della condizione spaziale; ènecessaria tutta l’ignoranza dei «neo-spiritualisti» per voler«localizzare» le modalità extra-corporee dell’individuo epensare che gli stati postumi possano situarsi in qualche partedello spazio], e nemmeno la si deve considerare come il suo«modello» quando asseriamo che è il prototipo formaledell’individualità all’origine della sua manifestazione [Comeprecedentemente l’abbiamo spiegato, la parola pinda, insanscrito, designa propriamente questo prototipo sottile, nonl’embrione corporeo; questo prototipo preesiste, d’altronde,alla nascita dell’individuo, poiché è contenuto inHiranyagarbha fin dall’origine della manifestazione ciclica,come una delle possibilità che dovranno svilupparsi durantequesta manifestazione; ma la sua preesistenza non è allora chevirtuale, nel senso che non è punto ancora uno stato dell’esseredi cui è destinato a diventare la forma sottile, poiché que-st’essere non è attualmente nello stato corrispondente, dunquenon esiste come individuo umano; la stessa considerazione puòanalogicamente applicarsi al germe corporeo, se è parimenti

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considerato come preesistente in un certo modo negli avidell’individuo di cui si tratta, e ciò fin dall’origine dell’umanitàterrestre]; siamo troppo bene edotti delle più grossolanerappresentazioni a cui facilmente giungono gli Occidentali, equali gravi errori ne possono risultare, per non prendere aquesto riguardo tutte le precauzioni necessarie.

«L’essere può restare così (in questa stessa condizioneindividuale, nella quale è unito alla forma sottile) fino alladissoluzione esteriore (pralaya, che significa il rientrare nellostato indifferenziato) dei mondi manifestati (del ciclo attuale,che contemporaneamente implica lo stato grossolano e quellosottile, vale a dire l’intero dominio dell’individualità umanaconsiderata nella sua integralità) [L’insieme dellamanifestazione universale è spesso designato in sanscrito conla parola samsara; come già l’abbiamo indicato, quest'insiemecomporta una indefinità di cicli, vale a dire di stati o di gradid’esistenza, talché ognuno di questi cicli, avendo fine nel pra-laya, come quello qui più particolarmente considerato, noncostituisce propriamente che un momento del samsara.D’altronde, ricorderemo una volta ancora, per evitare ogniequivoco, che il concatenamento di questi cicli è, in realtà, diordine causale e non successivo; le espressioni usate a questoriguardo analogicamente all’ordine temporale debbono dunqueessere considerate puramente simboliche], dissoluzione per laquale esso è immerso (con l’insieme degli esseri di questimondi) nel seno del Supremo Brahma; anche allora, tuttavia,esso può essere unito a Brahma solamente nel modo stessocome durante il sonno profondo (vale a dire senza larealizzazione piena ed effettiva dell’«Identità Suprema»). Inaltri termini, per usare il linguaggio di certe scuole esotericheoccidentali, l’ultimo caso qui menzionato corrispondesolamente ad una «reintegrazione in modo passivo», mentre la

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vera realizzazione metafisica è una «reintegrazione in modoattivo», la sola che implichi veramente il possesso per l’esseredel suo stato assoluto e definitivo. Ciò è precisamente indicatodal paragone col sonno profondo, quale si verifica durante lavita dell’uomo ordinario: come vi è un ritorno da questo statoalla condizione individuale, vi può anche essere, per colui che eunito a Brahma solamente «in modo passivo», un ritorno ad unaltro ciclo di manifestazione, perciò il risultato da lui ottenuto,prendendo come punto di partenza lo stato umano, non èancora la «Liberazione» o la vera immortalità; il suo caso puòparagonarsi infine (quantunque con una differenza notevolequanto alle condizioni del suo nuovo ciclo) a quello dell’essereche, invece di restare fino al pralaya nei prolungamenti dellostato umano, è passato, dopo la morte corporea, ad un altrostato individuale. Affiancato al caso citato, dobbiamoconsiderarne un altro per cui la realizzazione degli statisuperiori e quella stessa dell’«Identità Suprema», non compiutedurante la vita corporea, sono effettuate nei prolungamentipostumi dell’individualità: l’immortalità, da virtuale, divieneallora effettiva, e ciò può, d’altra parte, aver luogo proprio allafine stessa del ciclo: si tratta dunque della «Liberazionedifferita», di cui abbiamo parlato precedentemente. Sianell’uno che nell’altro caso, l’essere, che deve considerarsicome jivatma congiunto alla forma sottile, si trova, per tutta ladurata del ciclo, «incorporato» in qualche modo [Questaparola, che qui usiamo per rendere più chiaramente le idee danoi esposte con l’ausilio dell’immagine che evoca, non deveintendersi letteralmente, poiché non si tratta affatto d’uno statocorporeo] a Hiranyagarbha, che è considerato comejiva-ghana, secondo quanto già dicemmo; esso resta dunquesottomesso a questa condizione speciale d’esistenza che è lavita (jiva), dalla quale è definito il dominio proprio di

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Hiranyagarbha nell’ordine gerarchico dell’Esistenzauniversale.

«Questa forma sottile (in cui, dopo la morte, risiede l’essereche resta così nello stato individuale umano) è (se paragonatacon la forma corporea o grossolana) impercettibile ai sensi perle sue dimensioni (vale a dire perché essa è fuori dellacondizione spaziale) ed anche per la sua consistenza (o per lasua propria sostanza, che non è costituita da una combinazionedegli elementi corporei); per conseguenza, essa non colpisce lapercezione (o le facoltà esterne) di coloro che sono presentiquando si separa dal corpo (dopo che l’«anima vivente» vi si èritirata). Questa forma sottile non può nemmeno esserepregiudicata dalla combustione o dagli altri processi che ilcorpo subisce dopo la morte (che è il risultato di questaseparazione, in conseguenza della quale nessun’azione diordine sensibile può più ripercuotersi sulla forma sottile, nésulla coscienza individuale che, essendovi legata, non ha piùormai relazione col corpo). Essa è soltanto sensibile per il suocalore animatore (la sua qualità propria in quanto è assimilataal principio igneo) [Come più sopra l’abbiamo indicato, questocalore animatore, rappresentato come fuoco interno, è spessoidentificato a Vaishwanara, considerato, in questo caso, non piùcome la prima condizione d’Atma, di cui abbiamo parlato, macome il «Reggitore del Fuoco», di cui parleremo più avanti;Vaishwanara è allora uno dei nomi d’Agni, di cui specifica unafunzione ed un aspetto particolare], per tutto il tempo durante ilquale è unita con la forma grossolana, che, quando poi, nellamorte, è da essa abbandonata (mentre le altre qualità sensibilidella forma corporea sussistono ancora senza apparentecambiamento), diviene fredda (e quindi inerte, in quantoinsieme organico), poiché la forma sottile non più la riscalda(né la vivifica) come quando vi risiedeva (il principio della vita

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individuale sta infatti propriamente nella forma sottile, ed èsoltanto perché comunica le sue proprietà che anche il corpopuò esser detto vivente, in ragione del legame che esiste fra ledue forme, finché sono l’espressione di stati dello stesso essere,e precisamente fino al momento stesso della morte).

«Ma colui che ha ottenuto (prima della morte, sempre intesacome la separazione dal corpo) la vera Conoscenza di Brahma(che implica il possesso effettivo di tutti gli stati del suo essere,in virtù della realizzazione metafisica, senza la quale non visarebbe che una conoscenza imperfetta e del tutto simbolica)non si ritrae (in modo successivo) per tutti gli stessi gradi diritorno (o di riassorbimento della sua individualità, dallo statodi manifestazione grossolana a quello della manifestazionesottile, con le diverse modalità che comporta, e poi allo statonon-manifestato, nel quale le condizioni individuali sono infineinteramente soppresse). Egli procede direttamente (inquest’ultimo stato, ed anche oltre se lo si considera soltantocome principio della Manifestazione) all’Unione (già realizzataper lo meno virtualmente durante la sua vita corporea) [Sel’«Unione» o l’«Identità Suprema» non è stata realizzata chevirtualmente, la «Liberazione» ha luogo immediatamente almomento stesso della morte; ma questa «Liberazione» puòanche essere realizzata durante la vita stessa, se l’«Unione» èfin d’allora attuata pienamente ed effettivamente; la distinzionedi questi due casi sarà esposta più completamente in seguito]col Supremo Brahma, al quale è identificato (in modoimmediato), come un fiume (che qui rappresenta la correntedell’esistenza attraverso tutti gli stati e tutte le manifestazioni),alla sua foce (che e lo scopo ultimo od il termine finale diquesta corrente), s’identifica (per intima penetrazione) con leonde del mare (samudra o il riunirsi delle acque, chesimbolizza la totalizzazione delle possibilità nel Principio

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Supremo). Le sue facoltà vitali e gli elementi da cui eracostituito il suo corpo (tutti considerati in principio e nella loroessenza soprasensibile) [In certi casi eccezionali, latrasposizione di questi elementi s’effettua in modo tale che laforma corporea stessa svanisce, senza lasciar tracce sensibili,ed invece d’essere abbandonata dall’essere, come d’ordinario,essa si traspone così interamente sia nello stato sottile che inquello non-manifestato. Perciò non può trattarsi della morte nelsenso ordinario della parola; abbiamo altrove ricordato, aquesto proposito, gli esempi biblici di Enoch, di Mosè e diElia], ed altresì le sedici parti (shodasha-kalah) checompongono la forma umana (vale a dire i cinque tanmatra, ilmanas e le dieci facoltà di sensazione e d’azione), passanocompletamente allo stato non-manifestato (avyakta, dove, pertrasposizione, si ritrovano tutti in modo permanente in quantopossibilità immutabili); un tale passaggio non implica,d’altronde, per l’essere stesso, un qualunque cambiamento(come ne implicano gli stadi intermediari, che, appartenendoancora al «divenire», comportano necessariamente unamolteplicità di modificazioni). Il nome e la forma (namarupa,vale a dire la determinazione della manifestazione individualequanto alla sua essenza ed alla sua sostanza, comeprecedentemente l’abbiamo spiegato) cessano ugualmente (inquanto condizioni limitative dell’essere); e, essendo«non-diviso», dunque senza le parti o membra checomponevano la sua forma terrestre (allo stato manifestato, edin quanto questa era sottomessa alla quantità dei suoi diversimodi) [I modi principali della quantità sono espressamentedesignati da questa formula biblica: «Tu hai disposto tutte lecose in peso, numero e misura» (Saggezza, XI, 21), alla qualecorrisponde parola per parola (salvo l’inversione dei due primi)il Mane, Thekel, Phares (contato, pesto, diviso) della divisione

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di Baldassaarre (Daniele, V, 25 a 28)], esso è liberato dallecondizioni dell’esistenza individuale (come da tutte le altrecondizioni attinenti ad un qualunque stato speciale edeterminato d’esistenza, anche se sopra-individuale, poichél’essere è ormai nello stato principiale, assolutamenteincondizionato)» [Prashna Upanishad, 6° Prashna, shruti 5;Mundaka Upanishad, 3° Mundaka, 2° Khanda, shruti 8. –Brahma-Sutra, 4° Adhyaya, 2° Pada, sutra 8 a 16].

Parecchi commentatori dei Brahma-Sutra, per rilevare ancorapiù nettamente il carattere di questa «trasformazione»(consideriamo questa parola nel suo senso rigorosamenteetimologico, quello di «passaggio al di fuori della forma»), laparagonano all’evaporazione dell’acqua di cui si è innaffiatouna pietra infocata. Infatti, quest’acqua è «trasformata» alcontatto della pietra, per lo meno nel senso relativo che haperduto la sua forma visibile (e non ogni sua forma, poichéessa continua evidentemente ad appartenere all’ordinecorporeo), senza che però si possa asserire che sia stata as-sorbita dalla pietra, perché, in realtà, è solo evaporatanell’atmosfera, dove resta in uno stato impercettibile alla vista[Commento di Ranganatha sui Brahma-Sutra]. Parimenti,l’essere non è affatto «assorbito» quando ottiene la«Liberazione», anche se possa sembrarlo dal punto di vistadella manifestazione, per la quale la «trasformazione» apparecome una «distruzione» [Perciò Shiva, secondol’interpretazione più ordinaria, è considerato «distruttore»,mentre è realmente «trasformatore»]; ma, se lo consideriamonella realtà assoluta, la sola che per esso sussiste, ci appariràinvece dilatato oltre ogni limite, se possiamo usare un tal modod’esprimerci (che d’altronde traduce esattamente il simbolismodel vapore dell’acqua che si diffonde indefinitamentenell’atmosfera), poiché esso ha effettivamente realizzato la

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pienezza delle sue possibilità.

XX. L’ARTERIA CORONALE E IL «RAGGIO SOLARE»

Dobbiamo ormai riprendere lo studio di ciò che si produceper l’essere che, non ancora «liberato» al momento stesso dellamorte, deve percorrere una serie di gradi, rappresentatisimbolicamente come le tappe d’un viaggio, e che sonoaltrettanti stati intermedi, non definitivi, da attraversare primadi giungere al termine finale. È importante notare che,d’altronde, tutti questi stati, essendo ancora relativi econdizionati, non hanno alcuna misura comune con quello cheè il solo stato assoluto ed incondizionato; per quanto elevatisiano certuni di essi quando sono paragonati allo statocorporeo, sembra dunque che il loro possesso non avviciniaffatto l’essere al suo scopo ultimo, che è la «Liberazione»; e,poiché, in rapporto all’Infinito, l’intera manifestazione èrigorosamente nulla, le differenze fra gli stati che lacostituiscono devono evidentemente anche esserlo, per quantoconsiderevoli esse siano in se stesse, e finché ci limitiamo arilevare soltanto i diversi stati condizionati che esse separanogli uni dagli altri. Tuttavia, non è men vero che il passaggio acerti stati superiori costituisce una specie di avviamento versola «Liberazione», che allora è «graduale» (krama-mukti), comepure l’uso di certi metodi appropriati, per esempio quelli delloHatha-Yoga, è una preparazione efficace; quantunque non siapossibile alcun paragone fra questi metodi contingenti el’«Unione» che si deve realizzare usandoli come «appoggi» [Sipotrà notare un’analogia fra quello che qui diciamo e quelloche, dal punto di vista della teologia cattolica, potrebbe riferirsiai sacramenti: anche in questi, infatti, le forme esteriori sonopropriamente degli «appoggi», eminentemente contingenti, ma

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che hanno un risultato d’un ordine completamente differentedagli stessi mezzi usati per realizzarlo. L’individuo umano,appunto per la sua stessa costituzione e per le sue propriecondizioni, ha bisogno di questi «appoggi» come punto dipartenza per una realizzazione che le superi; la sproporzionefra i mezzi ed il fine corrisponde a quella che esiste fra lo statoindividuale, base di questa realizzazione, e lo statoincondizionato che ne è il fine. Non possiamo presentementesviluppare una teoria generale sull’efficacia dei riti; per farnecapire il principio essenziale, ci limiteremo a dire che tutte lecose che sono contingenti in quanto manifestazione (purchénon si tratti di determinazioni puramente negative) non lo sonopiù se considerate come possibilità permanenti ed immutabili, eche tutto ciò che ha qualche esistenza positiva deve cosìritrovarsi nel non-manifestato, ed è appunto questa la ragioneche permette una trasposizione dell’individualenell’Universale, col sopprimere le condizioni limitative(dunque negative) inerenti ad ogni manifestazione]. Ma devebene essere inteso che la «Liberazione», allorché saràrealizzata, implicherà sempre una discontinuità in rapporto allostato in cui si troverà l’essere che l’otterrà; qual che sia questostato, la discontinuità non sarà perciò più o meno profonda,poiché, in tutti i casi, non v’è affatto rapporto, come fradifferenti stati condizionati, fra lo stato dell’essere«non-liberato» e quello dell’essere «liberato». Ciò è anche veroper quegli stati tanto al di sopra dello stato umano che, seconsiderati da questo, potrebbero apparire come il termine a cuil’essere deve tendere finalmente; questa illusione è anchepossibile per stati che in realtà sono semplici modalità dellostato umano, ma lontanissime, sotto ogni rapporto, dallamodalità corporea; abbiamo pensato che era necessario attirarel’attenzione su questo punto, alfine di prevenire qualunque

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equivoco e qualunque errore d’interpretazione, prima diriprendere la nostra esposizione delle modificazioni postumedell’essere umano.

«L’anima vivente» (jivatma), con le facoltà vitali che in essasono riassorbite (e che vi restano in quanto possibilità, comel’abbiamo spiegato precedentemente), essendosi ritratta nel suoproprio soggiorno (il centro dell’individualità, simbolizzato dalcuore, come fin dal principio l’abbiamo spiegato, e dove essarisiede infatti in quanto, nella sua essenza edindipendentemente dalle sue condizioni di manifestazione, èrealmente identica a Purusha, da cui si può distinguere solo inmodo illusorio), il vertice (vale a dire la parte più sublimata) diquest’organo sottile (figurato da un loto ad otto petali) scintilla[È evidente che questa parola è ancora di quelle che debbonoessere intese simbolicamente, poiché non si tratta qui del fuocosensibile, ma invece di una modificazione della Luceintelligibile] ed illumina il passaggio dal quale l’anima deveuscire (per raggiungere i diversi stati di cui in seguito siparlerà), passaggio che è rappresentato dalla corona della testa,se l’individuo è un Saggio (vidwan), e da un’altra partedell’organismo (che corrisponde fisiologicamente al plessosolare) [I plessi nervosi, o più esattamente i loro corrispondentinella forma sottile (finché questa è legata alla forma corporea)sono chiamati simbolicamente «ruote» (chakra) o anche «loti»(padma o kamala). – La corona della testa rappresentaugualmente una parte importante nelle tradizioni islamicheconcernenti le condizioni postume dell’essere umano; potremorilevare ancora altrove molti usi che si riferiscono aconsiderazioni dello stesso ordine (la chierica dei preticattolici, per esempio), quantunque la ragione profonda abbiapotuto spesso essere dimenticata], se è un ignorante (avidwan)[Brihad-Aranyaka Upanishad, 4° Adhyaya, 4° Brahmana,

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shruti 1 e 2]. Cento ed una arteria (nadi, egualmente sottili eluminose) [Ricorderemo che non si tratta delle arterie corporeedella circolazione sanguigna, e nemmeno di canali checontengono l’aria respirata; è evidentissimo, del resto, chenell’ordine corporeo nessun canale passa per la corona dellatesta, poiché non vi sono aperture in questa partedell’organismo. D’altronde, bisogna notare che, quantunque ilprecedente ritrarsi di jivatma già implichi l’abbandono dellaforma corporea, non è ancora cessata ogni relazione fra questee la forma sottile nella fase di cui ora si tratta, poiché è semprepossibile, descrivendola, continuare a parlare dei diversi organisottili secondo la corrispondenza che esisteva nella vitafisiologica] escono dal centro vitale (come i raggi d’una ruotaescono dal mozzo); una di queste arterie (sottili), chiamatasushumna, attraversa la corona della testa (regione consideratacorrispondente agli stati superiori dell’essere, per le loropossibilità di comunicazione con l’individualità umana, comelo si è detto nella descrizione delle membra di Vaishwanara)»[Katha Upanishad, 2° Adhyaya, 6° Valli, shruti 16]. Oltrequesta nadi, che occupa un posto centrale, ve ne sono ancoradue che rappresentano una parte particolarmente importante(specialmente per la corrispondenza della respirazionenell’ordine sottile, e, in conseguenza, per le pratiche delloHatha-Yoga): l’una, posta alla sua destra, è chiamata pingala;l’altra, a sinistra, e chiamata ida. Inoltre, si dice che la pingalaè in relazione col Sole e l’ida con la Luna; ora, riferendoci aquanto più sopra abbiamo spiegato, il Sole e la Luna sonodesignati come i due occhi di Vaishwanara, che sono dunquerispettivamente in relazione con le due nadi di cui si tratta; lasushumna, essendo nel mezzo, è invece in rapporto col «terzoocchio», vale a dire con l’occhio frontale di Shiva [Nell’aspettodi questo simbolismo che si riferisce alla condizione temporale,

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il Sole e l’occhio destro corrispondono al futuro, la Luna el’occhio sinistro al passato; l’occhio frontale corrisponde alpresente, che, dal punto di vista del manifestato, è appena unistante inafferrabile, paragonabile, nell’ordine spaziale, alpunto geometrico senza dimensioni: perciò uno sguardo diquesto terz’occhio è capace di distruggere l’interamanifestazione (ciò è simbolicamente espresso dicendo cheriduce tutto in cenere); ciò è anche la ragione per cui que-st’occhio non è rappresentato da alcun organo corporeo; ma,allorché ci eleviamo al di sopra di questo punto di vistacontingente, il presente contiene ogni realtà (come il puntoracchiude in se stesso tutte le possibilità spaziali), e, quando lasuccessione è trasmutata in simultaneità, tutte le cose restanonell’«eterno presente», perciò la distruzione apparente èveramente la «trasformazione». Questo simbolismo è identico aquello del Janus Bifrons dei Latini, a due facce, l’una rivolta alPassato, l’altra all’avvenire, ma il cui vero volto, quello cheguarda il presente, non è né l’uno né l’altro di quelli visibili. –Segnaliamo ancora che le nadi principali, in virtù della stessacorrispondenza che abbiamo indicato, hanno un particolarerapporto con ciò che nel linguaggio occidentale si puòchiamare l’«alchimia umana», per cui l’organismo èrappresentato come l’athanor ermetico, e che, astrazion fattadalla differente terminologia, è molto paragonabile allo Hatha-yoga]; ma non possiamo che indicare di passaggio questecorrispondenze, non inerenti al soggetto che presentementedobbiamo esporre.

«Da questo passaggio (la sushumna e la corona della testa acui mette capo), in virtù della Conoscenza acquisita e dellacoscienza della Via meditata (coscienza che è essenzialmented’ordine extra-temporale, poiché, anche se la si considera nellostato umano, è sempre un riflesso degli stati superiori) [È

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dunque un errore grave parlare qui di «ricordo», come l’hafatto il Colebrooke nell’esposizione già menzionata; lamemoria, condizionata dal tempo nel senso rigoroso dellaparola, è una facoltà relativa alla sola esistenza corporea, e nonpuò oltrepassare i limiti di questa modalità speciale e ristrettadell’individualità umana; essa fa dunque parte di queglielementi psichici ai quali alludevamo e la cui dissociazione èuna conseguenza diretta della morte corporea], l’anima delSaggio, dotata (in virtù della rigenerazione psichica che hafatto di lui un uomo «due volte nato», dwija) [La concezionedella «seconda nascita», come altrove l’abbiamo già fattonotare, è una di quelle che sono comuni a tutte le dottrinetradizionali; nel Cristianesimo, in particolare, la rigenerazionepsichica è rappresentata molto nettamente dal battesimo. - Cfr.questo passo del Vangelo: «Se un uomo non nasce di nuovo,non può vedere il Regno di Dio... In verità, io vi dico che se unuomo non rinasce dall’acqua e dallo spirito, non può entrarenel Regno di Dio... Non vi meravigliate se vi ho detto: Bisognache nasciate di nuovo» (San Giovanni, III, 3 a 7). L’acqua èconsiderata da molte tradizioni come l’ambiente originale degliesseri, e se ne trova la ragione nel suo simbolismo, nel sensoche più sopra abbiamo spiegato, per cui rappresentaMula-Prakriti; in un senso superiore, e per trasposizione, essarappresenta la Possibilità Universale stessa; colui che «nascedall’acqua» diviene «figlio della Vergine», dunque fratelloadottivo del Cristo e coerede del «Regno di Dio». D’altra parte,se si nota che lo «spirito», nel testo citato, è il Ruach ebraico(qui associato all’acqua come principio complementare,secondo l’esordio della Genesi), e che questo designa nellostesso tempo l’aria, si rileverà l’idea della purificazione permezzo degli elementi, quale si riscontra tanto nei riti iniziaticiquanto in quelli religiosi; d’altronde, l’iniziazione stessa è

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considerata sempre come una «seconda nascita»,simbolicamente quando questa iniziazione si riduce ad unformalismo più o meno esteriore, ma effettivamente quand’èconferita in modo reale a chi è debitamente qualificato ariceverla] della Grazia spirituale (Prasada) di Brahma, cherisiede in questo centro vitale (in rapporto all’individuo umanoconsiderato), quest’anima sfugge (si libera da tutti i legami chepossono ancora sussistere con la condizione corporea) edincontra un raggio solare (vale a dire, simbolicamente, unaemanazione del Sole spirituale, che è Brahma stesso,considerato però questa volta nell’Universale: questo raggiosolare è una particolarizzazione, in rapporto all’essere di cui sitratta, o, se si preferisce, una «polarizzazione» del principiosopra-individuale Buddhi o Mahat, per cui i multipli statimanifestati dell’essere sono ricollegati fra loro e messi incomunicazione con la personalità trascendente, Atma, identicaal Sole spirituale stesso); è per questa via (indicata come il per-corso del «raggio solare») che essa si dirige, sia di notte o digiorno, d’inverno o d’estate [Chhandogya Upanishad, 8°Prapathaka, 6° Khanda, shruti 5]. Il contatto d’un raggio delSole (spirituale) con la sushumna è costante, per tutto il tempoche il corpo sussiste (in quanto organismo vivente e veicolodell’essere manifestato) [Basterebbe ciò per dimostrarechiaramente, in mancanza di tutt’altra considerazione, che nonpuò trattarsi d’un raggio solare nel senso fisico della parola(poiché il contatto non sarebbe allora costantemente possibile),e perciò tale designazione è puramente simbolica. – Il raggio inrelazione con l’arteria coronale è anche chiamato sushumna]: iraggi della Luce (intelligibile), emanati da questo Sole,pervengono a quest’arteria (sottile), e, reciprocamente (inmodo riflesso), si estendono dall’arteria al Sole (come unprolungamento indefinito per il quale si stabilisce la

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comunicazione, sia virtuale, sia effettiva, dell’individualità conl’Universale)» [Chhandogya Upanishad, 8° Prapathaka, 6°Khanda, shruti 2].

Ciò che abbiamo detto è completamente indipendente dallecircostanze temporali e da ogni altra contingenza simile cheaccompagnano la morte; tali circostanze tuttavia non sonosempre senza influenza sulla condizione postuma dell’essere,ma debbono essere considerate soltanto in alcuni casiparticolari, che possiamo, d’altronde, qui solo accennare, senzasoffermarci sugli altri loro sviluppi. «La preferenza dell’estate,di cui si narra l’esempio di Bhishma, che attese per morire ilritorno di questa stagione favorevole, non concerne il Saggioche, nella contemplazione di Brahma, ha compiuto i riti(relativi all’«incantesimo») [Con la parola «incantesimo», nelsenso da noi qui usato, si deve intendere essenzialmenteun’aspirazione dell’essere verso l’Universale, il cui scopo èquello di ottenere un’illuminazione interiore, quali che siano,d’altronde, i mezzi esteriori, gesti (mudra), parole o suonimusicali (mantra), figure simboliche (yantra), ed altri metodiche possono essere usati accessoriamente come «appoggi»dell’atto interiore, ed il cui effetto è quello di determinarevibrazioni ritmiche che si ripercuotono nella serie indefinitadegli stati dell’essere. Un tale «incantesimo» non è dunqueassolutamente affine alle pratiche magiche a cui spesso gliOccidentali attribuiscono lo stesso nome, né ad un attoreligioso quale la preghiera; ciò di cui si tratta si riferisceinvece esclusivamente alla realizzazione metafisica] quali sonoprescritti nel Veda, e che, per conseguenza, ha acquistato (perlo meno virtualmente) la perfezione della Conoscenza Divina[Diciamo virtualmente, perché, se questa perfezione fosseeffettiva, la «Liberazione» sarebbe stata già ottenuta; laConoscenza può essere teoricamente perfetta, quantunque la

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realizzazione corrispondente non sia stata ancora compiuta cheparzialmente]; essa concerne invece quelli che hanno seguito leosservanze del Sankhya o dello Yoga-Shastra, secondo il qualeil tempo del giorno e della stagione dell’anno non sonoindifferenti, ma hanno (per la liberazione dell’essere che escedallo stato corporeo dopo una preparazione compiutaconformemente ai metodi di cui si tratta) un’azione effettiva, inquanto elementi inerenti al rito (nel quale essi intervengonocome condizioni da cui dipendono gli effetti che possonoesserne ottenuti)» [Brahma-Sutra, 4° Adhyaya, 2° Pada, sutra17 a 21]. Si capisce naturalmente che, in quest’ultimo caso, larestrizione considerata s’applica soltanto a quegli esseri chehanno raggiunto dei gradi di realizzazione corrispondenti asemplici estensioni dell’individualità umana; per colui che haeffettivamente oltrepassato i limiti dell’individualità, la naturadei mezzi usati, iniziando la realizzazione, non può affattoinfluire sulla sua condizione ulteriore.

XXI. IL «VIAGGIO DIVINO» DELL’ESSEREVERSO LA LIBERAZIONE

Il seguito del viaggio simbolico compiuto dall’essere nel suoprocesso di liberazione graduale, dal termine dell’arteriacoronale (sushumna), che comunica costantemente con unraggio del Sole spirituale, fino alla sua ultima destinazione, sieffettua seguendo la Via tracciata dal percorso di questo raggio,compiuto in senso inverso (secondo la sua direzione riflessa)fino, alla sua sorgente, che è appunto questa destinazionestessa. Tuttavia, se una descrizione del genere può riferirsi aglistati postumi successivamente percorsi, da una parte, dagliesseri che otterranno la «Liberazione», prendendo come puntodi partenza lo stato umano, e, dall’altra parte, da coloro che,

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dopo il riassorbimento dell’individualità umana, dovranno alcontrario passare in altri stati di manifestazione individuale,bisognerà distinguere due itinerari differenti corrispondenti aquesti due casi: è infatti asserito che i primi seguono la «Viadegli Dei» (deva-yana), mentre i secondi seguono la «Via degliAvi» (pitri-yana). Questi due itinerari simbolici sono riassuntinel seguente passo della Bhagavad-Gita: «O Bharata, io tispiegherò in quali momenti coloro che tendono all’Unione(senza averla effettivamente realizzata) lasciano l’esistenzamanifestata, sia per non più ritornarvi, sia per ritornarvi. Gliuomini che conoscono Brahma vanno a Brahma sotto i segniluminosi del fuoco, della luce, del giorno, della luna crescente,del semestre del sole ascendente verso il Nord. Essi vannoinvece alla Sfera della Luna (letteralmente: «raggiungono laluce lunare») per ritornare (a nuovi stati di manifestazione), sesi trovano sotto i segni d’ombra del fumo, della notte, dellaluna decrescente, del semestre del sole discendente verso ilSud. Queste sono le due Vie permanenti, l’una chiara, l’altraoscura, del mondo manifestato (jagat); per l’una l’uomo vadove non vi è più ritorno (dal non-manifestato al manifestato);per l’altra dove si ritorna indietro (nella manifestazione)»[Bhagavad-Gita, VIII, 23 a 26].

Lo stesso simbolismo è esposto, più precisamente, in diversipassi del Veda; innanzi tutto, faremo soltanto notare che, per ilpitri-yana, questa via non conduce oltre la Sfera della Luna,perciò, seguendola, l’essere non è liberato dalla forma, vale adire dalla condizione individuale intesa nel suo senso piùgenerale, poiché, come già l’abbiamo detto, l’individualitàcome tale è precisamente definita dalla forma [Sul pitri-yana,cfr. Chhandogya Upanishad, 5° Prapathaka, 10° Khanda, shruti3 a 7; Brihad-Aranyaka Upanishad, 6° Adhyiya, 2° Brhmana,shruti 16]. Secondo le corrispondenze che già abbiamo

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indicato, questa Sfera della Luna rappresenta la «memoriacosmica» [Appunto perciò è spesso simbolicamente detto,anche in Occidente, che in questa Sfera si ritrova ciò che èstato perduto nel mondo terrestre (cfr. Ariosto, L’OrlandoFurioso]; perciò è la dimora dei Pitri, vale a dire degli esseridel ciclo antecedente, considerati i generatori del ciclo attuale,appunto per il concatenamento causale, di cui la successionedei cicli non è che il simbolo; proprio da ciò deriva ladenominazione di pitri-yana, mentre quella di deva-yanadesigna naturalmente la Via che conduce verso gli statisuperiori dell’essere, dunque verso l’assimilazione all’essenzastessa della Luce intelligibile. Nella Sfera della Luna sidissolvono le forme che hanno compiuto il corso completo delloro sviluppo; ed anche, proprio in quella Sfera, sono contenutii germi delle forme non ancora sviluppate, poiché, per laforma, come per qualsiasi altra cosa, il punto di partenza ed ilpunto d’arrivo si situano necessariamente nello stesso ordined’esistenza. Per precisare ancora meglio queste considerazioni,bisognerebbe poter riferirsi espressamente alla teoria dei cicli;ma è sufficiente ripetere, a questo proposito, che, ogni cicloessendo in realtà uno stato d’esistenza, la forma antica che unessere non liberato dall’individualità lascia e la forma nuova dicui si riveste appartengono necessariamente a due statidifferenti (il passaggio dall’uno all’altro si effettua nella Sferadella Luna, dove si trova il punto comune ai due cicli); unqualsiasi essere infatti non può due volte passare per unmedesimo stato, come l’abbiamo altrove spiegato neldimostrare l’assurdità delle teorie «reincarnazioniste» inventateda certi Occidentali moderni [Ciò che è stato detto ha ancoraun rapporto col simbolismo di Janus: la Sfera della Lunadetermina la separazione degli stati superiori (non-individuali)e degli stati inferiori (individuali); da ciò proviene la duplice

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funzione della Luna come Janua Coeli (cfr. le litanie dellaVergine nella liturgia cattolica) e Janua Inferni, ciò checorrisponde alla distinzione di deva-yana e pitri-yana. - Jana oDiana è la forma femminile di Janus; d’altra parte, yana derivadalla radice verbale i, «andare» (latino ire), che, secondo alcunie Cicerone specialmente, sarebbe anche la radice del nome diJanus].

Insisteremo più a lungo sul deva-yana, che si riferisceall’identificazione effettiva del centro dell’individualità [Sicapisce naturalmente che si tratta dell’individualità integrale, enon ridotta alla sola modalità corporea, che, d’altronde, non hapiù esistenza per l’essere considerato, poiché sono gli statipostumi ad essere qui rilevati], dove tutte le facoltà sono stateprecedentemente riassorbite nell’«anima vivente» (jivatma),con il centro stesso dell’essere totale, residenza dell’UniversaleBrahma. Il processo di cui si tratta si riferisce dunque, loripetiamo, al solo caso d’una identificazione non realizzatadurante la vita terrestre né al momento stesso della morte;quando questa realizzazione è compiuta, d’altronde, non vi èpiù l’«anima vivente», distinta dal «Sé», poiché l’essere ormaiè al di fuori della condizione individuale: una siffattadistinzione, del resto, sempre illusoria (illusione appuntoinerente a questa condizione stessa), cessa per esso allorché siraggiunge la realtà assoluta; l’individualità svanisce con tutte ledeterminazioni limitative e contingenti, e resta la solapersonalità nella pienezza dell’essere, che, in sé, contieneprincipialmente tutte le sue possibilità allo stato permanente enon-manifestato.

Secondo il simbolismo vedico, quale è esposto in numerositesti delle Upanishad [Chhandogya Upanishad, 4° Prapathaka,15° Khanda, shruti 5 e 6, e 5° Prapathaka, 10° Khanda, shruti 1e 2; Kaushitaki Upanishad, 1° Adhyaya, shruti 3; Brihad-

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Aranyaka Upanishad, 5° Adhyaya, 10° Brahmana, shruti 1, e6° Adhyaya, 2° Brahmana, shruti 15] l’essere che compie ildeva-yana, avendo lasciata la Terra (Bhu, vale a dire il mondocorporeo o la manifestazione grossolana), é dapprima condottoalla luce (archis), da intendersi qui come il Regno del Fuoco(Tejas), il cui Reggitore è Agni, chiamato anche Vaishwanara inun significato speciale. È bene, d’altronde, aggiungere che,quando s’incontra nell’enumerazione di questi stadi successivila designazione degli elementi, non può trattarsi che di unaspecificazione simbolica, poiché i bhuta appartengono tuttipropriamente al mondo corporeo, rappresentato interamentedalla Terra (che, in quanto elemento, è Prithvi); è dunquequestione, in realtà, di differenti modalità dello stato sottile.Dal Regno del Fuoco, l’essere è condotto ai diversi domini deireggitori (devata, «deità») o distributori del giorno, della mezzalunazione chiara (periodo crescente o prima meta del meselunare) [Questo periodo crescente della lunazione è chiamatopurva-paksha, «prima parte», ed il periodo decrescenteuttara-paksha, «ultima parte» del mese. - Queste espressionipurva-paksha e uttara-paksha hanno anche, d’altro canto,un’altra accezione del tutto differente: esse designano, nelladiscussione, una obbiezione e la sua confutazione], dei sei mesid’ascensione del sole verso il Nord, e finalmente dell’anno:siffatte specificazioni debbono intendersi come lacorrispondenza di queste divisioni del tempo (i «momenti»della Bhagavad-Gita), trasposte analogicamente neiprolungamenti extra-corporei dello stato umano, e non comequeste divisioni stesse, che non sono letteralmente riferibili cheallo stato corporeo [Sarebbe interessante stabilire leconcordanze di questa descrizione simbolica con quelle di altretradizionali (cfr. specialmente il Libro dei Morti degli antichiEgiziani e la Pistis Sophia degli Gnostici alessandrini); ma, se

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volessimo dilungarci in merito, saremmo portati troppo lontanidal nostro soggetto. - Nella tradizione indù, Ganesha, cherappresenta la Conoscenza, è designato contemporaneamentecome il «Signore della deità»; il suo simbolismo, in rapportoalle divisioni temporali che qui sono in causa, darebbe adito asviluppi estremamente interessanti, ed anche ad avvicinamentimolto istruttivi con le antiche tradizioni occidentali; ma ciò,che non può essere qui trattato, sarà forse, da noi, consideratoin qualche altra occasione]. Dal Regno del Fuoco, l’esserepassa al Regno dell’Aria (Vayu), il cui Reggitore (designatocon lo stesso nome) lo dirige dal lato della Sfera del Sole(Surya o Aditya), dal limite superiore del suo Regno, attraversoun passaggio paragonato al mozzo della ruota di un carretto,vale a dire ad un asse fisso intorno al quale s’effettua larotazione ed il mutamento delle cose contingenti (non bisognadimenticare che Vayu è essenzialmente il principio «movente»),mutamento da cui l’essere ormai sfuggirà [Per usare illinguaggio dei filosofi greci, si potrebbe dire anche che l’esseresta per sfuggire alla «generazione» () ed allacorruzione» (), parole che sono sinonimi di «nascita» edi «morte», se riferite a tutti gli stati di manifestazioneindividuale; da quello che abbiamo detto in merito alla Sferadella Luna ed al suo significato, è anche facile comprendere ache cosa alludessero gli stessi filosofi e specialmenteAristotele, quando insegnavano che il mondo sublunare solo èsottomesso alla «generazione» ed alla «corruzione»: questomondo sublunare, infatti, rappresenta, in realtà, la «correntedelle forme» della tradizione estremo-orientale, e i Cieli,essendo gli stati informali, sono necessariamente incorruttibili,vale a dire non più soggetti a dissoluzione o a disintegrazioneper l'essere che li ha raggiunti]. Esso passa inoltre nella Sferadella Luna (Chandra o Soma), dove non si sofferma come co-

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loro che hanno seguito il pitri-yana, ma da cui s’eleva allaregione del lampo (vidyut [Questa parola vidyut deriva anchedalla radice vid, in ragione della connessione della luce e dellavista; la sua forma è vicinissima a quella di vidya: il lampoillumina le tenebre, che sono il simbolo dell’ignoranza(avidya), e la conoscenza è un’«illuminazione» interiore] al disopra della quale vi è il Regno dell’Acqua (Ap), il cuiReggitore è Varuna [Facciamo notare di passaggio che questonome è palesemente identico al greco , quantunquecerti filologi abbiano voluto, non sappiamo perché, contestarnel’identità; il Cielo, chiamato , è infatti identico alle«Acque superiori» di cui parla la Genesi e che noi ritroviamonel simbolismo indù] (come, analogicamente, il fulminescoppia sotto le nubi gravide di pioggia). Si tratta ormai delleAcque superiori o celesti, che rappresentano l’insieme dellepossibilità informali [Le Apsara sono le Ninfe celesti, cheanche simbolizzano queste possibilità informali; essecorrispondono alle Hari del Paradiso islamico; questo Paradiso(Ridwan) è propriamente l’equivalente dello Swarga indu], inopposizione alle Acque inferiori, che rappresentano l’insiemedelle possibilità formali, di cui non può più trattarsi quandol’essere ha oltrepassato la Sfera della Luna, che è, come più so-pra dicemmo, l’ambiente cosmico dove s’elaborano i germi ditutta la manifestazione formale. Finalmente, il restante delviaggio si effettua attraverso la regione luminosa intermedia(Antariksha, di cui precedentemente abbiamo parlato[Abbiamo detto che è l’ambiente in cui s’elaborano le forme,perché, nella considerazione dei «tre mondi», questa regionecorrisponde alla manifestazione sottile e si prolunga dalla Terraai Cieli; qui, al contrario, la regione intermedia di cui si tratta èposta di là dalla Sfera della Luna, dunque nell’informale, es’identifica allo Swarga, considerando con questa parola non i

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Cieli o gli stati superiori dell’essere nel loro insieme, masemplicemente la loro parte meno elevata. Ancora si noterà, aquesto proposito, come l’osservazione di certi rapportigerarchici permetta l’applicazione d’uno stesso simbolismo adifferenti gradi] nella descrizione delle sette membra diVaishwanara, ma in un’applicazione piuttosto differente), ilRegno d’Indra [Indra, che significa «potente», è anchechiamato il Reggitore dello Swarga, ciò che si spiega perl’identificazione indicata nella precedente nota; questo Swargaè uno stato superiore, ma non definitivo, ancora condizionato,quantunque informale], occupata dall’Etere (Akasha, lo statoprimordiale d’equilibrio indifferenziato), fino al Centrospirituale dove risiede Prajapati, il «Signore degli esseriprodotti», che è, come già l’abbiamo indicato, lamanifestazione principiale e l’espressione diretta di Brahmastesso, in rapporto al ciclo totale od al grado d’esistenza alquale appartiene lo stato umano. È l’occasione di aggiungereche questo stato deve qui essere rilevato, quantunque solo inprincipio, come quello che l’essere ha preso come punto di par-tenza per la realizzazione metafisica, e col quale, anche se nonè più sottomesso alla forma od all’individualità, conservaancora tuttavia certi legami, finché non avrà raggiunto lo statoassolutamente incondizionato, vale a dire finché non avràrealizzata effettivamente la «Liberazione».

Nei diversi testi dove si parla del «viaggio divino», vi sonotuttavia delle variazioni, d’altronde di pochissima importanza,più apparenti che reali, variazioni che vertono specialmente sulnumero e sull’ordine d’enumerazione delle tappe intermedie;ma l’esposizione che precede risulta da un paragone generaledi questi testi, e perciò può essere considerata comel’espressione rigorosa della dottrina tradizionale su taleargomento [Per questa descrizione delle diverse fasi del deva-

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yana, cfr. Brahma-Sutra, 4° Adhyaya, 3° Pada, sutra 1 a 6]. Delresto, non intendiamo dilungarci sulla spiegazione piùparticolareggiata di questo simbolismo, che, in fine, è già perse stesso abbastanza chiaro nel suo insieme, almeno per coloroche hanno qualche familiarità con le concezioni orientali(potremmo dire con le concezioni tradizionali senzarestrizione) e con i loro modi generali d’espressione; la suainterpretazione è più ancora facilitata da tutte le considerazionida noi già esposte, ed in cui il lettore avrà trovato molti esempidi queste trasposizioni analogiche, che costituiscono il fondostesso di ogni simbolismo [Profittiamo dell’occasione perscusarci d’avere abbondato in note di proporzioni non abituali,ma l’abbiamo fatto soprattutto e precisamente per ciò checoncerne interpretazioni di questo genere e per iriavvicinamenti con altre dottrine, alfine di non interrompere lanostra esposizione con digressioni troppo frequenti].Ricorderemo soltanto ancora una volta, rischiando di ripeterci,ciò essendo molto essenziale alfine di ben comprendere questecose, che, quando, per esempio, si parla delle Sfere del Sole edella Luna, mai si tratta del sole e della luna quali astri visibili,che appartengono semplicemente al mondo corporeo, mainvece dei principi universali che questi astri rappresentano inqualche modo nel mondo sensibile, o per lo meno dellamanifestazione di questi principi a gradi diversi, in virtù dellecorrispondenze analogiche che collegano fra loro tutti gli statidell’essere [I fenomeni naturali in genere, e specialmente quelliastronomici, non sono mai considerati dalle dottrinetradizionali che a titolo di semplici modi d’espressione, persimbolizzare certe verità di ordine superiore; ed essi infatti lesimbolizzano appunto perché le loro leggi sono, in ultimaanalisi, una espressione di queste stesse verità in uno specialedominio, una specie di traduzione dei principi corrispondenti,

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adattata naturalmente alle condizioni particolari dello statocorporeo ed umano. Si può dunque comprendere da ciò a qualigravi errori vanno incontro quelli che vogliono scorgere del«naturalismo» in tali dottrine e credono che esse si proponganosemplicemente di descrivere e spiegare i fenomeni nel modostesso della scienza «profana», quantunque sotto differentiforme; essi invertono i rapporti e scambiano il simbolo stessoper ciò che rappresenta, il segno per la cosa o l’ideasignificata]. Effettivamente, in realtà, i diversi Mondi (Loka),Sfere planetarie e Regni elementari, descritti simbolicamentecome altrettante regioni (ma soltanto simbolicamente, poichél’essere che li percorre non è più sottomesso allo spazio), nonsono veramente che stati differenti [La parola sanscrita loka èidentica al latino locus, «luogo»; anche nella dottrina cattolica,il Cielo, il Purgatorio e l’Inferno sono ugualmente designaticome altrettanti «luoghi», che, anche in quel caso,rappresentano simbolicamente degli stati, poiché non potrebbeaffatto trattarsi, nemmeno nella più esteriore delleinterpretazioni di questa dottrina, di considerare spazialmentetali stati postumi; un equivoco siffatto non può essere prodottoche dalle teorie «neo-spiritualistiche» dell’Occidentemoderno]; un tale simbolismo spaziale (come il simbolismotemporale che serve specialmente ad esprimere la teoria deicicli) è abbastanza naturale e d’un uso generalmente diffuso;non può quindi ingannare che coloro che sono incapaci discorgere altra cosa che non sia il senso più grossolanamenteletterale; ma questi mai comprenderanno che cos’è un simbolo,poiché le loro concezioni sono irrimediabilmente limitateall’esistenza terrestre ed al mondo corporeo, dove, per la piùingenua delle illusioni, essi vogliono racchiudere tutta la realtà.

Il possesso effettivo degli stati di cui si tratta può essereottenuto identificandosi ai principi designati come altrettanti

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Reggitori rispettivi, identificazione che in ogni caso si effettuaper mezzo ed in virtù della conoscenza, a condizione chequesta non sia semplicemente teorica; la teoria deve esseresolamente una preparazione, indispensabile però, per lacorrispondente realizzazione. Ma, per ognuno di questiprincipi, considerato in particolare ed isolatamente, i risultati diuna tale identificazione non si estendono oltre il suo propriodominio; perciò l’attuazione di tali stati, ancora condizionati,non costituisce che una tappa preliminare, nel senso d’unavviamento (nell’accezione da noi indicata e con le restrizioniche è necessario apportare ad un tal modo di esprimerci) versol’«Identità Suprema», fine ultimo raggiunto dall’essere nellasua totale e completa universalizzazione, la cui realizzazione,per coloro che debbono dapprima effettuare il deva-yana, può,come l’abbiamo spiegato, essere differita fino al pralaya,poiché il passaggio da uno stadio al seguente è solo possibileper chi ha ottenuto il grado corrispondente di conoscenzaeffettiva [È importante significare che i Brahmana si sonriferiti, quasi esclusivamente, alla realizzazione immediatadell’«Identità Suprema», mentre gli Kshatriya hannosviluppato a preferenza lo studio degli stati che corrispondonoai diversi stadi sia del déva-yana che del pitri-yana].

Dunque, nel caso considerato presentemente, quello dikrama-mukti, l’essere, fino al pralaya, può restare nell’ordinecosmico e non raggiungere il possesso effettivo di statitrascendenti, nel quale consiste propriamente la verarealizzazione metafisica; ma fin d’allora ha ottenuto, per il fattostesso che ha oltrepassato le Sfera della Luna (vale a direallorché e uscito dalla «corrente delle forme»), quella«immortalità virtuale» che già abbiamo definita. Appuntoperciò il Centro spirituale di cui si è fatto parola non è ancorache il centro d’un certo stato o d’un certo grado d’esistenza,

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quello al quale apparteneva l’essere in quanto essere umano, edal quale continua tuttora ad appartenere in un certo qual modo,poiché la sua totale universalizzazione, in modosopra-individuale, non è attualmente realizzata; ed è ancheperciò che, in una tale condizione, i vincoli individuali nonpossono essere completamente distrutti. È esattamente a questopunto che si fermano le concezioni propriamente religiose, chesempre si riferiscono ad estensioni dell’individualità umana, dimodo che gli stati che esse permettono di raggiungere debbononecessariamente conservare qualche rapporto col mondo ma-nifestato, anche quando lo superano: non vi è quindi comunemisura fra questi stati e quelli trascendenti per i quali l’unicavia è la Conoscenza metafisica pura. Ciò può specialmenteriferirsi agli «stati mistici»; quanto a quelli postumi, vi èprecisamente la stessa differenza fra l’«immortalità» o la«salvezza» in senso religioso, l’unico che concepiscanoordinariamente gli Occidentali) e la «Liberazione», che fra larealizzazione mistica e quella metafisica compiuta durante lavita terrestre; non si può dunque qui parlare che d’«immortalitàvirtuale» e, come scopo ultimo, di «reintegrazione in nodopassivo»; quest’ultimo termine sfugge d’altronde al punto divista religioso, quale comunemente lo si intende, e tuttavia èsoltanto ciò che giustifica l’uso della parola «immortalità» inun senso relativo, e che può stabilire una specie diconcatenamento o di passaggio da questo senso relativo aquello assoluto e metafisico, col quale gli Orientaliconcepiscono questa stessa parola. Ma ciò, d’altronde, nonimpedisce d’ammettere che le stesse concezioni religiose sianosuscettibili d’una trasposizione per la quale esse ricevono unsenso superiore e più profondo, perché questo senso è anchecontenuto nelle Sacre Scritture sulle quali esse si fondano; ma,in virtù d’una tale trasposizione, perdono il loro carattere

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specificamente religioso, legato a certe limitazioni, al di fuoridelle quali già siamo nel puro ordine metafisico. D’altra parte,una dottrina tradizionale che, come quella indù, non considerale cose dallo stesso punto di vista delle religioni occidentali,riconosce tuttavia l’esistenza degli stati che sono piùspecialmente rilevati da queste ultime; né può essere altrimenti,perché questi stati sono effettivamente altrettante possibilitàdell’essere; ma la dottrina indù non può loro attribuire unaimportanza eguale a quella che ricevono dalle dottrine che nonli oltrepassano (la prospettiva, per così dire, cambia col mutaredel punto di vista), e, poiché li supera, essa subordina questistati al posto esatto che loro conviene nella gerarchia totale.

Quindi, allorché si dice che il fine del «viaggio divino» è ilMondo di Brahma (Brahma-Loka), non si tratta, per lo menoimmediatamente, del Supremo Brahma, ma soltanto della Suadeterminazione come Brahm, vale a dire Brahma«qualificato» (saguna) e, come tale, considerato «effetto dellaVolontà produttrice (Shakti) del Principio Supremo»(Karya-Brahma) [La parola karya, «effetto», è derivata dallaradice verbale kr «fare», e dal suffisso ya, che specifica uncompimento futuro: «ciò che dev’esser fatto» (o meglio «ciòche va a farsi», poiché ya è in modificazione della radice i,«andare»); questa parola implica dunque una certa idea di«divenire», che fa supporre necessariamente che ciò a cui siriferisce è considerato solamente in rapporto allamanifestazione. - A proposito della radice verbale kri, faremonotare che essa è identica e quella del latino creare; ciòdimostra dunque che quest’ultima parola, nella sua accezioneprimitiva, non aveva altro senso che quello di «fare»; l’idea di«creazione», come oggi è intesa, di origine ebraica, le si è poiaggiunta, quando la lingua latina è stata usata per esprimere leconcezioni giudaico-cristiane]. A questo proposito, quando si

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considera Brahm, si deve considerarlo, in primo luogo, comeidentico a Hiranyagarbha, principio della manifestazionesottile, dunque dell’esistenza umana nella sua integralità;abbiamo infatti precedentemente asserito che l’essere il qualeha ottenuto l’«immortalità virtuale» è, per così dire,«incorporato», per assimilazione, a Hiranyagarbha; e questostato, nel quale può restare fino al compimento del ciclo (percui soltanto Brahm esiste come Hiranyagarbha), è ciò che ilpiù ordinariamente si considera come il Brahma-Loka [IlBrahma-Loka, così inteso, è ciò che corrisponde il piùesattamente ai «Cieli» o ai «Paradisi» delle religionioccidentali (fra le quali, a questo riguardo, noi vicomprendiamo anche l’Islamismo); quando una pluralità di«Cieli» è considerata (ed essa è spesso rappresentata dacorrispondenze planetarie), bisogna da ciò intendere tutti glistati superiori alla Sfera della Luna (spesso essa stessa consi-derata come il «primo Cielo», nel suo aspetto di Janua Coeli),fino al Brahma-Loka inclusivamente]. Tuttavia, parimenti cheil centro d’ogni stato d’un essere ha la possibilità d’identificarsicon il centro dell’essere totale, il centro cosmico, residenza diHiranyagarbha, s’identifica virtualmente al centro di tutti imondi [Ancora qui ci riferiamo alla nozione dell’analogiacostitutiva del «microcosmo» e del «macrocosmo»]; vogliamodire che, per l’essere che ha raggiunto un certo grado di co-noscenza, Hiranyagarbha appare identico ad un aspetto piùelevato del «Non-Supremo» [Questa identificazione d’un certoaspetto ad un altro superiore, e così di seguito per i diversigradi fino al Principio Supremo, non è insomma che lo svaniredi altrettante illusioni «separative», che certe iniziazionirappresentano come una serie di veli che cadonosuccessivamente] che è Ishwara o l’Essere Universale,principio primo di ogni manifestazione. A questo grado,

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l’essere non è più nello stato sottile, neanche soltanto inprincipio; è invece nel non-manifestato; ma, tuttavia, sempreconserva qualche rapporto con l’ordine della manifestazioneuniversale, poiché Ishwara è propriamente il principio diquesta, quantunque non sia più legato, per speciali vincoli, allostato umano ed al ciclo particolare di cui questo fa parte. Untale grado corrisponde alla condizione di Prajna, ed è l’essere acui non è possibile oltre proseguire che è detto unito a Brahma,nonostante il pralaya, soltanto nello stesso modo che l’unionesi effettua nel sonno profondo; da questa condizione, il ritornoad un altro ciclo di manifestazione è ancora possibile; ma,poiché l’essere è liberato dall’individualità (contrariamente aquel che avviene per colui che ha seguito il pitri-yana), questociclo non potrà essere che uno stato informale esopra-individuale [Si dice simbolicamente che un tale essere èpassato dalla condizione degli uomini a quella degli Deva (chesi potrebbe chiamare uno stato «angelico» in linguaggiooccidentale); per contro, alla fine del pitri-yana, vi è un ritornoal «mondo dell’uomo» (manava-loka), vale a dire ad unacondizione individuale, così designata in analogia allacondizione umana, quantunque ne sia necessariamentedifferente, poiché l’essere non può ritornare ad uno stato per ilquale è già passato]. Finalmente, nel caso in cui la«Liberazione» deve essere ottenuta a partire dallo stato umano,vi è ancora più di quanto abbiamo detto, ed allora il fine veronon è più l’Essere Universale, ma il Supremo Brahma stesso,vale a dire Brahma «non-qualificato» (nirguna) nella Sua totaleInfinità, che comprende contemporaneamente l’Essere (o lepossibilità di manifestazione) ed il Non-Essere (o le possibilitàdi non-manifestazione) ed è il principio di questo e di quello,dunque di là da entrambi [Ricorderemo che si può tuttaviaintendere il Non-Essere metafisico, come il non-manifestato (in

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quanto non è soltanto il principio immediato del manifestato,ciò che non è che l’Essere), in un senso totale, per cuis’identifica al Principio Supremo. D’altronde, in ogni modo,fra il Non-Essere e l’Essere, come fra il non-manifestato ed ilmanifestato (ed anche se, in quest’ultimo caso, si resta neldominio dell’Essere), la correlazione non è che pura apparenza,poiché la sproporzione che esiste metafisicamente fra i duetermini non permette veramente alcun paragone], nello stessotempo che ugualmente li contiene, secondo l’insegnamento chegià abbiamo riferito in merito allo stato incondizionato d’Atma,che è precisamente ciò di cui ora si tratta [A questo proposito,citeremo ancora una volta, per meglio mettere in evidenza leconcordanze delle differenti tradizioni, un passaggio delTrattato dell’Unità (Risalatul-Ahadiyah) di Mohyiddin ibnArabi: «Questo pensiero immenso (dell’«Identità Suprema»)può confarsi solo a colui il cui animo è più vasto dei due mondi(manifestato e non-manifestato). Per colui che ha l’animo vastosolamente quanto questi due mondi (vale a dire per colui chepuò concepire l’Essere Universale, ma non oltrepassarlo), essonon gli si addice. Poiché, in verità, questo pensiero è piùgrande del mondo sensibile (o manifestato; la parola sensibiledeve qui intendersi come trasposta analogicamente, nonlimitata al senso letterale) e del mondo soprasensibile (o non-manifestato, secondo la stessa trasposizione), nonché piùgrande di entrambi questi mondi insieme»]. In questo sensoappunto la dimora di Brahma (o d’Atma in questo statoincondizionato) è anche «oltre il Sole spirituale» (Atma nellasua terza condizione, identico ad Ishwara) [Gli orientalisti, acui manca la comprensione di ciò che significa veramente ilSole, che concepiscono in senso fisico, hanno interpretatostrettamente questo simbolo; l’Oltramare scrive moltoingenuamente: «Con le sue albe ed i suoi tramonti, il sole

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consuma la vita dei mortali; l’uomo liberato esiste di là dalmondo del sole». Non si direbbe che si tratti di sfuggire allavecchiaia e pervenire ad una immortalità corporea molto similea quella che ricercano certe sette occidentali contemporanee?],come è oltre tutte le sfere degli stati particolari d’esistenza,individuali o extra-individuali; ma questa dimora non puòessere direttamente raggiunta da coloro che non hanno me-ditato su Brahma che per mezzo d’un simbolo (pratika), poichéogni meditazione (upasana) ha allora soltanto un risultatodefinito e limitato [Brahma-Sutra, 4° Adhyaya, 3° Pada, sutra7 a 16].

L’«Identità Suprema» è dunque la finalità dell’essere«liberato», vale a dire svincolato dalle condizioni dell’esistenzaindividuale umana, ed anche da tutte le altre condizioniparticolari e limitative (upadhi), considerate come altrettantivincoli [A tali condizioni si riferiscono parole come bandha epasha, il cui senso proprio è «vincolo»; dal secondo di questidue termini deriva la parola pashu, che perciò significaetimologicamente un qualunque essere vivente, vincolato datali condizioni. Shiva è chiamato Pashupati, il «Signore degliesseri legati», perché essi sono appunto «liberati» dalla suaazione «trasformatrice». - La parola, pashu, è spesso rilevata inun’accezione speciale per designare una vittima animale delsacrificio (yajna, yaga o medha), che d’altronde, è «liberata»,per lo meno virtualmente, dal sacrificio stesso; ma qui noipossiamo pensare di esporre, nemmeno sommariamente, unateoria del sacrificio, che, così inteso, è destinato essenzialmentea stabilire una certa comunicazione con gli stati superiori, ed ècompletamenti alieno dalle idee occidentalissime di «riscatto»o di «espiazione e dalle altre del genere, idee che possonocomprendersi solo da punto di vista specificamente religioso].Quando l’uomo (o meglio l’essere che era precedentemente

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nello stato umano) è così «liberato», il «Sé» (Atma) è realizzatopienamente nella sua natura propria, «indivisa»; esso è allora,secondo Audulomi, una coscienza onnipresente (avendo perattributo chaitanya); ciò è anche detto da Jaimini, maquest’ultimo specifica altresì che una tale coscienza manifestagli attributi divini (aishwarya) come facoltà trascendenti,appunto perché unita all’Essenza Suprema [Cfr. Brahma-Sutra,4° Adhyaya, 4° Pada, sutra 5 a 7]. Tale è il risultato dellaliberazione completa, ottenuta nella pienezza della ConoscenzaDivina; ma, per quelli la cui contemplazione (dhyana) è statasolamente parziale, quantunque attiva (realizzazione metafisicaincompleta), o puramente passiva (come quella dei misticioccidentali), essi godono di certi stati superiori [Il possesso ditali stati, identici ai diversi «Cieli», costituisce, per l’essere chene gode, un’acquisizione personale e permanente, malgrado lasua relatività (si tratta sempre di stati condizionati, anche sesopra-individuali), acquisizione a cui non potrebbe affatto rife-rirsi l’idea occidentale di «ricompensa», perché si tratta delrisultato, non dell’azione, ma della conoscenza; quest’idea,d’altronde, come quella del «merito», di cui è un corollario, èuna nozione di ordine esclusivamente morale e quindi non puòaver posto in una dottrina metafisica], ma senza poter tuttoraraggiungere l’Unione perfetta (Yoga), che rappresenta un tuttosolo con la «Liberazione» [La Conoscenza, a questo riguardo, èdunque di due specie, ed è detta «suprema» o «non-suprema»,secondo che concerna Para-brahma o Apara-Brahma, a cui,per conseguenza, conduce rispettivamente].

XXII. LA LIBERAZIONE FINALE

La «Liberazione» (Moksa o Mukti), vale a dire questauniversalizzazione definitiva dell’essere, fine ultimo al quale

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tende, e di cui ultimamente abbiamo parlato, differisceassolutamente da tutti gli stati che questo essere ha potutoattraversare per pervenirvi; infatti, essa è la realizzazione dellostato supremo ed incondizionato, mentre tutti gli altri stati,anche se elevatissimi, sono sempre condizionati, vale a diresottomessi a certe limitazioni che li definiscono, che li fannoessere ciò che sono, e che propriamente li costituiscono comestati determinati. Ciò può asserirsi tanto per gli statisopra-individuali quanto per quelli individuali, quantunque leloro condizioni siano diverse; lo stesso grado dell’Essere puro,che non è più nei limiti d’un qualsiasi genere d’esistenza nelsenso proprio della parola, vale a dire di là dallamanifestazione sia informale che formale, purtuttavia implicaancora una determinazione, che, anche se primordiale e prin-cipiale, è sempre una limitazione. Tutte le cose, in tutte lemodalità dell’Esistenza universale, sussistono solo per l’Essere,ed esso sussiste per se stesso; esso determina tutti gli stati dicui è il principio, e non è determinato che da se stesso; madeterminare se stesso è ancora essere determinato, dunque inqualche modo limitato, perciò l’Infinità non è un attributo chesi addice all’Essere, che non deve affatto esser consideratocome il Principio Supremo. Ciò mette in buona evidenzal’insufficienza metafisica delle dottrine occidentali, alludiamo aquelle stesse nelle quali vi è tuttavia una parte di metafisicavera [Alludiamo dunque soltanto alle dottrine filosofichedell’antichità e del medioevo, poiché i punti di vista dellafilosofia moderna sono la negazione stessa della metafisica; ciòpuò tanto dirsi per le concezioni a carattere«pseudo-metafisico» quanto per quelle che francamentedichiarano questa negazione. Naturalmente le nostre allusionisi riferiscono qui solamente alle dottrine conosciute nel mondo«profano» e non concernono le tradizioni esoteriche del-

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l’Occidente, che, per lo meno quando hanno avuto un carattereveramente e pienamente «iniziatico» non potevano essere cosìlimitate, ma dovevano invece rappresentare metafisicamente untutto completo nel doppio rapporto della teoria e dellarealizzazione; queste tradizioni però sono state conosciute dauna élite incomparabilmente meno estesa di quella dei paesiorientali]; poiché la loro unica meta è l’Essere, esse sonoincomplete, anche teoricamente (non facciamo nemmenolontanamente allusione alla realizzazione, che non vi è affattoconcepita); e, come ordinariamente accade in simili casi, essehanno la pessima tendenza di negare ciò che le oltrepassa, valea dire proprio ciò che più interessa per la metafisica pura.

L’acquisizione o, per meglio dire, il possesso di statisuperiori, qual che essi siano, non è dunque che un risultatoparziale, secondario, contingente; quantunque questo risultatopossa apparire immenso se paragonato allo stato individualeumano (e soprattutto a quello corporeo, il solo di cui gli uominiordinari abbiano il possesso effettivo durante la loro esistenzaterrestre), non è men vero che, in se stesso, è rigorosamentenulla se paragonato allo stato supremo, poiché il finito, anchese è divenuto indefinito, in virtù delle estensioni di cui èsuscettibile, vale a dire in virtù degli sviluppi delle sue propriepossibilità, resta sempre nulla se paragonato all’Infinito. Untale risultato non vale dunque, nella realtà assoluta, che a titolopreparatorio all’«Unione», vale a dire come mezzo, non comefine; è dunque perseverare nell’illusione volerlo considerare unfine, poiché tutti gli stati di cui si tratta, non escluso l’Essere,sono illusori nel senso da noi definito fin dal principio. Altresì,negli stati in cui vi è ancora una distinzione, cioè in tutti i gradidell’Esistenza, non escludendo quelli che non appartengonoall’ordine individuale, l’universalizzazione dell’essere nonpotrebbe essere effettiva; ed anche l’unione all’Essere Univer-

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sale, secondo come essa si compie nella condizione di Prajna(o nello stato postumo che corrisponde a questa condizione),non è neanche l’«Unione» nel senso pieno della parola; se lofosse, il ritorno ad un ciclo di manifestazione, anchenell’ordine informale, sarebbe impossibile. È ben vero chel’Essere è oltre qualsiasi distinzione, poiché la primadistinzione è quella dell’«essenza» e della «sostanza», oPurusha e Prakriti; tuttavia Brahma, in quanto Ishwara ol’Essere Universale, è detto savishesha, vale a dire «cheimplica la distinzione», poiché ne è principio determinante im-mediato; solo lo stato incondizionato d’Atma, oltre l’Essere, èprapancha-upashama, «senza traccia alcuna di sviluppo dellamanifestazione». L’Essere è uno, o meglio è la stessa Unitàmetafisica; ma l’Unità racchiude in sé la molteplicità, poiché laproduce per il solo dispiegarsi delle sue possibilità; perciò,nell’Essere stesso, si può considerare una molteplicitàd’aspetti, che ne sono altrettanti attributi o qualifiche, quantun-que questi aspetti non vi siano affatto distinti in realtà, se nonperché noi li concepiamo in tal modo; ma pure è necessario cheessi vi siano compresi in qualche modo, perché ci sia possibileconcepirveli. Si potrebbe dire anche che ogni aspetto sidistingua dagli altri, in un certo rapporto, quantunque nessunosi distingua veramente dall’Essere, essendo tutti l’Essere stesso[Nella teologia cristiana, ciò può trovare riscontro nellaconcezione della Trinità: ogni persona divina è Dio, senzaessere le altre persone. – Nella filosofia scolastica, si potrebbedire la stessa cosa per i «trascendentali», di cui ognuno ècoestensivo all’Essere]; vi è dunque una specie di distinzioneprincipiale, che non è una distinzione nel senso in cui questaparola si riferisce all’ordine della manifestazione, ma ne è latrasposizione analogica. Nella manifestazione, la distinzioneimplica una separazione; ma questa non è niente di positivo in

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realtà, poiché non è che un modo di limitazione [Negli statiindividuali, la separazione è determinata dalla presenza dellaforma; negli stati non-individuali, deve essere determinata daun’altra condizione, perché questi stati sono informali];l’Essere puro è invece oltre la «separatività». Così, quello che èal grado dell’Essere puro è «non-distinto», considerando ladistinzione (vishesha) nel senso in cui la comportano gli statimanifestati; tuttavia, in un altro senso, si può ancora rilevarequalche cosa di «distinto» (vishishta): nell’Essere, tutti gliesseri (intendiamo le loro personalità) sono «uno» senzaconfondersi, e sono distinti senza separarsi [Ciò spiega appuntola principale differenza fra la veduta di Ramanuja, chemantiene la distinzione principiale, e quella di Shankaracharya,che la oltrepassa]. Di là dall’Essere non vi è più distinzionepossibile, anche se principiale, quantunque non si possanemmeno asserire che vi sia confusione; siamo di là dallamolteplicità, ma anche di la dall’Unita; nell’assolutatrascendenza di questo stato supremo, non uno di questi terminipuò più usarsi, neanche per trasposizioni analogiche, perciò ènecessaria una parola di forma negativa, quella di«non-dualità», secondo quanto precedentemente abbiamospiegato; la stessa parola «Unione» è indubbiamenteimperfetta, poiché evoca l’idea di unità, ma tuttavia siamoobbligati ad usarla per tradurre la parola Yoga, non avendonealtre a nostra disposizione nelle lingue occidentali.

La Liberazione, con le facoltà ed i poteri che implica inqualche modo «per sovrappiù», e perché tutti gli stati, con tuttele loro possibilità, si trovano necessariamente compresinell’assoluta totalizzazione dell’essere, ma che, lo ripetiamo, sidebbono considerare come risultati accessorii ed anche«accidentali», non come costituenti una finalità propria, la«Liberazione», diciamo, può essere ottenuta dallo Yogi (o

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meglio da colui che diviene tale appunto perché l’ha ottenuta)con l’aiuto delle osservanze indicate nello Yoga-Shastra diPatanjali. Essa può anche essere facilitata dalla pratica di certiriti [Questi riti sono del tutto paragonabili a quelli che iMusulmani classificano col nome generale di dhikr; essi sifondano principalmente, come già l’abbiamo indicato, sullascienza del ritmo e delle sue corrispondenze in tutti gli ordini. Iriti chiamati vrata (voto) e dwara (porta) rappresentano lastessa parte nella dottrina parzialmente eterodossa deiPashupata; sotto forme differenti, tutto ciò è in fondo identicoo per lo meno equivalente allo Hatha-Yoga], come pure didiversi modi particolari di meditazione (harda-vidya odahara-vidya) [Chhandogya Upanishad, 8° Prapataka]; mas’intende naturalmente che tutti questi metodi sono solamentepreparatori, non veramente essenziali, poiché «l’uomo puòacquistare la Conoscenza Divina anche senza osservare i ritiprescritti (per ognuna delle diverse categorie umane, inconformità ai loro rispettivi caratteri, e specialmente per idiversi ashrama o periodi regolari della vita) [D’altronde,l’uomo che ha raggiunto un certo grado di realizzazione èchiamato ativarnashrami, vale a dire di là dalle caste (varna) edagli stadi dell’esistenza terrestre (ashrama); non una delledistinzioni ordinarie si riferiscono più ad un tale essere, poichéha effettivamente superato i limiti dell’individualità, anche senon è ancora pervenuto al risultato finale]; si trovano infatti nelVeda molti esempi di persone che hanno negletto i riti (lostesso Veda paragona questi riti ad un cavallo da sella che aiutaun uomo a raggiungere più facilmente e più rapidamente la suameta, che però sempre può raggiungere anche senzaquest’aiuto) o che non hanno potuto compierli, e che tuttavia,in virtù della loro attenzione sempre concentrata e fissata sulSupremo Brahma (ciò che costituisce la sola preparazione

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realmente indispensabile), hanno acquistato la vera Co-noscenza che Lo concerne (e che perciò è ugualmente chiamataConoscenza «suprema»)» [Brahma-Sutra, 3° Adhyaya, 4°Pada, sutra 36 a 38].

La Liberazione è dunque effettiva solo quando implicaessenzialmente la perfetta Conoscenza di Brahma;inversamente, questa Conoscenza, per essere perfetta, supponenecessariamente la realizzazione di ciò che abbiamo chiamatol’«Identità Suprema». Perciò, la Liberazione e la Conoscenzatotale ed assoluta sono veramente una stessa ed unica cosa; sesi dice che la Conoscenza è il mezzo della Liberazione, si deveaggiungere che il mezzo ed il fine sono qui inseparabili, poichéil frutto della Conoscenza è in se stesso, contrariamente aquello dell’azione [L’azione ed il suo frutto sono altresìugualmente transitori e «momentanei»; mentre la Conoscenza èpermanente e definitiva, come il suo risultato, che non puòessere distinto dalla Conoscenza stessa]; del resto, a questoproposito, una distinzione del mezzo e del fine è un semplicemodo di dire, indubbiamente inevitabile quando bisognaesprimere queste idee in linguaggio umano, sempre nellamisura in cui sono esprimibili. Se dunque la Liberazione èconsiderata come una conseguenza della Conoscenza, è beneprecisare che essa ne è una conseguenza rigorosamenteimmediata; Shankaracharya dice nettamente: «Non vi è altromezzo per ottenere la Liberazione completa e finale che laConoscenza; solo questa infatti scioglie i vincoli delle passioni(e di tutte le altre contingenze a cui è sottomesso l’essereindividuale); senza la Conoscenza, la Beatitudine (Ananda) nonpuò essere ottenuta. L’azione (karma, che questa parola siaintesa nel suo senso generale o riferita specialmente alcompimento dei riti), non essendo opposta all’ignoranza(avidya) [Certuni vorrebbero tradurre avidya o ajnana con

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«nescienza», non con «ignoranza»; confessiamo di noncomprendere chiaramente la ragione di questa sottigliezza],non può allontanarla; ma la Conoscenza dissipa l’ignoranzacome la luce le tenebre. Allorché l’ignoranza che nasce dalleaffezioni terrestri (e da altri vincoli analoghi) è allontanata (equando con essa sono anche scomparse tutte le illusioni), il«Sé» (Atma), per il suo proprio splendore, brilla lontano(attraverso tutti i gradi dell’esistenza) in modo indiviso(penetrando tutto ed illuminando la totalità dell’essere), come ilSole diffonde la sua luce quando la nuvola è fugata» [Atma-Bodha (Conoscenza del Sé)].

Uno dei punti di maggior rilievo è il seguente: l’azione, qualche essa sia, non può affatto liberare dall’azione; in altreparole, essa non potrebbe portare dei risultati che dentro il suoproprio dominio, che è quello dell’individualità umana. Perciònon è per virtù dell’azione che si può superare l’individualità,considerata d’altronde qui nella sua estensione integrale,poiché non pretendiamo affatto che le conseguenze dell’azionesi limitino alla sola modalità corporea; si può riferire, a questoriguardo, ciò che abbiamo detto precedentemente della vita,effettivamente inseparabile dall’azione. Da ciò risultaimmediatamente che la «salvezza», al senso religioso intesodagli Occidentali, essendo il frutto di certe azioni [L’usualeespressione «fare la propria salvezza» è dunque perfettamenteesatta], non può essere assimilata alla Liberazione, ed èaltrettanto necessario dichiararlo espressamente ed insistervi,che la confusione fra l’una e l’altra si verifica costantementenelle interpretazioni degli orientalisti [L’Oltramarespecialmente traduce Moksha con «salvezza» da un capoall’altro delle sue opere, senza neppure sospettare, non diciamodella differenza reale che qui abbiamo indicata, ma neanchedella semplice possibilità d’una inesattezza in tale

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assimilazione]. La «salvezza» è propriamente il conseguimentodel Brahma-Loka; preciseremo parimenti che perBrahma-Loka bisogna intendere qui esclusivamente la dimoradi Hiranyagarbha, poiché gli aspetti più elevati del«Non-Supremo» oltrepassano le possibilità individuali. Ciòs’accorda perfettamente con la concezione occidentaledell’«immortalità», che è appena un prolungamento indefinitodella vita individuale, trasposta nell’ordine sottile, e che siestende fino al pralaya; abbiamo già spiegato che ciò è appenauna tappa nel processo di krama-mukti; ancora la possibilitàd’un ritorno ad uno stato di manifestazione (d’altrondesopra-individuale) non è definitivamente eliminata per l’essereche non ha oltrepassato questo grado. Per procedere più oltre eper liberarsi interamente dalle condizioni di vita e di duratainerenti all’individualità, è aperta una sola via, quella della Co-noscenza, sia «non-suprema» che conduce ad Ishwara [Vi èappena bisogno di dire che la teologia, anche se comportasseuna realizzazione che la rendesse veramente efficace, invece direstare semplicemente teorica, come essa lo è infatti (purchétuttavia non si voglia considerare una tale realizzazione comecostituita dagli «stati mistici», ciò che è solo parzialmente veroe sotto certi riguardi), sarebbe sempre integralmente compresain questa Conoscenza «non-suprema»] sia «suprema» cherealizza immediatamente la Liberazione. In quest’ultimo caso,non vi è più bisogno di considerare, alla morte, un passaggioattraverso diversi stati superiori, ma sempre transitori econdizionati: «Il “Sé” (Atma, poiché allora non può più trattarsidi jivatma, essendo svanita ogni possibile distinzione e«separatività») di colui che ha raggiunto la perfezione dellaConoscenza Divina (Brahma-Vidya), e che ha, perconseguenza, ottenuto la Liberazione finale, lasciando la suaforma corporea, ascende (senza traversare stati intermediari)

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alla Luce Suprema (spirituale) che è Brahma, ed a Luis’identifica in un modo conforme ed indiviso, come l’acquapura, confondendosi col lago limpido (senza tuttavia affattoperdervisi), diviene in tutto ad esso conforme» [Brahma-Sutra,4° Adhyaya, 4° Pada, sutra 1 a 4].

XXIII. VIDEHA-MUKT1 E JIVAN-MUKTI

La Liberazione, nell’ultimo caso di cui abbiamo parlato, èpropriamente la liberazione fuori della forma corporea(videha-mukti), ottenuta, al momento della morte, in modoimmediato, poiché la Conoscenza è già virtualmente perfettaprima della fine dell’esistenza terrestre; essa deve dunquedistinguersi dalla liberazione differita e graduale(krama-mukti), ma anche da quella ottenuta dallo Yogi fin dallavita attuale (jivan-mukti), in virtù della Conoscenza, non piùsoltanto virtuale e teorica, ma pienamente effettiva, vale a direquella che veramente realizza l’«Identità Suprema». Bisognaben comprendere, infatti, che né il corpo e nemmeno le altrecontingenze possono ostacolare la Liberazione; nulla puòopporsi alla totalità assoluta, al cui confronto le cose particolarisono come se non fossero; in rapporto allo scopo supremo,l’equivalenza è perfetta fra tutti gli stati dell’esistenza, quindifra l’uomo vivo e l’uomo morto (si debbono considerare questedue espressioni nel loro significato terrestre) non sussiste piùormai distinzione alcuna. A questo proposito, scorgiamo ancorauna essenziale differenza fra la Liberazione e la «salvezza»:quest’ultima, secondo le religioni occidentali, non può essereeffettivamente ottenuta e neanche assicurata (vale a direottenuta virtualmente) prima della morte; l’azione può semprefar perdere ciò che ha fatto raggiungere; e fra certe modalità diuno stesso stato individuale può esservi incompatibilità, per lo

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meno accidentalmente e sotto condizioni particolari [Questarestrizione è indispensabile, poiché, se vi fosse incompatibilitàassoluta o essenziale, la totalizzazione dell’essere sarebbe resaimpossibile, alcuna modalità potendo restare al di fuori dellarealizzazione finale. D’altronde, l’interpretazione la piùexoterica della «resurrezione dei morti» è sufficiente adimostrare che, anche dal punto di vista teologico, non puòesservi un’antinomia irriducibile fra la «salvezza» el’«incorporazione»], mentre non può ciò dirsi per gli stati so-pra-individuali, né, a più forte ragione, per lo statoincondizionato. Considerare le cose altrimenti è attribuire ad unmodo speciale di manifestazione una importanza che nonpotrebbe avere e che l’intera manifestazione tanto meno ha;solamente la prodigiosa insufficienza delle concezionioccidentali relative alla costituzione dell’essere umano puòpermettere una simile illusione e giudicare sorprendente che laLiberazione possa anche effettuarsi durante la vita terrestrecome in tutt’altro stato.

La Liberazione o l’Unione, che sono una stessa ed unica cosa,implica «per sovrappiù», già l’abbiamo detto, il possesso ditutti gli stati, poiché è la realizzazione perfetta (sadhana) e latotalizzazione dell’essere; poco importa d’altronde se questistati siano attualmente manifestati o non lo siano, poiché èsoltanto come possibilità permanenti ed immutabili che essidebbono essere considerati metafisicamente. «Signore dimolteplici stati per la semplice virtù della sua volontà, lo Yoginon ne occupa che uno, lasciando gli altri vuoti del soffioanimatore (prana), come altrettanti strumenti inutilizzati; eglipuò animare più di una forma, come una sola lampada puòalimentare più di un lucignolo» [Commento diBhavadeva-Mishra sui Brahma-Sutra]. «Lo Yogi, diceAniruddha, è in connessione immediata con il principio

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primordiale dell’Universo, e, per conseguenza(secondariamente), con l’insieme tutto dello spazio, del tempoe delle cose», vale a dire con la manifestazione, e più parti-colarmente con lo stato umano in tutte le sue modalità [Ecco untesto taoista dove sono espresse le stesse idee: «Colui (l’essereche ha raggiunto questo stato nel quale è unito alla totalitàuniversale) non sarà affatto dipendente; sarà inveceperfettamente libero... Perciò si dice molto giustamente:l’essere sovrumano non ha più individualità propria; l’uomotrascendente non ha più azione propria; il Saggio non haneanche più un nome che gli sia proprio, poiché è uno colTutto» (Tchoang-tseu, cap. 1; trad. del P. Wieger, p. 211). LoYogi o lo jivan-mukta infatti é libero dal nome e dalla forma(namarupa), che sono gli elementi costitutivi e caratteristicidell’individualità; abbiamo già menzionato i testi delleUpanishad in cui è appunto espressamente affermato questosvanire del nome e della forma].

D’altronde, sarebbe un errore credere che la liberazione «al difuori della forma» (videha-mukti) sia più completa di quella«nella vita» (jìvan-mukti); se certi Occidentali hannocommesso quest’errore, è sempre per l’eccessiva importanzache attribuiscono allo stato corporeo; d’altronde, ciò cheabbiamo detto ci dispensa d’insistervi ancora. Lo Yogi non puòniente ottenere ulteriormente, poiché egli ha veramenterealizzato la «trasformazione» (vale a dire è passato oltre laforma), per lo meno in se stesso, se non esteriormente;gl’importa poco quindi che l’apparenza formale sussista nelmondo manifestato, quando, per lui, essa non può ormaiesistere altrimenti che in modo illusorio. A vero dire, per glialtri soltanto le apparenze sussistono così, senza cambiamentoesteriore in rapporto allo stato antecedente, non per lo Yogi,poiché ormai esse non possono più limitarlo o condizionarlo,

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né lo turbano, né lo concernono più di tutto il resto dellamanifestazione universale. «Poiché lo Yogi ha attraversato ilmare delle passioni [È il dominio delle «Acque inferiori» odelle possibilità formali; le passioni sono qui considerate perdesignare tutte le modificazioni contingenti che costituisconola «corrente delle forme»], è unito alla Tranquillità [È la«Grande Pace» (Es-Sakinah) dell’esoterismo islamico, o laPax Profunda della tradizione rosicruciana; la parola Shekinah,in ebraico, specifica la «presenza reale» della Divinità, o la«Luce della gloria» nella e per la quale, secondo la teologiacristiana, si opera la «visione beatifica» (cfr. la «gloria di Dio»nel testo già citato dell’Apocalisse; XXI, 23). - Ecco ancora untesto taoista che si riferisce alla stesso soggetto: «La pace nelvuoto è uno stato indefinibile e tuttavia raggiungibile. Non la siprende né la si dà. Un tempo si cercava di ottenerla. Ora sipreferisce esercitare la bontà e l’equità, che non danno lo stessorisultato» (Lie-Tseu, cap. I; trad. del P. Wieger, p. 77). Il«vuoto» di cui si tratta è il «quarto stato» della MandukyaUpanishad, che infatti è indefinibile, poiché assolutamenteincondizionato, e lo si può qualificare per attribuzioni negative.Le parole «un tempo» ed «ora» si riferiscono ai differentiperiodi del ciclo dell’umanità terrestre: le condizioni dell’epocaattuale (che corrisponde al Kali-Yuga) sono tali che la grandemaggioranza degli uomini si vincolano all’azione ed alsentimento, che non possono condurli di là dai limitidell’individualità umana, e meno ancora allo stato supremo edincondizionato] e possiede nella sua pienezza il “Sé” (Atmaincondizionato, al quale è identificato). Poiché ha rinunziato aipiaceri che nascono dagli oggetti esteriori perituri (e che infondo altro non sono se non modificazioni esteriori edaccidentali dell’essere), e giacché gode la Beatitudine (Ananda,che è il solo oggetto permanente ed imperituro, per nulla

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differente dal “Sé”), egli è calmo e sereno come la fiaccolasotto uno spegnitoio [Da ciò è facile comprendere il vero sensodella parola Nirvana, a cui gli orientalisti hanno attribuito lepiù false interpretazioni; questa parola, lungi dall’esserespeciale al Buddhismo come spesso si crede, specificaletteralmente «estinzione del soffio o dell’agitazione», dunqueè lo stato dell’essere non più sottomesso a cambiamenti ed amodificazioni, definitivamente liberato dalla forma, come datutti gli altri accidenti o vincoli dell’esistenza manifestata.Nirvana è la condizione sopra-individuale (quella di Prajna), eParinirvana è lo stato incondizionato; si usano anche, nellostesso senso, le parole Nivritti, «estinzione del cambiamento odell’azione», e Parinirvritti. - Nell’esoterismo islamico, leparole corrispondenti sono fana, «estinzione», e fana el- fanai,letteralmente «estinzione dell’estinzione»], nella pienezza dellasua propria essenza (non più distinta dal Supremo Brahma).Mentre egli sta ancora (apparentemente) nel corpo, non èaffatto turbato dalle proprietà di esso, come il firmamento nonè offuscato da ciò che trasmuta nel suo seno (poiché egli, inrealtà, contiene in se tutti gli stati, senza che sia da essicontenuto); egli è immutabile, «non-alterato» dallecontingenze, conoscendo ogni cosa (ed appunto perciò essendoogni cosa, non «distintivamente», ma come totalità assoluta)»[Atma-Bodha di Shankaracharya].

Dunque, evidentemente, non vi è né può esservi alcun gradospirituale che sia superiore a quello dello Yogi, che, consideratonella sua concentrazione in se stesso, è anche designato come ilMuni, vale a dire «Solitario» [La radice della parola Munisembra identica a quella greca , «solo», quantunquecertuni la riavvicinino al termine manana, che specifica ilpensiero riflessivo e concentrato, ma ciò è poco verosimile siadal punto di vista della derivazione etimologica sia da quello

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del significato stesso (poiché manana, derivato da manas, nonpuò riferirsi che al pensiero individuale), non in senso volgaree letterale, ma come colui che realizza, nella pienezza del suoessere, la Solitudine perfetta, e che non lascia sussistere nel-l’Unità Suprema (o meglio nella «Non-Dualità») alcunadistinzione dell’esteriore e dell’interiore e nemmeno unaqualsiasi diversità extra-principiale. Per lui, l’illusione della«separatività» è definitivamente cessata, e con essa ogniconfusione prodotta dall’ignoranza (avidya), che appuntogenera e mantiene questa illusione[A quest’ordine appartienespecialmente la «falsa imputazione» (adhyasa), che consistenell’attribuire ad una cosa qualifiche che non le appartengonoveramente], poiché «l’uomo, immaginandosi dapprima esserel’«anima vivente» individuale (jivatma), è spaventato (alpensiero che vi sia un essere altro che lui), come una personache scambiasse erroneamente [Un tale errore è chiamatovivarta; si tratta propriamente di una modificazione che nonturba affatto l’essenza dell’essere al quale è attribuita; essadunque pregiudica soltanto colui che, per effetto d’unaillusione, la riferisce a quest’essere] un pezzo di corda per unserpente; ma la sua paura svanisce con la certezza che, inrealtà, egli non è quest’«anima vivente», ma Atma stesso (nellaSua universalità incondizionata)» [Atma-bodha diShankaracharya].

Shankaracharya enumera tre attributi che in qualche modocorrispondono ad altrettante funzioni del Sannyasi possessoredella Conoscenza, che è appunto lo Yogi stesso, se questaConoscenza è pienamente effettiva [Lo stato di Sannyasi èpropriamente l’ultimo dei quattro ashrama (i primi tre sonoquelli di Brahmachari o «studente della Scienza sacra»,discepolo d’un Guru, di Grihastha o «padrone di casa», diVanaprastha o «anacoreta»); ma il nome di Sannyasi è anche

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spesso attribuito, come qui ne è il caso, al Sadhu, vale a dire acolui che ha compiuto la perfetta realizzazione (sadhana), eche è ativarnashrami, come l’abbiamo visto poc’anzi]: questitre attributi sono, in ordine ascendente, balya, panditya emauna [Commento sui Brahma-Sutra, 3° Adhyaya, 4° Pada,sutra 47 a 50]. La prima di queste parole specifica letteralmenteuno stato paragonabile a quello d’un ragazzo (bala) [Cfr.queste parole del Vangelo: «Il Regno dei Cieli è per coloro chesono simili a questi ragazzi... Chiunque non avrà ricevuto ilRegno di Dio come un piccolo fanciullo non entrerà punto inesso» (S. Matteo, XIX, 24; S. Luca, XVIII, 16 e 17)]: è unostadio di «non-espansione», se così possiamo dire, dove tutte lepotenze dell’essere sono concentrate in un sol punto, erealizzano con la loro unificazione una semplicitàindifferenziata apparentemente simile alla potenzialitàembrionale [Questo stadio corrisponde al «Dragone nascosto»dei simbolismo estremo-orientale. - Un altro simbolofrequentemente usato è quello della tartaruga che interamentesi ritira nel suo guscio]. È anche, in un senso alquantodifferente, ma che completa il precedente (poiché vi ècontemporaneamente riassorbimento e pienezza), il ritorno allo«stato primordiale» di cui parlano tutte le tradizioni, e sul qualeinsistono più specialmente il Taoismo e l’esoterismo islamico;questo ritorno è effettivamente una tappa necessaria versol’Unione, poiché soltanto da questo «stato primordiale» sipossono superare i limiti dell’individualità umana, per poielevarsi agli stati superiori [Ciò corrisponde allo «statoedenico» della tradizione giudaico-cristiana; perciò Dantecolloca il Paradiso terrestre alla sommità della montagna delPurgatorio, vale a dire precisamente nel punto da cui l’esserelascia la Terra, o lo stato umano, per elevarsi ai Cieli (designaticome il «Regno di Dio» nella precedente citazione del Van-

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gelo)].Uno stadio ulteriore è rappresentato da panditya, vale a dire

dal «sapere», attributo che si riferisce ad una funzioned’insegnamento; colui che possiede la Conoscenza èqualificato affinché la comunichi agli altri o, più esattamente,per svegliare in essi delle possibilità corrispondenti, poiché laConoscenza in se stessa è rigorosamente personale edincomunicabile. Il Pandita ha dunque più particolarmente ilcarattere di Guru o «Maestro spirituale» [Il Guru corrispondeallo Sheikh delle scuole islamiche, anche chiamato murabbul-muridin; il Murid è il discepolo, vale a dire il Brahmachariindù]; ma egli però può anche limitarsi ad avere la perfezionedella Conoscenza teorica, perciò è necessario considerare,come grado ultimo ed ulteriore, mauna o lo stato del Muni,come l’unica condizione nella quale l’Unione può veramenterealizzarsi. D’altronde, vi è un’altra parola, Kaivalya, cheanche significa «isolamento» [L’«isolamento» è ancora il«vuoto» di cui si tratta nel testo taoista citato; questo «vuoto» èin realtà, d’altronde, l’assoluta pienezza], e che contempora-neamente esprime le idee di «perfezione» e di «totalità»; questaparola è spesso usata quale equivalente di Moksha: kevaladesigna lo stato assoluto ed incondizionato, quello dell’essere«liberato» (mukta).

Abbiamo considerato i tre aspetti di cui si tratta comecaratterizzanti altrettanti stadi preparatori all’Unione; ma,naturalmente, lo Yogi, pervenuto allo scopo supremo, lipossiede a più forte ragione, come possiede tutti gli stati, nellapienezza della sua essenza [È bene notare che questi treattributi sono in qualche modo «prefigurati» rispettivamente, enello stesso ordine, dai tre primi ashrama; il quarto ashrama,quello del Sannyasi (nel suo più ordinario significato),rassomiglia e riassume per così dire gli altri tre, come lo stato

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finale dello Yogi implica «eminentemente» tutti gli statiparticolari, prima attraversati come altrettante tappepreliminari]. Questi tre attributi sono, d’altronde, impliciti inciò che è chiamato ashwarya, vale a dire la partecipazioneall’essenza d’Ishwara, poiché corrispondono rispettivamentealle tre Shakti della Trimurti: se si nota che lo «statoprimordiale» è caratterizzato fondamentalmentedall’«Armonia», si vedrà immediatamente che balyacorrisponde a Lakshmi, mentre panditya corrisponde aSaraswati e mauna a Parvati [Lakshmi è la Shakti di Vishnu;Saraswati o Vach è quella di Brahma; Parvati è quella di Shiva.Parvati è anche chiamata Durga, vale a dire «Quella chedifficilmente si può avvicinare». – È notevole che lacorrispondenza di queste tre Shakti è perfino rintracciabilenelle tradizioni occidentali: perciò, nel simbolismo massonico,i «tre principali pilastri del Tempio» sono «Saggezza, Forza,Bellezza»; la Saggezza è Saraswati, la Forza è Parvati, laBellezza è Lakshmi. Parimenti Leibnitz, che aveva ricevutoqualche insegnamento esoterico (d’altronde abbastanzaelementare) di provenienza rosicruciana, designa i tre principaliattributi divini come «Saggezza, Potenza, Bontà», ciò che èesattamente la stessa cosa, poiché «Bellezza» e «Bontà» infondo sono (come per i Greci e specialmente per Platone) dueaspetti d’una idea unica, precisamente quella dell’«Armonia»].Questo punto è di una particolare importanza per bencomprendere quale significato hanno i «poteri» che apparten-gono al jivan-mukta, a titolo di conseguenze secondarie dellaperfetta realizzazione Metafisica.

D’altra parte, si può anche scorgere nella tradizioneestremo-orientale una teoria che equivale esattamente a quellache abbiamo esposta: questa teoria è quella delle «quattroFelicità», le cui due prime sono la «Longevità», che, come già

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abbiamo visto, è insomma la perpetuità dell’esistenzaindividuale, e la «Posterità», che consiste nei prolungamentiindefiniti dell’individuo in tutte le sue modalità. Queste due«Felicità» non concernono dunque che l’estensione del-l’individualità e si riassumono nella restaurazione dello «statoprimordiale», che ne implica il pieno compimento; le dueseguenti, che si riferiscono, al contrario, agli stati superiori edextra-individuali dell’essere [Perciò, mentre le due prime«Felicità» appartengono al Confucianesimo, le altre rilevanodel Taoismo], sono il «Grande Sapere» e la «PerfettaSolitudine», vale a dire panditya e mauna. Finalmente, questequattro Felicità» ottengono la loro pienezza nella «quinta», chele contiene tutte in principio e le unisce sinteticamente nellaloro essenza unica ed indivisibile; questa «quinta Felicità» nonha affatto un nome (come il «quarto stato» della MandukyaUpanishad), poiché è inesprimibile, né può essere oggetto dialcuna conoscenza distintiva; ma è facile comprendere che ciòdi cui si tratta è in fondo l’Unione stessa o l’«IdentitàSuprema», ottenuta nella e per la realizzazione completa etotale di ciò che altre tradizioni chiamano l’«UomoUniversale», poiché lo Yogi, nel vero senso della parola, ol’«uomo trascendente» (tchen-jen) del Taoismo, è appuntoidentico all’«Uomo Universale» [Quest’identità è ugualmenteaffermata nelle teorie dell’esoterismo islamico sulla«manifestazione del Profeta»].

XXIV. LO STATO SPIRITUALE DELLO YOGI:L’«IDENTITÀ SUPREMA»

Riprendendo in esame lo stato dello Yogi, che, in virtù dellaConoscenza, è «liberato nella vita» (jivan-mukta) ed harealizzato l’«Identità Suprema», citeremo ancora

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Shankaracharya [Atma-Bodha. - Riunendo differenti passaggidi questo trattato, non ci atterremo, in questi estratti, all’ordinerigoroso del testo; d’altronde, in generale, il seguito logicodelle idee non può essere esattamente identico in un testosanscrito ed in una traduzione in lingua occidentale, appuntoper le differenze che esistono fra certi «modi di pensare» esulle quali già spesse volte abbiamo insistito], in meritoappunto allo stato dello Yogi ed alle possibilità le più alte chel’essere può raggiungere; queste citazioni serviranno con-temporaneamente di conclusione al presente studio.

«Lo Yogi, il cui intelletto è perfetto, contempla tutte le cosecome contenute in se stesso (nel suo proprio “Sé”, senzadistinzione alcuna di esteriore ed interiore), e così, per l’occhiodella Conoscenza (Jnana-chakshus, espressione che potrebbeessere resa abbastanza esattamente con «intuizioneintellettuale»), egli perrcepisce (o meglio concepisce, nonrazionalmente o discorsivamente, ma per coscienza diretta ed«assentimento» immediato) che ogni cosa e Atma.

«Egli conosce che tutte le cose contingenti (le forme e le altremodalità della manifestazione) non sono altro che Atma (nelloro principio), e che al di fuori di Atma nulla vi è, «poiché lecose differiscono semplicemente (secondo il Veda) indesignazione, accidente e nome, come gli utensili terrestriricevono diversi nomi, quantunque siano soltanto formedifferenti di terra» [Vedi Chhandogya Upanishad, 6°Prapathaka, 1° Khanda, shruti 4 a 6]; così egli percepisce (oconcepisce, nello stesso senso che più sopra abbiamospecificato) che è lui stesso tutte le cose (poiché non vi è cosaalcuna che sia un essere altro che lui od il suo proprio «Sé»)[Notiamo a proposito che Aristotele, nel ,espressamente dichiara che «l’anima è tutto ciò che essaconosce»; troviamo in questa asserzione un avvicinamento

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abbastanza netto fra la dottrina aristotelica e quelle orientali,malgrado le riserve che sempre s’impongono per la differenzadei punti di vista; ma questa affermazione, per Aristotele e per isuoi continuatori, è restata puramente teorica. Si deve dunqueammettere che le conseguenze di quest’idea di una taleidentificazione per la Conoscenza, nella realizzazionemetafisica, sono restate del tutto insospettate dagli Occidentali,escludendo certe scuole propriamente iniziatiche, che nonhanno comune misura con ciò che abitualmente è chiamato«filosofia»].

«Quando gli accidenti (formali ed altri, che comprendonotanto la manifestazione sottile quanto quella grossolana) sonosoppressi (poiché esistono solamente in modo illusorio ed inverità non sono nulla dinnanzi al Principio), il Muni (quisinonimo di Yogi entra, con tutti gli esseri (in quanto essi nonsono più distinti da lui) nell’Essenza che tutto penetra (e che èAtma) [«Il Principio è sopra ogni cosa, è a tutto comune, tuttocontiene e tutto penetra; l’Infinità è il suo attributo, il solo colquale si possa specificarlo, poiché non ha un nome che gli siaproprio» (Tchouang-tseu, cap. XXV; trad. del P. Wieger, p.437)].

«Egli è senza qualità (distinte), senza azione [Cfr. il «non-agire» della tradizione estremo-orientale]; imperituro (akshara,non soggetto alla dissoluzione, che pregiudica la solamolteplicità), senza volizione (riferita ad un atto definito od acircostanze determinate), tutto Beatitudine, immutabile, senzaforma, eternamente libero e puro (poiché non può essereturbato in qualsiasi modo da un altro che lui stesso; quest’altroinfatti non esiste, o per lo meno la sua esistenza è illusoria,mentre lo Yogi è nella realtà assoluta).

«Egli è come l’Etere (Akasha), diffuso dappertutto (senzadifferenziazione), e che simultaneamente penetra l’interno e

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l’esterno delle cose [L’ubiquità è qui il simbolodell’onnipresenza, nel senso già attribuito alla parola]; èincorruttibile, imperituro; egli è sempre lo stesso in tutte lecose (non una modificazione potendo turbare la sua identità),puro, impassibile, inalterabile (nella sua immutabilitàessenziale).

«Egli è (secondo le parole stesse del Veda) «il SupremoBrahma, che è eterno, puro, libero, solo (nella perfezioneassoluta), incessantemente pieno di Beatitudine, senza dualità,Principio (incondizionato) di ogni esistenza, conoscente (senzache questa Conoscenza implichi una qualsiasi distinzione frasoggetto ed oggetto, ciò che sarebbe contrario alla«non-dualità»), e senza fine».

«Egli è Brahma, dopo il cui possesso niente può essere ancoraposseduto; dopo la cui Beatitudine non vi é punto altra felicitàche possa desiderarsi; dopo la cui Conoscenza non vi e un’altraconoscenza che possa essere ottenuta.

«Egli è Brahma, che, visto (dall’occhio della Conoscenza),nessun altro oggetto può più essere contempplato; poiché,quando si è identificati a Lui, non è più possibile subire alcunamodificazione (come nascita o morte); e, quando Lo si èpercepito (ma tuttavia non come oggetto percepibile da unaqualunque facoltà), niente più vi è da percepire (poiché ogniconoscenza distintiva è allora superata e come svanita).

«Egli è Brahma, dappertutto ed in tutto diffuso (poiché nullavi è al di fuori di Lui, tutto essendo necessariamente contenutonella Sua Infinità) [Ricorderemo ancora questo testo taoista chegià abbiamo citato più ampiamente: «Non domandate se ilPrincipio è in questo od in quello; Esso è in tutti gli esseri»...(Tchoang-tseu, cap. XXII; trad. del P. Wieger, p. 395)]: nellospazio intermediario, in ciò che è sopra ed in ciò che è sotto(vale a dire nell’insieme dei tre mondi); il vero, pieno di

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Beatitudine, senza dualità, indivisibile, eterno.«Egli è Brahma, affermato nel Vedanta come assolutamente

distinto da ciò che penetra (che, invece, non è affatto distintoda Lui, o per lo meno se ne distingue solamente in modoillusorio) [Ricordiamo che questa irreciprocità nella relazionedi Brahma e del Mondo implica espressamente la condannatanto del «panteismo» come di qualunque formad’«immanentismo»], incessantemente pieno di Beatitudine,senza dualità.

«Egli è Brahma, «da cui (secondo il Veda) è prodotta la vita(jiva), il senso interno (manas), le facoltà di sensazione ed’azione (jnanendriya e karmendriya), e gli elementi(tanmatra e bhuta) che compongono il mondo manifestato (sianell’ordine sottile che in quello grossolano)».

«Egli è Brahma, in cui tutte le cose sono unite (di là da ognidistinzione, anche principiale), da cui tutti gli atti dipendono(quantunque Egli stesso sia senza azione); perciò è diffuso intutto (senza divisione, dispersione, o differenziazione diqualsiasi specie).

«Egli è Brahma, senza grandezza o dimensioni (in-condizionato), senza estensione (poiché indivisibile e senzaparti), senza origine (essendo eterno), incorruttibile, senzaforma, senza qualità (determinate), senza assegnazione ocarattere qualunque.

«Egli è Brahma, da cui tutte le cose sono illuminate(partecipando alla Sua essenza secondo i loro gradi di realtà),la cui Luce fa brillare il sole e gli altri corpi luminosi, ma chenon è punto reso manifesto dalla loro luce [Secondo un testogià precedentemente citato, Egli è «Ciò per cui tutto èmanifestato, ma che non è manifestato da nulla» (KenaUpanishad, 1° Khanda, shruti 5 a 9].

«Egli penetra lui stesso la sua propria essenza eterna (non

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differente dal Supremo Brahma), e (simultaneamente)contempla il Mondo intero (manifestato e non-manifestato),come essendo (anche) Brahma, parimenti che il fuoco penetraintimamente una palla di ferro incandescente e(contemporaneamente) si mostra esteriormente (manifestandosiai sensi in luce e calore).

«Brahma non è affatto simile al Mondo [L’esclusione di ogniconcezione panteista è qui reiterata; in presenza di affermazionitanto nette, non riusciamo a spiegarci certi errorid’interpretazione così in voga in Occidente], e niente è al difuori di Brahma (poiché, se vi fosse alcunché al di fuori di Lui,Egli non potrebbe essere infinito); ciò che sembra esistere al difuori di Lui non può punto avere (una tale) esistenza, purchénon la si voglia intendere in modo illusorio, come l’apparenzadell’acqua (miraggio) nel deserto (maru) [Questa parola maru,derivata dalla radice mri, «morire», specifica regioni sterili,interamente sprovviste d’acqua, e più precisamente un desertosabbioso, il cui aspetto uniforme può considerarsi come un«appoggio» di meditazione per evocare l’idea dell’indiffe-renziazione principiale].

«Di tutto quello che è visto, udito (percepito o concepito dauna qualunque facoltà), niente ha (veramente) esistenza se è aldi fuori di Brahma; in virtù della Conoscenza (principiale esuprema), Brahma è contemplato come solo vero, pieno diBeatitudine, senza dualità.

«L’occhio della Conoscenza contempla Brahma, pieno diBeatitudine, tutto penetrante, ma l’occhio dell’ignoranza nonLo scopre punto, non lo scorge affatto, come il cieco non vedela luce sensibile.

«Il “Sé”, essendo illuminato dalla meditazione (quando unaconoscenza teorica, dunque ancora indiretta, lo fa apparirecome se ricevesse la Luce da una sorgente altra che se stesso,

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ciò che è ancora una distinzione illusoria), e poi, essendoinfiammato dal fuoco della Conoscenza (realizzando la suaidentità essenziale con la Luce Suprema), è finalmente liberatoda tutti gli accidenti (o modificazioni contingenti), e brilla nelsuo proprio splendore come l’oro quando è purificato brilla nelfuoco [Si è visto che l’oro stesso è considerato come di naturaluminosa].

«Quando il Sole della Conoscenza spirituale sorge nel cielodel cuore (vale a dire al centro dell’essere, designato comeBrahma-pura), esso scaccia le tenebre (dell’ignoranza che velal’unica realtà assoluta), penetra tutto, tutto avvolge e tuttoillumina.

«Colui che ha compiuto il pellegrinaggio del suo Proprio“Sé”, un pellegrinaggio che non concerne la situazione, illuogo od il tempo (né alcun’altra circostanza o condizioneparticolare) [«Ogni distinzione di tempo o di luogo è illusoria;la concezione di tutti i possibili (compresi sinteticamente nellaPossibilità Universale, assoluta e totale) si compie senzamovimenti e fuori del tempo» (Lie- tseu, cap. III; trad. del P.Wieger, pag. 107)], che è dovunque [Parimenti, nelle tradizioniesoteriche occidentali, è detto che i veri Rosa-Croce siriunivano «nel Tempio dello Spirito Santo, che è dappertutto».- Questi Rosa-Croce non hanno, s’intende, nessuna comunanzacon le multiple organizzazioni moderne che hanno assuntoquesto nome; si dice che, dopo la Guerra dei Trent’Anni, essilasciarono l’Europa e si ritirarono in Asia] (e sempre,nell’immutabilità dell’«eterno presente»), nel quale non sisente né il calore, né il freddo (e nemmeno le altre impressionisensibili od anche mentali), e che procura una felicitàpermanente ed una liberazione definitiva da ogni turbamento (oda ogni modificazione); colui è senza azione, tutto conosce (inBrahma), e realizza l’Eterna Beatitudine».

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INDICE DEI TERMINI SANSCRITI

Non siamo obbligati, pei termini sanscriti, a seguire lecomplicate trascrizioni, più o meno arbitrarie, immaginatedagli orientalisti; abbiamo adottato un’ortografiacorrispondente alla pronunzia nella misura permessadall’alfabeto latino, il cui esiguo numero di caratteri ci imponed’altronde di rappresentare nello stesso modo parecchie letteredistinte. Inoltre, nell’indice sottostante abbiamo soltanto ordi-nate le parole, così come le abbiamo trascritte, nell’ordinedell’alfabeto latino, che è naturalmente molto differente daquello dell’alfabeto sanscrito, ripromettendoci così di evitare, aquelli che non conoscono quest’ultimo, difficoltà del tuttoinutili.

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