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L’ARTE E LA PRIMA GUERRA MONDIALE a cura della prof.ssa maria enza scerrino L’eredità del Risorgimento Nell’Ottocento, l’idea di Nazione era particolarmente cara ai popoli non ancora politicamente uniti, quindi sarà soprattutto in Italia e in Germania che l’idea nazionale troverà molti assertori. La nostra penisola, con i moti popolari e le guerre del Risorgimento ricucì la propria unità territoriale, fra lacrime e sangue, nel 1861 (sebbene la presa di Roma avverrà nel 1870), mentre la Germania, con un percorso meno cruento, si strinse attorno alla Prussia per giungere alla sua unità territoriale quasi dieci anni più tardi, il 18 gennaio 1871, quando nella Sala degli Specchi, a Versailles, Luigi di Baviera dichiarò Guglielmo I imperatore di Germania. Guglielmo I imperatore di Germania( Versailles) Altare della Patria ( Vittoriano) Alla fine del secolo l’eredità del Risorgimento opera ancora, un esempio eloquente, in campo artistico, è il Vittoriano, opera di Giuseppe Sacconi del 1885-1911, dedicata a Vittorio Emanuele II, che diventerà l’Altare della Patria nel 1921 quando accoglierà il Milite Ignoto. Le scelte stilistiche di Sacconi erano in linea con quelle a lui contemporanee, infatti il monumento corrisponde alle scelte classiche dell’epoca e quella nuova architettura rappresentava molto bene gli ideali romantici che si celavano nell’idea stessa di nazione, anche se, quando i lavori saranno ultimati , lo strascico del romanticismo politico era tutto superato e anche le esperienze artistiche erano già cambiate. In Germania c’era già stato l’espressionismo, in Francia c’era il cubismo e in Italia all’Art Nouveau e al divisionismo si era sostituito il futurismo che rappresentava il gusto dominante. Quando Vittorio Emanuele III lo inaugurò, nel 1911, l’opera sembrò molto lontana dalla nuova sensibilità artistica proiettata verso la modernità, ma anche verso la tragedia della prima guerra mondiale.

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L’ARTE E LA PRIMA GUERRA MONDIALE

a cura della prof.ssa maria enza scerrino

L’eredità del Risorgimento

Nell’Ottocento, l’idea di Nazione era particolarmente cara ai popoli non ancora politicamente

uniti, quindi sarà soprattutto in Italia e in Germania che l’idea nazionale troverà molti assertori. La

nostra penisola, con i moti popolari e le guerre del Risorgimento ricucì la propria unità territoriale,

fra lacrime e sangue, nel 1861 (sebbene la presa di Roma avverrà nel 1870), mentre la Germania,

con un percorso meno cruento, si strinse attorno alla Prussia per giungere alla sua unità territoriale

quasi dieci anni più tardi, il 18 gennaio 1871, quando nella Sala degli Specchi, a Versailles, Luigi di

Baviera dichiarò Guglielmo I imperatore di Germania.

Guglielmo I imperatore di Germania( Versailles)

Altare della Patria ( Vittoriano)

Alla fine del secolo l’eredità del Risorgimento opera ancora, un esempio eloquente, in campo

artistico, è il Vittoriano, opera di Giuseppe Sacconi del 1885-1911, dedicata a Vittorio Emanuele II,

che diventerà l’Altare della Patria nel 1921 quando accoglierà il Milite Ignoto. Le scelte stilistiche di

Sacconi erano in linea con quelle a lui contemporanee, infatti il monumento corrisponde alle

scelte classiche dell’epoca e quella nuova architettura rappresentava molto bene gli ideali

romantici che si celavano nell’idea stessa di nazione, anche se, quando i lavori saranno ultimati , lo

strascico del romanticismo politico era tutto superato e anche le esperienze artistiche erano già

cambiate. In Germania c’era già stato l’espressionismo, in Francia c’era il cubismo e in Italia all’Art

Nouveau e al divisionismo si era sostituito il futurismo che rappresentava il gusto dominante.

Quando Vittorio Emanuele III lo inaugurò, nel 1911, l’opera sembrò molto lontana dalla nuova

sensibilità artistica proiettata verso la modernità, ma anche verso la tragedia della prima guerra

mondiale.

Il Vittoriano(Roma)

Lo scacchiere europeo

L’impero austro- ungarico, in uno scacchiere europeo che vedeva una Germania e un’Italia unite,

si presentava allora come un residuo dell’assetto successivo al Congresso di Vienna. E’ vero che

non era l’unico impero d’Europa, se pensiamo che la Germania era un impero e anche l’Inghilterra

aveva creato un impero coloniale, ma quello tedesco riuniva solo tedeschi e quello inglese si

estendeva nel mondo, non nel vecchio continente. Gli ungheresi, invece, così come i boemi e i

bosniaci, non volevano stare con gli austriaci, come pure gli italiani di Trento e Trieste che volevano

riunire il loro territorio a quello della nazione appena nata.

L’assassinio di Sarajevo

Francesco Ferdinando d’Austria e la moglie Sofia

Com’è noto a tutti, ciò che fece precipitare gli eventi fu l’assassinio di Sarajevo, dovuto alla crisi

dei Balcani. Ad armare la mano di Gavrilo Princip, l’omicida, fu l’organizzazione rivoluzionaria nota

come Giovane Bosnia che voleva portare la Bosnia e l’Erzegovina verso l’indipendenza

dall’impero, per unirsi alla Serbia e unire i popoli di lingua e cultura slava. Il 28 giugno 1914,

approfittando della lentezza dell’auto del corteo imperiale su cui erano i sovrani, l’attentatore

esplose due colpi di pistola che colpirono a morte l’arciduca d’Austria Francesco Ferdinando,

erede al trono, e la consorte, la principessa Sophie von Hoenberg. Il fatto provocò la risposta

dell’impero che dichiarò guerra alla Bosnia, innestando una reazione di schieramenti ormai

inevitabili.

I sovrani d’Austria

Cause che provocarono la guerra

La Serbia, infatti, sappiamo che voleva unificare i Balcani. La Russia, da una parte vedeva nella

guerra un modo per distrarre il popolo da quei problemi che da lì a poco sfoceranno nella

rivoluzione sovietica del 1917, dall’altra cercava l’occasione di riprendere in mano la questione

balcanica nella quale aspirava a divenire il punto di riferimento per i paesi di cultura slava, cioè il

Panslavismo. La Francia dal canto suo ancora risentiva della disfatta di Sedan del 1870, quando fu

sconfitta dalla Prussia e vedeva nella guerra l’opportunità di uscire fuori dall’isolamento e stringere

alleanza con la Russia contro la Prussia. La Gran Bretagna a sua volta, anche se da lontano, voleva

ridimensionare il ruolo della Germania perché temeva che potesse assumere un ruolo di guida nel

quadro europeo. Anche la Germania, che mantenne l’alleanza con l’Austria- Ungheria, si voleva

servire della guerra per mantenere l’isolamento della Francia. Per l’Italia il processo fu graduale e,

per un anno, si mantenne fuori dal conflitto mentre già all’interno si delineavano le correnti

interventiste che spingevano a una risoluzione bellica. Queste spinte interventiste erano il risultato di

quella riflessione sull’idea di nazione che era nata nel secolo precedente con l’unità d’Italia e che

non aveva avuto risoluzione perché Trento e Trieste restavano ancora territori dell’Austria.

L’Italia entra in guerra

Il 26 aprile 1915 l’Italia, che in base all’accordo della Triplice Alleanza sarebbe dovuta intervenire a

fianco della Germania e Austria-Ungheria, ottenne, con il patto segreto di Londra, l’impegno della

Triplice Intesa (Francia, Russia, Gran Bretagna) di ottenere, in caso di vittoria, quei territori che

l’Italia rivendicava, non dovendo nulla alla Triplice Alleanza, in quanto non c’erano le condizioni

per schierarsi a fianco perché non era stata l’Austria ad essere attaccata ma ad attaccare per

prima. Per questo motivo il 23 maggio 1915 l’ambasciatore italiano a Vienna, il duca D’Avarna,

consegnò al ministero degli Esteri dell’impero austro-ungarico la dichiarazione di guerra.

La rivista satirica “ l’Asino”

Per capire quanto l’idea che la guerra avrebbe risolto il problema di Trento e Trieste basti pensare

che anche il giornale satirico “ L’Asino”, di fede socialista non potè resistere alla tentazione di

trasformarsi in interventista, scoprendosi anche fascista, per poi assumere nuovamente posizioni

anti-fasciste, cosa che, ovviamente, determinò la sua chiusura nel 1925 quando si delineava già la

dittatura fascista di Mussolini. Il giornale, attraverso l’ironia, rappresentava il sentire della gente, di

tutti quelli che avevano le idee nella testa ma non osavano dire, non per nulla il sottotitolo della

testata spiegava chi era l’Asino, “E’ il popolo: utile, paziente e bastonato”. I fondatori furono, nel

1892, Guido Poldracca e Gabriele Galantara di fede socialista, vicini a Filippo Turati e Andrea

Costa, fondatori, nel 1892, del Partito socialista italiano.

Rivista satirica di Guido Poldracca e Gabriele Galantara 1892

L’interventismo dei Futuristi

I cantori di quel periodo storico furono proprio i futuristi, le idee che alimentavano le scelte

interventiste degli anni della guerra derivavano dal pensiero e dagli slogan futuristi apparsi per la

prima volta il 20 febbraio 1909 sul giornale “Le Figaro”, il più noto, scritto al punto 9, dice: “Noi

vogliamo glorificare la guerra –sola igiene del mondo- il militarismo, il patriottismo, le belle idee per

cui si muore”, come scriveva Filippo Tommaso Marinetti nel Manifesto Futurista, a cui seguì il

“Manifesto Tecnico della letteratura futurista ”che fissa i nuovi canoni della letteratura, che sono:

Bisogna distruggere la sintassi disponendo i sostantivi come nascono

Usare il verbo all’infinito per dare il senso della durata, della continuità della vita

Abolire l’aggettivo, perchè presuppone una pausa, una meditazione

Abolire l’avverbio in quanto conserva alla frase una unità di tono

Abolire la punteggiatura, per indicare le direzioni si utilizzano i segni della matematica e i

segni musicali ( + - = : < >)

Dall’analogia, si passa ad una gradazione di analogie più vaste

All’ordine si contrappone il disordine, all’intelligenza viene sostituita l’intuizione

Bisogna introdurre tre elementi nuovi nella letteratura fino ad allora trascurati: Il rumore- il

peso- l’odore. Bisogna avvicinarsi al nuovo mondo delle macchine.

Dalla distruzione della sintassi si giunge alle “Parole in libertà”

Zang Tumb Tumb, romanzo futurista di Filippo Tommaso Marinetti

Il Futurismo è azione

L’idea dell’azione è insita nel futurismo e la troviamo sia negli studi sul movimento di Umberto

Boccioni e Giacomo Balla che nelle opere di tema politico, come il dipinto di Carlo Carrà “I

funerali dell’anarchico Galli” del 1911 che si trova al MOMA, Museum of Modern Art di New

York. E’ una delle prime opere futuriste di Carrà, in essa emerge un forte dinamismo e la

scomposizione del movimento. L’uso del colore risente della tecnica divisionista di

accostamento di colori complementari. L’azione assordante e tumultuosa si propaga

confusamente sulla tela dove si riconoscono i contorni di figure umane a piedi e a cavallo.

L’episodio rappresentato, di cui Carrà fu testimone, è quello dei tumulti che

accompagnarono i funerali dell’anarchico Galli ucciso durante uno sciopero nel 1904.

I funerali dell’anarchico Galli, Carlo Carrà 1911

Umberto Boccioni

Sempre legato al divisionismo è l’opera “Rissa in galleria” del 1910 di Umberto Boccioni che fa

parte della collezione della Pinacoteca di Brera a Milano. L’opera fu realizzata in una fase

della pittura di Boccioni già idealmente futurista, anche se stilisticamente è ancora lontana

dai moduli futuristi. Il soggetto è una rissa davanti a un caffè della Galleria Vittorio Emanuele II

di Milano. E’ sera e, sotto la luce dei nuovi lampioni elettrici, una folla disordinata si assiepa

intorno alla scena. Il vero soggetto però è più vasto: è la città nella sua interezza che esplode

di modernità e movimento, protagonisti sono la luce e il dinamismo. La luce, prima

protagonista, inonda la scena, vibrante di cromatismi cangianti, fondati sulla tecnica del

divisionismo che aveva appreso da Giacomo Balla. Alla luce si somma il movimento, in una

fusione tra la folla sovraeccitata e la vibrazione della città intorno. Rissa in galleria è una

testimonianza storica di quello che doveva essere il fervore di Milano alle soglie della Grande

Guerra, evidenziando i contrasti di una metropoli in profondo cambiamento.

Rissa in galleria, Umberto Boccioni 1910

Il tema bellico nella pittura

Fu quando scoppiò il conflitto in Europa e coinvolse anche l’Italia che il tema bellico irruppe

nella pittura futurista, la guerra, allora, diventò azione concreta ed è per questo che il pittore

Gino Severini, nel 1915, dipinse la “Sintesi plastica dell’idea guerra” che si trova a Monaco.

L’opera sintetizza in un’unica visione plastica: la presenza dell’aeronautica, nell’ala di un

aereoplano, della marina, nell’ancora di una nave e della fanteria nella ruota di un treno e di

un cannone, mentre all’angolo è la data di inizio della guerra:1914. L’artista si dedicò al

soggetto bellico anche in altre opere che prendevano in considerazione sia l’aspetto eroico

come in “Treno blindato in azione”di stampo futurista, nella tonalità del grigio-verde, richiamo

ai soldati, e nelle superfici spezzettate che danno dinamismo alla pittura, ma anche in opere

a soggetto umanitario e più intimista come nell’opera “Il treno dei feriti” del 1915 che,

nonostante la forte stilizzazione futurista , lascia intravedere il soggetto attraverso segni ben

definiti come la Croce rossa o il velo delle infermiere crocerossine.

Treno blindato in azione (G. Severini) Sintesi plastica dell’idea guerra (Severini) Il treno dei feriti (Severini)

La Prima guerra mondiale “Guerra moderna”

Il primo conflitto mondiale fu la prima guerra moderna, non solo perché vennero utilizzati

mezzi inediti come gli aerei dell’aviazione o i sottomarini della marina e ordigni nuovi come le

bombe a mano, le mine e i gas nervini, ma perché fu documentata con le fotografie e i

filmati. Tutte le nazioni si dotarono di raccolte documentarie, anche l’Italia. Le fotografie

ritraevano i soldati al fronte, in trincea nei momenti di guerra, oppure gli effetti dei

bombardamenti o le cerimonie ufficiali. Oltre a questo mezzo di ripresa, il conflitto fu seguito

da mezzi di informazione come le riviste. Fra queste fu importante la rivista “La Tradotta,

giornale settimanale della III Armata”, che utilizzava il mezzo delle vignette con il commento o

il dialogo per fare satira sulle vicende della guerra. I disegnatori erano quelli che avevano

dato vita al” Corriere dei Piccoli” e che adesso mettevano la loro arte a disposizione

dell’ideale patriottico per sostenere il morale dei militi e fare una bonaria satira politica.

L’ironia ebbe un ruolo importante nella diffusione del messaggio politico, legato alla

propaganda delle idee della prima guerra mondiale.

F

Giornale settimanale della III Armata Maschere antigas

Ritrattisti di guerra

Accanto all’illustrazione e alla stampa periodica ci fu una larga produzione artistica tesa a

documentare le vicende belliche e la condizione di vita dei soldati. Fra gli artisti più efficaci

nella rappresentazione, quasi fotografica, ci fu il pittore Lodovico Pogliaghi, che si formò

all’Accademia di Belle Arti di Brera. Era stato tra i protagonisti della decorazione del Vittoriano

e, all’età di quasi 60 anni, non esitò a partire per il fronte, arruolandosi come soldato- pittore e

seppe documentare le vicende sul fronte orientale, come mostra la bella tela “Postazione

degli alpini sulle Alpi durante la prima guerra mondiale”, oggi al Museo del Risorgimento al

Vittoriano, realizzato con un’attenzione quasi miniaturistica.

Postazione degli alpini sulle Alpi, Lodovico Pogliaghi (disegno) Alpini sulle Alpi (fotografia)

Mario Sironi, pittore-soldato

Il più importante fra i pittori-soldati fu Mario Sironi, che ritrasse commilitoni e ufficiali disegnati a

matita o colorati ad acquerello. Egli utilizza anche la caricatura, realizzata con un tratto

graffiante e incisivo che a volte utilizza anche per creare personaggi nuovi, come la

“Scimmietta di Montallo,” satirica rappresentazione del soldato austriaco, accostato a una

scimmia furba e dispettosa, ma ciecamente rispettosa degli ordini, incubo delle truppe

italiane che si dovevano guardare dalla precisione dei cecchini.

Mario Sironi Chiaro di luna Mario Sironi La scimmietta di Montallo

Mario Sironi, come tanti altri futuristi, il 23 maggio 1915, giorno della dichiarazione di guerra, si

arruolò nel Battaglione volontario ciclisti. Ben presto abbandonò il rigore futurista e cominciò

ad affiorare in lui una graffiante ironia che lo renderà celebre fra i soldati. Egli utilizzò tutte le

tecniche artistiche, dalla china alla xilografia, al collage, all’olio, alla tempera, fino ad arrivare

alla realizzazione delle vignette satiriche, come quella intitolata “Chiaro di luna” fatta per il

periodico “Gli avvenimenti”, che raffigura l’imperatore d’Austria Francesco Giuseppe con il

feldmaresciallo tedesco che, come due innamorati, si abbracciano su una panchina al

chiaro di luna, non accorgendosi che la falce nel cielo è quella della Morte che tiene la

rancola dietro di loro. L’immagine sintetizza la miopia delle scelte austriache e tedesche. I

personaggi scambiano per una romantica luna la falce che la morte ha levato al cielo in un

movimento che precederà quello che reciderà (metaforicamente) le loro teste.

L’arte dei vincitori

Il Vittoriano Monumento ai caduti Madonna della salute Monumento ai caduti Favara

Il giorno 4 novembre del 1918, alle ore 12,00, il generale Armando Diaz, capo del comando

supremo dell’esercito italiano, diramò il bollettino della vittoria che iniziava con queste

parole:” La guerra contro l’Austria-Ungheria che, sotto la guida di S.M. il Re, l’Esercito italiano,

inferiore per numero e mezzi, iniziò il 24 maggio 1915 e con fede incrollabile e tenace valore

condusse ininterrotta ed asprissima per 41 mesi, è vinta”. Fu per la giovane nazione italiana il

coronamento di un sogno, la gioia fu unanime e, inevitabilmente, le premesse romantiche

della “religione della patria” ebbero dei riflessi sulla produzione artistica post bellica. Il primo

gesto fu la trasformazione, nel 1921, del Vittoriano, in sacrario al Milite Ignoto, facendolo

diventare l’Altare della Patria. Fu così che, su questo esempio, ogni città, ogni borgo della

Nazione volle ricordare i propri eroi con piccoli o grandi monumenti ai caduti che

punteggiano, come fiori su un prato, il suolo sacro della penisola. Furono così coinvolti artisti e

architetti di varia estrazione, tutti uniti da un comune intento celebrativo.

I Monumenti ai Caduti in Italia

Le tipologie furono le più varie, dal semplice obelisco con lo stemma della città a un

monumento vero e proprio, come quello di Maser vicino Treviso, del 1923, di Angelo Rossetto,

che rappresenta un’allegoria della Patria e del Caduto collocate su schegge di roccia che

alludono alle Alpi. Questo è un modello che ebbe notevole successo lungo la penisola, o

come quello di Vincenzo Jerace a Veroli (Frosinone) in cui il monumento è stato trasformato in

una fontana con l’allegoria della Patria che dà da bere al soldato che accoglie la sua

acqua, per dire come “solo il sacrificio per la patria può togliere la sete di giustizia e di vittoria

alla quale anelano gli italiani”. E così da nord a sud ogni paese ebbe il suo sacrario che, nella

versione più semplice fu la lastra di marmo con i nomi dei caduti composti in lettere di bronzo

o incisi nel marmo

Monumento ai caduti Maser , Angelo Rossetto Monumento ai Caduti Ostuni

Il Monumento ai Caduti di Castelbuono

Anche Castelbuono ha voluto onorare i propri caduti con un monumento imponente

collocato nel centro della Piazza Parrocchia, all’interno di una villetta circondata dal verde

degli alberi e da una ringhiera in ferro in stile liberty su cui è posta una targa dove si legge:

“Rosario e Giuseppe Marzullo fu Raimondo, quale umile omaggio ai martiri della nuova

religione della Patria diletta, 1927”. Sono i nomi dei committenti, il monumento è stato

realizzato dallo scultore palermitano Antonio Ugo nel 1927 e rappresenta la statua bronzea di

un milite che in una mano impugna il pugnale , mentre con l’altra mostra, levata, una vittoria

alata verso cui è rivolto il suo sguardo fiero. Accanto alla scultura si trova un vecchio

cannone appartenuto all’esercito austriaco, che porta la data 1916. Molti furono i soldati

castelbuonesi, caduti nella guerra, che non fecero più ritorno alle loro case, fra questi alcuni si

distinsero e meritarono di essere ricordati particolarmente attraverso l’intitolazione di alcune

vie di Castelbuono con i loro nomi, fra questi il Capitano Pietro Di Garbo, il Tenente Ernesto

Forte, Il Tenente Luigi Cortina, il Tenente Giovanni Schicchi i cui nomi sono incisi nella lapide.

Monumento ai Caduti Castelbuono 1927 Antonio Ugo Lapide dei Caduti della Prima Guerra mondiale( Castelbuono)

Il lungo elenco dei caduti della Grande Guerra trova posto nel Palazzo Comunale, in una

lapide di marmo su cui sono incisi i nomi di tutti i nostri soldati morti nel primo conflitto

mondiale. Ogni anno, il 4 novembre, il popolo di Castelbuono commemora questo evento

con un corteo che, dalla Casa Comunale e accompagnato dalla Banda, depone una

corona davanti al monumento per ricordare e tenere viva la memoria di ciò che è stato e di

tutti coloro che hanno lasciato al fronte la loro giovane vita, come viene narrato in una

pagina della “ Trementina” scritta da Angela Sottile nel giornale “Supra u ponti, ”maggio 2012.

Testo:

Un gigante solitario, testa alta. Cuore alto. Il respiro basso e lento.

La voce muta.

Vincenzo non parla più. Non parla di quello che ha visto nè di quello che ha perso. Non ha

motivo di farlo perchè la sua storia è scritta in ogni muscolo di quel corpo di bronzo e di pelle

indurita dalla fatica, incisa dalle lance, segnata dalle scaglie appuntite di una o cento o mille

bombe a mano. La si può leggere dal collo al fianco, dall’ombelico al piede; scorre violenta

dentro le vene portando con sè parole naufraghe, scorre come l’Isonzo e le sue furie, gli stivali

pieni d’acqua rossa, gli schizzi sui visi accesi, la calma sui visi spenti.

Le gocce di quell’acqua amara scivolano ancora e per sempre, attraversano un corpo

vestito di coraggio. Nel silenzio di un giardino, nel cuore di un anziano, dentro uno spazio di

umanità sacra, nascono e crescono i fiori della storia. Di seta e di spine. Reperti di vita e di

morte. La fontana suona una musica lontana: se l’ascolti, senti le trombe, senti gli inni, senti i

tamburi.

Matteo era alto ed era sposato. Quel giorno, come tutti gli altri giorni, il riflesso della luce nei

suoi occhi aveva la forma di sua moglie. E mentre il fumo violento di un’esplosione lo investiva,

lui sentiva non il puzzo della carne bruciata, non l’odore acre del sudore che evaporava dalle

divise, ma un profumo fresco di donna, tra i panni puliti, un profumo di sapone di marsiglia e di

minestrone caldo.

Tra i cespugli un cannone. Belva fredda, pesante, dalla proboscide di metallo e il respiro di

ruggine, dentro la gabbia nel giardino delle promesse diplomatiche.

Giuseppe era un muratore. Ovunque andava, portava con sè il suo innato senso pratico,

conservato in una valigia degli attrezzi e in un cappellino parasole. Aveva delle mani grandi e

callose, forti come i muri che innalzava. E mentre crollavano i muri di quella stanza di

ospedale abbandonato, dove lui e qualche altro soldato improvvisato avevano trovato

riparo, pensò che quelle pareti di pastafrolla, lui, le avrebbe costruite sicuramente meglio.

Rosario era padre. Per un mese o poco più. Poi il cartellino, le lacrime, le carezze intense, un

addio, un arrivederci. La porta chiusa nel silenzio di un’alba arrivata troppo presto. La

camminata inerte e lo sguardo inerme di chi non ha scelta. Poi la sagoma di una casa e di un

paese lasciati alle spalle, ingoiata dall’orizzonte; vomitata da un altro orizzonte in un giorno

senza data, come dono ultimo, riverbero di memoria, in onore di una vita inciampata per

strada.

Antonio aveva finito gli studi; aveva sedici anni. Gli piaceva leggere: con sè, dentro lo zaino

militare, aveva un libro di poesie divorato da una lettura curiosa e avida. Il fisico atletico, i

muscoli freschi, i capelli lisci e i brufoli sulla fronte. Una voglia di superarsi e superare ogni

confine. Di superare, anche, geograficamente, il confine. Per sentirsi grande, per sentirsi utile.

Per sentirsi eroe. E quel brivido che gli aveva attraversato la schiena, il giorno della partenza,

quando, trasferiti tutti i sogni del cassetto in una sacca di tela, aveva oltrepassato la soglia di

casa e iniziato il suo avventuroso viaggio, quello stesso, identico, brivido, lo aveva sentito

attraversargli la schiena a un giorno dal ritorno. Come formiche o api o termiti sottopelle. Solo

più caldo, più umido. Più violento. A un giorno da sua madre.

Il gigante solitario sta. Semplicemente, è. Lo sguardo netto, deciso. E’ uomo. E’ fantasma. E’

ricordo. Eroe senza nome. Si erge, monumentale, portando in mano una vittoria che, prima

che dei popoli o delle fazioni, è dell’umanità intera. La vita, libera. Quella evoluzione del

cammino che fa sì che i fili spinati e le trincee diventino inferriate di metallo, che l’acqua di un

fiume di confine diventi allegro zampillare, che le torrette di avvistamento siano, adesso,

basamento e altare, che le nuvole di fumo nero siano cespugli fioriti, che i rumori della guerra

siano pacifico cinguettare. Che sia sempre accesa la fiamma del ricordo. Che bruci e

perturbi l’aria quando è troppo ferma.

La vita insegna a saper morire. La morte insegna a saper vivere.

Antonio Ugo, Monumento ai Caduti

scultura in bronzo, 1927

Piazza Parrocchia, Castelbuono

La voce dei poeti nella prima guerra mondiale

Un avvenimento come la guerra del 1915-18 non poteva essere posta sotto silenzio dai poeti

che l’hanno vissuta direttamente o indirettamente, perciò molti sono quelli che hanno scritto

in materia, cogliendone i vari aspetti secondo il proprio modo di sentire e la propria indole.

Le liriche più note sono certamente quelle di Giuseppe Ungaretti. In tema sono perciò “Sono

una creatura” in cui le immagini di un monte imprendibile come il “Monte San Michele”, dove

la vita di trincea si alternava a battaglie sanguinose, si connettono al sentimento di lenta

agonia che si concretizza nella frase finale: “La morte/ si sconta/ vivendo.” In “San Martino del

Carso”, invece, lo spettacolo del paese devastato suggerisce a Ungaretti il paragone con il

proprio cuore in cui “nessuna croce manca”. In “Fiumi,” infine, ancora sulla vita di trincea, il

poeta, abbandonato in una dolina, ripercorre la sua vita attraverso il ricordo dei fiumi che gli

sono stati vicini.

Giuseppe Ungaretti Giuseppe Ungaretti soldato

SONO UNA CREATURA

Valloncello di Cima Quattro il 5 agosto 1916

Come questa pietra

Del S. Michele

Così fredda

Così dura

Così prosciugata

Così refrattaria

Così totalmente

Disanimata

Come questa pietra

È il mio pianto

Che non si vede

La morte

Si sconta

Vivendo.

Il poeta paragona sé alla dura e fredda pietra del monte S. Michele. Come la roccia del

monte è prosciugata e senz'anima così il pianto del poeta stenta a trovare sfogo nelle

lacrime. Ecco il commento di F. Puccio:

«La forza interiore e la calda umanità di un uomo che dinnanzi alle brutture della guerra non ha mai smesso di amare

e di vivere in sé il dolore altrui; la storia di un uomo che ha assimilato sul corpo e sullo spirito le forme del paesaggio

carsico. Un paesaggio arido, brullo, arso, impermeabile e disumanizzante che gli è rimasto scolpito nel cuore e gli ha

prosciugato anche le lagrime per piangere» (pag. 444-445).

SAN MARTINO SUL CARSO

Valloncello dell’albero isolato il 27 agosto 1916

Di queste case

Non è rimasto

Che qualche

Brandello di muro

Di tanti

Che mi corrispondevano

Non è rimasto

Neppure tanto

Ma nel cuore

Nessuna croce manca

È il mio cuore

Il paese più straziato

In questa poesia il poeta esprime tutto il suo dolore per la perdita dei commilitoni e lo strazio

per la rovina di cui è testimone. A ogni assenza, a ogni voragine procurata dai combattimenti,

corrisponde una cicatrice indelebile nel suo cuore.

VEGLIA

Cima Quattro il 23 dicembre 1915

Un’intera nottata

Buttato vicino

A un compagno

Massacrato

Con la bocca

Digrignata

Volta al plenilunio

Con la congestione

Delle sue mani

Penetrata

Nel mio silenzio

Ho scritto

Lettere piene d’amore

Non sono mai stato

Tanto

Attaccato alla vita.

Il poeta ha accanto un soldato morto, con le mani congelate e la bocca digrignante volta

verso la luce della luna. Nonostante questa situazione penosa e terrificante, il poeta scrive

una lettera d’amore, attaccato alla vita come non mai. Nella drammaticità della situazione,

percepisce solo la propria volontà di vivere, che prevale su tutto. Anche questa consuetudine

con la tragedia induce una riflessione sull'umanità/disumanità della situazione.

Luciano Folgore, pseudonimo di Omero Vecchi, poeta futurista, è autore di “Sveglia

sentinella,” poesia che rende molto bene, con i suoi versi brevi e ritmati, la sensazione di chi

lotta per il sonno.

Sveglia Sentinella (Luciano Folgore)

Sentinella notturna

lassù

taciturna

sopra la roccia scabra.

Vent’anni,

viso bianco,

occhi di fanciullo febbrile,

e la mano che stringe

il fucile;

e il pensiero che si perde

nell’immensità della notte.

Stanchezza di piombo

per tutte le membra

dopo un giorno di lotte.

Trincea

Il sonno è d’intorno

morbidamente muto

come un tentatore velluto

che accarezza le palpebre.

Passano lembi di visione

dinanzi alle pupille

pesanti,

figure oscillanti,

profili sonnolenti,

tormenti di visi

che non si definiscono

mai.

Ecco i velari del sogno!

Troppo dolce dormire

anche su letti di pietra!

Gambe che s’abbandonano

sotto fardelli di torpore...

ma uno stormire d’abeti,

ma un fresco di vento

che palpita fra due’

capelli biondi,

snebbia un istante

Breve canzoniere di guerra

la pesantezza accasciante

e un brivido di volontà

ridà

la rigidità

alla sagoma snella

di questa sentinella

della Patria.

Il nemico è là dietro.

Bisogna guardare,

bisogna ascoltare,

lucidamente.

Ma ancora il fumo del sonno

che monta.

Stelle filanti nei cieli,

veli di verde lontano,

pensieri e frammenti:

sua madre che veglia...

il pozzo

un singhiozzo...

quel compagno caduto...

con una palla in fronte...

due bimbi in un cortile

Trincea

del paese...

un vaso di maggiorana...

e lei... lontana...

vestita di bianco...

fresca come una fontana...

Oh, finalmente!

Scalpiccii

rotolii di sassi

parole sconnesse;

bisbigli:

un altro prende il tuo posto

e tu che discendi a dormire

con un saluto all’Italia

laggiù.

Una chiara ripulsa alla guerra è la lirica di Corrado Alvaro “A un compagno,” in cui il poeta

chiede a un commilitone di scrivere per lui una lettera ai propri genitori quando sarà morto. La

frase “che mi seppelliranno con tanta /carne di madre in compagnia” ben rappresenta, nella

sua crudezza, la ferocia del combattere. Questo testo mostra il coraggio di denunciare la

mostruosità della guerra, anche la più giusta e per le motivazioni più nobili.

A un compagno (Corrado Alvaro)

Se dovrai scrivere alla mia casa,

Dio salvi mia madre e mio padre,

la tua lettera sarà creduta

mia e sarà benvenuta.

Così la morte entrerà

e il fratellino la festeggerà.

Non dire alla povera mamma

che io sia morto solo.

Dille che il suo figliolo

più grande, è morto con tanta

carne cristiana intorno.

Breve canzoniere di guerra

Se dovrai scrivere alla mia casa,

Dio salvi mia madre e mio padre,

non vorranno sapere

se sono morto da forte.

Vorranno sapere se la morte

sia scesa improvvisamente.

Dì loro che la mia fronte

è stata bruciata là dove

mi baciavano, e che fu lieve

il colpo, che mi parve fosse

il bacio di tutte le sere.

Dì loro che avevo goduto

tanto prima di partire,

che non c’era segreto sconosciuto

che mi restasse a scoprire;

che avevo bevuto, bevuto

tanta acqua limpida, tanta,

e che avevo mangiato con letizia,

che andavo incontro al mio fato

quasi a cogliere una primizia

per addolcire il palato.

Dì loro che c’era gran sole

pel campo, e tanto grano

che mi pareva il mio piano;

che c’era tante cicale

che cantavano; e a mezzo giorno

pareva che noi stessimo a falciare,

con gioia, gli uomini intorno.

Dì loro che dopo la morte

è passato un gran carro

tutto quanto per me;

che un uomo, alzando il mio forte

petto, avea detto: Non c’è

uomo più bello preso dalla morte.

Che mi seppellirono con tanta

tanta carne di madri in compagnia

sotto un bosco d’ulivi

che non intristiscono mai;

che c’è vicina una via

ove passano i vivi

Breve canzoniere di guerra

cantando con allegria.

Se dovrai scrivere alla mia casa,

Dio salvi mia madre e mio padre,

la tua lettera sarà creduta

mia e sarà benvenuta.

Così la morte entrerà

e il fratellino la festeggerà.

Croci di legno ( Diego Valeri)

Croci di legno, nude su la nuda,

terra che copre i morti nella gloria;

croci che la battaglia e la vittoria

pianta con le bandiere ovunque va;

siepe di croci a guardia d’una gente,

trincee di tombe a guardia d’un amore;

croci di legno confitte nel cuore,

di tutta la straziata umanità

Viatico (Clemente Rebora)

O ferito giù nel valloncello,

tanto invocasti

se tre compagni interi

cadder per te che quasi più non eri,

tra melma e sangue

tronco senza gambe

e il tuo lamento ancora,

pietà di noi rimasti

a rantolarci e non ha fine l’ora,

affretta l’agonia,

tu puoi finire

e conforto ti sia

Trincea

nella demenza che non sa impazzire,

mentre sosta il momento,

il sonno sul cervello,

lasciaci in silenzio

Grazie, fratello.

Gabriele D’Annunzio scrive della guerra nei “Canti della guerra latina,” malgrado abbia

partecipato attivamente al conflitto, le sue liriche però non ebbero molta presa, forse perchè

troppo ridondanti e perciò di non grande immediatezza. La sincerità di sentimenti del poeta è

evidente nel “Cantico per l’ottava della vittoria” in cui il poeta esprime l’amarezza per una

vittoria mutilata e la volontà della riscossa presente nella Canzone di Sernaglia “Ma se

nessuno grida, io grido. Oserò se altri non osa” che lo porterà all’impresa di Fiume.

Infine la “Leggenda del Piave” di Giovanni Gaeta. Il poeta ebbe l’ispirazione per questo inno

quando il Presidente del Consiglio, Vittorio Emanuele Orlando, narrando che il Piave aveva

lasciato passare gli italiani nel 1914, esclamò: “Anche il Piave è con noi”. Questo inno fu il solo

ad accompagnare la salma del Milite Ignoto alla sua ultima dimora in Campidoglio

Trasporto della salma del Milite Ignoto al Campidoglio(Roma)

La leggenda del Piave, analisi del testo

I STROFA:

Il Piave: “NON PASSA LO STRANIERO”.

2. STROFA:

Ma: “RITORNA LO STRANIERO”.

3. STROFA:

E: “INDIETRO VA’ STRANIERO!”

4. STROFA:

E NE’ OPPRESSI, NE’ STRANIERO

Nella notte tra il 23 e il 24 maggio del 1915 l’Italia entrava in guerra: era l’occasione per

completare il processo di unità nazionale e liberare il Trentino e la Venezia Giulia dal dominio

austriaco. Il nostro esercito, nel marciare coraggioso e silenzioso verso la frontiera con l’Austria,

passò sul fiume Piave, che espresse poeticamente la sua gioia con il tripudio delle onde.

24 ottobre del 1917, il nemico ruppe il fronte orientale italiano a Caporetto; tutte le nostre forze

ebbero l’ordine di arretrare onde evitare l’accerchiamento. Le perdite furono pesanti e ad esse si

accompagnarono le polemiche.

Si dovettero richiamare le riserve e arruolare i giovani di 18 anni, classe 1899, che per il valore ed il

coraggio dimostrato meritarono l’appellativo di “classe di ferro”. Il Piave divenne il simbolo della

Patria che fu difesa con rinnovata determinazione sotto la guida del Gen. Armando Diaz.

Immagini di soldati sul Piave

Il Piave (1) mormorava

calmo e placido al passaggio

dei primi fanti il 24 maggio: (2)

l’esercito marciava

per raggiunger la frontiera

e far contro il nemico (3) una barriera....

Muti passaron quella notte e fanti

tacere bisognava e andare avanti!

S’udiva intanto dalle amate sponde,

sommesso e lieve il tripudiar (4) dell’onde

Era un presagio (5) dolce e lusinghiero (6)

il Piave mormorò:

"Non passa lo straniero!"

Ma in una notte trista (7)

si parlò di un fosco evento (8)

e il Piave udiva l’ira e lo sgomento (9)

Ahi quanta gente ha vista

venir giù lasciare il tetto

poi che il nemico irruppe a Caporetto (12)

Profughi ovunque! Dai lontani monti

venivano a gremir tutti i suoi ponti (13)

S’udiva allo dalle violate (14) sponde

sommesso e triste il mormorio de l’onde:

come un singhiozzo in quell’autunno nero

Il Piave mormorò :

"Ritorna lo straniero!"

E ritornò il nemico

per l’orgoglio e per la fame: (15)

volea sfogare tutte le sue brame (16)

vedeva il piano aprico (17)

di lassù voleva ancora

sfamarsi e tripudiare (18) come allora

"No" disse il Piave "No" dissero i fanti

"Mai più il nemico faccia un passo avanti!"

Si vide il Piave rigonfiar le sponde!

E come i fanti combattevan l’onde

Rosso del sangue del nemico altero (19)

Il Piave comandò:

"Indietro va straniero!"

Indietreggiò il nemico

fino a Trieste, fino a Trento

e la Vittoria sciolse le ali al vento

Fu sacro il patto antico: (20)

tra le schiere furon visti

risorgere Oberdan, Sauro, Battisti (21)

L’onta cruenta e il secolare errore

infranse alfin l’italico valore (22)

Sicure l’Alpi libere le sponde

E tacque il Piave: si placaron l’onde

Sul patrio suolo, vinti i torvi imperi (23)

la pace non trovò

né oppressi né stranieri .

Note:

1 Sul Piave si fermarono le truppe italiane dopo la disfatta di Caporetto e qui si organizzò l’offensiva

finale

2 E’ il 24 maggio del 1915 quando le prime truppe italiane varcarono il confine ed ebbero inizio le

ostilità contro l’Austria

3 il nemico : gli Austriaci

4 lo sciacquio delle onde sembra un rumore festoso

5 presagio : presentimento

6 lusinghiero : piacevole, allettante

7 trista: sventurata

8 fosco evento: oscuro Si riferisce alla ritirata di Caporetto del 24 ottobre 1917 quando le truppe

austro-tedesche sfondarono il fronte italiano nell’alta Valle dell’Isonzo

9 l’ira e lo sgomento : la rabbia per la sconfitta e lo sgomento per dover abbandonare le loro case

e le loro terre

10 soldati e popolazione civile scendono dalle valli invase

11 il tetto: la propria casa

12 Caporetto: cittadina ai piedi del Monte Nero a nord di Gorizia

13 i profughi si affollavano sui ponti per attraversare il fiume e riparare al sicuro

14 violate : profanate dal ritorno dello straniero

15 gli Austriaci erano spinti dall’orgoglio di riconquistare le terre da cui erano stati cacciati durante

le guerre di indipendenza, ma anche dalla fame; gli Imperi Centrali infatti circondati da nazioni

nemiche, scarseggiavano di viveri

16 vendicarsi delle sconfitte e rialzare il proprio prestigio

17 piano aprico: la pianura aperta esposta al sole

18 tripudiare: esultare

19 altero: orgoglioso e superbo

20 fu esaudita la speranza dei patrioti e dei martiri dell’unità d’Italia

21 riferimento ai patrioti Guglielmo Oberdan morto nel 1882 , Nazario Sauro e Cesare Battisti

uccisi nel 1916

22 il valore dei soldati italiani abbatte la secolare dominazione straniera

23 dopo aver vinto gli Imperi Centrali non vi sono più stranieri in Italia e nemmeno oppressi

La canzone del Piave, conosciuta anche come La leggenda del Piave, è una delle più celebri

canzoni patriottiche italiane. Il brano fu scritto nel 1918 dal maestro Ermete Giovanni Gaeta (noto

con lo pseudonimo di E.A. Mario).

Durante la seconda guerra mondiale, dopo l'armistizio dell'8 settembre 1943, il governo italiano la

adottò provvisoriamente come inno nazionale, in sostituzione della Marcia Reale[1][2]. La

monarchia italiana era infatti stata messa in discussione per aver consentito l'instaurarsi della

dittatura fascista[3]. La canzone del Piave ebbe la funzione di inno nazionale italiano fino al 12

ottobre 1946, quando fu sostituita da Il Canto degli Italiani di Goffredo Mameli e Michele

Novaro[4].

Il testo

Le quattro strofe - che terminano tutte con la parola "straniero" - hanno quattro specifici argomenti:

1. La marcia dei soldati verso il fronte (appare come una marcia a difesa delle frontiere,

mentre fu l'Italia ad attaccare l'impero asburgico)

2. La ritirata di Caporetto

3. La difesa del fronte sulle sponde del Piave

4. L'attacco finale e la conseguente vittoria

Nella prima strofa, il fiume Piave assiste al concentramento silenzioso di truppe italiane, citando la

data dell'inizio della Prima guerra mondiale per il Regio Esercito italiano. Ciò avvenne la notte tra il

23 e 24 maggio 1915, quando L'Italia dichiarò guerra all'Impero austro-ungarico e sferrò il primo

attacco contro l'Imperial regio Esercito, marciando dal presidio italiano di Forte Verena

dell'Altopiano di Asiago, verso le frontiere orientali. La strofa termina poi con l'ammonizione: Non

passa lo straniero, riferita, appunto, agli austro-ungarici.

Tuttavia, come racconta la seconda strofa, a causa della disfatta di Caporetto, il nemico cala fino

al fiume e questo provoca sfollati, profughi da ogni parte.

La terza strofa racconta del ritorno del nemico con il seguito di vendette di ogni guerra, e con il

Piave che pronuncia il suo "no" all'avanzata dei nemici e la ostacola gonfiando il suo corso, reso

rosso dal sangue dei nemici. Benché arricchita di spunti patriottico-retorici, l'improvvisa e copiosa

piena del Piave costituì davvero un ostacolo insormontabile per l'esercito austriaco, ormai agli

sgoccioli con gli approvvigionamenti e il sostegno di truppe di riserva.

Nell'ultima strofa si immagina che una volta respinto il nemico oltre Trieste e Trento, con la vittoria

tornassero idealmente in vita i patrioti Guglielmo Oberdan, Nazario Sauro e Cesare Battisti, tutti

uccisi dagli austriaci.

Lettere dal fronte

Lettera del caporale francese Henry Floch

alla moglie(1917)

Mia cara Lucia,

Quando questa lettera ti sarà pervenuta, io sarò morto fucilato. Ecco perché:

Il 27 novembre, verso le 5 di sera, dopo due ore di violento bombardamento, in una trincea della

prima linea, mentre stavamo finendo la nostra zuppa, dei tedeschi sono penetrati nella trincea e

mi hanno fatto prigioniero con due miei compagni.

Io sono riuscito ad approfittare di un momento di rissa e di disordine per scappare dalle

mani dei tedeschi.

Ho poi seguito i miei compagni e ho raggiunto le nostre linee. A causa di ciò, sono stato accusato

di abbandono del posto in presenza di nemici.

Siamo passati in ventiquattro davanti al Consiglio di Guerra. Sei sono stati condannati a morte, tra

questi sei ci sono io. Non sono più colpevole degli altri, ma c’è bisogno di un esempio.

Il mio portafogli ti arriverà con quello che c’è dentro.

Ti devo fare i miei ultimi saluti in fretta, con le lacrime agli occhi, l’anima in pena. Io ti domando

umilmente in ginocchio perdono per tutta la tristezza che ti causerò e per l’imbarazzo nel quale ti

metterò….

Mia piccola Lucia, ancora una volta, scusa.

Mi confesserò all’istante e spero di rivederti in un mondo migliore.

Muoio innocente del crimine di abbandono del posto che mi è imputato. Se invece di scappare

fossi rimasto prigioniero dei tedeschi, avrei avuto la vita salva. E’ il destino.

Il mio ultimo pensiero è a te, fino alla fine.

Henry Floch

LETTERA DI UN SOLDATO IN TRINCEA.

22 luglio 2014 alle ore 7:30

Caro padre,

sono qui in trincea, sull’Ortigara, ormai da dieci giorni. Le condizioni di vita sono durissime e il clima

invernale qui è molto rigido. Il generale Cadorna con noi è molto severo, non fa che darci

comandi. Se qualcuno non li svolge come vien detto, subito una fucilata al petto. Questo

accadde al mio migliore amico Emilio che aveva ammutinato ai comandi del generale. Questi,

livido dalla rabbia, impugnò il suo fucile e me lo diede costringendomi ad ucciderlo. Perché

dovevo farlo? Era il mio migliore amico. L’unico amico con cui strinsi una vera amicizia. Ci

aiutavamo a vicenda e durante le freddi notti in trincea ci raccontavamo il resoconto della

giornata, paure e segreti. A volte, la quieta atmosfera notturna in trincea si interrompeva con le

nostre risate. Oh, che momenti indimenticabili avevo vissuto con Emilio. Immaginavamo la fine di

questo interminabile conflitto, immaginavamo un futuro migliore, immaginavamo che una volta

rientrati in patria avremmo aperto un ristorante, si, l’avremmo chiamato l’Italia Vincitrice! Perché è

questo il sogno di ogni italiano! Un sogno che vede soldati italiani riprendersi i territori persi durante

le lunghe e sanguinose battaglie precedenti, un sogno che vede la scacciata degli Stranieri da

una terra che non gli è madre, un sogno che vede finalmente l’Italia unita!

Non volevo farlo,ma non avevo altra scelta. Impugnai il fucile, puntai. Un rimbombo frastornate

echeggiò su tutto il fronte. Emilio era morto. Vedevo il suo fragile corpo accasciarsi. La sua

immacolata camicia bianca era ormai sporca di sangue. Era il sangue di un innocente. In un primo

momento, sentii come un pugnale invisibile perforare la mia anima, solo in quell’attimo mi resi

conto che avevo ucciso anche una parte di me.

Bravo! mi disse Cadorna. Questo è il giusto comportamento di un vero soldato!. Ma non ero affatto

felice. Una volta che tutti lasciarono il campo, mi diressi da Emilio. Non volevo lasciarlo. Presi il suo

corpo ormai in fin di vita. Non molto lontano dal fronte scavai una piccola fossa; lì ci deposi Emilio.

In quel momento, insieme al suo corpo, seppelìì anche i nostri sogni ed una parte della mia vita.

Ho ammazzato il mio migliore amico … IO! La persona di cui si fidava, io l’ho ucciso, ho ammazzato

una parte di me! Chi potrà mai perdonarmi, se io stesso mi condanno! Chi? Chi mi ridarà la mia

innocenza? Chi? Vorrei svegliarmi, scoprire che era solo un sogno … mi sto illudendo … è la realtà,

la dura realtà! Vorrei dare di nuovo un senso alla mia vita … ma come? Cosa potrò mai fare?

Ancora adesso padre caro ho paura, ho paura di non poter più rivedere voi, e mia madre. Come

faccio a continuare a combattere con un peso che porto ancora tuttora? Come un chiodo

piantato nell’anima e che non si potrà strappare mai più! Mi sento perso senza nessuno accanto.

La paura invade i miei pensieri. Se avessi affrontato faccia a faccia Cadorna? Cosa mi sarebbe

successo? Cosa mi avrebbe riservato in serbo? Sarei mai tornato sano e salvo a casa? Avrei mai

potuto riabbracciare i miei cari? Avrei mai sperato un futuro migliore?

Padre, madre, pregate per me, pregate Dio affinché benedica la battaglia di noi Italiani. Se non

dovessi tornare, avrei una richiesta, che dopo la mia morte mi sia concesso di riunirmi a voi.

Nonostante tutto farò il mio dovere fino all’ultimo.

Lettera del sottotenente Aldo Lepri datata 14 novembre 1915 ore 19. Morirà di tifo un mese dopo.

«Dopo due giorni di febbre sono arrivato in trincea. Quale disastro! Il maggiore è ferito gravemente

alla testa; Verdiani è ferito; è stato trovato il cadavere di Zallocco morto la sera del 10…sono solo

ormai: non ho più una persona cara vicino a me. Ormai è destinato che debba lasciar la vita su

questo Carso che tanto m'ha fatto soffrire… Gnatelli dorme là nella sua buca; una croce con una

piccola iscrizione ricorda come il nostro caro estinto sia morto gloriosamente alla testa del suo

plotone contro ai funesti reticolati della trincea dei morti. Piove ancora. Brillerà ancora un raggio di

sole in questa mia triste esistenza? Solo il rumore della pioggia e il crepitio della fucileria rispondono.

Cosa faranno il babbo e la mamma in questo momento?»Vi saluto. Vostro figlio

1 luglio 1915

Carissimi Genitori,

state allegri stassera parto per dare al nemico la prova del nostro valore alpino. [...]

Mamma, se morirò non piangere, tante altre madri in questo momento piangono

i loro cari figli caduti per la patria.

Vattene fiera e altera nel tuo dolore di aver dato l’unico tuo figlio alla patria. Se invece tutto mi

andrà

bene ti scriverò appena potrò. [...]

Papà, tu sei un uomo, hai più esperienza di me, comprenderai tu al pari mio cosa voglia dire

guerra. Parto stassera sono di 1a linea, sarò fra i primi.

Non ho paura, no, la immagine tua unita a quella della mia mamma mi servirà di guida e di

coraggio. Sta bene. Vincerò. Se non ne uscirò illeso da questo combattimento, sii sempre di

conforto alla mamma, consolala sempre e abbine cura, a tè l’affido [...]».

Immagini fotografiche sulle condizioni di vita nelle trincee Tracce di una trincea oggi