L’ULTIMO QUADRO DI VINCENT VAN GOGH...2017/03/21  · Theo van Gogh, il fratello 23 Vincent van...

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Massimo Franceschetti L’ULTIMO QUADRO DI VINCENT VAN GOGH

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  • Massimo Franceschetti

    L’ULTIMO QUADRO DI VINCENT VAN GOGH

  • L’ULTIMO QUADRO DI VINCENT VAN GOGH

    © Massimo Franceschetti2017

    L’ULTIMO QUADRO DI VINCENT VAN GOGH

  • INDICE

    Una morte enigmatica 5

    Adeline Ravoux, la ragazza in blu 9

    Marguerite Gachet, la ragazza al piano 14

    Theo van Gogh, il fratello 23

    Vincent van Gogh, l’ultima lettera 28

    L’altra storia. Perché la morte di Van Gogh 32

  • Lo crederesti Arianna - disse Teseo - il Minotauro non s’è quasi difeso.

    J.L. Borges, “La casa di Asterione", Finzioni, Einaudi.


  • Una morte enigmatica

    L’Écho pontoisien, giornale locale di Pontoise, località vicino Auvers-sur-Oise, entrambe a pochi chilometri da Parigi, il 7 agosto 1890, riporta la seguente brevissima nota: ”Domenica 27 luglio, un certo Vangogh (tutto attaccato ndr), trentasettenne, cittadino olandese, pittore, di passaggio ad Auvers, si è sparato un colpo di pistola nei campi, ed essendo solo ferito, è rientrato nella sua camera d’albergo dove è morto due giorni dopo”.

    Per l’opinione comune, uno dei più grandi pittori della storia, è morto suicida in preda al delirio causato dalla sua oramai avanzata malattia mentale. Nel film Brama di vivere, che riprende una biografia degli anni Trenta, Vincent Minnelli ha delineato un van Gogh che, dipingendo il famoso “Campo di grano con corvi”, ha come un delirio e in preda ad esso si spara (un sparo nei campi, appunto). Ma nel film l’atto non si vede: inquadrato un carretto che si allontana si sente uno sparo. Questa immagine si è fissata nella memoria collettiva e ha contribuito a chiarire una morte che chiara non è per nulla. Infatti, la morte di Vincent van Gogh è un vero enigma. Nessun dubbio che van Gogh si sia suicidato, intendiamoci. Vincent ha scelto consapevolmente di morire, ma il modo e le ragioni non sembrano così evidenti, come la prima impressione lascia supporre.

    Van Gogh è stato un uomo intelligente, di “una terribile sensibilità” (così scrive Artaud), fragile, umile, eppure lucido, consapevole di sé e della sua opera. La sua storia, un po’ come la sua pittura, è stata sofferente e luminosa. Nella vita di van Gogh, infatti, troviamo tante vite: c’è il dramma personale di un uomo sensibile e tormentato che viene rifiutato, osteggiato, deriso e che si riscatterà soltanto dopo la morte; c’è il dramma familiare nei rapporti burrascosi con il padre, nel rapporto complesso e profondo con il fratello; ci sono gli amori contrastati, la rivelazione di una vocazione tardiva, ma potente; c’è il rifiuto del sistema dei valori borghesi nel modo di lavorare, vestire, mangiare, vivere. La vita di van Gogh contiene una quantità di eventi particolari che uno solo di essi già segnerebbe la vita di una persona, mentre in lui convivono tutti insieme. Non c’è da meravigliarsi che la sua mente abbia vacillato! Ed era inevitabile che, una vita così difficile, non finisse in modo semplice e naturale. Nella morte di van Gogh, infatti, tutto è strano. A cominciare dal breve trafiletto riportato sopra.

    Intanto l’atto stesso di qualcuno che si spara, probabilmente sviene e si risveglia più tardi, si solleva e si porta nella sua camera, distante probabilmente qualche chilometro, dove muore due giorni dopo, è a dir poco inusuale. Se van Gogh voleva uccidersi perché non si è sparato una seconda volta? E invece, se voleva vivere,

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    perché non ha chiesto aiuto alle persone che c’erano sicuramente nelle case che ha incontrato nel suo tragitto dal luogo dello sparo alla sua camera? E una volta arrivato nella sua camera come mai non ha chiesto, preteso, di essere curato? Cosa è successo in quei due giorni? Come mai nessuno ha fatto niente se non aspettare la morte di Vincent? Pontoise, cittadina vicina ad Auvers, (quella del giornale), ha un ospedale dove van Gogh poteva essere portato, perché nessuno l’ha fatto? Parigi era, allora, ad un’ora di treno, perché nessuno l’ha portato in ospedale nella capitale?

    Ma non è chiaro nemmeno il fatto in sé. Dove si è sparato van Gogh? Non si sa di preciso. Il trafiletto dice “nei campi”, ma la signora Liberge, interrogata dopo anni, ricorda che il padre, che conosceva van Gogh, affermava che non si era sparato dove si diceva (nei campi), ma in rue Boucher, dove era entrato in un cortile di una piccola fattoria, si era nascosto in un letamaio e lì si era sparato. Ma lui come ha fatto a saperlo? L’ha visto? Ma come ha potuto vederlo se era “nascosto” in un letamaio? Ha sentito lo sparo? Ma allora perché non è intervenuto? Sembra che van Gogh sia rimasto ore disteso in quel letamaio prima di rientrate, la sera, alla locanda dei Ravoux. Lui dov’era?

    La testimonianza della signora Liberge sembra ripresa da Emile Bernard, amico di van Gogh che, quattro giorni dopo la morte del pittore, scrive all’amico Aurier, un critico che per primo aveva apprezzato il lavoro di Vincent: “Domenica sera, è andato nella campagna di Auvers, ha appoggiato il cavalletto ad un covone, ed è andato a spararsi un colpo dietro al castello. Sotto la violenza dello choc - la pallottola aveva sfiorato il cuore - è caduto, ma si è tirato su tre volte di seguito, per rientrare alla locanda dove aveva una stanza…”. Strano. Come faceva a sapere tanti dettagli? Nessuno sembra aver mai parlato, tantomeno Vincent, di essersi alzato tre volte, di seguito, per di più. Le dicerie sulla fine di van Gogh sembrano moltiplicarsi, complicarsi, arricchirsi, contraddirsi, perdersi, cosicché è difficile capirci qualcosa, distinguere ciò che è possibile da ciò che è vero, il plausibile dal verosimile.

    Ma procediamo con le stranezze. Consideriamo la dinamica dello sparo. Innanzitutto Vincent aveva una pistola. Come mai uno come van Gogh, con chiari disturbi mentali, aveva una pistola? Ricordiamo che era andato ad Auvers proprio per farsi curare. Consideriamo inoltre che, anche senza conoscerlo, Vincent non dava l’impressione di essere un equilibrato impiegato di banca! Che tipo di pistola era? Chi gliel’ha data? Cosa ne pensava il dott. Gachet che aveva in custodia l’olandese e la responsabilità della sua cura? Egli sapeva della pistola? Pare di sì, dalla testimonianza che, anni dopo, rese il figlio Paul. Perché non è intervenuto? Il fratello Theo era stato informato?

    E poi dov’è finita la pistola? La pistola con la quale van Gogh si è sparato non è mai stata ritrovata, sparita. Perché? Come è possibile? Se si è sparato non può averla poi gettata via, né appare logico che, riprendendosi, van Gogh abbia speso del tempo per nasconderla. A quale scopo?

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    Ammettendo anche che van Gogh si sia sparato, la dinamica del colpo è piuttosto bizzarra. Il rapporto redatto dal dott. Gachet, insieme con il dott. Mazery, dice che il proiettile è partito dalla costola più bassa a sinistra, verso l’altro lato. Uno strano modo di spararsi. Vincent non sembra essere un mancino. Anche se lo fosse, si spara non all’altezza del cuore o della tempia, ma sulla sinistra, all’altezza della milza, verso destra. Infatti, il proiettile ha attraversato da sinistra verso destra l’addome senza ledere alcun organo vitale. Altrimenti sarebbe stato impossibile camminare fino alla propria camera e restare vivo per altri due giorni. Proprio uno strano modo di spararsi, non credete? Uno che vuole morire si spara in testa, al petto, in bocca, ma non nella milza!

    Il problema è che esistono molte, troppe, versione dell’accaduto. E quindi anche molti dettagli che divergono o si perdono. Ad esempio, qualcuno dei suoi paesani, interrogati negli anni successivi, afferma di averlo visto uscire senza i suoi soliti strumenti di pittura, quella domenica mattina. E’ un dettaglio importante, ma che non si può affermare con certezza, perché altri, invece, come Adeline, la figlia del locandiere Ravoux, dichiara che quella domenica mattina di luglio, calda, Vincent è partito “come al solito” (si presume a dipingere, quindi), andando “dalle parti del castello”, è rientrato a colazione poi è uscito di nuovo. “Nulla nel suo atteggiamento lasciava presagire quello che sarebbe accaduto…”, precisa. Capite bene che se è uscito per dipingere, quindi con i suoi attrezzi, significa che aveva una disposizione d’animo di un certo tipo, molto diversa da una persona che esce senza i suoi attrezzi e che quindi presumibilmente è orientata a fare qualcos’altro, forse anche ad uccidersi. (Senza considerare che non fu trovato nulla di appartenente a van Gogh nei luoghi sunnominati: né il cavalletto o la tela, né la sacca né, come detto, la pistola).

    Altro piccolo dettaglio che mi ha colpito è quel “di passaggio ad Auvers”, ricordate? sul trafiletto de L’Écho pontoisien. Probabilmente è eccessivo soffermarcisi, ma perché scrivere che van Gogh è “di passaggio”? Cosa significa? Chi l’ha detto al giornalista? Con quale scopo? Cosa si vuole sottolineare? Che van Gogh, uomo bizzarro, che non era passato inosservato in paese, sia per i suoi comportamenti strani, sia per il suo, diciamo, stile, e che aveva commesso suicidio, non era del paese? Sembra quasi che qualcuno si sia peritato di sottolineare che van Gogh non era parte della comunità, così, a scanso di equivoci sulla tenuta mentale della comunità stessa.

    Infine il movente. Perché van Gogh si suicida? Il suicidio era un comportamento coerente con la sua malattia? Vincent aveva già parlato di suicidio? Nelle sue lettere ne aveva fatto cenno? Non sembra, nel modo più assoluto. Van Gogh è un grafomane inarrestabile. Ha scritto quasi novecento lettere. Al fratello Theo ne ha spedite più di seicento. E a Theo, Vincent racconta tutto, con dovizia di particolari. E’ capace di descrivere in modo dettagliato sensazioni, pensieri, oggetti e paesaggi. In più di novecento lettere però non parla mai di suicidio. Tantomeno nelle ultime. Nessun

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    accenno a questa possibilità. Anche quando si taglia un orecchio, Vincent non ha nessuna intenzione di morire. Inoltre, anche se nelle sue lettere non è raro che parli di morte, tuttavia non sembra ci sia il minimo accenno alla propria. Nulla. La stessa ultima lettera, diretta a Theo, scritta probabilmente il giorno prima e lasciata incompiuta, non dice nulla che paia riconducibile ad un suicidio.

    Qualcuno ha detto che i problemi economici del fratello hanno spaventato a tal punto Vincent da indurlo al suicidio. Ma questo movente appare fragile, perché Theo non è mai stato ricco e le dispute sul denaro attraversano tutto l’epistolario tra i due. Come mai a questo punto un problema finanziario, consueto, diventa motivo di suicidio per uno che al suicidio non aveva mai pensato? No, il motivo economico non regge. E’ vero invece che la morte di Vincent van Gogh, avvenuta all’incirca all’una e trenta di notte del martedì 29 luglio 1890, ad Auvers-sur-Oise, piccolissimo borgo vicino Parigi, è un vero rompicapo.

    Così ho provato a ricostruire la morte di van Gogh vista da quattro punti di vista diversi: Adeline, la figlia di M. Ravoux, il padrone della locanda che ha ospitato Vincent; Marguerite Gachet, la figlia del dott. Gachet che aveva in cura Vincent, Theo e Vincent stessi. Anche se ho cercato di essere realista, seguendo quelle che mi parevano le testimonianze più affidabili, voglio solo raccontare delle storie che mi è parso di scorgere in questa storia e, se è possibile, dare una spiegazione plausibile ad un insieme di fatti e racconti che sulla morte di van Gogh si sono accavallati per tanto tempo. Sicuramente quel giorno è successo qualcosa. E’ indubbio che se van Gogh è stato lasciato morire, lui stesso è stato il primo a deciderlo, perché?

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    Adeline Ravoux, la ragazza in blu

    (E’ in apprensione. Mi guarda come cercasse una conferma. Alla fine, prende un respiro ed inizia)

    Avevo dodici anni. E ricordo tutto. Era di martedì, il 20 maggio 1890, quando arrivò. Ero sulla porta. Stavo servendo qualcuno. L’ho visto arrivare. Stavo servendo qualcuno seduto al tavolino fuori. Non ricordo chi fosse, perché continuai a guardare lui avvicinarsi. Aveva un passo sbilenco, camminava incurvato, aveva un orecchio reciso, una cicatrice terribile, portava degli attrezzi e una valigia consumata. Capii subito che doveva essere uno di quei pittori che andavano dal dottore. Per questo, credo, mi stupì meno il modo insolito in cui era vestito: una giacca pesante blu, troppo corta, pantaloni lerci. Non era pronto per maggio e sembrava venire da un’altra stagione o da un altro mondo. Restai sulla porta come ad aspettare. Il piccolo Levert mi raggiunse a passetti svelti, dicendo qualcosa, lo presi tra le mie gambe come se dovessi proteggerlo. Lo straniero arrivato davanti al nostro edificio si fermò, si volse verso di noi, guardò l’insegna, guardò noi e senza sorridere cambiò direzione ed entrò nella nostra locanda. Mi fece un cenno di cortesia e per un attimo sembrò sorridere ma vidi buio nella sua bocca e subito dopo luccicare qualcosa. La cosa mi spaventò come se il diavolo mi avesse sorriso. Una bocca così brutta non mi era ancora capitato di vederne, né mi capitò più. L’uomo era sgradevole ed io sperai che non restasse da noi. Invece rimase, rimase per altri 69 giorni e ci morì anche in quel posto. E’ stato tremendo, qualcosa che non avrei mai immaginato, quel giorno quando il signor Vincent si stabilì da noi.

    (Beve un sorso d’acqua, le mani le tremano)A mio padre disse che sarebbe tornato in serata e così fu. Da quel giorno la vita di

    quello strano personaggio fu al centro della nostra attenzione. Il signor Vincent, così lo chiamavamo, era diverso. Anche lui un pittore, certo, e faceva le cose che facevano gli altri, certo, ma era diverso. Partiva molto presto la mattina e tornava la sera carico di tele e senza mai dire niente. Camminava curvo, come fosse appesantito da pensieri difficili e ricorrenti. C’era un’urgenza in ogni sua giornata, come se da un momento all’altro quel mondo dovesse scomparire e lui non potesse più dipingere. Ci abituammo poco a poco alla sua stranezza, alla sua faccia che non sorrideva mai, ai suoi modi gentili, rispettosi, discreti. La sua grazia dei modi era pari solo alle sue parole. E queste contrastavano terribilmente con il suo aspetto: lacero, sporco, disordinato. I capelli rossicci tagliati male e corti, la barba sfatta, ruvida, sporca; il suo volto sempre scuro, quell’orecchio maltrattato e l’odore rivoltante che l’accompagnava: uno strano miscuglio di terra, fango, colori, trementina. Ma c’era qualcos’altro di più vecchio, come di infermeria, di vomito, qualcosa che mi

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    disgustava ed inquietava allo stesso tempo. Apparteneva ad un mondo astratto, un mondo che non esisteva. No, il signor Vincent non era di questo mondo.

    (Fissa le proprie mani come soprappensiero, poi si rianima)Un giorno chiese a mio padre se poteva farmi il ritratto. Mio padre acconsentì. Ero

    spaventata. Non sapevo cosa fare. Avrei voluto dire di no ma non dissi niente. Lui fu gentile, attento, premuroso quasi, anche se fece tutto sempre con quella silenziosa avidità. Rimasi lì, nella posa che mi chiese di prendere. Lui mi guardava chiudendo gli occhi, credo per vedermi meglio, poi spariva dietro la tela, fumando la sua pipa e zappando con i suoi pennelli sporchi. Così mi fece il ritratto. Uno strano ritratto. Un ritratto che non mi piacque. Sembravo vecchia e nel viso m’era rimasto lo spavento. Ne dipinse anche un altro e anche quello non mi piacque. Ossuta, triste, colori irreali, sfondo cupo. Io ero quella lì? Sembravo quella che sarei diventata, non certo quella che ero. Quando mio padre vendette all’americano i quadri del signor Vincent ne fui felice. C’era qualcosa di malato in loro che mi ha sempre inquietato. Ma lei non è qui per sentire tutto questo. Lei è qui per la sua (indugia), la sua fine. Ne ho parlato altre volte. Ne ho parlato così tante volte che non so più cosa ho detto. A dire il vero, non so più cosa sia successo.

    (Volge lo sguardo lontano, sembra turbata dal ricordo)Era domenica e mi pare sia uscito, come tutti i giorni, per dipingere. Non era

    religioso e non parlò mai di religione, anche se a ripensarci oggi, penso disprezzasse la religione perché gli sentii dire qualcosa di sprezzante contro i preti. Non ricordo cosa disse, ricordo solo il disprezzo, l’odio mi colpì perché contrastava con i suoi modi così gentili e con il fatto che noi non parlavamo mai male dei preti. Tornò per pranzo e poi uscì di nuovo, ma non ricordo se con gli attrezzi o no. Era più strano del solito? Non so, forse il silenzio sembrava ancora più silenzioso, ma non so se è perché so quello che avvenne dopo. Al tramonto non era ancora rientrato e sentivo mio padre e mia madre parlarne. Non era normale. Il signor Vincent era preciso, puntuale. Anche questo contrastava con la sua apparenza, così dimessa, approssimativa. Arrivò alle nove quella sera, piegato, più piegato del solito, zoppicando, si teneva la pancia. Mia madre e mio padre gli si fecero incontro e mia madre disse apprensiva: " Signor Vincent, eravamo in ansia, siamo felice di vederla ritornare, ha avuto problemi?” Il signor Vincent rispose “No, io ho…”. Non finì la frase. Salì diretto nella sua camera e questo ci parve tanto strano che mio padre lo seguì. Anche noi entrammo, ma rimanemmo di sotto e non sentimmo cosa accadde tra loro. Mio padre poi disse che il signor Vincent si era sparato nella pancia. Pensai di non aver capito. Ci guardammo esterrefatti, spaventati.

    Nei giorni successivi ricostruimmo cosa accade, ma ad essere sincera non so bene cosa credere. Era tutto molto strano. Lui era strano. Quel gesto era strano. Lo so, ho detto altre cose, mio padre disse sempre altre cose, ma oggi, vede, oggi penso che sia giusto dire che non so cosa accadde veramente. Ho letto anche di altre testimonianze, altre ricostruzioni. Lo so. Tutto avvenne senza nessun allarme, nessun preavviso.

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    Nulla. Sembrava impossibile. Le confesso che se non fosse che mio padre ha sempre ripetuto la stessa storia io non avrei mai creduto che si fosse sparato. Non sembrava tipo da farlo. Però sembra che lo fece. Fu mio padre, credo, a parlare con il giornalista che poi scrisse quel breve trafiletto sull’Echo pontoisien. Fu mio padre che disse a tutti che il signor Vincent si era suicidato. Mio padre era un uomo serio, affidabile. Sì, credo sia stato lui a dire che il signor Vincent era di passaggio. Non voleva che quella vicenda compromettesse la reputazione del nostro paese. Mio padre aveva una locanda da mandare avanti. Non credeva fosse rimasto, non credeva che fosse di questo mondo. Credo che mio padre non abbia mai capito chi fosse il signor Vincent.

    (Sospira, fissa ancora le mani che rigira tra loro, mi guarda come se volesse capire se credo a quello che sta dicendo)

    Io non salii mai nella sua camera, qualche volta rimanevo nel salone, per lo più cercavano di allontanarmi. Sono riuscita comunque a vedere passare le persone che venivano a trovare il signor Vincent mentre moriva. Mio padre chiese all’altro signore olandese che dormiva da noi, il signor Hirschig, di cercare un dottore, ma il dott. Mazery, che veniva ad Auvers, non c’era. Così ricordo che venne il dott. Gachet. Il dottore dei pittori. Visitò il signor Vincent e mio padre disse che non parlarono quasi, come se non si conoscessero. Ed io mi domando, oggi, come fosse possibile? So che il signor Vincent ha passato tanto tempo con il dott. Gachet, ho visto anche il suo ritratto. Perché non si dissero nulla? Perché mio padre disse così? Mio padre disse che il dottore aveva detto subito che il caso era senza speranza e così dicendo se ne era andato. Mio padre e il signor Hirschig rimasero nella stanza con in signor van Gogh. Era penoso saperlo condannato. Il povero si lamentava e noi sentivamo i suoi gemiti ogni tanto. Ero molto spaventata. Lui si lamentava per il dolore e nel frattempo fumava e qualche volta chiudeva gli occhi come dormisse, disse mio padre che ripeté queste storie per molti anni ancora.

    (Beve un altro piccolo sorso tremolante. Sembra sempre più stanca)Il giorno dopo, la mattina presto, vennero i gendarmi. All’inizio pensavo fosse

    perché lui era morto, mi spaventai tantissimo anche perché ricordo furono particolarmente rudi con mio padre. Quando arrivarono andarono diretti da mio padre (o mio padre andò lo incontro) e chiesero se era lì che era stato commesso un suicidio. Sembrava un’accusa. Mio padre fu gentile e li accompagnò nella stanza di sopra dove trovarono il pittore e chiesero se era lui che aveva voluto suicidarsi. La risposta del signor Vincent mi venne ripetuta così tante volte ed io stessa, sa, la ripetei così tanto che credo mi dimenticai di ascoltarla. Disse così: “Sì, credo”. E loro: “Lei sa che non ne ha il diritto?”. E lui, con lo stesso tono calmo: “Gendarmi, il corpo è mio e sono libero di farci ciò che voglio. Non accusate nessuno, sono io che ho voluto suicidarmi”. Oggi mi domando che razza di risposta sia. Lo so, lo so, lo ripetuta tante volte anch’io, ma so che lei può dire che nessuno potrà veramente confermarla, se non mio padre, che era lì. Forse il signor Hirschig. Ma non credo che mio padre possa averla immaginata, non credo proprio. E’ troppo strana. Ma allora non ci pensai e

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    presi tutto come normale, perché era mio padre a dirlo. Mio padre, capisce? Fu mio padre a dirci di averli mandati via e fu mio padre che disse di aver provveduto, nel frattempo, a chiamare il signor Theo, il fratello di Vincent, che io non avevo mai visto. Arrivò nel pomeriggio da Parigi. Ricordo distintamente che arrivò correndo, con il cappello in mano, impolverato, scuro in volto. Salì direttamente nella stanza. Fu straziante vederli piangere insieme, ci disse poi mio padre. Parlarono olandese e nessuno capì cosa si dissero. Si abbracciarono, si strinsero. Theo vide la ferita di Vincent, disse mio padre e piansero ancora insieme. Parlarono per un po’, e poi, durante la notte, forse per l’eccessiva emozione, forse l’emorragia, il signor Vincent entrò in coma e, davanti a mio padre e al signor Theo, morì all’una del mattino.

    (Mi guarda come se io potessi ancora farci qualcosa, come se chiedesse che qualcuno facesse qualcosa. Guarda lontano)

    Il giorno dopo fu mio padre a dare la notizia in municipio. Il nostro negozio si parò a lutto come fosse morto un familiare. Io ero spaventata e triste, capivo poco e male quello che stava accadendo. Ma avvennero molte cose: Vincent fu messo nella sala dei pittori, furono esposti i suoi quadri, il signor Levert fece la bara e prestò i cavalletti per i tanti quadri del signor Vincent che riempirono tutto il nostro salone. Due giorni dopo fecero il funerale anche se il prete si era rifiutato di celebrarlo. C’era tanta gente e molti pittori che venivano da Parigi, disse mio padre. Il signor Theo, grato, volle regalare dei quadri a coloro che gli erano stati vicini. Così mio padre disse che era contento con quello che il signor Vincent gli aveva già regalato: i miei due ritratti e il dipinto del municipio. Quando toccò al dott. Gachet, questi prese su tanti quadri e chiese al figlio di prenderli anche lui. A mio padre sembrò strano. In effetti è strano, non crede? La sera prima avevano mostrato ben poco interesse per il nostro amico e il giorno dopo si prendono così tanti quadri. Non trova che sia strano? Quantomeno poco fine. Il signor Theo poi prese le cose del fratello e se ne andò. Non lo rivedemmo più. Seppi poi che era morto qualche mese dopo. Molto tempo dopo, nel 1913 o 14, non ricordo, lo riportarono ad Auvers, vicino al fratello.

    Perché il signor Vincent si uccise? L’ho già detto. Ma, a dire la verità, io ero troppo piccola. Non ho capito quasi nulla di ciò che accadde. Ciò che ho detto è ciò che mio padre disse a noi e ripeté per anni finché fu vivo. Mi padre diceva di aver parlato con Theo e che questi gli aveva detto che Vincent era spaventato di perdere i soldi del fratello. Disse che aveva parlato di una lettera, ma io non l’ho trovata. Sono andata a cercarla quando pubblicarono le lettere, ma non la trovai. Vede, questa è un’altra cosa strana. In questi anni, mentre raccontavo ciò che mio padre raccontava, tante cose strane sono emerse ed io non so più perché mio padre raccontasse quel che raccontava. Sembrava che la storia, più che i fatti lo interessasse. Non dubito che dicesse la verità, ma non so più di chi fosse quella verità. Ad esempio mio padre non parlò mai della pistola che sembra gli appartenesse. Fu lui ha prestarla al signor Vincent? Non ne parlò. Né la cercò, né la trovarono. Ho come l’impressione che mio padre abbia “aiutato” la situazione a sbrogliarsi prima possibile e più semplicemente possibile. Che interesse avesse non lo so, ma, ripeto, credo che capisse molto poco del

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    signor Vincent e forse gli sembrò tutto una straordinaria avventura, forse per carità cristiana, forse perché qualcuno aveva detto che la pistola era la sua, forse perché non voleva fastidi nel suo albergo.

    (Scuote la testa, guardando le sue mani che porta ancora sulle gambe e rigira nervosamente. Capisco che siamo alla fine dell’intervista)

    La prego, faccia in modo che prima o poi esca anche questa ultima mia intervista, ma solo quando sarà necessario. Certamente dopo che non ci sarò più. Quando capirà che potrà essere utile per aiutare chi cerca un’altra verità. Che queste carte siano di aiuto.

    (Tira indietro la testa e, esausta, fa un gesto per dire che tutto è finito ed io me ne posso andare). 


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    Adeline Ravoux, Vincent van Gogh, Auvers-sur-Oise, luglio 1890

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    Marguerite Gachet, la ragazza al piano

    Il tono era grave, come sempre. Marguerite aveva appena appeso la cornetta del telefono che subito suo fratello Paul aveva chiesto informazioni da un’altra stanza, con quel tono grave, urgente che aveva. “Era il Louvre”, rispose lei senza entusiasmo. L’avevano perso da secoli. Non c’era mai stato l’entusiasmo in quella casa scura, se non quello che portavano loro, i pittori, o alcuni di loro, a dire il vero. Immaginò il fratello nell’altra stanza rimuginare in silenzio, mentre faceva qualcosa con delle carte. Sapeva a cosa stava pensando. Si stavano togliendo un peso, donando tutti quei quadri al Louvre. Marguerite aveva preteso dal fratello di non chiedere niente in cambio. Non avevano bisogno di soldi. Era bastato venderne uno di quadro di Vincent. Non voleva che alcun denaro venisse da quei quadri, dai suoi quadri. Paul non aveva protestato. Aveva accettato. Remissivo.

    Si avviò verso la sua camera. Era stanca, affaticata da quella casa, da quel rimanere lì, da quel silenzio, dall’evitare tutto e tutti, chiusa in un bozzolo che era sempre stato una prigione. Passando davanti allo specchio si guardò con malanimo. Vide una donna vecchia, ingrassata, capelli bianchi raccolti indietro come li aveva sempre portati, bocca storta e labbra sfuggenti, l’occhio sinistro più spiovente dell’altro. Rughe, pelle cadente, nei. Proseguì oltre, disgustata. Attraversò un corridoio pieno di cose per terra, libri sparsi, un mobile antico scuro di quelli con le vetrate dove dentro c’era di tutto. Aveva proposto al fratello di liberarsi di qualcosa, ma lui aveva implorato di lasciare tutto com’era. Aveva accettato. Remissiva.

    Si chiuse nello studio. Voleva restare sola. Non voleva che lui la vedesse scrivere. Avrebbe sicuramente protestato, avrebbe tentato di dissuaderla come aveva fatto altre volte. Non voleva che da quella casa uscisse nulla. Si sedette alla scrivania, guardò il piano più in là. Ripensò a quando Vincent la vide suonare. Era arrivato alla fine di maggio, era caldo, ero in giardino, ricordò. Sentivo parlare in casa e poi si affacciò mio padre e con lui quest’uomo massiccio, ruvido, vestito male, con una bocca orribile e con gli occhi azzurri, feroci, pensai così, feroci, non so come mi sia venuta questa idea, ma lo ricordo ancora perché quell’uomo aveva qualcosa di animale, un’energia potente che in casa nostra esplodeva ogni volta che arrivava. Si chiama Vincent Gogh, olandese, disse mio padre quando l’uomo se ne andò. E’ malato? Non proprio, ha bisogno di dipingere, disse mio padre guardando nella direzione nella quale l’olandese era uscito come se volesse capirci di più. Io a Paul aspettavamo questi momenti per sollevarci dalla noia dei nostri giorni, dallo sguardo di nostro padre che gravava su di noi. I pittori che arrivavano da Parigi portavano un po’ di scompiglio nella nostra vita. Mio padre è sempre stato considerato un eccentrico. Collezionismo, omeopatia, elettrostimolatori, e le medicine che produceva lui stesso, il cane al guinzaglio, e questa abitudine di ospitare pittori che venivano dai posti più diversi.

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    Le sue manie ne facevano un personaggio ad Auvers. Se non fosse stato un dottore, pensò Marguerite, il villaggio lo avrebbe sicuramente emarginato. Senza dubbio era un diverso, ma per noi era anche molto noioso, soprattutto infelice. Quell’aria triste si ulteriormente incupita dopo la morte della mamma. Non averla potuta aiutare con la sua scienza, le sue medicine, i suoi ritrovati aveva aggravato la sua malinconia. C’erano giorni in cui si sentiva totalmente inutile, diceva. Avrebbe voluto essere qualcos’altro, fare qualcos’altro e per questo forse usava sempre il nome di sua madre, van Rissel, olandese anche lei, quando dipingeva o disegnava. Avrebbe voluto essere un’altra persona, senza dubbio. Non aveva mai avuto il coraggio di diventarlo. Si era rassegnato ad essere un buon borghese eccentrico quanto basta, ma senza esagerare. E quei pittori erano ciò che lui non aveva avuto il coraggio di essere.

    Marguerite seguiva il filo dei propri pensieri e ricordi e si meravigliò di come scorrevano nitidi, precisi, essenziali. Era stanca di non ricordare, di cacciare i ricordi. Decise che avrebbe ricordato e magari preso qualche appunto. Non voleva che si perdesse tutto quello che era stata, qualcosa doveva rimanere, qualcosa di vero, autentico, qualcosa di suo. Si era adeguata alla volontà del fratello sul tema “l’olandese”: dire il meno possibile e in modo mirato. Lei poi non aveva mai detto nulla. Da quei giorni si era chiusa dentro un bozzolo che era una prigione a tutti gli effetti per espiare un colpa che era giusto espiasse. Ma ora era passato abbastanza tempo. La sua pena era finita.

    Vincent tornò qualche giorno dopo a casa Gachet. Venne a pranzo da noi, e pranzammo nel giardino, ripensò Marguerite. Era una splendida giornata di sole. Era caldo. E in casa c’era stata tanta agitazione, quel giorno. Alla governante furono date precise istruzioni sul pranzo. Ed anche a noi. Vincent era un’ospite particolare. Andava assecondato. Bisognava essere gentili con lui. Ricordo la buffa formalità di mio padre, quando ci prese entrambi da parte e ci disse di non spaventarci per il modo in cui vestiva o la sua fisionomia. Noi ovviamente avevamo notato subito l’orecchio e ne avevamo parlato tra noi, ma non avevamo chiesto, per pudore, a nostro padre di spiegarne la ragione. Tantomeno l’avevamo chiesto al diretto interessato. Quel giorno Paul, invece, chiese cosa era successo all’orecchio dell’olandese e nostro padre spiegò in breve che si era trattato di un incidente, niente di grave, non entrò nei dettagli. Spiegò che era un pittore molto particolare, che però non era ancora conosciuto, né molto apprezzato. E’ particolare, disse, diverso dagli altri che avete conosciuto.

    Sia Paul che Marguerite l’avevano capito subito che quello era diverso dagli altri. Non solo per i vestiti, vecchi, laceri, né solo per l’aspetto rozzo o l’odore che emanava, ma per l’energia che aveva, per l’aura che aveva attorno, che colpì i ragazzi, abituati com’erano a figure sbiadite, arrovellate, prive di spessore, come il padre, si disse Marguerite senza pudore. Marguerite ricordava la preparazione del tavolo.

    Sentivo mio fratello Paul inquieto. Forse temeva che qualcosa stesse per cambiare tra noi. Come certe creature avvertono il terremoto prima che arrivi. Ma apparentemente quel giorno non accadde nulla di speciale, se non che l’olandese non mangiò praticamente nulla di quello che preparammo. Era in imbarazzo, lo si vedeva,

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    non era abituato. Ma parlammo e scoprimmo che Vincent aveva modi delicati, un ottimo francese anche se era chiaro l’accento, aveva delle attenzioni verso di noi che non ci saremmo mai aspettati. Disse qualcosa a nostra padre e sembrava che lo conoscesse da una vita. Noi non lo capimmo lì per lì, ma Vincent era acuto e lucido nel guardare le persone.

    I suoi ritratti. Marguerite aveva passato molto tempo a guardare i ritratti dipinti da Vincent nella sua breve esistenza. E i suoi autoritratti. Ritrarre le persone era ciò che preferiva, pensò. Quel giorno, dopo aver mangiato, Vincent si mise subito a fare il ritratto al dott. Gachet. Il quale si prestò di buon grado, anche per quella inevitabile vanità che hanno tutti i melanconici. Quell’olandese eccentrico in modo così diverso, così poco convenzionale, non rideva quasi mai e più che dipingere scolpiva sulla tela. Marguerite era rimasta a guardare i due osservarsi in silenzio ed era rimasta affascinata dall’energia di Vincent. Era totalmente assorbito da quello che faceva, pensò, non c’era spazio per nulla e per nessuno. Il contrasto con suo padre era evidente. Tanto il dottore era sempre intento a costruire un’idea di sé, a guardarsi dall’esterno per vedere se corrispondeva all’idea che doveva dare di sé, tanto l’altro era ciò che era, senza riflettere, senza mediazioni, senza premeditazione. Il padre mirava al riconoscimento che avrebbe voluto per sé, la sua arte, i suoi ritrovati. Era quello che gli interessava, non l’arte, non i ritrovati. Il padre recitava la parte dell’eccentrico, amava stupire i contadini del paese con le sue trovate, ma era tutto un superare i limiti dentro i limiti: i limiti del decoro di una piccola provincia francese. Vincent, invece, era azione e nell’azione era la sua forza, la sua trascendenza, la sua teoria. Vincent non fingeva, non recitava nessun personaggio: Vincent era ciò che era, si disse Marguerite. Inevitabilmente il suo pensiero andò alle sue lettere. Cercò con lo sguardo il libro nella sua libreria.

    Le ho lette e rielette quelle lettere. Commoventi, profonde, tenere, lucide. Grazie a quelle lettere le nostre conversazioni sono durate più a lungo. Ho passato così tanto tempo a pensarlo, a rivederlo nella mia mente, a conoscerlo. Gli ho parlato, l’ho interrogato, l’ho pregato. Abbiamo condiviso ogni suo momento e non ha importanza se quelle lettere non erano dirette a me.

    Quando Vincent lasciò la casa quella domenica, quella casa non fu più la stessa. Paul girava attorno ai due: osservava Marguerite e Vincent e tremava. Soffriva, come un animale in gabbia, davanti al quale sta succedendo qualcosa di irrimediabile e non può fermarlo. Marguerite fremeva d’un fremito nuovo, sconosciuto. Paul ne aveva sentito l’odore. Aveva visto Marguerite cambiare davanti ai suoi occhi. Vincent era passato dentro quel loro salotto, dentro la loro casa, dentro le loro vite come un uragano. Apparentemente tutto era al proprio posto, invece tutto era diverso, tutto era cambiato e niente fu più come prima. Marguerite ricordò come quell’uomo, parlando pochissimo, mangiando pochissimo, dipinse con un trasporto che ci spaventò e conquistò ad un tempo. E quando mostrò il risultato del suo lavoro tutti rimanemmo assorti di fronte ad un quadro brutto, sgraziato, colorato in modo inaspettato, ma vivido e folgorante nel cogliere di mio padre ciò che si muoveva dentro di lui. Lui, mio padre, quando lo vide rimase silenzioso e mi parve

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    imbarazzato. Ricordo che mi guardò come a cercare una soluzione, una via di uscita. Pensai che non gli piacesse, e forse era così, ma oggi penso che mio padre si sentì smascherato. Quello sconosciuto l’aveva visto dentro, come forse nemmeno lui si era visto mai.

    Credo che mio padre si sentì umiliato. Da quel ritratto, mio padre diventò leggermente più guardingo. Non è che non gli piacesse il ritratto. Forse anche quello, ma soprattutto fu Vincent che cominciò a non piacergli.

    Il dottor Gachet richiese un altro ritratto, forse per sfida, forse per ripicca. Vincent ne fu subito entusiasta e chiese la possibilità di ritrarre anche Marguerite. Il dott. Gachet accettò di buon grado. Marguerite ne fu turbata, invece. Aveva visto il ritratto del padre, aveva visto l’imbarazzo del padre. Temeva lo sguardo di Vincent. Temeva di trovarsi nella stessa situazione: un quadro troppo brutto per nascondere la propria delusione o il proprio giudizio. Ma l’idea di averlo ancora in casa, di poter assistere a quell’espressione di energia, gli diede il coraggio di sottoporsi a quella ulteriore prova.

    Un giorno, mentre pranzavano, dopo che il dottore annunciò l’imminente arrivo di Vincent, Paul disse qualcosa che assomigliava ad una protesta. Vincent non gli piaceva e non gli piaceva averlo per casa. Chiese al padre di cosa fosse malato, ma non capì e il padre non fu particolarmente loquace. Mangiava svogliato, era assorto in qualcosa. Chiese al padre se era proprio necessario averlo a pranzo, permettergli di fare il ritratto a Marguerite. Il padre, lo guardò come se si fosse accorto della sua presenza solo in quel momento, non è un pericolo, nel modo più assoluto, disse, non devi preoccuparti, Paul. Paul invece era preoccupato. Dopo il pranzo, quando Marguerite si era ritirata nello studio, dove adesso stava ricordando quei giorni, Paul la raggiunse per dirle che quell’uomo non gli piaceva. Col tono implorava e le stava dicendo di smettere di frequentarlo, di non farsi fare il ritratto. Marguerite si dispiacque per il fratello. Vedeva la sua sofferenza e si sentì in colpa perché non voleva affatto smettere di frequentarlo. Non posso rifiutare ora, disse, sarebbe maleducato. Paul le lanciò uno sguardo disperato e cattivo insieme. Lasciò lo studio e Marguerite quel giorno non lo rivide più.

    Il giorno del ritratto Vincent arrivò di buon ora e sorprendentemente non volle un ritratto al chiuso, ma nel giardino. Marguerite non se l’aspettava. Si era immaginata di restare con lui, soli nello studio o nella sua stanza ed invece Vincent chiese di mettersi in mezzo al giardino. Dopodiché non parlarono quasi più. E lei pensava, perché nel giardino? Perché non da sola, non io, solo io? Perché? Forse non mi trova abbastanza interessante, da poter essere in un quadro, pensò. Non sono abbastanza bella, decise. Non sono abbastanza profonda, aggiunse. Vincent gli chiese di muoversi un poco nel giardino pieno di fiori, colorato. Lei fece qualche passo, ma era irritata. Lui sembrava non considerarla come aveva sperato, invece era parte di un giardino, uno stupido giardino.

    Alla fine vide il dipinto e come temeva non gli piacque per nulla. Lei quasi irriconoscibile se non per quei capelli biondi, del resto più biondi di quanto non fossero nella realtà. Lo vedi, si disse, non sono abbastanza bionda! E quel giardino

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    disordinato che la circondava non le piaceva proprio. Perché, ebbe il coraggio di chiedere a Vincent. La sua risposta la lasciò senza parole. Lui la guardò dritto negli occhi e con quel francese un po’ indurito disse “Mademoiselle, perché la sua bellezza è così pura come lo è la natura. Appena l’ho vista ho pensato che lei aveva lo stesso giallo profondo dei campi, lo stesso vivido azzurro del cielo”. Era un complimento? Sembrava, ma era una cosa buona essere dello stesso colore dei campi o del cielo?

    Mi accorsi da quella domanda sciocca di essere innamorata di quell’uomo. Volevo piacergli, volevo che mi guardasse e non si stancasse mai di farlo. Volevo essere nei suoi ritratti, nei suoi occhi, nelle sue mani. Paul aveva ragione a temerlo. Paul aveva sentito che quell’uomo stava spezzando il nostro legame. Quella sera quando riapparve prima di dormire, come usava fare, mi venne vicino, mi abbracciò, ma questa volta non c’era la stessa tenerezza o intimità che per noi era naturale e antica, ma paura e silenzio. Aveva capito che anch’io avevo riconosciuto il mio sentimento. Pianse. Piansi. Uscì quasi correndo. Rimasi da sola a pensare all’olandese e a come rivederlo. Mio padre diede il permesso per un altro ritratto. Vincent questa volta mi volle al piano. L’avevo suonato ad un pranzo qualche giorno prima. Mi chiese di suonare mentre dipingeva. Non potevo vederlo, e credo non fosse un caso. Evitò apposta di essere visto mentre mi guardava. Ebbe pudore del proprio sguardo, pensai molto dopo. Ero piccola, semplice, silenziosa, pura. Ero qualcosa che lui non avrebbe osato toccare. Ero qualcosa che non riusciva nemmeno a pensare. Oggi lo so, si disse Marguerite, immaginando di scrivere queste frasi finalmente da qualche parte che non fosse nella sua testa. Era lì a guardare fuori, a gingillarsi con la penna, oramai da più di mezz’ora. I ricordi gli scorrevano dentro ripercorrendo la sequenza dei fatti. Si doveva sapere quello che era accaduto.

    Vincent era combattuto. Probabilmente l’avevo colpito fin dall’inizio e gli inviti di mio padre, che in fin dei conti lo annoiava, erano ben accetti perché portavano a me. Il ritratto di mio padre era una scusa per arrivare ai miei. Vincent mi guardava silenzioso come qualcosa che sta al di là delle sue possibilità. Oggi, riguardando i suoi ritratti, non posso non notare che il suo modo di ritrarmi era diverso dagli altri. Sembrava un modo per avvicinarmi, poco a poco. Mi fece un ritratto da lontano e poi, quando si avvicinò, io ero quasi di schiena, intenta a fare qualcosa di così bello come suonare. Si stava avvicinando, senza dubbio. Discreto, sensibile, attento. Quelle poche conversazioni che avemmo notai una sensibilità che trovai poi nelle sue lettere.

    Marguerite ricordò la sua gentilezza estrema con la quale la trattava. Non l’adorava come il fratello Paul, non la proteggeva come l’apprensivo padre. La considerava come una persona unica, intera, vera, adulta. Donna.

    Poi qualcosa si spezzò. Erano i primi di luglio. Vincent era venuto a trovarci più volte in quei giorni e si era intrattenuto con me in

    modo diverso dal solito. Ufficialmente per mostrarmi i ritratti appena conclusi e per progettarne altri. Voleva farmi un ritratto di fronte, con il giardino come sfondo. Ma in realtà il suo sguardo si era fatto più diretto, caldo. A poco a poco ci stavamo avvicinando. Il suo aspetto mi pareva sempre meno strano ed evidentemente mi ripugnava di meno se è vero che un giorno di quelli gli sfiorai la mano che teneva sul

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    suo ginocchio. Lui la ritrasse velocemente come se avesse paura di qualcosa. Poi la rimise lì dov’era la mia, sul suo ginocchio, ma io l’avevo già ritirata a mia volta, stupendomi io stessa del mio gesto. Non ci fu altro, se non lo sguardo che ci regalammo in quel momento. Fu l’ultimo che vidi.

    Marguerite si accarezzò il volto, guardò fuori dalla finestra, le foglie si muovevano, c’era del vento. Ritornò con il suo sguardo allo studio.

    Avevo dimenticato mio fratello, si disse. Non sapevo nulla di cosa può fare un’anima ferita. Paul parlò con mio padre, evidentemente. Il quale venne da me, un pomeriggio di luglio, mentre mi esercitavo al piano, pensando a cosa avrebbe detto Vincent di quell’esecuzione. Mi chiese d’interrompermi e, senza preamboli, mi disse che dovevo assolutamente smettere di vedere Vincent. Vincent non era una persona normale, disse. Chi è normale qui?, chiesi io guardandolo negli occhi. Mio padre mi diede uno schiaffo che mostrò una volta per tutte la sua vera indole, almeno ai miei occhi: un debole miserabile. Fuggì in camera piangendo, umiliata, rabbiosa, sconfitta ancor prima di combattere qualsiasi battaglia. Sapevo già allora che non avrei reagito, non avrei disubbidito né a lui né a mio fratello.

    Paul e il dott. Gachet ricevettero Vincent nella visita successiva e gli impedirono di fatto di vedere Marguerite. Tutto avvenne rapidamente, probabilmente Gachet disse qualcosa di molto duro nei confronti di Vincent.

    Lui sicuramente avrebbe voluto rispondere ferocemente a tanta ferocia, pensò Marguerite. Oggi posso capire che ancora una volta Vincent si vide rifiutato, respinto, esiliato, impedito. Mio fratello ha sempre detto che quel giorno Vincent aveva una pistola, ma sono propensa a credere che esageri. Io non gliel’ho mai vista. Né ne ho mai sentito parlare. Paul inventa, crudelmente. Ha sempre odiato Vincent dal primo momento che è apparso. E mio padre l’ha raggiunto poco dopo, abbandonandolo a se stesso, dimenticando, lui stesso, che Vincent era ad Auvers per lui. Non ho mai perdonato mio padre per questo. Non c’è alcuno stupore nel loro comportamento il giorno in cui Vincent morì. Ricordo che stavo preparandomi per dormire, faceva un caldo afoso, quando sentì un trambusto di sotto e mio padre che sveglia Paul ed insieme escono di corsa. Avevo sentito la parola “olandese”, che in casa veniva usata oramai con disprezzo e non so con quale oscura abilità di amante perduta riuscii a capire cosa stava accadendo. Era successo qualcosa a Vincent. Stavano andando alla locanda dei Ravoux. Agitata, mi alzai per guardare dalla finestra, pensavo di andare anche io alla locanda e poi sopraffatta dalla paura di mio padre, piansi di rabbia per la mia impotenza e mi disposi all’attesa. Restai seduta davanti alla finestra. Faceva un caldo opprimente nonostante l’ora oramai tarda. Sudavo e aspettavo. E quando Paul e mio padre tornarono mi lanciai verso di loro per chiedere notizie. Il silenzio di mio padre era tagliente quanto il gelo di mio fratello che stava ancora punendomi per il tradimento nei suoi confronti. Da giorni non mi parlava più.

    L’olandese si è sparato, disse Paul secco. E’ morto dunque, dissi io. Non ancora, ma probabilmente a breve morirà, disse Paul non senza una

    percettibile soddisfazione.

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    Come? Non è morto? Ero incredula. Mi rivolsi a mio padre. Padre, Vincent è vivo? Sì, disse lui mentre si versava dell’acqua, si è sparato in un modo strano. E’

    cosciente, è a letto. Mio padre non mi guardava. Si versava da bere mentre parlava come se stesse

    parlando di una cosa di poco conto. E’ perché non fate nulla? Non è possibile fare nulla, disse il dott. Gachet. Non è possibile muoverlo, in

    questi casi. Operarlo non è consigliabile e forse non è proprio praticabile. E’ un uomo perduto già da tanto tempo. Ha già cercato di uccidersi e non ci è riuscito, ora ci ha riprovato. Lasciamolo al suo destino, disse indifferente. Poi fece per andare nella sua camera, ma io mi misi tra lui e la porta.

    Voi padre non potete fare proprio niente?, non era una domanda, ma una sfida.No, disse lui, senza nessuna speranza da dare. Fu un no violento, duro da

    prendersi senza reagire, si scusò Marguerite ripensando a quei momenti drammatici. Non ho potuto resistere, si disse commuovendosi ancora. Non se l’era mai perdonato. Quella frase aveva segnato la sua vita e quella del padre. Ma l’aveva pronunciata. Ciò che sapevano entrambi, ma evitavano di dire e, soprattutto, di dirsi. “Come con la mamma, sei del tutto inutile”. Sua madre era morta oramai da quindici anni e suo padre con tutta la sua scienza, le sue stranezze, la sua prosopopea non era stato in grado di fare nulla. Lei era morta.

    Il tono con cui pronunciò quelle semplici parole, che tutti temevano, era pieno di calma e di disprezzo. Non so cosa fece più male delle due. Suo padre rimase impietrito a guardarla, mentre Marguerite si girò, e piangendo se ne andò verso la sua camera. Lasciò Paul e suo padre a fare i conti con la loro debolezza. Non ne parlarono mai più o forse non hanno mai smesso di parlarne.

    Il giorno dopo, suo padre uscì di nuovo, sempre con Paul al fianco. Marguerite aveva pianto tutta la notte e al mattino si era addormentata esausta. I suoi nervi però erano vigili perché sentì i due parlottare e poi chiudere la porta. Sapeva dove erano diretti. Volevano assicurarsi che il ferito procedesse spedito verso la sua fine, si disse, piena di rancore. Tornarono solo nel pomeriggio tardi. Avevano avvisato Theo che era sopraggiunto con il primo treno per Auvers. Theo, il fratello che avevamo conosciuto una domenica con la bella moglie Jo e il figlio piccolo, anche lui Vincent. Paul le aveva fatto un breve, freddo, resoconto della giornata. Avevano ritrovato Vincent a letto, a fumare, silenzioso. Erano venuti gendarmi, il dott. Mazery, e l’altro olandese che viveva dai Ravoux. Tutti aspettavano. Poi era arrivato il fratello Theo. Si erano abbracciati e avevano pianto insieme, parlando in olandese. Vincent era sempre a letto, sembrava rianimato dalla vista del fratello, ma poco prima di lasciarlo, l’avevano visto addormentarsi, esausto. Non era un bel segno, disse Paul con fare saccente, guardando la sorella. Preparati al peggio, dicevano i suoi occhi. Marguerite reagì, si voltò di scatto e Paul intuì immediatamente cosa stava per fare. Voleva uscire, andare da lui, vederlo ancora. No! Paul la bloccò sulla porta prendendola per un braccio. Era più piccolo di lei, ma era molto più forte. La scaraventò a terra,

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    scaricando così tutta la rabbia accumulata in quel mese di sofferenza nuova, mai vissuta prima. L’urlo richiamò il dott. Gachet che quando fu sulla porta vide Marguerite a terra piangere silenziosamente. Chiese cosa stesse succedendo. Vuole andare dall’olandese, disse Paul. Il dott. Gachet si chinò sulla figlia prendendola tra le braccia. Fece segno a Paul di uscire. Non piangere piccola mia. E’ per il tuo bene. Quell’uomo è un malato, uno che sta morendo da tanto tempo. Non è quello che ti sei immaginata. E’ un uomo pericoloso per lui stesso e per gli altri. L’hai visto anche tu come mi ha minacciato? Hai visto cosa potrebbe essere capace di fare?

    La voce suadente del dottore non riuscì a calmare Marguerite che continuava a piangere silenziosamente. Se suo padre avesse avuto un minimo di sensibilità avrebbe capito, come forse capì anni dopo, che sua figlia stava piangendo per se stessa e non solo per l’olandese, come lo chiamavano loro. Piangeva per quella vita da reclusa che era costretta a fare, per l’apprensione di un padre malato, per quel fratello morbosamente attaccato che ogni sera andava da lei alla ricerca non si sa bene di cosa, per quel paese in cui nessuno voleva accorgersi della trappola in cui era caduta e piangeva per quell’unica persona che le aveva mostrato un poco di dolcezza disinteressata e pulita. Piangeva, perché sapeva di essere condannata ad una vita piena di cose inutili, senza più nessuno. Piangeva perché Vincent moriva in quel modo.

    I giorni successivi furono tristi. Quando vide suo padre e suo fratello tornare dal funerale di Vincent, dove non avevano permesso che andasse, carichi di tele dell’olandese ebbe un modo di disgusto irrimediabile. Era tale la rabbia che non ebbe la forza di dire nulla. Fu sua cura negli anni successivi centellinare l’odio verso di loro. Un odio che era stato seminato in quei giorni e che crebbe e sbocciò mano a mano negli anni successivi. Un odio giudizioso che li unì senza alcuna possibilità di separazione. Con la crudeltà tipica della gioventù, promise a se stessa di non uscire più da quella casa. Puniva se stessa con tutta la forza che poteva per punire loro, per punire il fato, per punire Vincent per essersene andato così, per non aver combattuto per lei.

    Così gli anni erano passati senza che lei dicesse nulla. E quando poco a poco Vincent divenne van Gogh, quando il mondo intero scoprì la sua pittura e i suoi quadri venivano venduti a prezzi sconcertanti, suo fratello le aveva fatto promettere che sull’olandese non si sarebbe detto niente. Le leggende si susseguivano sulla sua morte e sulla sua permanenza ad Auvers. Marguerite poco a poco scoprì chi veramente fosse quell’olandese rude e sporco. Lesse la biografia della sorella e poi le lettere pubblicate dalla cognata. Vide esplodere il nome di quell’uomo che l’aveva sfiorata e finalmente seppe della sua infanzia, delle sue storie d’amore perdute, dell’amore per la natura e la pittura faticosamente conquistata in tarda età. Seppe di Arles, dell’orecchio tagliato dalla violenza dei suoi sentimenti. E non smise mai di amarlo, di parlarci, di stare con lui, di continuare a poggiare quella mano sulla sua, assente.

    Marguerite si asciugò una lacrima, quando sentì i passi del fratello venire verso la sua stanza. Aprì la porta e si affacciò un vecchio che le disse qualcosa. Lei rispose

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    come si risponde ad un marito mal sopportato. Era stanca. Decise che non avrebbe scritto nulla. Che non aveva importanza, dopotutto. La sua vita e quella di tutti era passata. Vincent continuava a vivere, comunque. Aveva vinto lui, alla fine. L’unica persona vera in un teatro di fantocci, si disse, chiudendo un quaderno che non avrebbe più toccato.

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    Marguerite Gachet al piano, Vincent van Gogh, Auvers-sur-Oise, luglio 1890

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    Theo van Gogh, il fratello

    Theo van Gogh, il 27 luglio 1890, è in un momento cruciale della propria vita. E’ un uomo che sta prendendo coscienza di essere gravemente malato. Forse non è del tutto consapevole di cosa ha veramente (la sifilide, per dirla in breve), ma è sempre più cosciente che il suo stato di salute è molto precario e la sua vita in pericolo. Non credo ne parli con Joanna. Non vuole spaventarla ulteriormente. Joanna è già abbastanza spaventata per la vita del figlio Vincent, il quale appare loro molto gracile. Il piccolo piange spesso e durante la notte, soprattutto. La mancanza di sonno rende i due genitori frustrati, nervosi. Quindi, per Theo, oltre allo spavento anche la fatica. Probabilmente è in questo clima che, agli inizi di luglio, hanno accolto il fratello Vincent. Il quale è rimasto molto turbato dalla situazione familiare in cui ha trovato i coniugi van Gogh. Theo non solo è stanco e timoroso per la vita del figlio e per la propria, ma è anche frustrato per il proprio lavoro che non viene riconosciuto come vorrebbe e meriterebbe. Sono anni che chiede aumenti, riconoscimenti, autonomia, senza ottenere risposte da parte dei proprietari della galleria che gestisce. E’ chiaro a tutti che con le nuove incombenze familiari, continuare a mantenere Vincent sarà molto difficile. Anche Vincent lo capisce. Probabilmente, in un momento di nervosismo e debolezza, Joanna fa pesare a Vincent la sua dipendenza dal fratello Theo. Vincent deve a sua volta aver detto qualcosa di sgarbato. Quel soggiorno, che doveva durare tre giorni, ne dura uno e, dalle lettere scambiate subito dopo, si comprende che tutti sono rimasti feriti.

    La mattina del 28 luglio Theo ha aperto la galleria nervoso e irrisolto. Nella sua mente, mentre compie i rituali atti di apertura, si affollano immagini diverse. Pensa alla sua famiglia senza di lui, pensa alla sua salute, al dolore, agli ospedali. Immagina Vincent rabbioso per non ricevere più i suoi soldi. Immagina la sua richiesta di aumento presso i suoi datori e il loro rifiuto, con il conseguente abbandono del lavoro stesso. Vorrebbe lasciare tutto, ma il peso di Vincent e della nuova famiglia lo tengono ancorato a quel lavoro. O forse queste sono solo scuse? Theo non sa dirlo: non riesce a vedere chiaro in sé o nella propria vita.

    Alle nove e trenta circa, nella galleria entra un signore che Theo crede di aver già visto da qualche parte e immediatamente pensa al collega pittore olandese che vive con Vincent ad Auvers. Come si chiama? Il conterraneo si avvicina senza sorridere e a Theo un brivido freddo gli taglia la schiena. Hirschig si presenta, lo saluta con serietà e gli porge un biglietto. Theo lo apre velocemente e tremando. Lo guarda, poi guarda il biglietto: Venga presto, suo fratello è in pericolo. Firmato: Dott. Gachet. Theo guarda di nuovo Hirschig e questi lo guarda a sua volta senza cambiare espressione. Forse fa un

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    piccolo cenno con il capo, come a dire che la cosa è veramente seria. Non dicono nulla. Theo non ha il coraggio di chiedere. L’altro probabilmente non ha il coraggio di dire. Theo va nel retro a prendere il cappello e il bastone, chiude alla bella e meglio la galleria e corre, insieme ad Hirschig, verso la stazione.

    Il treno sembra andare con un’estenuante lentezza. Theo guarda fuori il paesaggio scorrere, ma non vede niente in realtà. E’ terrorizzato. Nella sua mente si accavallano immagini raccapriccianti. Il ricordo di Arles, dell’orecchio reciso, è il pretesto per molte scene che immagina di trovarsi di fronte all’arrivo ad Auvers: sangue sulle pareti, pezzi di corpo sparsi, il corpo martoriato di Vincent, e poi lo scandalo, la riprovazione, i gendarmi, i medici e ancora il ricovero… Non sente di potercela fare un’altra volta. Eppure Theo soffre per qualcos’altro. Immaginare Vincent impossibilitato a dipingere lo terrorizza ancora di più. Immaginare il fratello morto o incapace di dipingere è per lui stesso una forma di morte. Si rende conto allora che in tutti quegli anni non ha solo mantenuto suo fratello, ma anche un suo nascosto e impreciso desiderio, una sua recondita parte, con la quale non ha mai fatto veramente i conti. Ripensa a suo fratello quando sosteneva che il vero artista, tra i due, è lui, Theo. Theo, diceva, tu hai la sensibilità, l’intelligenza, il talento dell’artista, mentre io sono solo un operaio dell’arte, un contadino giudizioso, ostinato. Theo pensa vergognandosene che Vincent abbia ragione. Ad essere sinceri non crede che il fratello abbia talento. Ha solo coraggio, e la determinazione di un pazzo. Forse ha ragione Vincent, forse avrebbe dovuto fare il pittore, dipingere e non vendere. Forse ha sbagliato tutto. Avverte come un’ansia. L’idea di esporsi lo terrorizza quanto e forse più di quella di pentirsi di non averlo fatto. Forse, si dice, come per salvarsi, è proprio quello che doveva accadere. Lui non avrebbe mai potuto reggere gli stenti e i sacrifici che il fratello sostiene da anni. Non è stato mai in grado di affrontare direttamente se stesso. Soltanto in due avevano la possibilità di essere quello che erano. Nessuno dei due può essere ciò che è senza l’altro. Un contrappunto in cui entrambi le parti sono necessarie perché ognuna esista e possa realizzarsi. Forse per questo Vincent aveva preso a firmare solo con il nome, senza cognome. Io sono Vincent, dei due van Gogh, sembrava dire. Perché tutto questa vita, pensa Theo, questi quadri, questa estenuante ricerca è fatta dai due fratelli van Gogh.

    I campi scorrono davanti ai suoi occhi umidi. Theo ripensa alla discussione avuta con il fratello qualche settimana prima. Vincent era rimasto molto colpito, sconvolto si potrebbe dire. Theo aveva posto la questione della dipendenza economica e della necessità di rivedere i loro rapporti alla luce della sua nuova e difficile situazione familiare. Probabilmente aveva parlato della sua malattia. Vincent non era più l’unico malato. Joanna poi aveva aggiunto la sua parte. Sicuramente quella discussione aveva generato, nel cervello provato di Vincent, qualcosa di irreparabile, si diceva Theo, macerato. Stavolta però non crede di avere l’energia sufficiente. Ed è come se lui stesso fosse in pericolo, è come se sulla sua carne sentisse agire, come un pennello sulla tela, il dolore e la follia.

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    Quando arriva alla stazione di Auvers, Theo è già sconvolto. Non ha scambiato una parola, nemmeno in olandese, con Hirschig che è rimasto, anche lui, in un irreale silenzio per tutta l’ora di viaggio. Appena sceso prende a correre. Mentalmente è diretto verso la casa di Gachet, Hirschig invece lo indirizza alla locanda dei Ravoux, che è prima. Vincent è nella sua camera, dice, mentre Theo era convinto che fosse da Gachet, che fosse stato preso in carico e portato a casa di Gachet, o che ciò che era avvenuto fosse avvenuto da Gachet. E’ lui il suo tutore ad Auvers. Ma non era così. Theo, arrivato alla locanda dei Ravoux, sale di corsa le scale che lo conducono alla camera di Vincent. C’è un uomo sulla porta. Nella stanza vede il dott. Gachet che gli va incontro, silenzioso, con un ragazzo vicino. Vincent è a letto che fuma la pipa. Theo rimane interdetto. Sembra una scena del tutto normale. Non era preparato a questo. Si era preparato a qualcosa di sconvolgente, non a qualcosa di assolutamente normale. Vincent lo vede e lo sguardo che gli rivolge, però, è pieno di pietà, scuse, contrizione e rassegnazione. E’ un lampo, ma che dice che qualcosa di grave è accaduto. Theo gli si fa incontro e Vincent gli tende le braccia. Si abbracciano e non possono che piangere.

    A questo punto, è probabile che Theo non sappia ancora cosa sia successo. O forse ho esagerato immaginando che Hirschig non abbia avuto la pietà di una pur breve spiegazione sulle condizioni di Vincent. O che Theo abbia avuto il fegato di non chiedere per tutto quel tempo. In ogni caso, al momento del loro incontro, sappiamo che i due si abbracciano, piangono e iniziano a parlare in olandese. Cosa si siano detti nessuno lo sa. Non sappiamo se Hirschig, che pure era olandese o il dott. Gachet, che forse capiva l’olandese , avessero modo di sentire. E’ immaginabile che nel momento 1

    dell’incontro, essi si siano fatti un poco da parte, lasciando nell’intimità i due fratelli, sentendo solo i suoni della lingua senza capirne il significato. E’ possibile che, non essendoci nulla di poco chiaro per loro, non sentissero il bisogno di saperne di più da parte di Vincent. In ogni caso, nessuno di loro lasciò alle cronache nulla a riguardo di quello scambio. Invece, questo breve incontro è d’importanza cruciale ed è uno dei diversi buchi che la vicenda della morte di van Gogh riserva. Perché è cruciale? Per capire il comportamento di Theo da quel momento in avanti. Visto dall’esterno, leggendo le cronache, ciò che colpisce è che Theo non fece nulla, né, soprattutto, pose alcun problema su cosa fosse accaduto. Probabilmente era abbastanza sconvolto da non porselo, il problema, ma fin da subito le cose poteva apparire poco chiare. La possibilità che Vincent si fosse sparato, e in quel modo per di più, che avesse una pistola, che nessuno lo avesse avvisato di questo, potevano costituire fin da subito tema di discussione, di indagine almeno presso il dott. Gachet. Invece Theo non indagò, non chiese, né risulta che ebbe alcun problema con il dott. Gachet. Non lo fece con Vincent vivo né poi, dopo, con Vincent oramai morto. Né fece nulla per salvare il fratello, la cui vita valeva quanto e più della sua. Tutto il comportamento di Theo

    La madre del dott. Gachet è olandese. Il suo nome da nubile era van Rissel, e questo era lo pseudonimo con il quale il dottore firmava i suoi 1quadri.

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    sembra molto lineare, come se tutto fosse chiaro, come se non avesse bisogno di indagare, di sapere o recriminare. Forse perché già sapeva come erano andate le cose? Forse aveva ricevuto istruzioni in tal senso dal fratello? Semplicemente si sedette a lato del letto è aspettò, con buona grazia, che Vincent morisse. E’ probabile che, il dott. Gachet prima e il dott. Mazery poi, l’avessero convinto dell’impossibilità di agire, dell’inutilità di qualsiasi intervento. E’ possibile. Resta comunque il dubbio delle motivazioni per una tale irreversibile decisione da parte dei medici. Era veramente impossibile muoverlo? Non valeva comunque la pena trasportarlo a Pontoise? Parigi è ad un’ora di treno, non poteva essere, anche se estrema e pericolosa, una possibilità?

    Theo si inginocchia a fianco del fratello che lo abbraccia ancora e lo guarda pieno di pena ed affetto. Emana un odore disgustoso. “Cosa è successo?” chiede quindi in olandese Theo, “cosa hai fatto?”, e Vincent, calmo, risponde: “Ho fatto quello che andava fatto. Nessuno deve soffrire. Ho subìto un colpo di pistola. E così facendo mostra la ferita a Theo che inorridisce alla vista di un grumo di sangue nero sotto una camicia lurida. “Ma ti sei sparato?”, Vincent accenna un sì con la testa. “E’ colpa mia”, aggiunge. Theo avverte che non è chiaro cosa stia dicendo il fratello e quello, come se avesse compreso, aggiunge: “E’ finita Theo. Non ti curare più di me. Lasciami morire, non voglio più vivere. Sono arrivato alla fine, non dipingerò più…E senza pittura io….”. Theo lo interrompe pensando che Vincent stia ritornando sulla loro discussione degli inizi di luglio: “No, non devi, potrai ancora farlo, io ti aiuterò! Vedrai, troveremo certamente un modo”, il senso di colpa lo stringe come un maglio, la testa ora gli scoppia. Suda e trema. Ma Vincent che è calmo in modo irreale continua: “No, non è per quello, è che ho finito, sono arrivato alla fine, ho dipinto l’ultimo quadro, non ci saranno altri quadri, ho distrutto la pittura” e fa un cenno stanco alla stanza dove le tele sono ovunque. Theo si guarda attorno, non sa cosa dire. Tutti quei quadri. C’è della rabbia febbrile, della impellenza indomabile, c’è una vita consumata, matta, che è esplosa. Guarda Vincent. “Ho finito Theo. Abbiamo finito. Non poteva durare all’infinito. Adesso occupati di te, del piccolo, di tua moglie, occupati dei miei quadri, sono in buone mani…”. Vincent ora fa più fatica a respirare, avverte un dolore lancinante al fianco. Chiude gli occhi. Il dott. Gachet si avvicina da dietro e invita Theo a lasciarlo riposare. Theo fa cenno di sì, ma non vuole staccarsi dal fratello, da quella sua resa incondizionata. Lo guarda ancora, gli prende la mano e Vincent come delirasse “Ti ho scritto, Theo, una ultima lettera…” poi sembra come addormentarsi. Theo resta a piangere accanto al fratello, tenendogli la mano.

    Vincent non si sveglierà più. Dal sonno passerà al coma non senza lamenti e contorcimenti. Ma non riuscirà più a parlare con Theo e Theo rimarrà al suo capezzale fino alla fine, fino alle una e trenta del mattino di martedì 29 luglio 1890.

    Dopo organizzerà il funerale, parlerà con gli amici arrivati da Parigi, distribuirà i quadri come doni, prenderà con sé quelli che rimarranno. Dentro di sé avrà accettato

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    la fine: quella di Vincent, la sua. Si sentirà sollevato, crudelmente sereno. Disporrà gli ulteriori invii presso il proprio indirizzo a Parigi. Farà tutto come un’automa, senza coscienza reale, senza rendersi conto, come in un sogno. Avrà la certezza che tutto è andato come doveva. Piangerà e ringrazierà, abbraccerà gli amici e piangerà ancora, parlerà loro di Vincent e ascolterà i loro elogi. Di tanto in tanto, guarderà alcuni quadri di Vincent. Si domanderà anche, per un momento, qual è l’ultimo quadro dipinto da Vincent. Gli sembra di cogliere qualcosa nel campo di grano con corvi neri. Per anni quello sarà ritenuto l’ultimo quadro di Vincent e sul quel quadro si costruiranno analisi artistiche e psicologiche. Oggi sappiamo che quello non è l’ultimo quadro di Vincent, poiché molto probabilmente lo dipinse agli inizi di luglio. Per Theo, comunque, è semplicemente un lampo, un momento che passa velocemente tra il dolore e gli affari da sistemare. Poi non tornerà più sull’argomento o forse sì ma solo nei suoi deliri, perché, poi la sua malattia avrà il sopravvento. Proprio lui, proprio la sua mente, quella “sana” delle due, sarà quella che cederà e si perderà sotto l’attacco del male. Dimenticherà anche l’ultima frase del fratello, quella della lettera. Tornerà a Parigi portandosi dentro un dolore silenzioso e nero, che non lo abbandonerà più. Theo van Gogh morirà ad Utrecht il 25 gennaio 1891, paralizzato, delirante e incapace d’intendere e di volere. Nel 1914, Joanna farà traslare la salma di Theo ad Auvers-Sur-Oise e la porrà accanto a quella del fratello, dove ancora oggi è possibile vederli insieme, com’è giusto che sia.

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    Theo van Gogh

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    Vincent van Gogh, l’ultima lettera

    Caro Theo,eccoti dunque le mie ultime note. Probabilmente le leggerai quando sarò morto. Non credo

    riuscirai ad arrivare prima. Non importa. E’ bene che tu sappia che sono nel completo possesso delle mie facoltà. E molto probabile che ti diranno che ero dolorante e sicuramente sconvolto, forse in preda ancora una volta a deliri, allucinazioni, demenza, invece ti posso assicurare di avere la mente lucida e chiara. Negli ultimi giorni la mia mente si è fatta ancora più lucida e chiara del solito. Ho dipinto molto e ho dipinto per terminare qualcosa che ho iniziato tanto tempo fa, insieme a te, ricordi? Mi ero dato dieci anni entro i quali avrei compiuto la mia opera, la mia missione. Ora concludo nel lasso di tempo che ritenevo necessario. Non si può essere pittore per sempre, non si può essere nulla per sempre, o, se hai voglia di stare al mio gioco, il solo nulla è per sempre. Non io, non tu, né noi. Quindi avevi ragione a dirmi, (a rimproverarmi, a dire il vero), che non potevo pensare di portare avanti la nostra situazione per sempre, che sarebbe arrivato un momento in cui ci saremmo dovuti occupare delle nostre vite separatamente. Non te ne voglio, sai, perché avevi ragione. Tu stai vivendo un momento particolare della tua vita ancorché faticoso e snervante. Sei provato da quanto stai costruendo e il tuo lavoro non ti dà né le soddisfazioni né il guadagno che meriteresti. Né da me vengono aiuti, né tantomeno dai miei quadri. E tu sai quanto me ne dolgo. La famiglia ti richiede un impegno che mai prima avevi potuto vivere ed io certamente non posso pensare di essere prima di ogni altra cosa. Siamo cresciuti insieme Theo e, come è giusto, arriva un momento in cui i fratelli si separano. E questo è il momento. Oggi è accaduto qualcosa che non ho potuto evitare. Sono arrivato alla fine. Ho dipinto così tanto in questi mesi e avevi proprio ragione a lodare Auvers, ha qualcosa di speciale, qualcosa che mi ha catturato e mi ha condotto alle estreme conseguenze della mia pittura. Ho dipinto tanto, decine e decine di quadri, ho perso il conto e mentre dipingevo sapevo che ce ne sarebbe stato uno che mi avrebbe detto, a suo modo, di essere l’ultimo. E dipingere è diventato cercare, cercare quel quadro. Lo cercavo e temevo di trovarlo. Ho dipinto negli ultimi tempi con un fervore che non mi capitava nemmeno ad Arles. Ed è arrivato, Theo, l’ho visto! L’ho prima dipinto, senza quasi rendermene conto, e poi l’ho guardato, come l’avesse dipinto un altro, come fosse un quadro dell’amico Gauguin, come se non mi appartenesse, e di fatto non mi appartiene, Theo, è un quadro che non comprendo. Non so se è possibile, se è capitato ad altri dei tuoi pittori, ma sono arrivato ad un punto tale in cui io non comprendo più la mia pittura. Essa mi trascende. Ne sono rimasto spaventato, letteralmente terrorizzato. Ho anche pensato alla mia malattia, alle forme bizzarre che può prendere. Ma ero troppo lucido perché potessi accettarlo. Ero io che dipingevo qualcosa che andava oltre tutto quello che ho dipinto, che è stato dipinto e diventava irriconoscibile, letteralmente irriconoscibile. Ti dico brevemente come è accaduto, perché credo che tu debba

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    prestare particolare attenzione a quel quadro, sarebbe bene capire se anche tu provi la stessa, terribile, sensazione.

    All’inizio volevo solo cambiare soggetto. I ritratti alla famiglia Gachet mi avevano particolarmente irritato e lasciato insoddisfatto. Ah, su questo dovrei dirti qualcosa, Theo, per correttezza nei tuoi confronti, perché lo sai che non riesco a mantenere un segreto con te. Il dott. Gachet, come avevo intuito, è più malato di me e la sua famiglia più malata della nostra. Il rapporto che ha con i figli e, in particolare, con la figlia, è malato. Credo vada molto al di là dell’amore filiale, seppur profondo, che si deve ad una figlia. Credo sia qualcosa di più morboso, come si addice alla sua inclinazione malinconica, contorta e maliziosa. Il dott. Gachet, mi dispiace non avertene fatto parola, mi ha accusato, con una scenata ridicola, di insidiare sua figlia e mi ha proibito di rimettere piede in casa sua. Spalleggiato dall’infido figlio, ha assunto un’aria da vendicatore che proprio non gli si addice. In quel momento m’è salita una furia alla quale ho temuto per una attimo di cedere. Avevo una pistola, sai? Me l’ha data il signor Ravoux. I corvi mi tormentano durante le mie sedute e così con quella li spavento. Avrei voluto almeno spaventarlo quel furfante. Potevo farlo, ma non l’ho fatto. Non valeva la pena.

    Questo una ventina di giorni fa. Non mi ha più rivolto la parola, né si è sentito evidentemente di informare te o di fare alcun passo nei miei confronti, che pure avrei dovuto essere a suo carico. Il che rende conto della qualità e profondità della sua malattia, più che della mia.

    Ad onore del vero, Marguerite ed io non eravamo estranei ad un certo sentimento. Ho avvertito da parte della ragazza un interesse, uno sguardo che da molto tempo non sentivo e che mi scaldava l’anima, non lo nego. Il pensiero di poterla frequentare e avere la possibilità di passare qualche momento vicino alla sua grazia mi aveva aperto il cuore. Tuttavia, mai e poi mai avrei avvicinato oltre il dovuto quella povera ragazza. Il solo pensiero mi rivolta lo stomaco. Tu sai quanto io abbia desiderato il conforto di un’anima. Tu sai quanto io abbia desiderato avere una vita normale, una donna come tu hai Joanna, ma sai anche che vi ho rinunciato da gran tempo, risolvendomi a pensare che non posso concedermi nessuna distrazione dalla mia pittura.

    Ma tutto serve, fratello mio, e questa spiacevole situazione mi ha indotto a cercare, lontano dai ritratti, una diversa ispirazione. Così cercavo qualcosa di nuovo quando un giorno, passando vicino ad un dirupo vidi delle radici di alberi che fuoriuscivano dal terreno e mi colpì il particolare del loro intreccio, il verde inusuale, più denso, la loro forma curvilinea, il marrone scuro della terra che le conteneva, insomma pensai che potesse essere il soggetto nuovo, diverso, che stavo cercando. Inizia a dipingerli quindi, senza temere nulla, senza presagire nulla. Tutto questo è accaduto qualche giorno fa, l’altro ieri credo. Come sai aspetto a finire un quadro, lo riprendo, lo ritocco, lo cambio. Così feci anche con questo e quando poi ieri mi riproposi di provare a finirlo rimasi interdetto. L’ho preso, l’ho guardato, ma non l’ho riconosciuto. Non capivo cosa avevo dipinto! Un insieme di linee e colori nascondevano la figura. Le radici che credevo di aver dipinto non c’erano. All’inizio pensai di avere un’allucinazione, una ricaduta improvvisa e inaspettata, pensai. Mi sedetti, respirai, feci due passi nella stanza, ma quando ripresi in mano il quadro la sensazione di guardare qualcosa d’incomprensibile era ancora presente. Non capivo cosa avevo dipinto, o, meglio, avevo dipinto

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  • Massimo Franceschetti L’ultimo quadro di Vincent van Gogh

    qualcosa che non era più qualcosa. La figura era scomparsa. Allora capì dove stavo andando, dove tutti noi, Cézanne, Gauguin, Monet, tutti noi, stavamo andando. Non ci sarebbe stata più alcuna pittura, nessuna figura, nessun segno da riconoscere ma puro gesto, colore, segno. Mi sedetti come fossi stato sconfitto in una qualche guerra. Sapevo di essere arrivato alla fine. Non avrei potuto più dipingere. E con uno stato d’animo sconvolto arrivai a domenica mattina. Uscii senza sapere se avrei potuto dipingere ancora.

    Oh Theo, prima di continuare, però, ti devo mettere a parte di un altro aspetto della mia vita qui ad Auvers che ho poco citato nelle mie lettere, anzi, ti ho francamente taciuto, non ritenendo necessario fartene cenno. Da quando sono arrivato, infatti, ho conosciuto alcuni ragazzi con i quali ho passato qualche momento. Sono ragazzi molto giovani, arroganti e qualche volta riprovevoli, ma mi aiutano a superare certi momenti di difficoltà. Per lo più passiamo il tempo a fumare, loro ad inseguire le loro ragazze, io a guardare certi dagherrotipi che mi fanno avere e che mi hanno lasciato completamente esterrefatto! Nudi, Theo, donne nude che sembrano più vere del vero! Che impressione!

    Sai quanto mi pesi la solitudine. Non poter avere la possibilità di soddisfare certi mie bisogni. Con loro mi distraggo, mi permettono di passare qualche momento con qualche essere umano. In paese non ho altri amici e ogni volta che provo ad avvicinarne uno qualcosa accade per cui devo ritirarmi. Questi ragazzi non comprendono nulla di arte, ma credo che a loro modo mi vogliano bene e la loro presenza mi aiuta a distrarmi dalla concentrazione assoluta in cui cado quando dipingo. Ora, oggi li ho rivisti. Li ho incontrati mentre camminavo, assorto nei miei pensieri. Ero uscito il pomeriggio senza i miei attrezzi, non potevo dipingere. Il quadro delle radici si rigirava dentro di me e dialogavo con esso cercando di provare a capire come dipingere ancora, come andare avanti, ma disperavo. Quando li vidi incrociare il mio cammino, li accolsi come una liberazione. I ragazzi erano felici di vedermi e più molesti del solito: la domenica li aveva eccitati. Siamo andati insieme per un po’, poi, ad un certo punto, mentre le ragazze urlavano e s’inseguivano vicino ad un ruscello, poco più lontano, uno dei loro, quello più intraprendente, non importa conoscere il suo nome, ha iniziato a rovistare nella mia sacca e ha trovato la pistola che il signor Ravoux mi ha prestato per scacciare i corvi. Ero terrorizzato. Era rimasta lì dentro e quasi l’avevo dimenticata. Era carica, pronta all’uso. Ha cominciato a puntarla di qua e di là, verso di me e verso gli altri. E mentre richiamava l’attenzione degli altri ho cercato di togliergliela dalle mani, ma quello ha fatto resistenza, preso non so da quale rabbia. Allora è partito un colpo, Theo, un colpo forse maledetto, forse provvidenziale che mi ha scaraventato a terra. Dopo non ricordo più nulla se non che ho provato a rialzarmi quando era già buio e i ragazzi erano spariti e così le mie cose e la pistola, non c’era più niente e nessuno e per una attimo ho pensato di aver sognato, che tutto fosse un cattivo sogno, un brutto incubo dei miei, un’allucinazione dovuta ad una nuova crisi, se non fosse stato per la ferita al mio fianco che mi doleva e sanguinava. Con fatica mi sono alzato e mi sono diretto verso casa dei Ravoux. Sappi che non provo alcun risentimento verso il ragazzo, verso i ragazzi, non ha importanza sapere chi sono. Le loro vite valgono già così poco. Non devono penare per aver ucciso un pittore che era già morto quel giorno. In fondo, è una liberazione per me.

    Ed ora ti sto scrivendo, mentre cammino, caro Theo, una lettera che spero di riuscire a riportare su carta appena possibile. Mi sorreggo ancora una volta a te, al pensiero di te, caro

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  • Massimo Franceschetti L’ultimo quadro di Vincent van Gogh

    fratello mio, che sei qui presente e mi sostieni e mi permetti ora di camminare come mi hai permesso di dipingere per tutta la vita. Siamo arrivati alla fine Theo, abbiamo distrutto le nostre vite Theo, abbiamo distrutto la pittura e se della pittura posso tollerare la distruzione, mi dolgo delle nostre vite e ancor più della tua Theo, che vedo scivolar via sempre di più, come fosse una fiamma che qualcun altro sta spegnendo. Sii forte, fallo per il nostro caro Vincent e la tua cara Joanna. Vivi anche per me. Spero per voi il più grande bene, una ultima forte stretta di mano dal tuo affezionatissimo fratello

    Vincent

    Dalla veranda emerge la figura trafelata di Madame Ravoux: ” Signor Vincent, eravamo in ansia, siamo felici di vederla ritornare, ha avuto problemi?”. 


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    Radici d’alberi e tronchi, di Vincent van Gogh, Auvers-sur-Oise,

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    L’altra storia. Perché la morte di Van Gogh

    Parlare della morte di Vincent Van Gogh è un modo, anche un po’ banale, lo ammetto, di raccontare di una persona speciale. Dicono che la morte di una persona renda conto della sua vita, della sua personalità. Non so se sia vero, ma certamente questa idea che non si muoia a caso vale per il pittore olandese. Del resto, si può dire che Van Gogh è una persona talmente conosciuta che nessuna ne sa nulla, veramente. E’ il problema che hanno i grandi, i classici, i capolavori: nessuno li conosce davvero.

    Sono venuto a sapere dell’intricate circostanze della morte di Van Gogh da una trasmissione radiofonica che si chiama “Alle Otto della Sera”, su Radio Due, scaricata da un podcast sul mio Ipad, dedicata a Vincent van Gogh, a cura e con la voce di Giordano Bruno Guerri. Questi confeziona un ritratto lucido e appassionato del pittore e non riserva una particolare enfasi alla sua morte. Non insiste più di tanto sui particolari, ma non può esimersi dal raccontare alcune contraddizioni o lacune che la caratterizzano. Quanto basta per accendere la mia curiosità onnivora e impaziente.

    Per comprendere se aveva senso parlare di suicidio per Van Gogh sono andato a leggere le Lettere a Theo, (Guanda, 1984, ma si veda anche il sito http://vangoghletters.org dove si possono vedere le lettere originali). Ho scoperto così che Vincent è uno straordinario scrittore. Le lettere mostrano una persona intelligente, sensibile, fragile, autentica, lucida nella lettura delle persone e della società in cui vive. Vincent non parla mai di suicidio, ma in compenso le cose che scrive sulla società che ha attorno sono folgoranti. E’ emozionante il modo in cui difende le proprie scelte rispetto alle donne che con le quali cerca di stabilire una relazione oppure come giustifica la propria dipendenza dal fratello. E’ sorprendente vedere come sia cosciente di sé come persona e come artista. Si dà dieci anni (ne userà sette) per compiere la sua opera di pittore. Rivendica il ruolo del fratello come centrale nella sua pittura. Ritiene addirittura che Theo sia, come pittore, meglio di lui. Comprende le difficoltà del fratello e intuisce una sua fragile fiducia nei suoi confronti, ma in diverse parti lo invita a non scoraggiarsi, perché sa che la sua pittura è per il futuro, non per il presente. Scrive, tra l’altro:

    “Se oggi non valgo nulla, non varrò nulla nemmeno domani; ma se domani scoprono in me dei valori, vuole dire che li posseggo anche oggi”.

    Vincent combatte i demoni della propria dipendenza, esplora la propria malattia mentale, gestisce come può la repulsione che genera negli altri, soprattutto nelle donne; si osserva e ascolta, cerca di capire quale sia il senso profondo della vita, la sua e quella degli altri. Quando può aiuta chi ha attorno. Questo è un altro aspetto particolare della vita di Vincent e che può essere utile a comprenderne la morte, la sua strana morte. Vincent è capace di una abnegazione totale. Come quando nel Borinage

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    http://vangoghletters.orghttp://vangoghletters.org

  • Massimo Franceschetti L’ultimo quadro di Vincent van Gogh

    aiuta i minatore e contadini in modo tale da mettere in serio pericolo la propria vita e costringere il padre a venirlo a salvare da se stesso. In una delle sue lettere scrive:

    “Per agire nel mondo, occorre morire a se stessi. L’uomo non sta sulla terra solo per essere felice, neppure per essere semplicemente onesto. Vi si trova per realizzare grandi cose per la società, per raggiungere la nobiltà d’animo e andare oltre la volgarità in cui si trascina l’esistenza di quasi tutti gli individui”.

    Vincent era senza dubbio capace di un gesto inaspettato e di una dedizione assoluta. E’ impossibile non innamorarsi di Vincent dopo aver letto le sue lettere. E’ difficile non parteggiare per lui, non condividere le sue delusioni, le sue difficoltà, rimane affascinati dalla sua lucidità, pur nella malattia. E’ inevitabile vedere nella s