Lasciarsi cadere. Racconto da un mondo minore

18

description

 

Transcript of Lasciarsi cadere. Racconto da un mondo minore

Page 1: Lasciarsi cadere. Racconto da un mondo minore
Page 2: Lasciarsi cadere. Racconto da un mondo minore
Page 3: Lasciarsi cadere. Racconto da un mondo minore

altrevie • nonfiction

Page 4: Lasciarsi cadere. Racconto da un mondo minore
Page 5: Lasciarsi cadere. Racconto da un mondo minore

Brigitte Schwaiger

LaSciarSi cadereracconto da un mondo minore

Traduzione di Giovanni Giri

gran vía

Page 6: Lasciarsi cadere. Racconto da un mondo minore

Titolo originale: Fallen lassenCopyright © 2006 Czernin Verlags GmbH, Wien

© 2013 gran vía s.c.r.l.Tutti i diritti riservati

Prima edizione: aprile 2013isbn 978-88-95492-19-3

Progetto grafico: Mirko Visentin | www.spaziosputnik.it

Per la riproduzione fotografica in copertina, successivamente elaborata, l’editore è a disposizione degli aventi diritto non potuti reperire.

La citazione di Ingeborg Bachmann è tratta da Invocazione all ’Orsa Maggiore edizione Mondadori del 1999, traduzione di Luigi Reitani.

L’editore ringrazia il Bundesministerium für Unterricht, Kunst und Kultur di Vienna per il contributo economico alla traduzione.

Page 7: Lasciarsi cadere. Racconto da un mondo minore

Lasciarsi cadere

Page 8: Lasciarsi cadere. Racconto da un mondo minore

Schiavo del mondo, tu sei gravato di catene,Ma quel ch’è vero nel muro apre le crepe.Vegli e nel buio vai scrutando intorno,A ignota via d’uscita tu sei volto.

ingeborg bachmann, Quel ch’è vero

Page 9: Lasciarsi cadere. Racconto da un mondo minore

7

Padiglione 10, secondo piano. Toilette in comune e bagno in co-mune per donne e uomini. Una camera con un letto, uomo o don-na, ricavata nella sala, una camera nuova, più grande, per uomo o per donna, porta via spazio. Poche camere a due letti, mi pare, in tutto tre. Uomini o donne. Una stanza a quattro letti e una a tre… per le donne, un enorme dormitorio per uomini (sei-otto letti). Se una donna esce in camicia da notte dal dormitorio femminile, va a sbattere contro un uomo mezzo nudo, spettinato, che esce barcol-lando dalla stanza vicina, la bava che gli cola dalle labbra, i capelli sparati da ogni parte, non c’è nemmeno un infermiere quando ci si alza per arrancare verso il bagno.

Il bagno: si fa il bagno, la doccia. Davanti a due lavandini un uomo e una donna si lavano la faccia. Separazione dei sessi, ho detto una volta. Spero nella separazione dei sessi. Sì, lo spazio è troppo poco.

Una volta mi sarebbe piaciuto avere una camera singola, ma per le scrittrici non facevano certo eccezioni. Sulla lavagna appesa alla parete, nomi. Schwaiger Brigitte, L(…) Kaspar, B(…) Ulrike. Scusi, ma lei è proprio quella Schwaiger?

È proprio lei?

Page 10: Lasciarsi cadere. Racconto da un mondo minore

8

«L’ho presa per una dottoressa» dice una paziente. «L’ho vista an-dare in giro, poco fa, e da com’è vestita, e da come si comportava in refettorio, pensavo fosse una dottoressa. Da come ha parlato con quel paziente. Per me è stata una folgorazione».

«Una folgorazione cosa?»«Ma sì, il modo in cui gli ha parlato».«Grazie. L’ho avuta anch’io quella folgorazione, l’anno scorso,

ci sono già stata altre volte, qui. Quella volta ho visto una pazien-te parlare con un’altra paziente. Allora ho pensato: Be’, lo faccio anch’io».

Basterebbe andare dal paziente che sbava o ha le labbra gialle di saliva secca e dirgli, o dirle: «Per favore, fai il bravo, pulisciti la bocca! Non ce la faccio più a guardarti!»

La donna da cui ho imparato che coi pazienti puoi parlare come con le persone normali era slanciata, alta, vestita benissimo, cioè con discrezione e originalità. Madre schizofrenica, fratello schi-zofrenico, cos’avesse lei non me lo ricordo più. Era innamorata di un uomo, l’aveva appena conosciuto, viveva all’estero. Ogni giorno telefonava a Londra col suo cellulare. Un paziente che poco prima era venuto da me («Per favore, avrebbe una sigaretta?») le si era avvicinato facendole la stessa domanda, al che lei era balzata in piedi, lanciando via l’occorrente per la maglia (stava lavorando a un modello molto particolare, con della lana fine), aveva alzato le braccia e aveva attraversato tutta la sala di corsa: «Non ce la faccio più! Non ce la faccio più! Non lo sopporto più!»

Neanch’io lo sopportavo più, neanch’io ce la facevo più. Ero fe-lice che si fosse messa a correre per la sala e che avesse detto quelle cose. Le aveva dette anche per me, grazie, mia cara, purtroppo è tanto tempo che non ti vedo. Poco prima era arrivata in sedia a ro-telle l’anziana signora con le stampelle, quella che si è buttata dalla finestra ed è sopravvissuta. Era un’intellettuale, non molto attra-ente dal punto di vista fisico, capelli lunghi, sciolti, vestita di scuro,

Page 11: Lasciarsi cadere. Racconto da un mondo minore

9

parlava con calma e ricercatezza, arrabbiata perché nessuno badava a lei, e mi chiedeva le sigarette. Allora io e la donna che lavorava a maglia, quella con l’uomo a Londra, la madre schizofrenica, il fratello schizofrenico, avevamo dato le sigarette alla signora, al che era arrivato quello, che ne voleva anche lui qualcuna, e proprio mentre io stavo per dare di matto, l’altra, più giovane di me, li ave-va gettati via davvero, i ferri e la maglia, e si era messa a protestare.

Che davvero non si sopportava più. La miseria, lo squallore, quelle persone cacciate dalla propria famiglia, fatte ricoverare dal-la moglie o dalla polizia, magari appena uscite da un carcere e finite in una clinica per disturbi mentali, «il mio curatore legale viene oggi pomeriggio, senz’altro le restituirà le sigarette».

«Mi scusi, per favore, avrebbe un euro? Dovrei fare una tele-fonata». Il telefono è un apparecchio primordiale, al piano di so-pra. Due lunghe rampe di scale. Non tutti riescono a salirli, quei gradini. C’è gente talmente fiaccata dalle pastiglie che vorrebbe telefonare, sì, ma lascia perdere. Al nostro piano c’è il telefono dell’ufficio, ma i pazienti non possono usarlo.

A volte, in via eccezionale, un medico, un infermiere o un’infer-miera prestano il loro cellulare.

«Ma solo un attimo».«Certo».Anche il colloquio col medico non può durare molto. («Mi dica

brevemente… mi racconti brevemente…»)Nella terapia occupazionale, al piano di sotto, nel seminterrato,

con uscita sul parco, non per niente il seminterrato è il primo pia-no, il nostro è il secondo, al terzo ci sono il telefono, la geriatria e la palestra, al quarto un reparto uguale a questo, ma senza ricoveri d’urgenza, niente pazienti acuti, solo cronici. Toilette e bagni per uomini e donne in comune. Di sopra non è pulito come qua sotto, l’ho sentito dire da alcune pazienti come me, che hanno cambiato piano perché al secondo servivano letti.

Page 12: Lasciarsi cadere. Racconto da un mondo minore

10

La donna affascinante, quella che lavora a maglia e chiama a Londra col cellulare, dice che la terapia occupazionale è come un asilo d’infanzia. Lei chiama: «Zia…!», quando ha bisogno della psicoterapeuta. Ce ne stiamo seduti ai tavoli, cuciamo, ricamiamo, lavoriamo a maglia, facciamo bricolage, disegniamo, dipingiamo, incolliamo, tagliamo, ma non cantiamo canzoni. Siamo le diligenti lavoratrici forzate dello Steinhof. Alle dieci precise, la mattina, si apre. Prima ce ne stiamo sedute (d’inverno) al freddo dell’ingres-so, su una panchina. Poi si apre. Possiamo entrare nelle sale lumi-nose (luce artificiale), ognuno al suo tavolo. Alcune «zie» girano tra i tavoli, poi tornano a spettegolare, anche loro sembrano molto malate. C’è quella sbadata e autoritaria, i pazienti la temono. C’è quella magrissima, scarnita, coi capelli tinti: blu, verde, rosa, giallo. Segue la moda di quelle che fanno vedere la pancia tra maglietta e pantaloni. Nell’ombelico, credo, ha una pietra preziosa. C’è la sua collega, l’ergoterapista numero tre (ergoterapia è l’altro nome della terapia occupazionale), tatuata dal collo alle caviglie.

Quella severa, sbadata e autoritaria mi sta più simpatica, perché ha la mia età. Quando non riesco a fare qualcosa, lei mi toglie il lavoro di mano e lo finisce. A dire il vero io volevo solo lavorare a maglia. Una sciarpa di lana dietro l’altra. Mentre lavori a ma-glia ti riesce benissimo riflettere, ascoltare, sognare. Fare progetti, ponderare decisioni. Dopo la prima sciarpa, faccio per iniziare la seconda, e la severa dice: «No!!! Un’altra sciarpa?» Allora mi mo-stra uno schema per uncinetto norvegese, lo inizia davanti a me.

«Per me è troppo complicato».«No».«Ma allora cosa vuole fare? Un’altra sciarpa no, non glielo per-

metto!» Certo, avrei potuto insistere dicendo che fare sciarpe, nel mio caso, si era dimostrato un buon metodo per tranquillizzarmi e concentrarmi. Anche se a un certo punto era diventata una di-pendenza, perché mi mettevo a lavorare a maglia per tutti quelli

Page 13: Lasciarsi cadere. Racconto da un mondo minore

11

a cui volevo mostrare il mio affetto: niente lettere o visite, solo sciarpe. Tutti quelli a cui volevo bene ne ricevevano una.

L’ergoterapista dice che potrei cucire un po’. Cucire, dio mio, ma per piacere. Dopo qualche giorno mi porto addirittura la mia macchina per cucire dentro il carrellino per la spesa. Come ho un pianoforte e non suono, così ho anche una macchina per cucire e non cucio. Adesso cucio lenzuola, per settimane. Poi di nuovo qualcos’altro. Un modellino di cartone mi è venuto così così, lo di-pingo in modo che il difetto si veda il meno possibile. Applico la mia arte pittorica, acquisita nell’arco di lunghi anni. Il pagliaccio è venuto davvero carino. Se lo voglio? No, grazie. Allora lo diamo per la mostra di Natale. Negli ospedali psichiatrici, infatti, si orga-nizza un mercatino di beneficenza. I lavori dei pazienti vengono esposti e venduti a prezzi bassi, cioè ragionevoli. Sciarpe di seta, dipinti, maglioni, portacenere, ciotole, figurine, cesti intrecciati, libri rilegati con le pagine bianche e via dicendo.

Un paziente ha dipinto sulla seta un pappagallo. Gli hanno chiesto se voleva portare a casa il suo lavoro. No, grazie, ho già tanta di quella roba, a casa. Poco tempo dopo, a casa, si è buttato dalla finestra, morto. Doveva avere quarant’anni. Snello, media statura, occhiali, sempre triste. Il mercoledì sbucciavamo insieme le patate (la mattina del mercoledì è dedicata alla cucina), lui ave-va un maglione blu e nero, già un po’ liso, una specie di maglione da sci, lo portava quasi sempre. Nel tagliare le patate e nel muo-vere il braccio sulla ciotola la manica cadente finiva sempre tra le patate, allora io gli dicevo di alzare il braccio e lui: «Sì, perché mi si sporca il maglione, grazie». Io invece pensavo che potesse fare un po’ schifo a quelli che poi avrebbero mangiato le patate.

Il giorno prima di morire è venuto con noi a passeggiare, mer-coledì mattina cucina tutti insieme, mercoledì pomeriggio pas-seggiata tutti insieme. Ci ritrovavamo, tutti noi partecipanti all’er-goterapia, poi si partiva. Si andava coi mezzi pubblici in città, o a

Page 14: Lasciarsi cadere. Racconto da un mondo minore

12

Schönbrunn, oppure a piedi da qualche parte vicino. Ci si metteva d’accordo di solito già qualche giorno prima. Così come il «Cosa vogliamo cucinare mercoledì?» veniva pianificato molti giorni prima, si decideva tutti insieme. Chi, come, cosa. Dove andiamo a fare la spesa. Chi porta le zucche, io, io, io!

Se c’è una cosa che so fare è comprare le zucche. E quello che si è ammazzato le aveva comprate il giorno prima. Avevamo cucina-to, poi passeggiata dai padiglioni su fino alla chiesa progettata da Otto Wagner (certo è bella, in lontananza, con la cupola dorata, ricorda Gerusalemme) e poi nel bosco, sulle colline, per i sentieri, passando tra prati e campi, fino al rifugio, alla casetta, là potevamo starcene seduti all’aria aperta, era primavera. Cappuccino, aran-ciata, tè. Quello vicino a me stava zitto. Io lo sapevo che era triste. Anch’io stavo zitta. Ero triste almeno quanto lui. Il giorno dopo, quando mi sono sentita bisbigliare all’orecchio da un’altra pazien-te che era morto, mi sono spaventata, gli ho augurato ogni bene, gli ho fatto i complimenti e l’ho invidiato. Fortuna che non gli ho detto niente, ho pensato. Diceva che le patate crude gli sporcava-no il maglione. Io invece pensavo che facesse un po’ schifo. Meno male che non gliel’ho detto, ho pensato, meno male, meno male, meno male, altrimenti penserei che si è buttato giù per quello.

«Non ti agitare» dico alla donna che mi porta la notizia. «È morto, ce l’ha fatta, non dovrà più vivere da invalido, non sappia-mo perché l’ha fatto, non lo conoscevamo nemmeno, sapevamo solo che stava qui. Io comunque non ho niente da rimproverarmi. Con lui sono sempre stata gentilissima».

«Ma io non sono stata gentile» dice lei. «Io non sono stata gen-tile con lui».

Lei era una di quelle pazienti che non erano gentili con nessu-no, sì, da mesi la vedevo tutta incapsulata in sé stessa, non senza un pizzico di stramberia. E aveva una camminata strana. Durante un altro ricovero, una sera all’improvviso, in refettorio, si mette a

Page 15: Lasciarsi cadere. Racconto da un mondo minore

13

raccontare che si è buttata dal quarto piano e non è morta. Otto mesi di ospedale, ingessata. Aveva subìto abusi sessuali dai geni-tori.

Abusati sessualmente dalla nonna, dal nonno. Sono tantissimi i malati che hanno subìto violenze sessuali. Che non si riprendono più, che hanno sempre paura, sempre dubbi, che si detestano.

Qualche giorno fa arriva una telefonata, un’altra paziente, sui trentacinque anni, inabile al lavoro, sente le voci, abusata sessual-mente da bambina, mi dice: «Brigitte, scusa se non mi sono fatta sentire per un sacco di tempo, ma ho tentato il suicidio e sono stata per un bel po’ in clinica». Uno dei tentativi era stato: parec-chio alcol e ottocento Truxal. In un bosco. L’hanno trovata che era in coma. «Il coma è stato splendido. Vedevo volare sui prati tanti palloncini».

Un critico mi ha scritto dicendomi che non devo parlare di queste cose. I lettori potrebbero essere spinti al suicidio, per il fatto che ne scrivo. Se hai tentato il suicidio, non devi dirlo a nessuno.

Il cibo era buono, l’acqua minerale era buona ma l’hanno tagliata alla fine del 2003, riduzione del budget. Acqua di rubinetto. Ci sono i bicchierini già pronti, andiamo a prendere l’acqua di rubi-netto dalla toilette uomini-donne che utilizza anche il personale. Prima porta uomini, seconda porta donne, terza porta, chiusa a chiave, per il personale. Spesso qualche uomo entra nel bagno del-le donne e viceversa, spesso il sedile del water è bagnato e la tazza non è pulita, qualche volta è piena di carta igienica e di merda, qualche volta la merda esce fuori dalla tazza, sulle piastrelle del bagno, dio mio, pensa a quello che hanno dovuto sopportare gli ebrei, io mi aiuto sempre pensando agli ebrei, gli ebrei nel campo

Page 16: Lasciarsi cadere. Racconto da un mondo minore

14

di concentramento, io invece mi trovo in un campo di concentra-mento superaccogliente, in cui non ti spara nessuno.

È già qualcosa.Ma vogliamo parlare del freddo che c’è là dentro, nell’atmosfe-

ra? Volete pure che qualcuno vi voglia bene? Volete calore umano?Noi malati psichiatrici non ci ammazzano col gas, non ci tortu-

rano coi lavori forzati, non ci picchiano. O comunque solo molto, molto di rado, in momenti di grandissima difficoltà, a qualcuno, magari per sbaglio, può capitare di picchiare un paziente, o anche al paziente di dare uno schiaffo all’infermiera che lo offende.

«Perché l’ha picchiata?» gli domando io. L’infermiera si è allon-tanata. Lui continua a mangiare il suo pranzo.

«Perché non permetto a nessuno di parlarmi con quel tono. Perché è una nazista, una fascista e una troia».

In cuor mio ero contenta che si fosse beccata uno schiaffo. Era l’infermiera che tutti temevano, anch’io. Un giorno un paziente mi ha detto che quella lo aveva chiuso già venti volte nel letto gabbia, allora l’ho accompagnato da lei, era in cucina. «Lei non è un’infermiera» le ho detto, «lei è una donna malvagia! Quando distribuisce il pranzo, me ne dà sempre troppo poco! E resto sem-pre con la fame, quando il cibo me lo dà lei!»

Con un’altra infermiera passavo al tu e un giorno che ho no-minato di sfuggita la sua temuta collega, quella mi ha interrotto: «Non parlare male di (…)! Senza (…) qua non funzionerebbe più niente!» L’infermiera che non ammetteva lamentele sulla sua valida collega un giorno si è presa tre settimane di ferie per andare in psicoterapia. «Se non vado in terapia» ha detto, «finisce che mi ammalo anch’io».

E noi non vogliamo che ciò accada. Dobbiamo restare in forma.

Page 17: Lasciarsi cadere. Racconto da un mondo minore
Page 18: Lasciarsi cadere. Racconto da un mondo minore