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orecchio acerbo

disegni diDAVID B.BLUTCH

ANKE FEUCHTENBERGERFRANCESCA GHERMANDI

MARKUS HUBERFRANCO MATTICCHIO

LORENZO MATTOTTIFABIAN NEGRIN

JAVIER OLIVARESSTEFANO RICCI

a cura di HAMELIN

traduzione di BRUNO BERNI

HANS CHRISTIAN ANDERSEN

L’ombra

ealtriracconti

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I FIDANZATI

L’USIGNOLO

L’OMBRA

IL FOLLETTO DAL DROGHIERE

IL PUPAZZO DI NEVE

IL PICCOLO CLAUS E IL GRANDE CLAUS

LE SCARPE ROSSE

LA SIRENETTA

I VESTITI NUOVI DELL’IMPERATORE

LA VECCHIA CASA

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Indice

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© 2005

ORECCHIO ACERBO S.A.S.

VIALE AURELIO SAFFI, 54

00152 ROMA

WWW.ORECCHIOACERBO.COM

PER LA TRADUZIONE

© DONZELLI EDITORE, ROMA

DA: ANDERSEN “FIABE E STORIE”

EDIZIONE INTEGRALE

TRADOTTA E CURATA DA BRUNO BERNI

FINITO DI STAMPARE

NELL’APRILE 2005

DA A.G.S. ARTI GRAFICHE SERVICE

VIA DEL FALEGNAME, 2

LERCHI - CITTÀ DI CASTELLO (PG)

COPERTINA DI DAVID B.

grafica

ORECCHIO ACERBO

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I fidanzati

Il trottolino e la palla stavano in un cassetto insieme ad altri giocattoli, e al-lora il trottolino disse alla palla: «Perché non ci fidanziamo, visto che stiamoinsieme nel cassetto?». Ma la palla, che era di pelle di marocchino e si davadelle arie come una signorina distinta, non volle nemmeno rispondere.Il giorno dopo arrivò il ragazzino cui appartenevano i giocattoli, dipinse iltrottolino di rosso e giallo e vi infilò un chiodo d’ottone; era proprio splen-dido quando girava.«Guardatemi!» disse alla palla. «Cosa dite ora? Non dovremmo fidanzarci?Stiamo così bene insieme, Voi saltate e io ballo! Nessuno potrebbe esserepiù felice di noi due!».«Questo lo credete Voi!» disse la palla. «Forse non sapete che mio padre emia madre erano due pantofole di marocchino, e che ho un tappo alla vita!».«Già, ma io sono di legno di mogano!» disse il trottolino. «E mi ha fatto altornio il sindaco in persona, ha il suo tornio personale e per lui è stato ungrande piacere!».«Chissà se posso fidarmi!» disse la palla.«Che non mi facciano mai più girare se sto dicendo una bugia!» rispose iltrottolino.«Voi parlate bene!» disse la palla. «Ma io non posso, perché sono pratica-mente mezza fidanzata con un rondone! Ogni volta che vado in aria,quello tira fuori la testa dal nido e dice: “Volete?”; ormai dentro di me hodetto sì, e questo vale praticamente un mezzo fidanzamento! Ma promettoche non Vi dimenticherò mai!».«Già, come se servisse a molto!» disse il trottolino, e non si parlarono più.Il giorno dopo la palla fu tirata fuori dal cassetto; il trottolino la vide salirein alto come un uccello, e alla fine non si vedeva più; ogni volta tornava,

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FRANCO MATTICCHIOdisegni di

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ma quando toccava terra faceva un salto in alto; e questo per nostalgia, op-pure perché aveva un tappo in vita. La nona volta la palla scomparve e nontornò più; e il ragazzino cercò e cercò, ma era scomparsa.«Io so bene dov’è!» sospirò il trottolino. «È nel nido del rondone e si èsposata!».Più il trottolino ci pensava, più era innamorato della palla; proprio perchénon poteva averla l’amore cresceva: gli sembrava strano che si fosse presaun altro; e il trottolino danzava in tondo e ronzava, ma pensava semprealla palla che nella sua mente diventava sempre più bella. Così passaronomolti anni, e alla fine era ormai un vecchio amore.E il trottolino non era più giovane! Ma poi un giorno venne dorato com-pletamente, non era mai stato così bello, adesso era un trottolino d’oro esaltava da far venire le vertigini. Sì, era proprio una bella cosa! Ma d’im-provviso saltò troppo in alto e… era scomparso!Cercarono e cercarono, anche giù in cantina, ma non fu possibile trovarlo.…Dov’era?Era saltato nella botte dei rifiuti, dove c’era ogni genere di cose: torsi di ca-volo, spazzatura e ghiaia caduta giù dalla grondaia.«Ora sì che sto bene! Qui perderò presto la doratura! E con che gentagliasono capitato!», e guardò di traverso un lungo torso di cavolo spellato finoin fondo e una cosa strana e tonda che sembrava una mela vecchia; manon era una mela, era una vecchia palla rimasta per tanti anni sulla gron-daia e consunta dall’acqua.«Che Dio sia lodato, almeno c’è qualcuno del mio rango con cui poterparlare!» disse la palla e osservò il trottolino dorato. «Io invero sono di ma-rocchino, cucita da dita virginali, e ho un tappo in vita, ma chi locrederebbe ormai! Stavo per sposarmi con un rondone, ma poi caddi nellagrondaia e sono rimasta lì cinque anni a marcire! È un periodo moltolungo per una signorina, potete credermi!».Ma il trottolino non disse niente, pensava alla sua vecchia innamorata, epiù la sentiva parlare, più gli era chiaro che si trattava di lei.In quella arrivò la serva e stava per rovesciare la botte: «Ehi, ecco il trotto-lino d’oro!» disse.E il trottolino tornò in casa con grandi onori, ma della palla nessuno sentì piùnulla, e lui pure non parlò mai più del suo antico amore: l’amore passa quan-do la fidanzata rimane per cinque anni su una grondaia a marcire, e anzi, aincontrarla nella botte dei rifiuti non si riesce più nemmeno a riconoscerla.

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L’usignolo

Sai bene che in Cina l’imperatore è un cinese, e tutti coloro che lo cir-condano sono cinesi. Ormai sono passati molti anni, ma proprio perquesto vale la pena di ascoltare la storia prima che venga dimenticata!Il castello dell’imperatore era il più sontuoso del mondo, tutto di deli-cata porcellana, così prezioso ma anche così fragile, bisognava stareproprio attenti a toccarlo. Nel giardino si vedevano i fiori più meravi-gliosi, e ai più splendidi erano legate delle campanelle d’argento chesuonavano perché nessuno passasse senza notarli. Già, tutto era inge-gnoso nel giardino dell’imperatore, ed era così grande che nemmeno ilgiardiniere sapeva dove finiva; continuando a camminare si entrava nelbosco più splendido, con alberi alti e laghi profondi. Il bosco scendevadritto fino al mare, che era azzurro e immenso; le grandi navi poteva-no arrivare fin sotto i rami, e sui rami viveva un usignolo che cantavain maniera così divina che persino il povero pescatore, che aveva tantealtre cose da fare, si fermava ad ascoltarlo, quando la notte usciva a ti-rare su le reti e sentiva l’usignolo: «Dio, quanto è bello!» diceva, ma poidoveva badare alle sue faccende e dimenticava l’uccello; ma la nottesuccessiva, quando l’usignolo cantava di nuovo e il pescatore usciva,diceva lo stesso: «Dio, ma quanto è bello!».Da tutti i paesi del mondo giungevano viaggiatori nella città dell’im-peratore, e la ammiravano, ammiravano il castello e il giardino, maquando sentivano l’usignolo dicevano tutti la stessa cosa: «È questa lacosa migliore!».E tornando a casa i viaggiatori lo raccontavano, e i dotti scrivevanomolti libri sulla città, sul castello e sul giardino, ma non dimenticava-

JAVIER OLIVARESdisegni di

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no l’usignolo, che veniva messo in cima a tutto; e quelli che sapevanoscrivere poesie scrivevano le poesie più belle, tutte sull’usignolo nelbosco in riva al mare profondo.Quei libri facevano il giro del mondo e un giorno alcuni giunseroanche all’imperatore. Seduto sulla sua sedia d’oro, leggeva e leggeva,annuiva col capo, perché gli faceva piacere sentire le splendide descri-zioni della città, del castello e del giardino. «Ma l’usignolo è la cosamigliore!» c’era scritto.«Che cosa?» disse l’imperatore. «L’usignolo! Quello non lo conosco af-fatto! C’è un uccello così nel mio impero, e per giunta nel miogiardino! Non ne ho mai sentito parlare! E una cosa del genere devoleggerla in un libro!».E così chiamò il suo cavaliere: era talmente nobile che se qualche infe-riore osava parlargli o fargli domande, lui rispondeva solo «P!», chenon significa niente.«Sembra che ci sia un uccello molto particolare, chiamato usignolo!»disse l’imperatore. «Dicono che sia la cosa migliore del mio granderegno! Perché nessuno me ne ha mai parlato?».«Io non l’ho mai sentito nominare!» disse il cavaliere. «Non è mai statopresentato a corte!».«Voglio che venga qui stasera e canti per me!» disse l’imperatore.«Tutto il mondo sa cosa possiedo e io non lo so!».«Io non l’ho mai sentito nominare!» disse il cavaliere. «Lo cercherò, lotroverò!».Ma dove trovarlo? Il cavaliere corse su e giù per tutte le scale, attraversòle sale e i corridoi, tra tutti quelli che incontrava nessuno aveva sentitoparlare dell’usignolo, e il cavaliere corse di nuovo dall’imperatore e disseche sicuramente doveva essere una favola inventata da quelli che scrive-vano i libri. «Vostra Maestà Imperiale non deve credere a ciò chescrivono! Sono invenzioni, quella che chiamano magia nera!».«Ma il libro in cui l’ho letto» disse l’imperatore, «mi è stato mandatodal potente imperatore del Giappone, e allora non può essere unamenzogna. Voglio sentire l’usignolo! Dev’essere qui stasera! Gode dellamia suprema grazia! E se non verrà, dopo cena tutta la corte sarà pic-chiata sulla pancia».«Tsing-pe!» disse il cavaliere e tornò a correre su e giù per tutte le scale, at-traversò tutte le sale e i corridoi; e metà della corte correva con lui, perché

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non volevano essere picchiati sulla pancia. Era tutto un chiedere dello stra-no usignolo che tutto il mondo conosceva, ma a corte nessuno aveva visto.Alla fine incontrarono una povera piccola sguattera in cucina, chedisse: «Oh Dio, l’usignolo! Lo conosco bene! Sì, come sa cantare! Tuttele sere ho il permesso di portare un po’ di avanzi della tavola alla miapovera madre malata che vive giù sulla spiaggia, e quando torno sonostanca e mi riposo nel bosco, e sento l’usignolo cantare! Mi si inumidi-scono gli occhi a sentirlo, è come se mia madre mi baciasse!».«Piccola sguattera!» disse il cavaliere. «Ti procurerò un posto fisso incucina e il permesso di veder mangiare l’imperatore se ci porterai dal-l’usignolo, perché è convocato per stasera!».E così andarono tutti insieme nel bosco dove di solito l’usignolo can-tava; c’era metà della corte. E proprio mentre camminavano unamucca iniziò a muggire.«Oh!» dissero i nobili di corte. «Eccolo! C’è una forza singolare in unanimaletto così piccolo! Credo proprio di averlo già sentito!».«No, quelle sono le mucche che muggiscono!» disse la piccola sguatte-ra. «Siamo ancora lontani dal posto!».Ora gracidarono le rane nello stagno.«Splendido!» disse il cappellano di corte cinese. «Ora lo sento, sonocome piccole campane di chiesa!».«No, quelle sono le rane!» disse la piccola sguattera. «Ma credo che losentiremo presto!».Poi l’usignolo cominciò a cantare.«Eccolo» disse la ragazza, «sentite, sentite! Ed eccolo lì appollaiato!» eindicò un uccellino grigio sui rami.«È possibile!» disse il cavaliere. «Così non me lo sarei mai immaginato!Che aspetto semplice! Avrà certo perduto il colore nel vedersi circon-dato di tanti nobili!».«Piccolo usignolo!» gridò la sguattera molto forte. «Il nostro graziosoimperatore vorrebbe tanto che tu cantassi per lui!».«Con grandissima gioia!» disse l’usignolo e cantò che era un piacere.«Sembrano campanelle di vetro!» disse il cavaliere. «E guardate la pic-cola gola come si sforza! Strano che non lo abbiamo mai sentito! Faràgran successo a corte!».«Devo cantare ancora una volta per l’imperatore?» chiese l’usignoloche credeva che l’imperatore fosse con loro.

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«Mio eccellente piccolo usignolo!» disse il cavaliere. «Ho la grandegioia di convocarvi questa sera a una festa di corte, dove incantereteSua Grazia Imperiale con il Vostro affascinante canto!».«Fa più effetto in mezzo al verde!» disse l’usignolo, ma li seguì volen-tieri quando sentì che l’imperatore lo desiderava.Al castello avevano lucidato tutto per bene! Pareti e pavimenti, cheerano di porcellana, scintillavano grazie a molte migliaia di lampaded’oro! I fiori più splendidi, quelli che tintinnavano meglio, erano statimessi nei corridoi; il castello era pieno di gente che correva e di cor-renti d’aria, ma così suonavano tutte le campanelle e non si riusciva asentire niente.Al centro della grande sala dove sedeva l’imperatore era stato messo untrespolo d’oro, e su quello doveva stare appollaiato l’usignolo; c’eratutta la corte, e la piccola sguattera aveva ottenuto il permesso di rima-nere dietro la porta, poiché ora aveva il titolo di sguattera di primaclasse. Tutti indossavano i loro abiti migliori, e tutti guardavano l’uc-cellino grigio cui l’imperatore fece un cenno col capo.E l’usignolo cantò così splendidamente che all’imperatore vennero lelacrime agli occhi, gli scesero sulle gote e allora l’usignolo cantò in ma-niera ancora più bella, andava dritto al cuore; e l’imperatore era cosìcontento e disse che l’usignolo avrebbe ricevuto la sua pantofola d’oroda portare al collo. Ma l’usignolo lo ringraziò: la sua ricompensa eragià sufficiente.«Ho visto le lacrime negli occhi dell’imperatore, per me è il tesoro piùricco! Le lacrime di un imperatore hanno un potere singolare! Dio sache sono stato ricompensato!» e poi cantò di nuovo con la sua vocedolce e benedetta.«È la civetteria più adorabile che conosco!» dissero le signore intorno,e si misero dell’acqua in bocca per chiocciare quando qualcuno parlavacon loro: credevano di essere usignoli; e i lacchè e le cameriere feceroannunciare che anche loro erano soddisfatti, e questo vuol dire molto,perché sono i più difficili da accontentare. Sì, l’usignolo fece propriofortuna!Ora dovette rimanere a corte: aveva la sua gabbia e la libertà di uscire afare un giretto due volte al giorno e una di notte. Aveva con sé dodiciservitori, e tutti lo tenevano per un nastro di seta legato alla zampa.Quel giretto non era certo un piacere.

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Tutta la città parlava del bizzarro uccello, e se due si incontravano, unonon diceva che: «Usi!», e l’altro: «Gnolo!». E poi tiravano un sospiro esi comprendevano; anzi, undici figli di droghiere furono chiamati colsuo nome, ma nemmeno uno aveva una nota giusta.Un giorno arrivò un grande pacco per l’imperatore, sopra c’era scritto:Usignolo.«Ecco un altro libro sul nostro famoso uccello!» disse l’imperatore; manon era un libro, era un piccolo congegno dentro una scatola: un usigno-lo meccanico che doveva somigliare a uno vero, ma era tutto incastonatodi diamanti, rubini e zaffiri; non appena gli si dava la carica, l’uccellomeccanico poteva cantare una delle canzoni di quello vero, e la coda an-dava su e giù e scintillava d’oro e d’argento. Intorno alla gola era appesoun piccolo nastro e sopra c’era scritto: «L’usignolo dell’imperatore delGiappone è povero in confronto a quello dell’imperatore della Cina».«È splendido!» dissero tutti, e quello che aveva portato l’uccello mec-canico ebbe subito il titolo di grande portatore imperiale di usignolo.«Ora devono cantare insieme! Che duetto sarà!».E così dovettero cantare insieme, ma non andò tanto bene, perché l’u-signolo vero cantava a modo suo, e quello meccanico si basava sui rulli.«Non ne ha colpa» disse il maestro di musica, «segue totalmente ilritmo, è proprio della mia scuola!». E così l’uccello meccanico dovettecantare da solo. Fece fortuna quanto quello vero, e poi in fondo eramolto più grazioso da vedere: brillava come bracciali e spille.Cantò trentatré volte lo stesso pezzo, eppure non era stanco; la genteavrebbe voluto sentirlo da capo, ma l’imperatore pensava che ora do-vesse cantare un po’ anche l’usignolo vivo… ma dov’era? Nessunoaveva notato che era volato fuori dalla finestra aperta, via verso i suoiboschi verdi.«Ma che significa!» disse l’imperatore; e tutti i cortigiani espressero laloro disapprovazione ritenendo che l’usignolo fosse un animale estre-mamente ingrato. «Ma ci è rimasto l’uccello migliore!» dissero, e cosìl’uccello meccanico dovette cantare di nuovo, ed era la trentaquattresi-ma volta che sentivano lo stesso pezzo, ma non lo conoscevano ancoratutto a memoria, perché era difficile, e il maestro di musica lodò tantol’uccello, anzi assicurò che era meglio dell’usignolo vero, non solo perquel che riguardava l’abbigliamento e i molti splendidi diamanti, maanche per l’interno.

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«Perché vedete, mie signorie, imperatore prima di tutti, dell’usignolovero non si può mai sapere cosa farà, mentre nell’uccello meccanico ètutto definito! Sarà così e non altrimenti! Ci si può rendere conto ditutto, lo si può aprire e mostrare il pensiero umano, come sono messi irulli, come girano e come uno segue l’altro!».«È proprio ciò che penso io!» dissero tutti, e la domenica successiva ilmaestro di musica ebbe il permesso di mostrare l’uccello al popolo;l’imperatore disse che dovevano anche sentirlo cantare; e lo sentirono,e furono così contenti, sembravano ubriachi di tè, perché è così cinese,tutti dicevano «Oh!» e alzavano il dito chiamato «leccapentole» e an-nuivano; ma i poveri pescatori che avevano sentito l’usignolo verodissero: «Suona bene, gli somiglia anche, ma gli manca qualcosa, nonso bene cosa!».L’usignolo vero fu bandito dal paese e dal regno.L’uccello meccanico aveva il suo posto su un cuscino di seta vicino alletto dell’imperatore; tutti i doni che aveva ricevuto, oro e pietre pre-ziose, erano posati intorno, e come titolo era salito a «cantoreimperiale da comodino» di primo grado a sinistra, perché l’imperatoreconsiderava più nobile il lato dove si trovava il cuore, e il cuore sta a si-nistra anche in un imperatore. E il maestro di musica scrisseventicinque volumi sull’uccello meccanico, era un’opera così dotta ecosì lunga, e con le parole cinesi più difficili, cosicché tutti dicevano diaverla letta e capita, perché altrimenti sarebbero stati consideratu stu-pidi e sarebbero stati picchiati sulla pancia.Così passò un intero anno; l’imperatore, la corte e tutti gli altri cinesisapevano a memoria ogni gorgoglio del canto dell’uccello meccanico,ma proprio per questo ora lo apprezzavano di più: sapevano cantarecon lui, e lo facevano. I monelli di strada cantavano «zizizi! klukluklu!»e lo cantava l’imperatore! Sì, era proprio splendido!Ma una sera che l’uccello era nel bel mezzo del canto, e l’imperatorestava a letto e lo ascoltava, si sentì uno «svup!» dentro l’uccello; qual-cosa saltò: «surrrr!», tutti gli ingranaggi girarono e la musica si fermò.L’imperatore saltò subito giù dal letto e fece chiamare il suo archiatra,ma a che serviva! Allora mandarono a chiamare l’orologiaio, che dopomolto parlare e molto guardare sistemò bene o male l’uccello, ma disseche bisognava stare attenti a usarlo, perché aveva i perni molto consu-mati e non era possibile metterne di nuovi con la certezza che la

musica funzionasse. Fu un gran dolore! Avevano il coraggio di far can-tare l’uccello solo una volta l’anno, ed era comunque abbastanzarischioso; ma allora il maestro di musica tenne un breve discorso conparole difficili e disse che tutto andava bene come prima, e così tuttoandò bene come prima.Passarono cinque anni e il paese venne colpito da un dolore davverogrande, perché in fondo tutti volevano bene al loro imperatore; eramalato e non sarebbe vissuto a lungo, si diceva, un nuovo imperatoreera già stato eletto e la gente stava per strada e chiedeva al cavalierecome stava il loro imperatore.«P!» diceva quello e scuoteva la testa.L’imperatore giaceva freddo e pallido nel suo grande, lussuoso letto:tutta la corte lo credeva morto, e ciascuno si affrettava a salutare ilnuovo imperatore; i valletti correvano fuori per parlarne e le camerieretenevano una grande riunione intorno a una tazza di caffè. In giro, pertutte le sale e i corridoi, erano stati posati dei panni perché non si sen-tisse camminare nessuno, e perciò c’era tanto silenzio, tanto silenzio.Ma l’imperatore non era ancora morto; rigido e pallido giaceva nel lus-suoso letto con le grandi tende di velluto e i pesanti fiocchi dorati; inalto c’era una finestra aperta, e la luna entrava illuminando l’imperato-re e l’uccello meccanico.Il povero imperatore non riusciva quasi a respirare, era come se avessequalcosa sul petto; aprì gli occhi e vide la morte che gli sedeva addos-so; si era messa la sua corona d’oro e in una mano teneva la sciabolad’oro dell’imperatore, nell’altra il suo sontuoso vessillo; e tutto intor-no, fra le pieghe delle grandi tende di velluto, facevano capolinosingolari teste, alcune orride, altre di una beata dolcezza: erano le cat-tive e le buone azioni dell’imperatore che lo guardavano ora che lamorte gli sedeva sul cuore.«Ricordi questa?» sussurravano una dopo l’altra. «Ricordi questa?», egli raccontavano tante cose di quelle cose che il sudore gli stillava dallafronte.«Non l’ho mai saputo!» diceva l’imperatore. «Musica, musica, il grandetamburo cinese!» gridava. «Che io non senta tutto ciò che dicono!».E quelle continuavano e la morte annuiva come un cinese a tutto ciòche dicevano.«Musica, musica!» gridava l’imperatore. «Benedetto uccellino d’oro!

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Canta, canta! Ti ho donato oro e oggetti preziosi, io stesso ti ho appe-so al collo la mia pantofola d’oro, canta, canta!».Ma l’uccello taceva: non c’era nessuno a caricarlo e altrimenti non can-tava; ma la morte continuava a guardare l’imperatore con le sue grandiorbite vuote, e c’era tanto silenzio, tanto terribile silenzio.In quel momento si udì, accanto alla finestra, il canto più meraviglio-so: era il piccolo usignolo vero appollaiato sul ramo lì fuori; avevasentito parlare delle cattive condizioni del suo imperatore e perciò eravenuto a cantargli il conforto e la speranza; e mentre cantava, le figuresi facevano sempre più pallide, il sangue scorreva sempre di più nelledeboli membra dell’imperatore, e la morte stessa ascoltava e diceva:«Continua, piccolo usignolo! Continua!».«Se mi darai quella splendida sciabola d’oro! Se mi darai quel ricco ves-sillo! Se mi darai la corona dell’imperatore!».E per ogni canzone la morte gli dava in cambio un gioiello, e l’usignolocontinuava a cantare; e cantava del silenzioso cimitero dove crescono lerose bianche, dove profuma il sambuco e dove l’erba fresca viene innaf-fiata dalle lacrime di chi è rimasto vivo; allora la morte ebbe nostalgiadel suo giardino e come una nebbia fredda e bianca si librò fuori dallafinestra.«Grazie, grazie!» disse l’imperatore. «Celeste uccello, ti riconosco! Tiho scacciato dal mio paese e dal regno! Eppure cantando hai allontana-to cattive visioni dal mio letto, hai fatto uscire la morte dal mio cuore!Come potrò ricompensarti?».«Mi hai già ricompensato!» disse l’usignolo. «Ho avuto le lacrime deituoi occhi la prima volta che ho cantato, non lo dimenticherò! Sonoquelli i gioielli che fanno bene al cuore di un cantore! Ma ora dormi etorna sano e forte! Io canterò per te!».Cantò… e l’imperatore cadde in un dolce sonno, così tenero e risto-ratore.Il sole entrava dalle finestre e lo baciava quando si svegliò forte e sano;nessuno dei servitori era ancora tornato, perché lo credevano morto,ma l’usignolo stava ancora cantando.«Dovrai sempre rimanere con me!» disse l’imperatore. «Canterai soloquando lo vuoi e farò in mille pezzi l’uccello meccanico».«Non farlo!» disse l’usignolo. «Ha fatto il bene che poteva! Tienilocome sempre! Io non posso abitare al castello, ma lasciami venire

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quando ne ho voglia, e allora la sera starò qui sul ramo accanto alla fi-nestra e canterò per te, affinché tu possa essere contento e pensierosoallo stesso tempo! Canterò di chi è felice e di chi soffre! Canterò delbene e del male che ti vengono tenuti nascosti! Il piccolo uccello can-terino vola in giro, va dal povero pescatore, sul tetto del contadino, datutti quelli che sono lontani da te e dalla tua corte! Io amo il tuo cuorepiù della tua corona, eppure la tua corona ha in sé il profumo di qual-cosa di sacro! Verrò, canterò per te! Ma una cosa me la devipromettere!».«Qualunque cosa!» disse l’imperatore, e stava lì in piedi nel suo abitoimperiale che aveva indossato da solo, e teneva sul cuore la pesantesciabola d’oro.«Di una cosa ti prego! Non dire a nessuno che hai un uccellino che tiracconta tutto, e le cose andranno ancora meglio!».E così l’usignolo volò via.I servitori entrarono per vedere il loro imperatore morto… eccolì lì, el’imperatore disse: «Buongiorno!».

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L’ombra

Nei paesi caldi il sole brucia davvero! La gente diventa tutta color mogano;anzi, nei paesi caldissimi bruciano diventando negri, ma uno studioso cheveniva dai paesi freddi non era andato oltre i paesi caldi; lì credeva di po-tersene andare in giro come faceva a casa, ma presto gli passò l’abitudine.Dovevano rimanere dentro, lui e tutte le persone ragionevoli, con impostee porte chiuse per tutto il giorno; sembrava che tutta la casa dormisse oche non ci fosse nessuno. La stretta strada con gli edifici alti dove abitavaera anche costruita in modo che il sole dovesse stare lì dalla mattina allasera, era davvero impossibile da sopportare! Allo studioso dei paesi freddi– era un giovane uomo intelligente – sembrava di stare in un forno roven-te; questo lo logorava, divenne tutto magro, persino la sua ombra sirestrinse, divenne molto più piccola che a casa, il sole logorò anche lei. Siravvivavano solo la sera, dopo il calar del sole.Era davvero un divertimento vederlo; non appena la candela veniva porta-ta nella stanza, l’ombra si estendeva fin sulla parete, anzi persino sulsoffitto tanto diventava lunga, perché doveva stirarsi per riprendere leforze. Lo studioso usciva sul balcone per sgranchirsi lì, e man mano che lestelle spuntavano nella splendida aria limpida, per lui era come tornare avivere. Su tutti i balconi della strada, e nei paesi caldi ogni finestra ha unbalcone, la gente usciva, perché l’aria bisogna averla, anche se si è abituatia essere di mogano! Così tutto si ravvivava, in alto e in basso. Ciabattini esarti, tutti si spostavano in strada, arrivavano tavolo e sedia, e la candelabruciava, anzi più di mille candele bruciavano, e uno parlava e l’altro can-tava, e la gente andava a spasso, le carrozze camminavano, gli asinitrottavano: klingelingeling! Perché hanno il campanaccio. Venivano sepol-

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DAVID B.disegni di

ti i morti con il canto di salmi, i monelli facevano scoppiare i mortaretti ele campane delle chiese suonavano. Sì, c’era proprio vita giù in strada. Solouna casa, proprio di fronte a quella in cui viveva lo studioso, era avvoltanel silenzio; eppure ci viveva qualcuno, perché sul balcone c’erano dei fioriche crescevano così belli in quella calura, e non avrebbero potuto se nonfossero stati innaffiati, qualcuno doveva pur annaffiarli; dovevano abitarcidelle persone. La porta lì davanti veniva anche socchiusa a tarda sera, madentro era buio, almeno nella prima stanza, dalle stanze più interne risuo-nava della musica. Allo studioso straniero sembrava che fosse eccezionale,ma poteva anche essere che se lo immaginasse, perché trovava tutto ecce-zionale laggiù nei paesi caldi, se solo non ci fosse stato il sole. Il padrone dicasa dello straniero disse che non sapeva chi avesse preso in affitto la casadi fronte, non si vedeva nessuno, e per quanto riguardava la musica, glisembrava che fosse terribilmente noiosa. «Come se uno stesse lì a esercitar-si su un pezzo che non riesce a eseguire, sempre lo stesso pezzo. “Ma ciriuscirò!” dice certamente, ma per quanto suoni non ci riesce».Una notte lo straniero si svegliò. Dormiva con la porta del balcone aperta,la tenda che c’era davanti si sollevava al vento e gli sembrò che dal balconedi fronte arrivasse uno strano bagliore, tutti i fiori splendevano come fiam-me nei colori più meravigliosi, e in mezzo ai fiori c’era una fanciullagraziosa e snella, ed era come se rilucesse anche lei; era davvero abbaglian-te, lui spalancò gli occhi e si svegliò; con un balzo era sul pavimento epiano piano andò dietro la tenda, ma la fanciulla era scomparsa, il baglio-re svanito; i fiori non splendavano affatto, ma erano molto belli, comesempre; la porta era socchiusa e lì dentro, in fondo, risuonava la musica,così splendida e melodiosa che poteva davvero indurre in dolci pensieri.Ma era come un incantesimo, e chi ci abitava? Dov’era l’ingresso? Tutto ilpianterreno era una bottega accanto all’altra, e lì la gente non poteva pas-sare sempre.Una sera lo straniero sedeva sul suo balcone, nella stanza dietro di lui arde-va la candela, e così era del tutto naturale che la sua ombra arrivasse sullaparete di fronte; sì, eccola lì di fronte fra i fiori sul balcone; e quando lostraniero si muoveva, si muoveva anche l’ombra, perché così è.«Credo che la mia ombra sia l’unica cosa vivente che si vede lì di fronte!»disse lo studioso. «Guarda com’è carina tra i fiori, la porta è socchiusa, oral’ombra dovrebbe essere così scaltra ed entrare, guardarsi intorno, e poi veni-re a raccontarmi cosa ha visto! Ecco, fai qualcosa di utile!» disse scherzando!

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«Sii così brava da entrare! Ebbene? Vai o no?» e così annuì all’ombra, e l’om-bra annuì di rimando. «Vai allora, ma non scomparire!» e lo straniero si alzòe la sua ombra sul balcone di fronte si alzò anch’essa; e lo straniero si girò eanche l’ombra si girò; già, se qualcuno avesse guardato bene si sarebbe ac-corto chiaramente che l’ombra entrava dalla porta socchiusa del balcone difronte proprio mentre lo straniero entrava nella sua stanza e si lasciava cade-re la lunga tenda alle spalle.Il mattino dopo lo studioso uscì per prendere il caffè e leggere i giornali.«Che succede?» disse quando uscì sotto il sole. «Non ho l’ombra! Alloraieri sera se n’è andata veramente e non è tornata; che cosa seccante!».E questo lo irritò, non tanto perché l’ombra era scomparsa, ma perché sa-peva che c’era un’altra storia di un uomo senz’ombra – a casa nei paesifreddi la conoscevano tutti – e se ora lo studioso fosse tornato raccontan-do la sua, tutti avrebbero detto che stava copiando, e lui non ne avevabisogno. Perciò non ne avrebbe parlato affatto, e questa era un’idea ragio-nevole.La sera tornò sul suo balcone; molto giustamente aveva sistemato la can-dela alle spalle perché sapeva che l’ombra vuole sempre avere il suopadrone come schermo, ma non riuscì ad attirarla; si faceva piccolo, si fa-ceva grande, ma non c’era nessuna ombra che tornava! «Hm! Hm!» fece,ma non servì.Era irritante, ma nei paesi caldi tutto cresce così velocemente che passatiotto giorni sentì con grande piacere che quando andava al sole dalle gambegli cresceva una nuova ombra: doveva essere rimasta la radice. Dopo tresettimane aveva un’ombra del tutto accettabile che, quando tornò verso ipaesi freddi, durante il viaggio crebbe sempre più, tanto che alla fine eracosì lunga e grossa che la metà sarebbe bastata.Così lo studioso tornò a casa e scrisse libri su quanto c’era di vero almondo, e su quanto c’era di buono e di bello, e passarono i giorni e passa-rono gli anni, molti anni.Una sera era seduto nella sua stanza quando qualcuno bussò piano pianoalla porta.«Avanti!» disse lui, ma non entrò nessuno; allora aprì e davanti a lui c’erauna persona magrissima, tanto che si sentì piuttosto a disagio. Ma per ilresto era vestita in maniera particolarmente elegante, doveva essere unuomo distinto.«Con chi ho il piacere di parlare?» chiese lo studioso.

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«Già, me lo immaginavo!» disse l’uomo distinto. «Me lo immaginavo chenon mi avreste riconosciuto! Sono diventato talmente corporeo, ho carnee vestiti. Sicuramente non avreste mai pensato di vedermi così nel pienodelle forze. Non riconoscete la vostra vecchia ombra? Già, sicuramentenon avreste mai creduto che tornassi. Le cose mi sono andate particolar-mente bene da quando Vi ho lasciato, non mi posso lamentare, da nessunpunto di vista! Se devo comprare la mia libertà dal servizio, allora posso!»e fece tintinnare un mazzo di preziosi sigilli appesi all’orologio, poi infilòla mano nella grossa catena d’oro che portava al collo; e come scintillavanodi anelli di diamanti tutte le dita! Ed era tutto vero.«No, non riesco a capacitarmi!» disse lo studioso. «Ma che cosa significa?».«Già, non è una cosa comune!» disse l’ombra. «Ma Voi stesso non siete unapersona comune, e io, lo sapete, fin da bambino ho seguito le Vostre orme.Non appena riteneste che fossi maturo per andarmene da solo per ilmondo, me ne andai per la mia strada; la mia condizione economica è bril-lantissima, ma sono stato preso da una sorta di nostalgia: desideravo vederviprima che moriste, perché morire dovete! Volevo anche tanto rivedere que-ste terre, perché si vuole sempre bene alla patria! So che avete una nuovaombra: devo pagare qualcosa a Voi o a lei? Siate così gentile da dirmelo».«Ma sei davvero tu!» disse lo studioso. «È una cosa stranissima! Non avreimai creduto che la mia vecchia ombra potesse tornare nei panni di unuomo!».«Ditemi quanto devo pagare!» disse l’ombra. «Perché non voglio averealcun tipo di debiti!».«Come puoi parlare così!» disse lo studioso. «Di che debito parli! Sii liberocome chiunque altro! Sono estremamente contento della tua felicità! Sie-diti, vecchio amico e raccontami almeno un po’ di com’è andata e di cosahai veduto nella casa di fronte, laggiù nei paesi caldi!».«Sì, Ve lo racconterò» disse l’ombra e si sedette, «ma dovete promettermiche non direte mai a nessuno qui in città, in qualsiasi posto mi incontria-te, che sono stato la Vostra ombra! Ho intenzione di fidanzarmi; possomantenere più di una famiglia!».«Stai tranquillo!» disse lo studioso. «Non dirò a nessuno chi sei veramente!Qua la mano! Lo prometto, parola di uomo!».«Parola di ombra!» disse l’ombra, perché così doveva parlare.Peraltro era davvero singolare quanto fosse uomo; era tutto vestito di nero,e della migliore stoffa nera, stivali di vernice e un cappello che poteva esse-

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re piegato cosicché diventava solo cupola e tesa, per non parlare di quantogià sappiamo – sigilli, catena d’oro e anelli di diamanti; già, l’ombra eraestremamente ben vestita, ed era proprio quello a farne un essere umano.«Ora Vi racconterò!» disse l’ombra, e con tutta la forza che aveva spinse ipiedi con gli stivali di vernice sulla manica della nuova ombra dello stu-dioso, che come un barboncino era ai suoi piedi, e lo fece per superbia oforse per farsela rimanere attaccata; e l’ombra distesa rimase ferma fermaad ascoltare; sicuramente voleva sapere come fare per liberarsi e arrivare allivello del suo padrone.«Sapete chi viveva nella casa di fronte?» disse l’ombra. «La cosa più splen-dida di tutte: la poesia! Rimasi lì per tre settimane ed era come aver vissutoper tremila anni e aver letto tutto ciò che è stato composto e scritto, lodico e lo ribadisco. Ho visto tutto e so tutto!».«La poesia!» gridò lo studioso. «Sì, sì, spesso fa l’eremita nelle grandi città!La poesia! L’ho veduta per un solo breve attimo, ma avevo gli occhi pienidi sonno! Era sul balcone e splendeva come splende l’aurora boreale! Rac-conta, racconta! Eri sul balcone, sei entrato dalla porta e poi…?».«E poi mi sono trovato nell’anticamera!» disse l’ombra. «Voi siete semprestato seduto a guardare l’anticamera. Non c’era luce, ma una sorta di pe-nombra, le porte erano aperte una dopo l’altra in una lunga serie di stanzee sale; ed era tutto illuminato, sarei stato quasi ucciso dalla luce se fossi ar-rivato fin dalla fanciulla; ma fui assennato, presi tempo e bisogna farlo!».«E cosa hai veduto allora?» chiese lo studioso.«Ho visto tutto, Ve lo racconterò, ma… non è orgoglio da parte mia,ma… come uomo libero e con le mie conoscenze, per non dire della miabuona posizione, delle mie ottime condizioni economiche… vorrei chenon mi deste del tu!».«Scusate!» disse lo studioso. «È una vecchia abitudine radicata! Avete per-fettamente ragione! E lo ricorderò! Ma ora raccontatemi tutto ciò cheavete visto!».«Tutto!» disse l’ombra. «Perché ho visto tutto e so tutto!».«Com’erano le sale più interne?» chiese lo studioso. «Era come nel boscofresco? O come in una chiesa? Le sale erano come il cielo limpido e stella-to quando si sta in alta montagna?».«C’era tutto!» disse l’ombra. «Solo che io non sono entrato fin dentro,sono rimasto nella prima stanza al buio, ma stavo molto bene, ho vistotutto e so tutto! Sono stato alla corte della poesia, nell’anticamera».

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«Ma cosa avete visto? Per le grandi sale passavano tutti gli dèi dell’antichi-tà? Vi combattevano gli antichi eroi? Vi giocavano dolci bambini eraccontavano i loro sogni?».«Vi dico che ci sono stato e Voi comprendete che ho visto tutto ciò chec’era da vedere! Se foste venuto lì non sareste divenuto un uomo, ma io sì!E inoltre ho imparato a conocere la mia natura più intima, ciò che è inna-to in me, la familiarità che avevo con la poesia. Già, quando ero con Voinon ci pensavo, ma sempre, lo sapete, quando il sole sorgeva e tramontava,diventavo stranamente grande; al chiaro di luna ero quasi più nitido diVoi; allora non comprendevo la mia natura, mentre nell’anticamera me nesono reso conto! Sono diventato uomo! Sono venuto alla luce maturo, maVoi non eravate più nei paesi caldi; come uomo mi vergognavo di andarein giro com’ero, avevo bisogno di stivali, abiti, di tutto quell’involucroumano che rende riconoscibile un uomo. Mi nascosi, già, a Voi lo dico,tanto non lo scriverete in nessun libro, mi nascosi sotto la gonna della vec-chia che vendeva i dolci; la donna non pensava a quanto nascondeva;uscivo solo di sera; correvo per strada al chiaro di luna; mi allungavo sulmuro, fa un così bel solletico sulla schiena! Correvo avanti e indietro,guardavo dentro dalle finestre più alte, nella sala e sul tetto, guardavo dovenessuno poteva guardare e vedevo ciò che nessun altro vedeva, ciò che nes-suno doveva vedere! In fondo è un mondo infame! Non avrei voluto essereun uomo se non fosse stato ormai riconosciuto che vale la pena esserlo! Ve-devo le cose più impensabili nelle donne, negli uomini, nei genitori e neidolci ed eccezionali bambini; vedevo» disse l’ombra, «ciò che nessun esse-re umano doveva sapere, ma che tutti vorrebbero sapere, vedevo il male delvicino. Se avessi scritto un giornale, sarebbe stato letto! Ma io scrivevo di-rettamente alla persona interessata, e c’era il terrore in ogni città in cuiandavo. Avevano così paura di me! E mi volevano così incredibilmentebene. I professori mi facevano professore, i sarti mi davano nuovi abiti,sono ben fornito; il coniatore coniava monete per me, e le donne dicevanoche ero così bello! E così divenni l’uomo che ero! E ora Vi saluto; ecco ilmio biglietto da visita, ho beni al sole e quando piove sono sempre dicasa!» e così l’ombra se ne andò.«Che cosa strana!» disse lo studioso.Passarono gli anni e i giorni, e l’ombra tornò.«Come va?» chiese.«Ah!» disse lo studioso. «Scrivo della verità, della bontà e della bellezza, ma

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nessuno vuole sentire certe cose, sono proprio disperato, perché me laprendo tanto!».«Ma io no!» disse l’ombra. «Io ingrasso, ed è questo che bisogna fare! Già,Voi non ve ne intendete del mondo. Vi ammalerete. Dovete viaggiare!Quest’estate farò un viaggio; volete venire con me? Mi piacerebbe avere uncompagno di viaggio! Volete viaggiare con me, come ombra? Sarà un gran-de piacere avervi con me, pagherò io il viaggio!».«Credo che stiate esagerando!» disse lo studioso.«Dipende da come la prendete!» disse l’ombra. «Vi farebbe davverobene viaggiare! Se volete essere la mia ombra avrete tutto gratis duranteil viaggio!».«Questo è troppo!» disse lo studioso.«Ma così va il mondo!» disse l’ombra. «E così sarà!» e se ne andò.Lo studioso non se la passava affatto bene, dolore e tormento lo seguivano,e ciò che diceva della verità, della bontà e della bellezza era per i più comedare le rose a una mucca! Alla fine era davvero malato.«Avete proprio l’aspetto di un’ombra!» gli diceva la gente, e lo studiosoaveva i brividi a pensarci.«Dovete andare alle terme!» disse l’ombra quando andò a trovarlo. «Nonc’è altro da fare! Voglio portarvi con me in nome della vecchia amicizia,pagherò io il viaggio, Voi lo racconterete e mi rallegrerete il tragitto! Voglioandare alle terme, la mia barba non cresce come dovrebbe, anche quella èuna malattia, e la barba bisogna averla! Siate ragionevole e accettate l’offer-ta, viaggeremo come compagni!».E così partirono; l’ombra era dunque il padrone, e il padrone era l’ombra;andavano in carrozza insieme, parlavano e camminavano, fianco a fianco,uno davanti e l’altro dietro, secondo la posizione del sole; l’ombra sapevasempre come prendere il posto del padrone; e lo studioso non ci pensavatroppo su; era di cuore molto buono e particolarmente dolce e gentile, eallora un giorno disse all’ombra: «Visto che ora siamo diventati compagnidi viaggio e allo stesso tempo siamo cresciuti insieme fin dall’infanzia, per-ché non ci diamo del tu? È più confidenziale!».«Voi dite delle cose!» disse l’ombra, che era il vero padrone. «E so che lofate molto sinceramente e con tutte le buone intenzioni, perciò voglio par-lare con le stesse buone intenzioni e con altrettanta sincerità. Comestudioso sapete bene quanto sia singolare la natura. Alcune persone nonsopportano di toccare la carta grigia, si sentono male; altri soffrono in

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tutte le membra quando si fa scivolare un chiodo su un vetro; io ho la stes-sa sensazione nel sentirvi darmi del tu, mi sento come spinto a terra nellamia vecchia posizione nei Vostri confronti. Vedete che è una sensazione,non è per orgoglio; non posso permettervi di darmi del tu, ma Vi do vo-lentieri del tu, così la metà è fatta».E così l’ombra diede del tu al suo passato padrone.«Questo è proprio troppo» pensò lui, «che lui mi dia del tu e io non possafarlo», ma dovette sopportarlo.Così giunsero alle terme dove c’erano tanti stranieri e fra loro una splendi-da principessa che aveva la malattia che le faceva vedere troppo bene, edera molto preoccupante.Si rese subito conto che il nuovo arrivato era una persona diversa da tuttele altre. «Si dice che sia qui per farsi crescere la barba, ma io vedo la veracausa, non ha ombra».Era incuriosita e così durante la passeggiata entrò subito in conversazionecon lo straniero. Come figlia di un re non aveva bisogno di tanti preambo-li, e così disse: «La Vostra malattia è che non avete ombra».«Vostra Altezza Reale deve essere migliorata notevolmente!» disse l’ombra.«So che il Vostro male è che vedete troppo bene, ma è scomparso, sieteguarita, io ho per l’appunto un’ombra molto insolita! Gli altri hannoun’ombra ordinaria, ma a me le cose ordinarie non piacciono. Spessodiamo ai nostri servitori una livrea di una stoffa migliore di quella cheusiamo noi stessi, e così io ho fatto vestire da uomo la mia ombra! Già, ve-dete che ho persino dato anche a lui un’ombra. È molto costoso, ma a mepiace avere qualcosa per me stesso!».«Che cosa?» pensò la principessa. «Sarò davvero guarita? Queste termesono le migliori che esistono! Oggigiorno l’acqua ha delle proprietà mera-vigliose. Ma non me ne vado, perché ora la faccenda si fa divertente; lostraniero mi piace tantissimo. Purché la sua barba non cresca, perché altri-menti se ne andrà!».La sera, nella grande sala da ballo, la figlia del re ballò con l’ombra. Lei eraleggera, ma lui era ancora più leggero, un ballerino così non le era mai ca-pitato. Gli disse da quale paese veniva, e lui lo conosceva, c’era stato, main quel momento lei non c’era; lui aveva guardato dentro le finestre inalto e in basso, aveva visto questo e quello, e così era in grado di rispon-dere alla principessa e fare allusioni, cosicché lei fu tutta sorpresa; dovevaessere l’uomo più sapiente della terra! Le nacque un tale rispetto per ciò

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che lui sapeva, e quando ballarono di nuovo si innamorò; l’ombra se nerese conto, perché lo guardava fisso. Poi ballarono ancora una volta e leistava quasi per dirlo, ma fu saggia, pensò al suo paese e al suo regno e atutte le persone sulle quali doveva regnare. «È un uomo saggio» si disse, «èun bene! E balla splendidamente, anche questo è un bene, ma chissà se haanche delle conoscenze profonde, è altrettanto importante! Dev’essereesaminato». E così cominciò a poco a poco a chiedergli qualcuna dellecose più difficili cui lei stessa non aveva risposta; e l’ombra fece un visoproprio strano.«A questo non sapete rispondere!» disse la figlia del re.«Fa parte delle conoscenze della mia infanzia» disse l’ombra, «credo chepersino la mia ombra lì accanto alla porta sappia rispondere!».«La Vostra ombra!» disse la figlia del re. «Sarebbe estremamente strano!».«Be’, non dico con certezza che possa!» disse l’ombra. «Ma credo di sì,ormai mi segue e ascolta da tanti anni… credo di sì! Ma Vostra AltezzaReale, permettete che Vi faccia notare che è tanto fiero di sembrare unuomo che se dev’essere davvero di buon umore, e deve esserlo per rispon-dere bene, allora va trattato proprio come un essere umano».«Questo mi piace!» disse la figlia del re.E così andò dallo studioso alla porta e parlò con lui del sole e della luna, edegli uomini fuori e dentro e lui rispose bene e in maniera intelligente.«Che uomo dev’essere quello che ha un’ombra così saggia!» pensò lei. «Sa-rebbe una vera benedizione per il mio popolo e il mio regno se lo scegliessicome sposo; lo farò!».E furono presto d’accordo, la figlia del re e l’ombra, ma nessuno doveva sa-perlo prima che lei tornasse a casa nel suo regno.«Nessuno, nemmeno la mia ombra!» disse l’ombra, e in questo aveva i suoiprogetti!Così andarono nel paese dove regnava la figlia del re quando era a casa.«Ascolta, mio buon amico!» disse l’ombra allo studioso. «Ora sono felice epotente quanto è possibile diventare e dunque voglio fare qualcosa di spe-ciale anche per te! Abiterai sempre con me al castello, guiderai la miacarrozza reale e avrai mille talleri l’anno; ma devi lasciarti chiamare ombrada tutti; non devi mai dire di essere stato uomo e una volta l’anno, quan-do siederò sul balcone al sole e mi farò vedere, devi stare sdraiato ai mieipiedi come si conviene a un’ombra! Devo dirti che sposerò la figlia del re,stasera si terranno le nozze».

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«No, questo è proprio troppo!» disse lo studioso. «Questo non lo voglio, enon lo farò! Significa imbrogliare tutto il paese e per di più la figlia del re!Dirò tutto! Che io sono l’uomo e tu l’ombra: sei solo vestito!».«Nessuno lo crederà!» disse l’ombra. «Sii ragionevole, altrimenti chiamo leguardie!».«Vado dritto dalla figlia del re!» disse lo studioso. «Ma io vado per primo!»disse l’ombra. «E tu sarai arrestato!» e così fu, perché le sentinelle obbedi-vano a colui che sapevano avrebbe sposato la figlia del re.«Tu tremi!» disse la figlia del re quando l’ombra entrò da lei. «È accadutoqualcosa? Non puoi essere malato stasera, dobbiamo sposarci».«Ho provato la cosa più terribile che può capitare!» disse l’ombra. «Pensa– già, un povero cervello d’ombra non può sopportare tanto! – pensa chela mia ombra è diventata pazza, crede di essere un uomo e che io – pensa –io sia la sua ombra!».«È terribile!» disse la principessa. «È stato imprigionato?».«Sì! Ho paura che non si riprenderà mai!».«Povera ombra!» disse la principessa. «È molto infelice; sarebbe davverouna buona azione liberarlo dal po’ di vita che ha, e a pensarci bene credosia necessario toglierlo di mezzo in silenzio!».«È ben duro!» disse l’ombra. «Perché è stato un fedele servitore!» e poiemise quasi un sospiro.«Siete un carattere nobile!» disse la figlia del re.La sera la città era illuminata e i cannoni sparavano: bum! E i soldati face-vano il presentat’arm. Quello sì che era un matrimonio! La figlia del re el’ombra uscirono sul balcone per farsi vedere e ricevere ancora una voltaun urrà!Lo studioso non sentì niente di tutto ciò, perché gli avevano tolto la vita.

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Il folletto dal droghiere

C’era una volta un vero studente che abitava in soffitta e non possedevanulla; c’era una volta un vero droghiere, abitava a pianterreno e possede-va tutta la casa e il folletto stava da lui, perché ogni Natale riceveva unascodella di riso al latte con un bel pezzo di burro! Il droghiere potevapermetterselo; il folletto rimaneva a bottega ed era molto istruttivo.Una sera lo studente entrò dalla porta posteriore per comprarsi candelee formaggio; non aveva nessuno da mandare al suo posto, e perciò andòdi persona; ebbe quanto chiedeva, pagò e il droghiere e la signora fece-ro un cenno col capo dicendo «buona sera», e la signora avrebbe potutofare ben più che un cenno col capo visto che sapeva esprimersi bene! Lostudente rispose con un cenno del capo e poi rimase lì a leggere il foglioche avvolgeva il formaggio. Era un foglio strappato da un vecchio libroche non doveva essere strappato, un vecchio libro pieno di poesie.«Ce n’è ancora!» disse il droghiere. «L’ho avuto da una vecchia in cam-bio di un po’ di chicchi di caffè; se mi date otto scellini avrete il resto!».«Grazie» disse lo studente, «datemi quello invece del formaggio! Possomangiare pane e burro a basta! Sarebbe un peccato se tutto quel librofosse fatto a brandelli. Voi siete un brav’uomo, un uomo pratico, ma dipoesia non ve ne intendete più di quella pattumiera!».Ed erano parole scortesi, specialmente verso la pattumiera, ma il dro-ghiere rise e lo studente rise, in fondo erano dette per scherzo. Però alfolletto seccava che si dicessero certe cose di un droghiere che possede-va case e vendeva il burro migliore.

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LORENZO MATTOTTIdisegni di

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La notte, quando la bottega era chiusa e tutti erano a letto tranne lostudente, il folletto andò dalla signora per prenderle in prestito la facol-tà di parlare, tanto quando dormiva non la usava, e dovunque la siposasse in sala, su qualsiasi oggetto, quello acquistava la capacità di par-lare, poteva esprimere i propri pensieri e sentimenti come la signora,ma solo un oggetto per volta, ed era un bene perché altrimenti avreb-bero parlato tutti insieme.E il folletto diede la parola alla pattumiera che conteneva i vecchi gior-nali: «È mai possibile» le chiese, «che non sappiate che cos’è la poesia?».«Sì che lo so» disse la pattumiera, «sono cose che stanno in basso neigiornali e vengono ritagliate! Credo di averne dentro di me piùdello studente, e in confronto al droghiere sono solo una miserapattumiera!».E il folletto diede la parola al macinino da caffè, ah, come girava! E ladiede alla botticella del burro e al cassetto del danaro; erano tutti delparere della pattumiera, e ciò che trova d’accordo la maggioranza biso-gna rispettarlo.«Adesso lo studente sentirà!» e così il folletto salì piano piano per lascala di servizio fino alla soffitta dove abitava lo studente. La luce eraaccesa e il folletto guardò dal buco della serratura e vide lo studente cheleggeva il libro lacero che aveva ricevuto giù dabbasso. Ma quanta lucec’era lì dentro! Dal libro usciva un raggio limpido che si trasformava inun tronco, in un albero imponente che saliva in alto e allargava i suoirami sopra lo studente. Ogni foglia era fresca e ogni fiore era una splen-dida testa di fanciulla, alcune con gli occhi scuri e splendenti, altreazzurri e straordinariamente limpidi. Ogni frutto era una stella scintil-lante e poi cantavano e suonavano in un meraviglioso splendore!No, una meraviglia come quella il piccolo folletto non l’aveva mai nep-pure immaginata, figuriamoci vista o sentita. E così rimase in punta dipiedi, guardò e guardò finché la luce non si spense; sicuramente lo stu-dente soffiò sulla candela e andò a letto, mentre il piccolo follettorimase perché il canto risuonava ancora dolce e splendido, una graziosaninna nanna per lo studente che andava a riposare.«È straordinario!» disse il piccolo folletto. «Non me lo sarei mai aspet-

tato! Credo che rimarrò dallo studente!», e pensò e ripensò, saggia-mente, e alla fine sospirò: «Lo studente non ha il riso al latte!» e così sene andò, già, tornò giù dal droghiere; e fu un bene, perché la pattu-miera aveva consumato quasi tutte le parole della signora dicendodall’inizio alla fine tutto ciò che conteneva, e ora stava quasi per girar-si per dire le stesse cose dalla fine all’inizio, quando il folletto arrivò ele tolse la facoltà di parlare per restituirla alla signora; ma da quel mo-mento tutta la bottega, dal cassetto del danaro alla legna spaccata, fudel parere della pattumiera, e la stimarono tanto, fidandosi al puntoche quando il droghiere in seguito leggeva le «Recensioni sull’arte e sulteatro» nel suo «Giornale», quello della sera, pensavano che tutto ve-nisse dalla pattumiera.Ma il piccolo folletto non se ne stava più lì ad ascoltare tranquillamen-te tutta quella saggezza e quel buon senso, no, appena si accendeva laluce in soffitta era come se i raggi fossero delle robuste cime d’ancorache lo tiravano fin lassù, e non poteva fare a meno di andare a guardaredal buco della serratura, e lì veniva avvolto da una grandezza comequella che percepiamo di fronte a un mare agitato, quando Dio lo sor-vola nella tempesta; al folletto capitava di scoppiare a piangere e senzasapere nemmeno lui perché piangeva, ma in quel pianto c’era qualcosadi così benedetto! Come doveva essere incomparabilmente bello sederesotto quell’albero con lo studente, ma non poteva accadere… lui si ac-contentava del buco della serratura. Ed era ancora lì sul corridoiofreddo quando il vento autunnale scese dallo sportello della soffitta efaceva così freddo, così freddo, ma il piccolo se ne accorse solo quandola luce in soffitta venne spenta, e i suoni si smorzarono nel vento. Uh!Quanto aveva freddo, e se ne tornò strisciando nell’angoletto tiepido; lìsi stava bene! E quando a Natale arrivò il riso al latte con un bel pezzodi burro… be’, allora il droghiere era il maestro!Ma in piena notte il folletto si svegliò per un terribile baccano sulle im-poste della finestra, lì fuori qualcuno bussava; il guardiano notturnofischiava, c’era un grande incendio; l’intera strada era avvolta dallefiamme. Era qui in casa o dai vicini? Dove? Che spavento! La mogliedel droghiere era così agitata che si tolse gli orecchini d’oro e se li infilò

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in tasca per salvare almeno qualcosa, il droghiere corse a prendere le sueobbligazioni e la cameriera la sua mantella di seta, poteva permetterse-la; ciascuno voleva salvare il meglio, e così anche il folletto, che in duesalti fu in cima alla scala e in casa dello studente, che se ne stava tuttotranquillo alla finestra a guardare il fuoco nel cortile del vicino. Il pic-colo folletto afferrò sul tavolo il libro meraviglioso, se lo infilò nelberretto rosso tenendolo con entrambe le mani, il tesoro più preziosodella casa era salvo! E poi corse via, fin sul tetto e in cima al comignoloe lì si sedette, illuminato dalle fiamme della casa di fronte, tenendosicon entrambe le mani il berretto rosso con il tesoro. Ora il suo cuorecomprese a chi apparteneva davvero; ma quando il fuoco fu spento elui ritrovò la ragione, ebbene: «Voglio dividermi fra loro!» disse. «Nonposso lasciare del tutto il droghiere per via del riso al latte!».Ed era molto umano! Anche noi andiamo dal droghiere… per il risoal latte.

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Il pupazzo di neve

«Mi sento tutto scricchiolare con questo bel freddo!» disse il pupazzo dineve. «Il vento sa proprio ridare vita! E come mi fissa quel rovente laggiù!»intendeva dire il sole; stava proprio tramontando. «Ma non mi farà batte-re ciglio, terrò ben insieme i cocci!»Aveva al posto degli occhi due grossi pezzi triangolari di tegola; la boccaera un pezzo di un vecchio rastrello, così aveva i denti.Era nato tra gli urrà dei ragazzi, salutato dal suono di campanelli e dalloschioccare delle fruste delle slitte.Il sole tramontò, si alzò la luna piena, tonda e grande, limpida e splendidanell’aria azzurra.«Eccolo che spunta di nuovo da un’altra parte!» disse il pupazzo di neve.Credeva che fosse il sole che tornava a mostrarsi. «Gli ho fatto passare lavoglia di fissare! Ora può starsene lì appeso a fare luce e io posso guardar-mi. Se solo sapessi come si fa a spostarsi! Mi piacerebbe tanto spostarmi! Sepotessi farlo andrei giù a scivolare sul ghiaccio come ho visto fare ai ragaz-zi; ma io non me ne intendo proprio di correre!».«Vai! Vai!» abbaiò il vecchio cane alla catena; era un po’ rauco, lo era daquando faceva il cane da salotto e stava sdraiato sotto la stufa. «Il sole ti in-segnerà a correre! L’ho visto con quello prima di te lo scorso anno e conquello ancora prima. Vai! Vai! E sono scomparsi tutti!».«Non ti capisco, compagno!» disse il pupazzo di neve. «Quello lassù do-vrebbe insegnarmi a correre?» intendeva la luna. «Lui sì che è corso viaprima, quando l’ho guardato fisso, ora sbuca fuori da un’altra parte!».«Tu non sai niente!» disse il cane alla catena. «Ma in fondo sei stato appe-na schiaffato su! Quella che vedi ora viene chiamata luna, quello che se n’è

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FABIAN NEGRINdisegni di

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andato era il sole, tornerà domani mattina, ti insegnerà ben a correre giùnel fosso. Presto cambierà il tempo, lo sento dalla mia zampa posteriore si-nistra che mi fa male. Cambia il tempo!».«Io non lo capisco!» disse il pupazzo di neve. «Ma ho la sensazione che ciòche sta dicendo sia qualcosa di spiacevole. Ho la sensazione che nemmenoquello che fissava e che è andato giù, quello che lui chiama sole, sia mioamico!».«Vai! Vai!» abbaiò il cane alla catena, girò tre volte intorno a se stesso e poisi coricò nella sua cuccia per dormire.Il tempo cambiò davvero. Una nebbia fitta e umida si posò al mattino sututta la zona; all’alba si alzò il vento, che era così gelido, il gelo aumentòdavvero, ma che visione quando il sole si alzò! Tutti gli alberi e i cespuglierano coperti di brina; era come tutto un bosco di coralli bianchi, come setutti i rami fossero coperti di fiori di un bianco splendente. Le numerosis-sime e sottili ramificazioni, quelle che d’estate non si vedono a causa dellefoglie, ora si vedevano tutte; era un merletto, e di un bianco così scintil-lante, come se ogni ramo emettesse un fulgore bianco. La betullapiangente si muoveva al vento, in essa c’era vita, come negli alberi d’estate;era uno splendore incomparabile! E quando il sole cominciò a splendere,be’, come scintillava tutto, come se fosse stato cosparso di polvere di dia-mante e sullo strato di neve per terra brillavano i grandi diamanti. O sipoteva anche credere che fossero accese innumerevoli minuscole candele,ancora più bianche della neve bianca.«È uno splendore incomparabile!» disse una fanciulla che uscì in giardinocon un giovane e si fermò proprio accanto al pupazzo di neve a guardaregli alberi scintillanti. «D’estate non c’è una vista più bella!» disse lei, e isuoi occhi brillavano.«E un tipo come quello non c’è proprio!» disse il giovane e indicò il pu-pazzo di neve. «È straordinario!».La fanciulla rise, fece un cenno col capo al pupazzo di neve e poi con il suoamico danzò sulla neve che scricchiolava sotto di loro come se camminas-sero sull’amido.«Chi erano quei due?» chiese il pupazzo di neve al cane alla catena. «Tu seialla fattoria da più tempo di me, li conosci?»«Certo!» disse il cane alla catena. «Lei mi ha accarezzato, e lui mi ha datoun osso; loro non li mordo!».«Ma che ci fanno qui?» chiese il pupazzo di neve.

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«Innamor-r-r-ati» disse il cane alla catena. «Devono andare ad abitare nellastessa cuccia e rosicare gli ossi insieme. Vai! Vai!».«Quei due sono importanti come te e me?» chiese il pupazzo di neve.«Loro fanno parte dei padroni!» disse il cane alla catena. «Sono propriopoche le cose che uno sa quando è nato ieri! Me ne accorgo da te! Io ho etàe conoscenze, io conosco tutti qui alla fattoria! E ho conosciuto tempi incui non stavo qui al freddo e alla catena. Vai! Vai!».«Il freddo è splendido!» disse il pupazzo di neve. «Racconta, racconta! Manon devi agitare la catena, perché mi sento scricchiolare!»«Vai! Vai!» abbaiò il cane alla catena. «Sono stato cucciolo; piccolo e gra-zioso, dicevano, quando ero sulla poltrona di velluto lì in casa, stavosdraiato in grembo al più importante dei padroni; mi baciavano sul musoe mi pulivano le zampe con un fazzoletto ricamato; mi chiamavano “bel-lissimo”, “frugoletto”, mai poi mi feci troppo grande per loro! Così midiedero alla governante; finii nello scantinato! Puoi guardare laggiù, dadove ti trovi; puoi guardare giù nella stanza dove facevo il padrone; perchécon la governante era così. Certo era un posto meno importante di sopra,ma era più piacevole; non venivo stretto e trascinato dai bambini comesopra. Mi davano del cibo buono come prima e molto più abbondante!Avevo il mio cuscino, e poi c’era una stufa, che in questo periodo è la cosapiù bella del mondo! Io mi infilavo lì sotto fino a scomparirvi. Oh, quellastufa me la sogno ancora. Vai! Vai!».«È così bella una stufa?» chiese il pupazzo di neve. «Mi assomiglia?».«È proprio l’opposto di te! È nera come il carbone! Ha un collo lungo conlo sportello d’ottone. Mangia legna e il fuoco le esce dalla bocca. Bisognastarle accanto proprio vicino, sotto, è un piacere infinito! Dal punto in cuiti trovi dovresti poterla vedere dalla finestra!».E il pupazzo di neve guardò e vide davvero un oggetto nero lucido con losportello d’ottone; in basso era illuminata dal fuoco. Il pupazzo di neve sisentì strano; aveva una sensazione che non riusciva a comprendere; fupreso da qualcosa che non conosceva, ma che tutti gli uomini conosconose non sono pupazzi di neve.«E perché l’hai lasciata?» disse il pupazzo di neve. Sentiva che doveva trattar-si di un essere di sesso femminile. «Come hai potuto lasciare un posto così?».«Ci sono stato costretto!» disse il cane alla catena. «Mi hanno buttato fuorie mi hanno messo qui alla catena. Avevo morso alla gamba il figlio più gio-vane dei padroni perché aveva dato un calcio all’osso che stavo

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rosicchiando; e io penso: osso per osso! Ma la presero male, e da allorasono alla catena e ho perduto la mia voce limpida, senti quanto sonorauco: vai, vai! È stata la fine!».Il pupazzo di neve non ascoltava più; guardava fisso nello scantinato dellagovernante, nella sua stanza dove la stufa stava sulle sue quattro zampe esembrava alta come lui.«Scricchiolo così strano!» disse il pupazzo di neve. «Non entrerò mai lìdentro? È un desiderio innocente e i nostri desideri innocenti dovrebberoavverarsi. È il mio più grande desiderio e sarebbe quasi ingiusto se nonfosse soddisfatto. Devo entrare, devo appoggiarmi a lei, dovessi ancherompere il vetro!».«Non entrerai mai!» disse il cane alla catena. «E se arrivassi alla stufa scom-pariresti. Vai! Vai!».«Sono quasi già scomparso!» disse il pupazzo di neve. «Credo che mispezzerò!».Tutto il giorno il pupazzo di neve se ne stette lì a guardare dalla finestra; albuio la stanza divenne ancora più invitante; dalla stufa giungeva una lucedolce come nemmeno quella della luna o del sole, no, solo la stufa può il-luminare quando dentro c’è qualcosa. Se aprivano lo sportello usciva lafiamma, era un’abitudine che aveva; mandava un bagliore rosso sul voltobianco del pupazzo di neve, illuminava di rosso il suo petto.«Non ce la faccio!» disse. «Come le dona quando tira fuori la lingua!».La notte fu molto lunga, ma non per il pupazzo di neve; stava lì con i suoisplendidi pensieri e gelavano tanto che scricchiolavano.Al mattino le finestre dello scantinato erano gelate, avevano i più bei fioridi ghiaccio che un pupazzo di neve potesse desiderare, ma nascondevanola stufa. I vetri non volevano scongelarsi, non poteva vederla. Scricchiola-va, crepitava, era proprio una gelata che avrebbe dovuto fare contento unpupazzo di neve, ma lui non era contento; avrebbe potuto e dovuto sentir-si felice, ma non era felice, aveva nostalgia della stufa.«È una brutta malattia per un pupazzo di neve!» disse il cane alla catena.«Anch’io ho sofferto di quella malattia, ma l’ho superata! Vai! Vai! Oracambierà il tempo!».E cambiò il tempo, arrivò il disgelo.Il disgelo aumentava, il pupazzo di neve diminuiva. Non diceva niente,non si lamentava, e quello è il segno giusto.Una mattina crollò. Nel punto in cui si trovava rimase in piedi qualco-

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sa che sembrava un manico di scopa, i ragazzini lo avevano costruito lìintorno.«Ora capisco la sua nostalgia!» disse il cane alla catena. «Il pupazzo di neveaveva in corpo un raschietto da stufa! Era quello che si agitava, ora è supe-rato. Vai! Vai!». E presto fu superato anche l’inverno.«Vai! Vai!» abbaiava il cane alla catena; ma le ragazzine in cortile cantavano:

«Sboccia, stellina, splendida e frescapermetti, salice, che il tuo fiore esca,venite cuculi, allodole cantate,è già primavera, poi verrà l’estate!Cucù! Cip cip! Anch’io voglio cantare!Mio caro sole, vienici a trovare!».

E nessuno pensa al pupazzo di neve!

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«Te li do io i tuoi cavalli!» disse il grande Claus, prese il maglio e colpìalla fronte l’unico cavallo del piccolo Claus, che cadde a terra, era pro-prio morto.«Ahimè, ora non ho più nemmeno un cavallo!» disse il piccolo Claus e simise a piangere. Più tardi scuoiò il cavallo, prese la pelle e la fece seccarebene al vento, poi la mise in un sacco che si caricò sulle spalle e se ne andòverso la città per venderla.Doveva fare un bel pezzo di strada, attraversare un grande bosco buio, e orail tempo si fece terribilmente cattivo; si perse completamente e prima chetornasse sulla via giusta era scesa la sera, ed era troppo lontano dalla cittàper tornare a casa prima che facesse notte.Sulla strada c’era una grande fattoria, le imposte erano chiuse ma la luceriusciva a filtrare dall’alto. «Lì avrò certo il permesso di trascorrere la notte»pensò il piccolo Claus, e andò a bussare.La contadina aprì, ma quando sentì cosa voleva gli disse di andarsene perla sua strada, suo marito non era in casa e lei non accoglieva estranei.«Be’, allora mi toccherà coricarmi all’aperto» disse il piccolo Claus, e lacontadina gli chiuse la porta.Lì accanto c’era un grosso covone di fieno, e fra quello e la casa era stata co-struita una baracchetta con il tetto di paglia piatto.«Posso coricarmi lì sopra!» disse il piccolo Claus quando vide il tetto. «Infondo è un bel letto, sicuramente la cicogna non volerà giù a beccarmi legambe». Questo perché sul tetto c’era una cicogna che aveva fatto il nido.Il piccolo Claus si arrampicò sulla baracca, dove si coricò e si girò per stareproprio comodo. In alto le imposte delle finestre non chiudevano bene, ecosì lui poteva guardare dentro la stanza.C’era un grande tavolo apparecchiato, con vino e arrosto e un bel pesce, lacontadina e il sagrestano erano seduti a tavola; non c’era nessun altro, e leigli versava da bere e lui infilava la forchetta nel pesce, perché era una cosache gli piaceva.«Ah, poterne assaggiare un po’!» disse il piccolo Claus allungando il colloverso la finestra. Dio, che bel dolce vedeva lì dentro! Già, era proprio unbanchetto!Ora sentì qualcuno avvicinarsi a cavallo sulla strada in direzione della fat-toria, era il marito della contadina che tornava a casa.Era un così brav’uomo, ma aveva una singolare malattia: non sopportava lavista dei sagrestani; se gliene capitava uno sotto gli occhi diventava proprio

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Il piccolo Claus e il grande Claus

C’erano in una città due uomini che avevano lo stesso nome, entrambi sichiamavano Claus, ma uno possedeva quattro cavalli e l’altro un solo caval-lo; per poterli distinguere l’uno dall’altro, quello che aveva quattro cavalliveniva chiamato il grande Claus, e quello che ne aveva uno il piccolo Claus.Ora sentiamo come se la passavano quei due, perché è una storia vera!Per tutta la settimana il piccolo Claus doveva arare il campo del grandeClaus, e prestargli il suo unico cavallo; poi il grande Claus lo aiutava contutti e quattro i suoi, ma solo una volta a settimana, ed era la domenica. Ac-cidenti come faceva schioccare la frusta su tutti e cinque i cavalli, il piccoloClaus, era come se fossero suoi per quell’unico giorno. Il sole splendeva cosìbello, e tutte le campane del campanile suonavano invitando in chiesa, lagente era tutta in ghingheri. E col libro dei salmi sotto il braccio andava adascoltare il pastore che predicava e guardava il piccolo Claus che arava con icinque cavalli; lui era così contento che fece schioccare di nuovo la frusta egridò: «Arri, cavalli miei!».«Questo non lo devi dire» disse il grande Claus, «perché solo uno è tuo!».Ma quando di nuovo passò qualcuno diretto alla chiesa, il piccolo Clausdimenticò che non poteva dirlo, e allora gridò: «Arri, cavalli miei!».«Be’, voglio pregarti di non farlo!» disse il grande Claus. «Perché se lo diraiancora colpirò il tuo cavallo sulla fronte e morirà sul posto, così per luisarà finita!».«Giuro che non lo dirò più!» disse il piccolo Claus, ma quando passaronodelle persone e lo salutarono col capo fu così contento, gli sembrava cosìbello avere cinque cavalli per arare il suo campo, e allora schioccò la frustae gridò: «Arri, cavalli miei!».

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STEFANO RICCIdisegni di

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«Dice» rispose il piccolo Claus, «che ha fatto comparire anche tre bottigliedi vino per noi, sono nel cantuccio vicino al forno!». Allora la moglie do-vette tirare fuori il vino che aveva nascosto e il contadino bevve e divennecosì allegro: un mago come quello che il piccolo Claus aveva nel sacco glisarebbe piaciuto terribilmente averlo.«Può anche far comparire il diavolo?» chiese il contadino. «Mi piacerebbeproprio vederlo, perché ora sono così allegro!».«Sì» disse il piccolo Claus, «il mio mago può fare tutto ciò che gli chiedo.Non è vero?» chiese, e pestò il sacco che scricchiolò. «Lo senti che dice disì? Ma il diavolo è così brutto, non vale la pena vederlo!».«Oh, non ho per niente paura, che aspetto potrà avere?».«Be’, avrà proprio l’aspetto di un sagrestano!».«Uh!» disse il contadino. «Che brutto! Dovete sapere che non sopporto lavista dei sagrestani! Ma non fa niente, in fondo lo so che è il diavolo, per-ciò sicuramente riuscirò ad accettarlo meglio! Ora ho coraggio! Ma nondeve avvicinarsi troppo».«Ora chiederò al mio mago» disse il piccolo Claus, pestò il sacco e tese l’o-recchio.«Che dice?».«Dice che potete andare ad aprire la cassapanca che c’è nell’angolo, e allo-ra vedrete il diavolo che se ne sta lì ad ammuffire, ma dovete tenere ilcoperchio per non farlo scappare».«Volete aiutarmi a tenerlo?» disse il contadino e andò verso la cassapancadove la moglie aveva nascosto il vero sagrestano, che se ne stava lì a trema-re di paura.Il contadino sollevò un poco il coperchio e guardò dentro: «Uh!» gridò efece un balzo indietro. «Certo, ora l’ho visto, sembrava proprio il nostro sa-grestano! No, era spaventoso!».Dovettero berci sopra, e così bevvero fino a notte tarda.«Quel mago devi vendermelo» disse il contadino, «chiedi tutto ciò chevuoi! Ti darò subito un moggio pieno di monete!».«No, non posso!» disse il piccolo Claus. «Pensa ai vantaggi che mi può pro-curare questo mago!».«Ah, vorrei tanto averlo» disse il contadino e continuò a pregare.«Ebbene» disse infine il piccolo Claus, «poiché sei stato così buono dadarmi rifugio per questa notte, allora d’accordo, avrai il mago per un mog-gio di monete, ma voglio che il moggio sia pieno fino all’orlo».

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furioso. Ed era per questo che il sagrestano era andato a salutare la mogliequando sapeva che il marito non era in casa, e per questo la brava donnagli aveva servito il cibo migliore che aveva; quando lo sentirono arrivare sispaventarono tanto, e la donna pregò il sagrestano di infilarsi in una gran-de cassapanca vuota che c’era nell’angolo; e lui fece così, perché sapeva chequel pover’uomo non sopportava la vista dei sagrestani. La moglie nascosein fretta e furia nel forno tutto quello splendido cibo e il vino, perché se ilmarito lo avesse visto, sicuramente avrebbe chiesto delle spiegazioni.«Eh già!» sospirò il piccolo Claus sulla baracca quando vide tutto il ciboscomparire.«C’è qualcuno lassù?» chiese il contadino e alzò lo sguardo verso il piccoloClaus. «Perché stai sdraiato lì? Entra piuttosto in casa con me!».Così il piccolo Claus gli raccontò come si fosse perduto, e gli chiese dipoter rimanere per la notte.«Ma certo!» disse il contadino. «Ma ora è meglio che ci prendiamo un po’da mangiare!».La moglie li accolse entrambi molto gentilmente, apparecchiò una lungatavola e diede loro una grossa scodella di farinata. Il contadino avevafame e mangiò con vero appetito, ma il piccolo Claus non poteva fare ameno di pensare al bell’arrosto, al pesce e al dolce che aveva visto na-scondere nel forno.Sotto il tavolo, accanto ai piedi, aveva posato il sacco con la pelle di caval-lo, perché lo sappiamo bene che se l’era portata da casa per venderla incittà. La farinata proprio non gli piaceva, e allora pestò il sacco e la pellesecca scricchiolò forte.«Shhh!» disse il piccolo Claus al sacco, ma nello stesso istante lo pestò dinuovo, e così scricchiolò molto più forte di prima.«Ma che cos’hai nel tuo sacco?» chiese di nuovo il contadino.«Oh, è un mago!» disse il piccolo Claus. «Dice che non dobbiamo man-giare la farinata, con la sua magia ha riempito tutto il forno di arrosto epesce e dolce».«Che cosa?» disse il contadino, e in un lampo aprì il forno dove vide tuttoquel ben di Dio nascosto dalla moglie, e credette che lo avesse fatto com-parire per loro il mago nel sacco. La moglie non osò dire niente, ma misesubito il cibo in tavola, e così assaggiarono il pesce e l’arrosto e il dolce. Orail piccolo Claus pestò di nuovo il suo sacco e la pelle scricchiolò.«Che dice ora?» chiese il contadino.

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«Lo avrai» disse il contadino, «ma quella cassa devi portartela via, non vo-glio averla in casa un’ora di più, non si può mai sapere, magari sta ancoralì dentro».Il piccolo Claus diede al contadino il sacco con la pelle e ne ebbe in cam-bio un moggio di monete, e pieno fino all’orlo. Il contadino gli regalòpersino una carriola per portar via le monete e la cassapanca.«Addio!» disse il piccolo Claus, e se ne andò con le monete e la grossa cas-sapanca dove c’era ancora il sagrestano.Dall’altro lato del bosco c’era un fiume grande e profondo, l’acqua scorre-va via così forte che si riusciva a malapena a nuotare controcorrente; sopraci avevano costruito un nuovo ponte, il piccolo Claus si fermò lì al centroe disse piuttosto forte, perché il sagrestano nella cassapanca lo sentisse:«Ma no, che devo farmene di quella stupida cassapanca? È pesante come seci fossero dentro delle pietre! Mi stanco molto a portarla, perciò la getterònel fiume e se galleggerà fino a casa mia, bene, se no fa lo stesso».Afferrò la cassapanca con una mano e la sollevò un poco, come se volessegettarla nell’acqua.«No, non farlo!» gridò il sagrestano nella cassapanca. «Fammi uscire!».«Uh!» disse il piccolo Claus, e fece finta di spaventarsi. «È ancora lì dentro!Devo gettarla subito nel fiume, perché possa affogare!».«Oh no, oh no!» gridò il sagrestano. «Ti darò un intero moggio di monetese non lo farai!».«Be’, allora è un’altra cosa!» disse il piccolo Claus e aprì la cassapanca. Il sa-grestano strisciò subito fuori e spinse la cassapanca vuota nell’acqua, poiandò a casa sua e diede al piccolo Claus un intero moggio di monete: conquello che aveva ricevuto prima dal contadino aveva tutta la carriola pienadi monete!«Guarda un po’, quel cavallo mi è stato pagato piuttosto bene!» si disse unavolta tornato a casa, e rovesciò tutte le monete in un grosso mucchio inmezzo alla stanza. «Il grande Claus si arrabbierà quando verrà a saperequanto sono diventato ricco col mio unico cavallo, ma io non voglio dir-glielo apertamente!».Allora mandò un garzone dal grande Claus per farsi prestare un moggio.«Che cosa vorrà farsene?» pensò il grande Claus e spalmò del catrame sulfondo perché potesse rimanerci attaccato un po’ di ciò che veniva misura-to, e così fu, perché quando ebbe indietro il moggio c’erano attaccate tremonete d’argento da otto scellini nuove nuove.

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modo che non potesse cadere giù durante il tragitto e così partirono attra-verso il bosco; quando il sole si alzò erano davanti a una grande locanda; lìil piccolo Claus si fermò ed entrò per prendere un po’ da mangiare.Il locandiere era ricchissimo, ed era anche un uomo molto buono, ma unpo’ collerico, come se in lui ci fossero pepe e tabacco.«Buon giorno!» disse al piccolo Claus. «Ti sei vestito presto per la festa, oggi!».«Già» disse il piccolo Claus, «devo andare in città con la mia vecchianonna, è fuori, seduta sul carro, non riesco a farla entrare. Non volete por-tarle un bicchiere di idromele? Ma dovete parlare piuttosto forte, perchénon ci sente bene».«Lo farò!» disse il locandiere, e versò un grosso bicchiere di idromele, cheportò alla nonna morta che stava sul carro.«Ecco un bicchiere di idromele da parte di vostro nipote!» disse il locan-diere, ma la morta non disse nemmeno una parola e rimase seduta insilenzio!«Non sentite?» gridò il locandiere quanto forte poteva. «Ecco un bicchieredi idromele da parte di vostro nipote!».Ancora una volta gridò la stessa cosa, e poi ancora, ma visto che quella nonsi muoveva lui si arrabbiò e le gettò il bicchiere proprio in faccia, l’idrome-le le colava giù per il naso e la nonna cadde all’indietro nel carro, perché erasolo appoggiata e non legata.«E allora!» gridò il piccolo Claus, corse fuori dalla porta e prese il locan-diere per il bavero. «Hai ammazzato mia nonna! Guarda, ha un grossobuco sulla fronte!».«Oh, è stata una disgrazia!» gridò il locandiere giungendo le mani. «È tuttacolpa della mia collera! Dolce piccolo Claus, ti darò un intero moggio dimonete e farò seppellire tua nonna come se fosse la mia, ma non dirlo anessuno, altrimenti mi taglieranno la testa, e sarebbe proprio terribile!».Così il piccolo Claus ricevette un intero moggio di monete, e il locandiereseppellì la vecchia nonna come se fosse stata la sua.Quando il piccolo Claus tornò a casa con tutte quelle monete, mandò su-bito il suo garzone dal grande Claus per pregarlo di prestargli un moggio.«Che cosa?» disse il grande Claus. «Ma non l’ho ucciso? Devo andare acontrollare di persona» e così andò di persona dal piccolo Claus con ilmoggio.«Ma dove hai preso tutte quelle monete?» chiese con tanto d’occhi, nel ve-dere quante se n’erano aggiunte.

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«Che cosa?» disse il grande Claus, e corse subito dal piccolo Claus: «Dovehai avuto tutto quel danaro?».«Oh, è per la mia pelle di cavallo, l’ho venduta ieri sera!».«Te l’hanno pagata bene!» disse il grande Claus, corse subito a casa, preseuna scure e colpì in fronte tutti e quattro i suoi cavalli, li scuoiò e andò incittà a vendere le pelli.«Pelli! Pelli! Chi vuol comprare pelli!» gridava per le strade.Tutti i ciabattini e i conciatori arrivarono di corsa e chiesero quanto volevaper le pelli.«Un moggio di monete ciascuna» disse il grande Claus.«Ma sei scemo?» dissero tutti insieme. «Credi forse che abbiamo le mone-te a moggi?».«Pelli! Pelli! Chi vuol comprare pelli» gridò di nuovo, ma a tutti quelli chechiedevano il prezzo delle pelli rispondeva: «Un moggio di monete».«Vuole prenderci in giro» dissero tutti, e allora i ciabattini presero le lorocorregge e i conciatori i loro grembiuli di pelle e cominciarono a picchiareil grande Claus.«Pelli, pelli!» lo schernivano. «Te la conciamo noi per le feste, la pelle! Cac-ciatelo fuori dalla città!» gridavano, e il grande Claus dovette correrequanto poteva, non era stato mai picchiato così tanto.«Be’!» disse quando tornò a casa. «Il piccolo Claus dovrà pagarla, lo am-mazzerò per questo!».Ma a casa del piccolo Claus era morta la vecchia nonna; è vero che era statavillana e cattiva, ma lui era lo stesso piuttosto addolorato; prese la morta ela coricò nel suo letto caldo per vedere se poteva tornare a vivere; lì sareb-be rimasta tutta la notte, mentre lui si sarebbe messo in un angolo adormire su una sedia, lo aveva già fatto in passato.La notte, mentre era seduto lì, la porta si aprì ed entrò il grande Claus conla sua scure; sapeva bene dov’era il letto del piccolo Claus; andò dritto drit-to verso il letto e colpì sulla fronte la nonna morta, perché credeva chefosse il piccolo Claus.«Ecco qui!» disse. «Ora non mi prenderai più in giro!» e poi se ne tornò a casa.«Ma che uomo malvagio!» disse il piccolo Claus. «Voleva ammazzarmi, èstato un bene per la vecchia nonna essere già morta, altrimenti le avrebbetolto la vita!».Ora vestì la vecchia nonna con gli abiti della domenica, si fece prestare uncavallo dal suo vicino, lo attaccò al carro e la mise sul sedile posteriore in

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«E io poveretto!» disse il mandriano. «Sono così vecchio e ancora non ri-esco ad andarci!».«Apri il sacco!» gridò il piccolo Claus. «Infilati dentro al posto mio, e an-drai subito nel regno dei cieli!».«Certo, lo faccio proprio volentieri» disse il mandriano e slegò il piccoloClaus che subito saltò fuori.«Bada tu al bestiame» disse il vecchio e si infilò nel sacco. Il piccolo Clauslo legò e se ne andò per la sua strada con tutte le mucche e i tori.Poco dopo il grande Claus uscì dalla chiesa e si rimise il sacco sulle spalle,ed è anche vero che gli sembrava così leggero, perché il vecchio mandrianonon pesava più della metà del piccolo Claus! «Quanto è diventato leggero!Sarà certamente perché ho ascoltato un salmo!» e così andò al fiume, cheera grande e profondo, gettò nell’acqua il sacco col vecchio mandriano e gligridò dietro, perché credeva che fosse il piccolo Claus: «Ecco, ora non miingannerai più!».Poi si incamminò verso casa, ma giunto all’incrocio delle strade incontrò ilpiccolo Claus che spingeva tutto il suo bestiame.«Che cosa?» disse il grande Claus. «Ma non ti ho affogato?».«Certo!» disse il piccolo Claus. «Mi hai gettato nel fiume una mezz’o-retta fa!».«Ma dove hai preso tutto quello splendido bestiame?» chiese il grandeClaus.«È bestiame di mare!» disse il piccolo Claus. «Ti racconterò tutta la storia, eanzi ti ringrazio di avermi affogato, ora sono a cavallo, sono davvero ricco,credimi! Avevo così paura quando ero nel sacco e il vento mi sibilava nelleorecchie, quando mi hai gettato giù dal ponte nell’acqua fredda. Sono an-dato subito a fondo, ma non mi sono fatto male, perché laggiù cresce unabella erba soffice. Io ci sono caduto sopra, e subito il sacco si è aperto e lafanciulla più bella, in abiti bianchi come la neve e con una corona verde suicapelli bagnati, mi ha preso per mano e ha detto: «Sei tu il piccolo Claus?Innanzitutto ecco qui un po’ di bestiame! Un miglio a monte della strada c’èancora una mandria intera che voglio regalarti!». Allora ho visto che il fiumeera una grande strada maestra per la gente del mare. Giù sul fondo cammi-navano e andavano in carrozza, uscendo dal mare fino nell’entroterra, findove termina il fiume. Era così bello, con i fiori e l’erba freschissima, e ipesci che nuotavano nell’acqua mi sfioravano le orecchie, come gli uccelliqui nell’aria. Che bella gente e che bestiame, pascolava per fossi e prati!».

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«Quella che hai ammazzato era mia nonna, e non io!» disse il piccoloClaus. «Ora l’ho venduta e mi hanno dato un moggio di monete!».«Te l’hanno pagata bene!» disse il grande Claus e si affrettò a tornare acasa, prese una scure e subito ammazzò la sua vecchia nonna, la mise nelcarro, andò in città dove abitava il farmacista e chiese se voleva comprareuna morta.«Chi è, e dove l’avete presa?» chiese il farmacista.«È mia nonna!» disse il grande Claus. «L’ho ammazzata per un moggio dimonete!».«Signore Iddio!» disse il farmacista. «Voi parlate troppo! Non dite una cosadel genere, perché potreste rimetterci la testa!» E gli spiegò bene quale azio-ne terribilmente malvagia avesse compiuto, e che uomo cattivo fosse, e cheavrebbe dovuto essere punito; il grande Claus si spaventò tanto che corsedritto fuori dalla farmacia e salì sul carro, frustò i cavalli e si precipitò acasa, ma il farmacista e tutti gli altri credevano che fosse pazzo, e perciò lolasciarono andare dove voleva.«Questa la pagherai!» disse il grande Claus quando fu sulla strada. «Sì, que-sta la pagherai, piccolo Claus!» e appena tornato a casa prese il sacco piùgrande che riuscì a trovare, andò dal piccolo Claus e disse: «Mi hai ingan-nato di nuovo! Prima ho ammazzato i miei cavalli, poi la mia vecchianonna! È tutta colpa tua, ma non mi ingannerai mai più» e così prese ilpiccolo Claus per la vita e lo infilò nel sacco, poi se lo mise sulle spalle e gligridò: «Ora vado ad affogarti!».Bisognava camminare un bel pezzo prima di arrivare al fiume, e il piccoloClaus non era così leggero da portare. La strada passava proprio davantialla chiesa, l’organo suonava e il canto che ne usciva era talmente armo-nioso che il grande Claus posò il sacco con il piccolo Claus accanto allaporta della chiesa e pensò che potesse fargli bene entrare a sentire un salmoprima di continuare: tanto il piccolo Claus non poteva uscire e tutti eranoin chiesa; così entrò.«Eh già! Eh già!» sospirava il piccolo Claus nel sacco; si girava e rigirava, maera impossibile sciogliere il nodo; in quella arrivò un mandriano vecchiovecchio, con i capelli bianchissimi e in mano un grosso bastone; spingevaun’intera mandria di mucche e tori, che urtarono il sacco in cui si trovavail piccolo Claus, che si rovesciò.«Eh già!» sospirò il piccolo Claus. «Sono così giovane e devo già andare nelregno dei cieli!».

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«Ma perché sei tornato subito quassù da noi?» chiese il grande Claus. «Ionon l’avrei fatto se laggiù era tutto così grazioso!».«Certo,» disse il piccolo Claus, «perché sono furbo! Hai sentito quello cheti ho raccontato? La fanciulla del mare mi ha detto che un miglio a montedella strada – e per strada intendeva il fiume, perché altrove non può an-dare – c’è un’altra mandria intera per me. Ma io so che il fiume fa dellecurve, una qui, una lì, la strada si allunga, e invece, a poterlo fare, si puòabbreviare salendo sulla terra e tagliando di nuovo verso il fiume, in questomodo risparmio quasi un mezzo miglio e arrivo più rapidamente al miobestiame marino!».«Oh, sei un uomo fortunato!» disse il grande Claus. «Credi che riceveròanch’io del bestiame marino se andrò sul fondo del fiume?».«Certo, credo di sì» disse il piccolo Claus, «ma io non posso portarti nelsacco fino al fiume, sei troppo pesante per me, se ci vai da solo e ti infili nelsacco, per me sarà un gran piacere gettarti giù».«Ti ringrazio!» disse il grande Claus. «Ma se quando arriverò giù non rice-verò del bestiame marino, allora le prenderai, puoi crederci!».«Oh, no! Non essere così cattivo!» e così andarono al fiume. Quando il be-stiame, che aveva sete, vide l’acqua, corse quanto poteva per scendere a bere.«Guarda come si affrettano!» disse il piccolo Claus. «Non vedono l’ora ditornare sul fondo!».«Sì, ma aiuta prima me!» disse il grande Claus. «Ché altrimenti le prende-rai!» e detto questo si infilò nel grande sacco che era sulla groppa di uno deitori. «Metti dentro una pietra, altrimenti ho paura di non affondare» disseil grande Claus.«Andrà bene così!» disse il piccolo Claus, ma gli infilò lo stesso nel saccouna grossa pietra, lo chiuse legandolo bene e lo spinse giù: plof ed ecco ilgrande Claus nel fiume, e andò subito a fondo.«Ho paura che non troverà il bestiame!» disse il piccolo Claus, e se ne tornòa casa con quello che aveva.

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Le scarpe rosse

C’era una volta una bambina tanto delicata e graziosa, che d’estate andavasempre in giro a piedi nudi, perché era povera, mentre d’inverno portavadei grandi zoccoli di legno, tanto che la piccola caviglia le diventava tuttarossa rossa.Al centro del villaggio abitava una vecchia calzolaia, che con delle vecchiestrisce di stoffa rossa cucì come meglio poteva un paio di scarpette: venne-ro fuori molto goffe, ma l’intenzione era buona, e le avrebbe date allabambina. La bambina si chiamava Karen.Karen ricevette le scarpe rosse e le indossò per la prima volta proprio ilgiorno in cui veniva sepolta sua madre; è vero che non erano proprio adat-te per un funerale, ma non ne aveva altre, e così vi infilò i piedi nudi ecamminò dietro la povera bara di paglia.In quel momento passò una grande vecchia carrozza dentro la quale sede-va una vecchia signora importante; vide la bambina ed ebbe compassionedi lei e così disse al pastore: «Ascolta, dammi quella bambina, perché possafarle del bene!».Karen credette che fosse grazie alle scarpe rosse, però la vecchia signoradisse che erano orribili e furono bruciate. Karen fu vestita con abiti pulitie carini; dovette imparare a leggere e cucire e la gente diceva che era gra-ziosa, ma lo specchio le diceva: «Sei molto più che graziosa, sei bella!».Un giorno arrivò la regina, in viaggio per il paese con la figlioletta, che erauna principessa; la gente accorse al castello e c’era anche Karen, e la picco-la principessa con un grazioso abito bianco era affacciata a una finestra perfarsi vedere; non aveva strascico né corona d’oro, ma indossava delle bellescarpe rosse di marocchino; naturalmente erano ben diverse da quelle che

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FRANCESCA GHERMANDIdisegni di

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la calzolaia aveva cucito per la piccola Karen. Ma niente al mondo si pote-va paragonare a un paio di scarpe rosse!Ora Karen era abbastanza grande per la confermazione, ebbe degli abitinuovi e dovette farsi fare anche delle scarpe nuove. Il ricco calzolaio dellacittà le misurò il piedino, glielo misurò a casa sua, dove c’erano grandi ar-madi di vetro con graziose scarpe e stivali lucidi. Era bello, ma la vecchiasignora non ci vedeva molto bene e quindi non si divertiva affatto; fra lecalzature c’era un paio di scarpe rosse, proprio come quelle che indossavala principessa: com’erano belle! Il calzolaio spiegò che erano state cuciteper una contessina, ma poi non erano andate bene.«Sono sicuramente di pelle lucida!» disse la vecchia signora. «Luccicano!».«Sì, luccicano!» disse Karen; le scarpe le andavano bene e furono compra-te; ma la vecchia signora non sapeva che erano rosse, perché non avrebbemai permesso a Karen di andare alla confermazione con le scarpe rosse, malei ci andò.Tutti le osservavano i piedi e attraversando la chiesa fino al coro le sembròche persino i vecchi quadri sulle tombe, i ritratti dei preti e delle loromogli con il colletto inamidato e lunghe vesti nere, fissassero le sue scarperosse; e lei pensava solo a quelle quando il pastore le posò la mano sul capoe parlò del santo battesimo, del patto con Dio e di come da allora in poisarebbe stata una cristiana adulta; l’organo suonava solennemente, le bellevoci dei bambini cantavano e il vecchio cantore cantava, ma Karen pensa-va solo alle sue scarpe rosse.Nel pomeriggio la vecchia signora venne a sapere da tutti delle scarpe rossee disse che era una brutta cosa, che era sconveniente e che da quel mo-mento Karen avrebbe sempre indossato le scarpe nere per andare in chiesa,anche se erano vecchie.La domenica successiva c’era la comunione, e Karen guardò le scarpe nere,guardò quelle rosse, poi ancora quelle rosse e se le infilò.C’era un bel sole; Karen e la vecchia signora passarono per un sentiero inmezzo al grano, un po’ polveroso.Vicino alla porta della chiesa c’era un vecchio soldato con una stampella euna strana barba lunga, più rossa che bianca, perché un tempo era statadavvero rossa; si inchinò fino a terra e chiese alla vecchia signora se potevapulirle le scarpe. E anche Karen allungò il suo piedino. «Che belle scarpeda ballo!» disse il soldato «State ben salde quando ballate!» e batté con lamano sulle suole.

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porta aperta della chiesa vide un angelo con un lungo abito bianco, con leali che dalle spalle gli scendevano fino a terra, il suo sguardo era rigido e se-vero e in mano teneva una grande spada lucente.«Dovrai ballare!» disse. «Ballare con le tue scarpe rosse finché non divente-rai pallida e fredda! Finché la tua pelle sarà raggrinzita come quella di unoscheletro! Dovrai ballare di porta in porta e dove abitano dei bambini su-perbi e vanitosi dovrai bussare, così che ti sentano e abbiano paura! Dovraiballare, ballare...!».«Pietà!» gridò Karen. Ma non sentì cosa rispose l’angelo, perché le scarpe lacondussero oltre il cancello, fuori, nei campi, per strade e sentieri, e dove-va sempre ballare.Una mattina passò ballando davanti a una porta che conosceva bene; den-tro qualcuno cantava dei salmi e poi portarono fuori una bara ornata difiori; allora comprese che la vecchia signora era morta e le sembrò di esse-re ormai abbandonata da tutti e maledetta dall’angelo di Dio.Ballava e doveva ballare, ballare nella notte scura. Le scarpe la trascinaronofra spine e stoppie, si graffiò a sangue; ballò oltre la brughiera fino a unacasupola isolata. Sapeva che lì abitava il boia e bussò con il dito alla finestrae disse:«Vieni fuori! Vieni fuori! Io non posso entrare perché sto ballando!».E il boia le rispose: «Non sai chi sono io? Io taglio le teste ai cattivi, e sentoche la scure sta vibrando!».«Non tagliarmi la testa!» disse Karen. «Altrimenti non potrò pentirmi deimiei peccati! Ma tagliami i piedi con le scarpe rosse!».E così confessò tutti i suoi peccati e il boia le tagliò i piedi con le scarperosse, ma le scarpe continuarono a ballare con i piedini attaccati, verso icampi e nel bosco profondo.E lui le intagliò dei piedi di legno e delle grucce, le insegnò il salmo checantano sempre i peccatori, e lei baciò la mano che aveva calato la scure ese ne andò nella brughiera.«Ho sofferto abbastanza per quelle scarpe rosse!» disse. «Ora voglio andarein chiesa perché mi possano vedere!» e si diresse rapida verso la porta dellachiesa, ma quando arrivò lì le scarpette rosse le ballavano davanti e lei sispaventò e tornò indietro.Per tutta la settimana si addolorò e pianse molte lacrime, ma quandovenne la domenica disse: «Ecco! Adesso ho patito e lottato abbastanza!Credo proprio di essere buona come molti di quelli che siedono in chiesa

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La vecchia signora diede al soldato una monetina e poi entrò in chiesa conKaren. In chiesa tutti guardarono le scarpe rosse di Karen, persino i quadrile guardarono, e quando lei si inchinò all’altare e avvicinò il calice d’oroalla bocca pensava solo alle scarpe rosse, tanto che le sembrò che galleg-giassero dentro; e dimenticò di cantare il salmo, dimenticò di recitare ilPadre Nostro.Poi tutti uscirono dalla chiesa e la vecchia signora salì in carrozza. Karensollevò il piede per salire dietro di lei, e allora il vecchio soldato che era lì vi-cino disse: «Che belle scarpe da ballo!». Karen non riuscì a trattenersi,dovette fare qualche passo di danza, e una volta cominciato le sue gambecontinuarono a ballare, era come se le scarpe avessero un potere su di lei;ballò girando l’angolo della chiesa, non poteva farne a meno; il cocchieredovette rincorrerla, afferrarla e metterla sulla carrozza, ma i piedi continua-vano a ballare, e prendevano a calci orribilmente la buona vecchia signora.Finalmente riuscirono a toglierle le scarpe e le gambe si fermarono.A casa le scarpe furono messe in un armadio, ma Karen non poteva fare ameno di guardarle.La vecchia signora si ammalò, dicevano che non sarebbe vissuta. Dovevaessere curata e assistita e nessuno era più adatto di Karen; ma in città c’eraun gran ballo e Karen era invitata; guardò la vecchia signora che comun-que non sarebbe vissuta, guardò le scarpe rosse e pensò che non ci fosseniente di male; si infilò le scarpe rosse: perché non avrebbe dovuto farlo?Poi andò al ballo e cominciò a danzare.Ma quando voleva andare a destra, le scarpe danzavano a sinistra, e quan-do voleva attraversare la stanza le scarpe la portarono in direzione opposta,giù per le scale, attraverso la strada e fuori dalla porta della città. Ballava eballava, senza riuscire a fermarsi, fin dentro il bosco buio.Qualcosa luccicava fra gli alberi e lei credette che fosse la luna, perché eraun volto, ma era il vecchio soldato con la barba rossa, che le fece dei cennicol capo e disse: «Che belle scarpe da ballo!».Allora lei si spaventò molto e voleva gettare via le scarpe rosse, ma non ri-uscì, e allora si strappò le calze, ma le scarpe si erano attaccate ai piedi, eballava e doveva ballare, per campi e prati, sotto la pioggia e il sole, di gior-no e di notte; e proprio di notte era la cosa più orribile.Ballando entrò nel cimitero aperto, ma i morti non ballavano, avevano dimeglio da fare; voleva sedersi sulla tomba del povero, dove cresceva l’ama-ro tanaceto, ma per lei non c’era pace né riposo, e quando danzò verso la

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a testa alta!» e si avviò con coraggio verso la chiesa; ma non aveva superatoil cancello quando vide le scarpe rosse danzare davanti a lei. Si spaventò etornò indietro e si pentì sinceramente del suo peccato.Andò allora al presbiterio e chiese di essere presa a servizio, voleva esserelaboriosa e fare tutto ciò che poteva, non badava alla paga, le interessavasolo avere un tetto sopra la testa e stare in casa di brava gente. E la mogliedel pastore ebbe compassione di lei e la prese a servizio. E lei fu laboriosae giudiziosa. Sedeva immobile ad ascoltare quando la sera il pastore legge-va la Bibbia a voce alta. Tutti i bambini le volevano bene, ma quandoparlavano di ornamenti e fronzoli e di essere belli come la regina, lei scuo-teva la testa.La domenica successiva andarono tutti in chiesa e le domandarono se vo-leva andare con loro, ma Karen guardò tristemente le sue stampelle e levennero le lacrime agli occhi, e così gli altri andarono ad ascoltare la paro-la di Dio e lei rimase tutta sola nella sua stanzetta; non era più grande diquanto bastava per farci stare il letto e una sedia, e lei si sedette con il suolibro dei salmi; e mentre lo leggeva con spirito devoto, il vento le portòdalla chiesa il suono dell’organo e lei rialzò lo sguardo con le lacrime agliocchi e disse: «Oh Dio, aiutami!».Il sole si mise a splendere luminoso e proprio davanti a lei c’era l’angelo diDio vestito di bianco, quello che aveva visto quella notte sulla porta dellachiesa, ma non aveva più la spada affilata, bensì un bel ramo verde pienodi rose, e con quello toccò il soffitto che si innalzò altissimo, e dove loaveva toccato scintillava una stella d’oro, e toccò le pareti che si allargaro-no, e lei vide l’organo che suonava, vide i vecchi ritratti dei pastori e delleloro mogli; vide i fedeli che sedevano nei banchi ornati e cantavano isalmi. Perché la chiesa era venuta dalla povera fanciulla nella sua angustastanza, o forse lei era andata in chiesa; sedeva accanto agli altri domesticidel pastore e quando ebbero finito il salmo e alzarono lo sguardo annuiro-no e dissero: «Hai fatto bene a venire, Karen!».«È stata la grazia!» rispose lei.E l’organo suonò e le voci dei bambini del coro erano così dolci e belle! Ilsole luminoso arrivava caldo attraverso la finestra fino al banco dove sede-va Karen; il suo cuore era così pieno di sole, di pace e di gioia che si spezzò;la sua anima volò sulla luce del sole fino a Dio, e lassù nessuno le chiesedelle scarpe rosse.

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La sirenetta

In alto mare l’acqua è azzurra come i petali del più bel fiordaliso e limpidacome il cristallo più puro, ma è molto profonda, più profonda di quantoriesca a raggiungere qualsiasi cima d’ancora, molti campanili dovrebberoessere messi uno sopra l’altro per arrivare dal fondo al pelo dell’acqua. Lag-giù vive il popolo del mare.Ora, non bisogna affatto credere che ci sia solo il nudo fondale di sabbiabianca; no, vi crescono le piante e gli alberi più curiosi, con il gambo e lefoglie così flessuosi che al minimo spostamento dell’acqua si muovonocome fossero vivi. Tutti i pesci, piccoli e grandi, guizzano fra i rami, comegli uccelli nell’aria. Nel punto più profondo sorge il castello del re delmare, le mura sono di corallo e le lunghe finestre a punta sono dell’ambrapiù limpida, ma il tetto è fatto di conchiglie che si aprono e si chiudonoai movimenti dell’acqua; è bello, perché ciascuna contiene perle splen-denti, ne basterebbe una sola per fare un grande ornamento sulla coronadi una regina.Laggiù il re del mare era vedovo da molti anni e la sua vecchia madre go-vernava la casa; era una donna intelligente e fiera della sua nobiltà, perciòportava dodici ostriche sulla coda, mentre gli altri nobili potevano portar-ne solo sei. Per il resto meritava molte lodi, specialmente perché volevatanto bene alle piccole principesse del mare, le sue nipotine. Erano seibelle bambine, e la più giovane era la più bella di tutte, la sua pelle era lu-minosa e delicata come un petalo di rosa, i suoi occhi azzurri come il marepiù profondo, ma come tutte le altre non aveva piedi, il corpo terminavain una coda di pesce.Per tutto il lungo giorno potevano giocare giù nel castello, nelle grandi sale

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ANKE FEUCHTENBERGERdisegni di

dove fiori vivi crescevano dalle pareti. Le grandi finestre d’ambra venivanoaperte e così i pesci entravano nuotando, come da noi le rondini entranoquando apriamo le imposte, ma i pesci nuotavano fino alle piccole princi-pesse, mangiavano dalla loro mano e si lasciavano accarezzare.Fuori del castello c’era un grande giardino, con alberi rossi come il fuoco eblu scuro, i frutti splendevano come oro e i fiori come la brace ardente,poiché muovevano continuamente gambo e petali. La terra era la sabbiapiù sottile, ma azzurra come la fiamma dello zolfo. Tutto era avvolto da unsingolare alone celeste e si sarebbe creduto piuttosto di essere nell’aria e divedere solo il cielo sopra e sotto di sé, invece di trovarsi sul fondo del mare.In assenza di vento si poteva scorgere il sole: sembrava un fiore purpureodal cui calice sgorgava tutta la luce.Ciascuna delle principessine aveva la sua piccola aiuola nel giardino dovepoteva scavare e piantare ciò che desiderava; una dava alla sua aiuola laforma di una balena, un’altra preferiva che la sua somigliasse a una sire-na, ma la più giovane aveva fatto la sua rotonda, proprio come il sole, eaveva solo fiori che splendevano rossi come il sole. Era una strana bam-bina, silenziosa e riflessiva, e mentre le altre sorelle decoravano le aiuolecon le cose più singolari che avevano preso dalle navi naufragate, oltre aifiori rossi come le rose che somigliavano al sole lei volle solo una bellastatua di marmo, un bel fanciullo scolpito nella pietra bianca e luminosafinito per un naufragio sul fondo del mare. Piantò vicino alla colonna unsalice piangente rosa, che crebbe meravigliosamente, con i suoi rami fre-schi che scendevano giù verso il fondo azzurro di sabbia dove l’ombra eravioletta e si muoveva come le fronde; sembrava che la cima e le radicigiocassero a baciarsi.Per lei nessuna gioia era più grande che sentir parlare del mondo umanoche c’era fuori; la vecchia nonna doveva raccontarle tutto ciò che sapeva dinavi e città, di uomini e animali, e in particolar modo era affascinata dalfatto che sulla terra i fiori profumassero perché sul fondo del mare non eracosì, e che i boschi fossero verdi e che i pesci che si vedevano fra i rami po-tessero cantare con tale forza e bellezza che era un piacere ascoltarli; eranogli uccellini che la nonna chiamava pesci, perché altrimenti non l’avrebbe-ro compresa dato che non avevano mai visto un uccello.«Quando compirete quindici anni» diceva la nonna, «avrete il permesso diuscire dal mare, sedere al chiaro di luna sugli scogli e vedere le grandi naviche passano, vedrete boschi e città!». L’anno successivo una delle sorelle

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compiva quindici anni, ma le altre erano ciascuna un anno più giovanedell’altra, la più giovane aveva dunque ancora cinque anni prima di potersalire dal fondo del mare e vedere com’era qui da noi. Ma ognuna promiseall’altra di raccontare ciò che aveva visto e trovato più bello il primo gior-no; perché la nonna non raccontava loro abbastanza, c’erano tante cose dicui volevano sapere.Nessuna era impaziente quanto la più giovane, proprio lei che dovevaaspettare più a lungo e che era così silenziosa e pensierosa. Molte notti ri-maneva alla finestra aperta a guardare verso l’alto attraverso l’acquaazzurra, dove i pesci battevano le pinne e la coda. Poteva vedere la luna e lestelle, è vero che brillavano deboli, ma attraverso l’acqua apparivano moltopiù grandi di come le vediamo noi; se qualcosa che sembrava una nuvolascura scivolava davanti a loro, lei sapeva che era una balena che nuotavasopra di lei, o forse una nave con tanti uomini a bordo; loro certamentenon immaginavano che una bella sirenetta fosse lì sotto e protendesse lesue mani bianche verso la chiglia.Ora la principessa più grande compì quindici anni e poté salire verso la su-perficie del mare.Tornata a casa aveva cento cose da raccontare, ma la cosa più bella, disse,era stare distesa al chiaro di luna su un banco di sabbia nel mare calmo evedere, vicino alla costa, la grande città dove le luci brillavano come centi-naia di stelle, sentire la musica e il rumore e il chiasso delle carrozze e degliuomini, guardare i molti campanili e le molte torri, e ascoltare le campaneche suonavano; proprio perché non poteva andare lassù, desiderava più ditutto quei posti.Oh, come ascoltava la sorella più piccola, e quando poi la sera andò alla fi-nestra aperta e guardò in alto attraverso l’acqua blu, pensò alla grande cittàcon tutto quel rumore e quel chiasso, e allora le sembrò di sentire il suonodelle campane della chiesa che giungeva fino a lei.L’anno dopo la seconda sorella ebbe il permesso di salire attraverso l’acquae nuotare fin dove voleva. Si affacciò proprio mentre il sole stava tramon-tando, e trovò che quella vista fosse la più bella. Tutto il cielo sembravaoro, disse, e le nuvole, sì, la loro bellezza non poteva descriverla! Rosse eviola navigavano sopra di lei, ma molto più veloce, come un lungo velobianco, volava sull’acqua verso il sole uno stormo di cigni selvatici; nuotòverso il sole, ma esso calò e i riflessi rosati si spensero sulla superficie delmare e sulle nuvole.

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L’anno successivo salì la terza sorella, era la più ardita di tutte, perciònuotò risalendo un largo fiume che sfociava nel mare. Vide belle collineverdi con vigneti, castelli e fattorie che facevano capolino da magnifici bo-schi; sentì come cantavano tutti gli uccelli e il sole splendeva così caldo chespesso doveva immergersi in acqua per rinfrescarsi il viso infuocato. In unapiccola insenatura incontrò un intero gruppo di bambini; correvano tuttinudi e sguazzavano nell’acqua, lei voleva giocare, ma loro corsero via spa-ventati, e arrivò un piccolo animale nero, era un cane, ma lei non avevamai visto un cane, le abbaiava in modo così terribile che si spaventò etornò in mare aperto, ma non riuscì mai a dimenticare i magnifici boschi,le colline verdi e i graziosi bambini che sapevano nuotare, anche se nonavevano la coda di pesce.La quarta sorella non era così coraggiosa, rimase in mezzo al mare selvag-gio, e raccontò che era proprio quella la cosa più bella; si poteva vederetutto intorno a molte miglia di distanza, e il cielo sopra assomigliava a unacampana di vetro. Aveva visto delle navi, ma molto lontane, che sembrava-no gabbiani, i divertenti delfini che facevano capriole e le grandi baleneche soffiavano acqua dalle narici, cosicché sembrava che tutto intorno cifossero cento fontane.Ora fu il turno della quinta sorella; il suo compleanno era proprio d’inver-no e perciò vide ciò che le altre non avevano visto. Il mare era verde eintorno a lei nuotavano grandi iceberg, ciascuno sembrava una perla,disse, eppure era molto più grande dei campanili costruiti dagli uomini.Assumevano le forme più singolari e scintillavano come diamanti. Si eraseduta su uno dei più grandi e tutti i velieri, spaventati, giravano al largodal punto in cui lei stava seduta e faceva scorrere i suoi lunghi capelli alvento; ma a tarda sera il cielo era così coperto di nubi, lampeggiava e tuo-nava, mentre il mare nero sollevava in alto i grandi blocchi di ghiaccio e lifaceva scintillare sotto i lampi rossi. Tutte le navi ammainavano le vele,c’era paura e terrore, ma lei sedeva tranquilla sul suo iceberg galleggiante eguardava il fulmine azzurro zigzagare nell’acqua splendente.La prima volta che ciascuna delle sorelle era salita a galla, era stata sempreincantata dalle cose nuove e belle che vedeva, ma ora che da fanciulle adul-te avevano il permesso di salire lassù quando volevano tutto era diventatoquasi indifferente, soffrivano di nostalgia e dopo un mese dicevano che giùda loro era il luogo più bello, e che si stava così bene a casa.Molte volte, di sera, le cinque sorelle si abbracciavano e salivano a galla in

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fila; avevano delle belle voci, più belle di quelle di qualsiasi essere umano,e quando era in arrivo una tempesta, e sembrava che qualche nave stesseper naufragare, nuotavano davanti alle navi e cantavano così splendida-mente quanto era bello il fondo del mare e pregavano i marinai di nonavere paura di andare laggiù; ma loro non riuscivano a capire le parole, cre-devano che fosse la tempesta, e nemmeno vedevano la bellezza che c’era lìsotto, perché quando la nave affondava gli uomini affogavano, e al castel-lo del re del mare giungevano solo da morti.Così quando di sera, a braccetto, le sorelle salivano attraverso il mare, lasorella più piccola rimaneva tutta sola e le guardava, e sembrava sempreche stesse per piangere ma la sirena non ha lacrime, e dunque soffremolto di più.«Ah, se solo avessi quindici anni!» diceva. «So che mi piacerebbe davvero ilmondo lassù e gli uomini che lo costruiscono e vi abitano!».Infine compì quindici anni.«Ecco, ora te ne vai anche tu» disse sua nonna, la vecchia regina vedova.«Vieni, lasciati adornare come le altre tue sorelle!» e le mise sui capelli unacorona di gigli bianchi, ma ogni petalo del fiore era la metà di una perla; ela vecchia fece attaccare otto grandi ostriche al collo della principessa permostrare il suo alto lignaggio.«Fa così male!» disse la sirenetta.«Già, si deve soffrire un po’ per essere belle!» disse la vecchia.Oh, avrebbe tanto voluto scuotersi di dosso tutto quello splendore e la-sciare la pesante corona; i fiori rossi che aveva nel suo giardino le donavanomolto di più, ma lei non osava cambiare le cose. «Addio» disse e salì legge-ra e luminosa come una bolla d’aria attraverso l’acqua.Il sole era appena calato quando lei sollevò la testa sopra l’acqua, ma tuttele nuvole splendevano ancora rosa e oro, e in mezzo a quel cielo rosato Ve-nere scintillava così chiara e bella, l’aria era dolce e fresca e il maretranquillissimo. C’era una grande nave con tre alberi, un’unica vela issataperché non c’era un alito di vento e i marinai sedevano in giro sulle sartiee sui pennoni. Si sentivano musica e canti, e man mano che la serata si fa-ceva più buia si accesero centinaia di lampade variopinte; sembrava che lebandiere di tutte le nazioni sventolassero nell’aria. La sirenetta nuotò drit-ta fino alla finestra di una cabina, e ogni volta che l’onda la sollevava inaria poteva guardare dentro dai vetri limpidi come specchi: c’erano tantepersone vestite a festa, ma la più affascinante era il giovane principe con i

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grandi occhi neri. Doveva avere sui sedici anni, e infatti era il suo com-pleanno, perciò si svolgeva tutta quella festa. I marinai ballavano sulponte, e quando il giovane principe uscì, più di cento razzi si alzarono inaria, illuminarono a giorno il cielo, e la sirenetta si spaventò e si immersenell’acqua, ma presto fece di nuovo capolino, e fu come se tutte le stelledel cielo le cadessero addosso. Non aveva mai visto dei fuochi artificialicosì. Grandi soli roteavano, magnifici pesci di fuoco si lanciavano nell’ariaazzurra e tutto scintillava nel mare limpido e tranquillo. La nave era così il-luminata che si riusciva a vedere ogni sartia, e naturalmente le persone.Oh, quanto era bello il giovane principe, e stringeva la mano a tutti, ride-va e sorrideva mentre la musica risuonava nella bella notte.Si fece tardi, ma la sirenetta non riusciva a distogliere gli occhi dalla nave edal bel principe. Le lampade variopinte furono spente, i razzi non salivanopiù nell’aria, non si sentivano più colpi di cannone, ma il fondo del marefrusciava e brontolava; lei intanto era nell’acqua e dondolava su e giù, ecosì poteva guardare nella cabina; poi la nave prese velocità, le vele si allar-gavano una dopo l’altra; ora le onde erano più forti, grosse nubi siaddensavano, lontano lampeggiava. Oh, ci sarebbe stato un tempo terribi-le! Perciò i marinai ammainarono le vele. La nave ondeggiava a grandevelocità sul mare agitato, l’acqua si sollevava come una grande montagnanera che stava per rovesciarsi sull’albero maestro, ma la nave si immergevacome un cigno, giù fra le onde alte, e si lasciava risollevare dalle acque chesi alzavano. Alla sirenetta sembrava un viaggio divertente, ma i marinainon erano della stessa opinione: la nave scricchiolava e rumoreggiava, leassi spesse si gonfiavano sotto i forti colpi, il mare si infuriava contro lachiglia, l’albero si spezzò a metà come un giunco e la nave si coricò su unfianco mentre l’acqua cominciava a entrare. Ora la sirenetta vide che eranoin pericolo, lei stessa dovette stare attenta alle travi e ai frammenti dellanave che galleggiavano sull’acqua. Per un attimo fu così buio che non ri-uscì a vedere nulla, ma quando poi lampeggiò ci fu di nuovo abbastanzaluce per poter riconoscere tutti quelli della nave; ciascuno si dibattevacome meglio poteva; ma lei cercava soprattutto il giovane principe, equando la nave si spezzò lo vide affondare nel mare profondo. Sulle primefu molto contenta, perché ora sarebbe sceso da lei, ma poi si ricordò chegli uomini non possono vivere sott’acqua, e che non avrebbe potuto se-guirla al castello di suo padre se non da morto. No, non doveva morire;perciò nuotò fra travi e tavole che galleggiavano, dimenticò del tutto che

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avrebbero potuto schiacciarla, si immerse e risalì fra le onde e alla fine rag-giunse il giovane principe che quasi non riusciva più a nuotare nel mare intempesta, le braccia e le gambe ormai sfinite, i begli occhi si chiudevano,sarebbe morto se la sirenetta non fosse arrivata. Gli tenne la testa al disopra dell’acqua e lasciò che le onde portassero entrambi dove volevano.Al mattino la tempesta era cessata; della nave non si scorgeva nemmeno untruciolo, il sole saliva rosso e scintillava sull’acqua: era come se le gote delprincipe riprendessero vita, ma gli occhi rimanevano chiusi; la sirena glibaciò la fronte alta e bella e gli lisciò indietro i capelli bagnati; le sembravache somigliasse alla statua di marmo nel suo giardinetto, lo baciò di nuovoe desiderò che potesse vivere.Vide davanti a sé la terraferma, le alte montagne azzurre, simili a grandicigni coricati, sulla cui cima scintillava la neve bianca; giù sulla costa c’era-no bei boschi verdi, e davanti una chiesa o un monastero, non sapevabene, ma era un edificio. Alberi di limone e d’arancio crescevano nel giar-dino e davanti al portone si ergevano grandi palme. Il mare formava quiuna piccola insenatura, era liscio come una tavola ma molto profondo,fino alla roccia dove era stata trascinata la sottile sabbia bianca, fin lì nuotòcon il bel principe, lo posò sulla sabbia ma si preoccupò soprattutto che latesta fosse in alto, verso il sole caldo.Ora le campane del grande edificio bianco si misero a suonare e delle gio-vani fanciulle attraversarono il giardino. Allora la sirenetta nuotò dietroalcune alte pietre che spuntavano dall’acqua, si mise della schiuma delmare sui capelli e sul petto in modo che nessuno potesse vedere il suo visi-no, e poi rimase attenta per vedere chi si avvicinava al povero principe.Non ci volle molto prima che una fanciulla andasse lì, sembrò spaven-tarsi molto, ma solo per un istante, poi andò a chiamare altre persone ela sirena vide che il principe riprendeva vita e sorrideva a tutti quelli chegli stavano intorno, ma a lei non sorrise, del resto non sapeva nemmenoche lo aveva salvato, lei si sentì così triste e quando lo condussero nelgrande edificio si immerse addolorata nell’acqua e tornò a casa, al castel-lo di suo padre.Era sempre stata silenziosa e pensierosa, ma ora lo divenne molto di più.Le sorelle le chiesero cosa avesse visto la prima volta lassù, ma lei non rac-contò nulla.Molte sere e mattine saliva alla spiaggia dove aveva lasciato il principe. Ve-deva i frutti del giardino che maturavano e venivano raccolti, vedeva la

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neve che si scioglieva sulle alte montagne, ma non vedeva il principe, eperciò tornava a casa sempre più triste. L’unica consolazione era starseneseduta nel suo giardinetto e cingere con le braccia la bella statua di marmoche somigliava al principe, ma non si curava dei suoi fiori che crescevanoin un groviglio sui sentieri e intrecciavano i loro lunghi gambi e petali coni rami degli alberi, cosicché era tutto buio.Alla fine non riuscì più a sopportarlo, e raccontò tutto a una delle sue so-relle, e così lo seppero subito anche le altre, ma solo loro e un paio di altresirene, che non lo dissero se non alle amiche più intime. Una di queste co-nosceva il principe, anche lei aveva visto la festa sulla nave, sapeva da doveveniva e dov’era il suo regno.«Vieni sorellina!» dissero le altre principesse, e tenendosi abbracciate saliro-no dal mare davanti al luogo dove sapevano sorgeva il castello del principe.Il castello era fatto di una pietra gialla chiara, scintillante, con grandi scaledi marmo, e una scendeva dritta nel mare. Magnifiche cupole dorate si er-gevano sopra il tetto, e fra le colonne che circondavano l’intero edificioc’erano statue di marmo che sembravano vive. Attraverso il vetro traspa-rente delle alte finestre si vedeva l’interno delle sale più magnifiche, doveerano appesi splendidi arazzi e preziose tende di seta, e tutte le pareti eranoadorne di grandi dipinti ed era proprio un piacere guardarli. Al centro delsalone più grande scrosciava una grande fontana, i getti salivano alti versola cupola di vetro nel soffitto, attraverso la quale il sole splendeva sull’ac-qua e sulle belle piante che crescevano nella grande vasca.Ora sapeva dove viveva il principe, e vi andò molte sere e molte notti sul-l’acqua; si avvicinava alla terra molto più di quanto le altre avessero maiosato, anzi risaliva perfino lo stretto canale sotto la magnifica altana dimarmo che gettava una lunga ombra sull’acqua. Stava lì seduta e guardavail giovane principe che credeva di essere tutto solo al chiaro di luna.Molte sere lo vide navigare e sentì la musica sulla sua magnifica barca dovele bandiere sventolavano; lei faceva capolino dai giunchi verdi, e se il ventosollevava il suo lungo velo argenteo e qualcuno lo vedeva, pensava chefosse un cigno che batteva le ali.Molte notti, quando i pescatori stavano sul mare con le fiaccole, sentivache raccontavano tante cose belle del giovane principe, e questo la rendevacontenta di avergli salvato la vita quando era mezzo morto in balia delleonde, e pensava alla sua testa posata sul suo petto e all’ardore con cui loaveva baciato; lui non ne sapeva nulla, non poteva nemmeno sognarla.

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Voleva sempre più bene agli uomini, sempre più desiderava di poter salirefra loro; il loro mondo le sembrava molto più grande del suo; con le navipotevano volare sul mare, potevano salire sulle montagne, alti sopra le nu-vole, e i paesi che possedevano si estendevano, con boschi e campi, più inlà di quanto lei potesse vedere. C’erano tante cose che le sarebbe piaciutosapere, ma le sorelle non erano in grado di dare una risposta a tutto e per-ciò chiese alla vecchia nonna che conosceva bene il mondo di sopra, chemolto a proposito chiamava «i paesi sopra il mare».«Se gli uomini non affogano» chiese la sirenetta, «possono vivere per sem-pre, non muoiono come noi quaggiù nel mare?».«Sì invece!» disse la vecchia. «Anch’essi devono morire, e la loro vita è per-sino più breve della nostra. Noi possiamo arrivare a trecento anni, peròquando smettiamo di esistere qui, diventiamo schiuma sull’acqua, non ab-biamo nemmeno una tomba quaggiù fra i nostri cari. Noi non abbiamoun’anima immortale, non avremo più vita, siamo come il giunco verde cheuna volta tagliato non può più rinverdire! Gli uomini invece hanno un’a-nima che vive per sempre, vive dopo che il corpo è diventato terra; saleattraverso l’aria trasparente fino alle stelle scintillanti! Come noi saliamodal mare e vediamo i paesi degli uomini, così essi ascendono a splendidiluoghi sconosciuti, quelli che noi non vedremo mai».«Perché non ci è stata data un’anima immortale?» disse la sirenetta triste.«Io darei i miei trecento anni che ho da vivere per poter essere un sologiorno umana e poi aver parte nel mondo celeste!».«Queste cose non devi neppure pensarle!» disse la vecchia. «Noi siamomolto più felici e stiamo molto meglio degli uomini lassù!».«Io dunque devo morire e fluire come schiuma sul mare, e non sentire lamusica delle onde, non vedere gli splendidi fiori e il sole rosso! Non possofare proprio nulla per conquistare un’anima eterna?».«No!» disse la vecchia. «Solo se un essere umano ti avesse così cara da esse-re per lui più del padre e della madre; se con tutti i suoi pensieri e tutto ilsuo amore fosse legato a te e facesse porre dal prete la sua mano destra sullatua con la promessa di esserti fedele per tutta l’eternità, allora la sua animascenderebbe sul tuo corpo e anche tu avresti parte nella felicità umana. Tidarebbe un’anima e conserverebbe la propria. Ma ciò non potrà mai acca-dere! Quanto c’è di bello nel mare, la tua coda di pesce, sulla terra lotrovano brutto, non capiscono proprio niente: lassù per essere belli biso-gna avere due goffi puntelli che chiamano gambe!».

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Allora la sirenetta sospirò e guardò con tristezza la sua coda di pesce.«Accontentiamoci» disse la vecchia, «possiamo saltare e correre per i trecen-to anni che abbiamo da vivere, è un bel po’ di tempo, poi si potrà con tantomaggior piacere riposare nella tomba. Stasera ci sarà un ballo a corte!».Ed era uno splendore come non se ne vedono mai sulla terra. Pareti e sof-fitto della grande sala da ballo erano di vetro spesso ma trasparente.Centinaia di colossali conchiglie, rosse come le rose e verdi come l’erba,erano in fila su ogni lato e avevano dentro un fuoco azzurro che dava luceal salone e scintillava dalle pareti, tanto che il mare all’esterno era tutto il-luminato; si potevano vedere gli innumerevoli pesci, grandi e piccoli, chenuotavano verso il muro di vetro, in alcuni le scaglie scintillavano purpu-ree, in altri sembravano d’argento e d’oro. Nel mezzo della sala scendevaun’ampia corrente dentro la quale tritoni e sirene ballavano al ritmo delloro splendido canto. Gli uomini sulla terra non hanno voci così belle.Quella della sirenetta era la più bella, e tutti le battevano le mani e per unattimo lei sentì il cuore pieno di gioia, perché sapeva di avere la voce piùbella della terra e del mare! Ma subito tornò a pensare al mondo di sopra:non riusciva a dimenticare il bel principe e il dolore di non avere, comelui, un’anima immortale. Perciò uscì di soppiatto dal castello di suo padre,e mentre lì dentro tutto era canto e allegria, lei se ne stava triste nel suogiardinetto. Allora sentì i corni risuonare attraverso l’acqua e pensò: «Orasta navigando, colui che amo più di mio padre e di mia madre, colui alquale è legato il mio pensiero e nelle cui mani metterei la felicità della miavita. Oserei tutto per conquistare lui e un’anima immortale! Mentre le miesorelle ballano nel castello di mio padre, io andrò dalla strega del mare, dilei ho sempre avuto tanta paura, ma forse può aiutarmi!».La sirenetta uscì dal suo giardino diretta verso gli spumeggianti vorticidietro i quali viveva la strega. Non aveva mai percorso quella strada dovenon crescevano fiori, e niente erba marina, solo il nudo fondo sabbiososi estendeva verso i gorghi dove l’acqua, come spumeggiante ruota dimulino, roteava e trascinava nell’abisso quanto afferrava; dovette supera-re quei pericolosi mulinelli per arrivare nel territorio della strega delmare, e qui per un lungo tratto non v’era altra via che attraversare unlimo bollente, la strega lo chiamava la sua torbiera. Dietro c’era la suacasa, al centro di un singolare bosco. Tutti gli alberi e i cespugli eranopolipi, mezzi animali e mezzi piante, sembravano serpenti dalle centoteste che spuntavano dalla terra; tutti i rami erano lunghe braccia, con le

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dita come agili vermi, e falange per falange si muovevano dalla radicefino alla punta estrema. Si avvolgevano intorno a tutto ciò che riusciva-no ad agguantare e non lo lasciavano mai più. La sirenetta rimase fermalì fuori, tutta spaventata; il cuore le batteva dalla paura, stava quasi pertornare sui suoi passi, ma poi pensò al principe e all’anima umana e allo-ra prese coraggio. Si legò intorno alla testa i suoi lunghi capellisvolazzanti perché i polipi non potessero afferrarli, le mani le posò sulseno e poi volò via, come i pesci sanno volare attraverso l’acqua, fra gliorribili polipi che protendevano le loro agili braccia e le dita verso di lei.Vide che ciascuno stringeva qualcosa che aveva afferrato, cento piccolebraccia lo trattenevano come forti lacci di ferro. Uomini morti in mare eaffondati fin laggiù facevano capolino come bianchi scheletri fra le loromembra. I polipi trattenevano timoni di navi e casse, scheletri di anima-li di terra e una sirenetta che avevano catturato e strangolato, e quella fuper lei la cosa più terribile.Ora giunse in mezzo al bosco, a un grande spiazzo pieno di muco dovegrandi e grasse bisce d’acqua si rotolavano mostrando il loro orrido ventregiallastro. In mezzo allo spiazzo sorgeva una casa fatta di ossa bianche diuomini naufragati, e lì abitava la strega del mare e nutriva un rospo dallesue labbra, come gli uomini danno da mangiare lo zucchero a un piccolocanarino. Chiamava pollastrelle le brutte e grasse bisce d’acqua e le facevacontorcere sul suo grande petto fungoso.«So bene cosa vuoi!» disse la strega del mare. «È una cosa stupida, ma co-munque avrai ciò che desideri, perché ti condurrà alla sventura, miasplendida principessa! Tu vorresti disfarti della tua coda di pesce e avere in-vece due monconi con cui camminare come gli uomini, affinché il giovaneprincipe possa innamorarsi di te e tu possa avere lui e un’anima immorta-le!» e nello stesso istante la strega rise in modo così sguaiato e orribile cheil rospo e le bisce caddero a terra contorcendosi. «Arrivi proprio al mo-mento giusto» disse la strega, «domani, quando il sole sorgerà, non avreipotuto aiutarti prima di un altro anno. Ti preparerò una bevanda e conquella, prima dell’alba, dovrai nuotare fino a terra, sederti sulla riva e berla,allora la tua coda si aprirà e si contrarrà a formare ciò che gli uomini chia-mano due belle gambe, ma fa male, è come se una spada affilata tiattraversasse. Tutti coloro che ti vedranno diranno che sei la bambina piùsplendida che hanno mai visto! Conserverai il tuo incedere lieve, nessunadanzatrice sa muoversi lievemente come te, ma ogni passo sarà come cal-

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pestare un coltello affilato e il tuo sangue scorrerà. Se vuoi patire tuttoquesto ti aiuterò!».«Sì!» disse la sirenetta con voce tremante, e pensò al principe e a conqui-stare un’anima immortale.«Ma ricorda» disse la strega, «quando avrai ottenuto un aspetto umanonon potrai più tornare a essere una sirena! Non potrai più scendere nel-l’acqua dalle tue sorelle e al castello di tuo padre, e se non conquisterail’amore del principe facendogli dimenticare per te il padre e la madre, le-gandolo a te con tutti i suoi pensieri e ottenendo che lui faccia unire levostre mani dal prete in modo che diventiate marito e moglie, non otterraiun’anima immortale! Il mattino dopo che avrà sposato un’altra il tuo cuorescoppierà e diventerai schiuma sull’acqua».«Lo voglio!» disse la sirenetta, ed era pallida come una morta.«Ma devi anche pagarmi!» disse la strega. «E non è poco ciò che chiedo. Tuhai la voce più bella quaggiù sul fondo del mare, credi di poterlo incanta-re con quella, ma la voce devi darmela. Voglio la cosa migliore che possiediin cambio della mia preziosa bevanda! Devo metterci dentro il mio sangueperché la bevanda possa essere affilata come una spada a doppio taglio!».«Ma se prenderai la mia voce» disse la sirenetta, «cosa mi rimarrà?».«Il tuo bell’aspetto» disse la strega, «il tuo incedere lieve e i tuoi occhi elo-quenti, con quelli saprai ben ammaliare un cuore umano. Be’, hai perso ilcoraggio? Tira fuori la tua piccola lingua, così la taglierò come pagamento,e tu otterrai la potente bevanda!».«E sia!» disse la sirenetta, e la strega mise su il suo paiolo per bollire la po-zione magica. «La pulizia è una buona cosa!» disse, e strofinò il paiolo conle bisce che annodò insieme; poi si tagliò il petto e fece sgocciolare il suosangue nero, il vapore creava le figure più strane, tanto da far paura. Ogniistante la strega infilava nuove cose nel paiolo, e quando cominciò a bolli-re per bene assomigliava al pianto del coccodrillo. Alla fine la pozione erapronta, aveva l’aspetto dell’acqua più pura!«Eccola!» disse la strega, e tagliò la lingua alla sirenetta che adesso eramuta, non poteva né cantare né parlare.«Se i polipi dovessero afferrarti mentre attraversi il mio bosco» disse la stre-ga, «basta che gli getti addosso una sola goccia di questa pozione e le lorobraccia e dita esploderanno in mille pezzi!» ma la sirenetta non ebbe biso-gno di farlo, i polipi si ritraevano spaventati quando vedevano lasplendente pozione che riluceva fra le sue mani come fosse una stella scin-

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tillante. Così attraversò in breve tempo il bosco, la palude e gli spumeg-gianti vortici.Vedeva il castello di suo padre; le fiamme nella grande sala da ballo eranostate spente; sicuramente lì dentro tutti dormivano, ma non osò andarli acercare ora che era muta e li avrebbe abbandonati per sempre. Sentiva cheil suo cuore si sarebbe spaccato dal dolore. Entrò di soppiatto nel giardino,prese un fiore da ognuna delle aiuole delle sue sorelle, lanciò sul dito millebaci verso il castello e salì attraverso il mare blu.Il sole non era ancora spuntato quando vide il castello del principe e toccòla sontuosa scalinata di marmo. La luna splendeva luminosa. La sirenettabevve la bollente acre pozione, e fu come se una spada a doppio filo le at-traversasse il corpo sottile, svenne e rimase lì come morta. Quando il soleormai splendeva sul mare si destò e sentì un dolore pungente, ma propriodavanti a sé vide lo splendido giovane principe che la sovrastava, tenendofissi su di lei gli occhi neri come il carbone; lei abbassò i suoi e si accorse chela sua coda di pesce era scomparsa e che aveva le più graziose, piccole gambebianche che una fanciullina potesse avere, ma era tutta nuda, perciò si av-volse nella sua ampia, lunga capigliatura. Il principe le chiese chi fosse, ecome fosse giunta lì, e lei lo guardò con dolcezza, eppure con tanta tristez-za, con i suoi occhi blu, visto che parlare non poteva. Allora lui la prese permano e la portò nel castello. A ogni passo che muoveva, come la strega leaveva predetto, era come se calpestasse punte aguzze e coltelli affilati, ma losopportò volentieri; con il principe per mano saliva leggera come una bollad’aria, e lui e tutti gli altri si stupivano del suo passo lieve e grazioso.Le diedero da indossare preziosi abiti di seta e mussola, era la più bella delcastello, ma era muta, non poteva né cantare né parlare. Splendide schiave,vestite di seta e oro, si fecero avanti e cantarono per il principe e i suoi realigenitori; una cantò meglio delle altre e il principe batté le mani e le sorri-se, e allora la sirenetta si rattristò, sapeva che il suo canto sarebbe statomolto più melodioso! Pensò: «Oh, se solo sapesse che per stare accanto alui ho dato via la voce per l’eternità!».Ora le schiave si esibirono in danze lievi e graziose, al ritmo della piùsplendida musica, e allora la sirenetta alzò le sue belle braccia bianche, sisollevò sulla punta dei piedi e si librò nella sala, ballò come nessunoaveva mai ballato; a ogni movimento il suo splendore diveniva ancorapiù visibile, e i suoi occhi parlavano al cuore più profondamente delcanto delle schiave.

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Tutti ne erano commossi, specialmente il principe, che la chiamava la suatrovatella, e lei ballava sempre di più, sebbene ogni volta che il suo piedetoccava terra fosse per lei come calpestare dei coltelli affilati. Il principedisse che sarebbe stata sempre con lui, e le diede il permesso di dormire da-vanti alla sua porta su un cuscino di velluto.Le fece cucire un abito maschile perché potesse accompagnarlo a cavallo.Cavalcavano attraverso i boschi profumati dove i rami verdi le battevanosulle spalle e gli uccellini cantavano fra le foglie fresche. Lei si arrampicòcol principe sulle alte montagne, e anche se i suoi sottili piedi sanguinava-no al punto che gli altri potevano vederlo, lei si limitò a riderne e lo seguìfinché non videro le nuvole navigare sotto di loro come se fosse uno stor-mo d’uccelli che migrava verso paesi stranieri.La notte, al castello del principe, quando gli altri dormivano lei usciva sul-l’ampia scala di marmo, e infilava i piedi nell’acqua fredda per rinfrescarli,e allora pensava agli abissi.Una notte arrivarono le sue sorelle abbracciate, cantavano con tanto dolo-re nuotando sul pelo dell’acqua, e lei le salutò con un cenno e lariconobbero e raccontarono quanto le avesse rese tutte tristi. Da allora lefecero visita ogni notte, e una notte, in lontananza, vide la vecchia nonnache da anni e anni non veniva a galla, e il re del mare, con la sua corona intesta, che protendevano le mani verso di lei ma non osavano avvicinarsi aterra come le sorelle.Di giorno in giorno diveniva più cara al principe, le voleva bene come sipuò voler bene a un bambino buono e carino, ma farne la sua regina nonera fra i suoi pensieri, mentre lei doveva diventare sua moglie, altrimentinon avrebbe avuto un’anima immortale e il mattino delle sue nozze si sa-rebbe trasformata in schiuma sul mare.«Non mi vuoi bene più che a ogni altra?» sembravano dire gli occhi dellasirenetta quando lui la prendeva fra le braccia e le baciava la bella fronte.«Certo, tu mi sei più cara di chiunque altro» diceva il principe, «perché haiil cuore più buono e mi sei più affezionata di tutti; somigli a una fanciullache vidi una volta ma certo non troverò mai più. Ero su una nave che fecenaufragio, le onde mi portarono a terra nei pressi di un sacro tempio cu-stodito da alcune fanciulle. La più giovane mi trovò sulla riva e mi salvò lavita, la vidi solo due volte: lei era l’unica che potessi amare in questomondo, ma tu le somigli tanto, quasi sostituisci la sua immagine nella miaanima, visto che lei appartiene al sacro tempio, e per questo la mia buona

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stella ti ha mandata a me, non ci separeremo mai!». «Ah, lui non sa chesono io ad avergli salvato la vita!» pensava la sirenetta. «Io l’ho portato sulmare fino al bosco dove sorge il tempio, io ero dietro la schiuma e osserva-vo se sarebbe arrivato qualche essere umano. Io ho visto la bella fanciullacui vuole più bene che a me!» e la sirena sospirava profondamente, piange-re non poteva. «La fanciulla appartiene al sacro tempio, ha detto che nonuscirà mai nel mondo, non si incontreranno più, io sono con lui, lo vedoogni giorno, lo accudirò, lo amerò, gli sacrificherò la mia vita!».Ma un giorno dissero che il principe si sarebbe sposato con la bella figliadel re vicino! Era per questo che armava una nave così sontuosa. Il princi-pe partiva per vedere le terre del re vicino, dicevano, ma in realtà era pervedere la figlia del re, e portava con sé un grande seguito. La sirenetta peròscosse la testa e rise; conosceva i pensieri del principe molto meglio di tuttigli altri. «Devo partire!» le aveva detto. «Devo vedere la principessa, i mieigenitori lo richiedono, ma non vogliono costringermi a portarla a casacome mia sposa! Non posso amarla! Non somiglia alla bella fanciulla neltempio come le somigli tu, se un giorno dovessi scegliere una sposa, allorasaresti tu, mia muta trovatella con gli occhi che parlano!» e le baciò labocca rossa, giocò con i suoi lunghi capelli e posò il capo sul suo cuore checosì sognò la felicità umana e un’anima immortale.«Tu non temi il mare, mia muta bambina!» le disse quando furono a bordodella sontuosa nave che lo avrebbe portato nelle terre del re vicino; e le rac-contò della tempesta e della bonaccia, dei singolari pesci degli abissi e diciò che vi aveva visto il palombaro, e lei sorrise al suo racconto perché sa-peva meglio di chiunque altro cosa c’era sul fondo del mare.Nella notte illuminata dalla luna, mentre tutti dormivano tranne il timo-niere al timone, stava seduta accanto al parapetto della nave e guardava giùnell’acqua limpida, e le sembrava di vedere il castello di suo padre, e la vec-chia nonna con la corona d’argento sulla testa che guardava verso l’alto,attraverso la corrente, la chiglia della nave. Allora le sue sorelle vennero agalla, la fissarono tristi e si torsero le mani bianche, lei fece loro un cenno,sorrise e avrebbe voluto raccontare che tutto le andava bene, che era felice,ma il mozzo le si avvicinò e le sorelle si immersero, e lui rimase convintoche il bianco che aveva visto fosse la schiuma sul mare.Il mattino dopo la nave entrò nel porto nei pressi della sontuosa città delre vicino. Le campane delle chiese suonavano e dalle alte torri echeggiava-no le trombe mentre i soldati stavano sull’attenti con le bandiere al vento

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e le baionette scintillanti. Ogni giorno c’era una festa. Balli e ricevimentisi susseguivano, ma la principessa non c’era ancora, veniva educata lonta-no di lì, in un sacro tempio, dicevano, lì imparava tutte le virtù reali.Infine arrivò.La sirenetta era ansiosa di vedere la sua bellezza e dovette riconoscerlo, unafigura più graziosa non l’aveva mai vista. La pelle era così sottile e delicata,e dietro le lunghe ciglia scure sorrideva un paio di fedeli occhi blu!«Sei tu!» disse il principe. «Tu che mi hai salvato quando giacevo comemorto sulla costa!» e strinse fra le braccia la sua promessa sposa che arros-siva. «Oh, sono troppo felice!» disse alla sirenetta. «La cosa più bella,quella che non avrei mai osato sperare, si è avverata. Gioirai della mia fe-licità, perché tu mi vuoi più bene di chiunque altro!». E la sirenetta glibaciò la mano e le sembrò di sentire il proprio cuore spaccarsi. Il mattinodelle nozze le avrebbe dato la morte e l’avrebbe trasformata in schiumasul mare.Tutte le campane delle chiese suonavano, gli araldi cavalcavano per le stra-de e annunciavano il fidanzamento. Su tutti gli altari oli profumatiardevano in preziose lampade d’argento. I preti agitarono l’incensiere e lasposa e lo sposo si porsero la mano e ottennero la benedizione del vescovo.La sirenetta era vestita di seta e d’oro e sosteneva lo strascico della sposa,ma le sue orecchie non sentivano la festosa musica, i suoi occhi non vede-vano la cerimonia sacra, pensava alla notte della sua morte, a tutto ciò cheaveva perduto in questo mondo.La sera stessa la sposa e lo sposo salirono a bordo della nave, i cannoni ri-echeggiavano, le bandiere sventolavano, e in mezzo alla nave era stataeretta una preziosa tenda d’oro e porpora e con i più splendidi cuscini: lìgli sposi avrebbero trascorso la silenziosa, fresca notte.Le vele si gonfiarono al vento e la nave scivolò leggera e senza grandi mo-vimenti sul mare limpido.Quando si fece buio furono accese lampade variopinte e i marinai ballaro-no allegre danze sul ponte. La sirenetta ripensò alla prima volta in cui eraemersa dal mare e aveva visto lo stesso splendore e la stessa gioia, e vorticònella danza, si librò come si libra il cigno quando è inseguito, e tutti la ac-clamarono con ammirazione, non aveva mai danzato in modo cosìmeraviglioso; i piedi delicati erano come infilzati da coltelli affilati, ma leinon lo sentiva; il suo cuore era trafitto con maggior dolore. Sapeva che eral’ultima sera in cui vedeva colui per il quale aveva abbandonato la famiglia

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e la casa, per il quale aveva dato la voce e patito quotidianamente infinititormenti, senza che lui se ne avvedesse. Era l’ultima notte, lei respirava lastessa sua aria, vedeva il mare profondo e il cielo azzurro e stellato, unanotte eterna senza pensieri e sogni la attendeva, lei che non aveva anima népoteva conquistarla. E tutto fu gioia e allegria sulla nave fin molto dopo lamezzanotte, lei rise e danzò con il pensiero della morte nel cuore. Il prin-cipe baciò la sua splendida sposa e lei giocò con i suoi capelli neri, e abraccetto andarono a riposare nella sontuosa tenda.Si fece silenzio e quiete sulla nave, solo il timoniere rimase al timone, la si-renetta posò le braccia bianche sul parapetto e cercò l’aurora a oriente,sapeva che il primo raggio di sole l’avrebbe uccisa. Allora vide le sue sorel-le salire dal mare, erano pallide come lei; i loro bei capelli lunghi nonerano più mossi dal vento, erano stati tagliati.«Li abbiamo dati alla strega perché ti aiutasse, perché tu non morissi sta-notte! Ci ha dato un coltello, eccolo! Vedi com’è affilato? Prima che il solesorga devi conficcarlo nel cuore del principe, e quando il suo sangue caldoschizzerà sui tuoi piedi, essi si uniranno in una coda di pesce e tu tornerai aessere una sirena, potrai scendere da noi nell’acqua e vivere i tuoi trecentoanni prima di diventare schiuma di mare morta e salmastra. Affrettati! Unodi voi due deve morire prima dell’alba! La nostra vecchia nonna è addolora-ta al punto che i suoi capelli bianchi sono caduti, come i nostri sono cadutisotto le forbici della strega. Uccidi il principe e torna! Affrettati, vedi la stri-scia rossa in cielo? Fra alcuni minuti il sole sorgerà, e allora dovrai morire!».Emisero un singolare, profondo sospiro e affondarono fra le onde.La sirenetta scostò il telo di porpora della tenda e vide la splendida sposache dormiva con la testa sul petto del principe, e si chinò, lo baciò sullabella fronte, guardò il cielo dove l’aurora riluceva sempre più, guardò ilcoltello affilato e tornò a fissare il principe che in sogno pronunciava ilnome della sua sposa: c’era solo lei nei suoi pensieri. Il coltello le tremò frale mani… ma poi lo gettò lontano fra le onde e nel punto in cui cadde sifecero color porpora, sembrava che dall’acqua stillassero gocce di sangue.Ancora una volta guardò il principe con gli occhi semivitrei, si gettò nel-l’acqua e sentì il corpo che si dissolveva in schiuma.Ora il sole si levò dal mare. I raggi cadevano dolci e caldi sulla schiuma delmare fredda come la morte e la sirenetta non la sentì, vide il sole chiarosopra di lei e cento splendide figure trasparenti che si libravano nell’aria;attraverso di esse poteva vedere le vele bianche della nave e le nubi rosse

del cielo, la loro voce era una melodia, ma così spirituale che nessun orec-chio umano poteva coglierla, come nessun occhio terreno poteva vederle;senza ali si libravano leggere nell’aria. La sirenetta vide che aveva un corpocome loro, che si sollevava sempre più dalla schiuma.«Dove sto andando?» chiese, e la sua voce risuonò come quella degli altriesseri, così eterea che nessuna musica terrena è capace di riprodurla.«Dalle figlie dell’aria!» risposero le altre. «La sirena non ha un’anima im-mortale, non potrà mai averla a meno che non conquisti l’amore di unessere umano! La sua esistenza eterna dipende da un potere sconosciuto,nemmeno le figlie dell’aria hanno un’anima immortale, ma con le buoneazioni possono crearsene una. Voliamo verso i paesi caldi dove l’asfissian-te, pestifera aria uccide gli uomini; e portiamo frescura. Diffondiamo ilprofumo dei fiori e trasmettiamo sollievo e salute. Quando per trecentoanni ci saremo sforzate di fare il bene che possiamo, allora avremo un’ani-ma immortale e parteciperemo alla felicità eterna degli uomini. Tu poverasirenetta con tutto il tuo cuore ti sei sforzata di fare ciò che facciamo noi,hai sofferto e sopportato, ti sei elevata al mondo degli spiriti dell’aria: oraanche tu grazie alle buone azioni potrai crearti un’anima immortale fratrecento anni».E la sirenetta sollevò le sue braccia luminose verso il sole di Dio, e per laprima volta sentì le lacrime. Sulla nave c’era di nuovo rumore e vita, vide ilprincipe con la sua bella moglie che la cercavano, guardavano malinconicila schiuma che ribolliva, come se sapessero che si era gettata fra le onde.Invisibile lei baciò la fronte della sposa, sorrise allo sposo e insieme allealtre figlie dell’aria salì sulla nuvola rosa che navigava nel cielo.«Fra trecento anni ci libreremo così entrando nel regno di Dio!».«Potremmo arrivarci anche prima!» sussurrò una. «Invisibili voliamo nellecase degli uomini dove ci sono bambini, e ogni giorno in cui troviamo unbambino buono che rende felici i suoi genitori e merita il loro amore, Dioabbrevia il tempo della nostra prova. Il bambino non sa quando voliamoattraverso la stanza, e se per gioia gli sorridiamo allora ci viene sottratto unanno dai trecento; ma se vediamo un bambino cattivo e maleducato, allo-ra dobbiamo piangere per il dolore, e ogni lacrima aggiunge un giorno alperiodo della nostra prova!».

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La sirenetta di ANKE FEUCHTENBERGER

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di non aver nulla da temere per sé, ma avrebbe mandato prima qualcunaltro a vedere come stavano le cose. In città tutti sapevano quale straordi-nario potere avesse la stoffa, e tutti erano ansiosi di vedere quanto fosseincapace o stupido il vicino.«Manderò dai tessitori il mio vecchio, onesto ministro!» pensò l’imperato-re. «Lui potrà vedere meglio di tutti che aspetto ha la stoffa, perché hagiudizio e nessuno più di lui è adatto al suo incarico!».Ora il vecchio ministro entrò nella sala dove i due truffatori sedevano a la-vorare con i telai vuoti. «Signore Iddio!» pensò il vecchio ministro e sgranògli occhi! «Non riesco a vedere niente!». Ma non lo disse.I due truffatori lo pregarono di accomodarsi più vicino e chiesero se nonaveva forse un bel disegno e degli splendidi colori. Poi indicarono il telaiovuoto, e il povero vecchio ministro continuava a sgranare gli occhi, manon riusciva a vedere niente perché niente c’era. «Oh Dio!» pensò. «Che iosia stupido? Non l’avrei mai creduto, e nessuno deve saperlo! Che io nonsia all’altezza del mio incarico? No, è meglio non rivelare che non riesco avedere la stoffa!».«Ebbene, non ne dite niente?» disse uno dei tessitori.«Oh, è graziosa! Proprio molto carina!» disse il vecchio ministro e guardòattraverso i suoi occhiali. «Quel disegno e quei colori! Sì, dirò all’impera-tore che mi piace in particolar modo!».«Ebbene questo ci rallegra!» dissero entrambi i tessitori, ed elencarono icolori e parlarono del disegno. Il vecchio ministro ascoltò bene, perchéavrebbe potuto ripetere le stesse parole quando sarebbe tornato dall’impe-ratore, e così fece.Ora i truffatori chiesero altri soldi, altra seta e oro, dovevano usarli per latessitura. Si infilarono tutto in tasca e sul telaio non finì nemmeno un filo,ma continuarono come prima a tessere sul telaio vuoto.Dopo qualche giorno l’imperatore mandò di nuovo un bravo funzionarioper vedere come andava con la tessitura, e se la stoffa sarebbe stata termi-nata presto. Gli andò come all’altro, guardava e guardava, ma poiché nonc’era altro che il telaio vuoto, non poteva vedere niente.«Ebbene, non è una bella pezza di stoffa?» dissero i due truffatori, indican-do e spiegando lo splendido disegno che non c’era.«Stupido non sono!» pensò l’uomo. «Dunque non sono all’altezza del miobuon incarico? Che strano! Ma non bisogna farsi scoprire!» e così lodò lastoffa che non vedeva, e assicurò loro di essere contento dei bei colori e

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I vestiti nuovi dell’imperatore

Molti anni fa viveva un imperatore che amava così tanto i bei vestiti nuoviche spendeva tutti i suoi soldi per agghindarsi. Non gli interessavano i suoisoldati, non gli interessava la commedia né andare in carrozza nel bosco,ma solo farsi vedere con i suoi vestiti nuovi. Aveva una marsina per ogniora del giorno, e come di un re si dice sempre che è in consiglio, di lui sidiceva «l’imperatore è nel guardaroba!».Nella grande città in cui abitava la vita era piuttosto piacevole, ogni giornoarrivavano molti stranieri e un giorno giunsero due truffatori; si spacciava-no per tessitori e affermavano di essere in grado di tessere la stoffa piùsplendida che si possa immaginare. Non solo i colori e il disegno eranoqualcosa di insolitamente bello, ma i vestiti cuciti con quella stoffa aveva-no la straordinaria caratteristica di diventare invisibili a chiunque nonfosse all’altezza del suo incarico o fosse intollerabilmente stupido.«Che splendidi vestiti» pensò l’imperatore, «indossandoli potrò scoprirequali uomini del mio regno non sono all’altezza dell’incarico che ricopro-no e potrò riconoscere gli intelligenti dagli stupidi! Sì, quella stoffa devesubito essere tessuta per me!» e consegnò molto danaro ai due truffatoriperché cominciassero il loro lavoro.Quelli montarono persino due telai e fecero finta di lavorare, ma sul te-laio non avevano nulla. Presto richiesero la seta più sottile e l’oro piùsontuoso; se li infilavano nella borsa e lavoravano con i telai vuoti, e finoa tarda notte.«Ora mi piacerebbe sapere a che punto sono con la stoffa!» pensò l’impe-ratore, ma si sentiva davvero a disagio a pensare che chi era stupido o nonera all’altezza del suo incarico non potesse vederla; naturalmente credeva

BLUTCHdisegni di

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dello splendido disegno. «Sì, mi piace proprio in maniera particolare!»disse all’imperatore.Tutti in città parlavano della meravigliosa stoffa.Ora l’imperatore la volle vedere di persona mentre era ancora sul telaio.Con un’intera schiera di uomini scelti, fra i quali i due bravi vecchi fun-zionari che c’erano già stati, andò dai due astuti truffatori che oratessevano a più non posso, ma senza filo né trama.«Ebbene, non è magnifique?» dissero i due bravi funzionari. «Vostra Mae-stà non vede che disegno, che colori?» e indicavano il telaio vuoto, poichéerano sicuri che gli altri potessero vedere la stoffa.«Che cosa?» pensò l’imperatore. «Io non vedo niente! È terribile! Sono stu-pido? Non sono capace di fare l’imperatore? È la cosa più spaventosa chepotesse accadermi!» «Oh, è molto bella!» disse l’imperatore. «Ha la mia su-prema approvazione!» e annuì soddisfatto osservando il telaio vuoto; nonvoleva dire che non riusciva a vedere niente. Tutto il seguito che aveva consé guardava e guardava e non ne cavava molto più degli altri, ma dicevanocome l’imperatore: «Oh, è molto bella!» e gli consigliarono di indossareper la prima volta quei sontuosi vestiti nuovi alla grande processione che sisarebbe svolta di lì a poco. «È magnifique! Grazioso, eccellente!» passava dibocca in bocca, e tutti erano così sinceramente contenti. L’imperatorediede a ciascuno dei truffatori una croce da cavaliere da appendersi all’aso-la e il titolo di «nobile del telaio».Per tutta la notte che precedeva la processione i truffatori rimasero in pieditenendo più di sedici candele accese. La gente poteva vedere che erano in-daffarati a terminare i vestiti nuovi dell’imperatore. Fecero finta diprendere la stoffa dal telaio, tagliarono nell’aria con grandi forbici, cuciro-no con l’ago senza filo e dissero infine: «Ecco, ora i vestiti sono finiti!».L’imperatore andò personalmente a ritirarli accompagnato dai suoi piùnobili cavalieri, ed entrambi i truffatori sollevarono un braccio in ariacome se tenessero qualcosa e dissero: «Ecco i pantaloni! Ecco la marsina!Ecco il mantello!» e così via. «È leggero come una tela di ragno! Vi sem-brerà di non avere niente sul corpo, ma è proprio questa la sua virtù!».«Già!» dissero tutti i cavalieri, ma non riuscivano a vedere niente, perchéniente c’era.«Vostra Maestà Imperiale, volete ora avere la grazia di togliervi i vestiti?»dissero i truffatori. «Così Vi faremo indossare quelli nuovi, qui davanti algrande specchio!».

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L’imperatore si tolse tutti i vestiti e i truffatori si comportarono come se glidessero ogni capo dei nuovi che avrebbero dovuto cucire, e l’imperatore sigirava e rigirava davanti allo specchio.«Dio come vi stanno bene! Vi vanno a pennello!» dicevano tutti. «Che di-segno! Che colori! È un abito prezioso!».«Fuori stanno aspettando col baldacchino che deve accompagnare VostraMaestà in processione!» disse il maestro di cerimonie.«Sì, del resto sono pronto!» disse l’imperatore. «Non mi sta bene?» e si giròancora una volta davanti allo specchio! Perché ora doveva sembrare cheammirasse davvero i suoi orpelli.I ciambellani che dovevano sostenere lo strascico brancolarono con lemani sul pavimento, come se lo raccogliessero, e camminarono tenendol’aria, non osavano far vedere che non riuscivano a vedere niente.Così l’imperatore andò in processione sotto lo splendido baldacchino etutta la gente per strada e alle finestre diceva: «Dio quanto sono incompa-rabili i vestiti nuovi dell’imperatore! Che splendida coda ha sulla marsina!Come gli sta d’incanto!». Nessuno voleva far vedere che non vedeva nien-te, perché altrimenti sarebbe passato per stupido o non all’altezza del suoincarico. Nessuno dei vestiti del re aveva mai riscosso tanto successo.«Ma non ha niente addosso» disse un bambino. «Signore Iddio, sentite lavoce dell’innocenza» disse il padre; e ognuno sussurrò all’altro ciò che di-ceva il bambino.«Ma non ha niente addosso» gridarono infine tutti insieme. L’imperatoresi fece piccolo piccolo, perché gli sembrava che avessero ragione, mapensò: «Ora devo arrivare fino alla fine della processione». E i ciambellanicamminavano e portavano lo strascico che proprio non c’era.

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tone e una parrucca che sembrava proprio una vera parrucca. Ogni matti-na andava da lui un vecchio domestico che rassettava e faceva la spesa,altrimenti l’anziano signore con i calzoni di pelo era tutto solo nella vec-chia casa; ogni tanto andava alla finestra e guardava fuori e il bambino glifaceva un cenno col capo, e l’anziano signore gli rispondeva, e così si co-nobbero meglio e diventarono amici, sebbene non si fossero mai parlati,ma questo non importava.Il bambino sentì che i suoi genitori dicevano: «Il vecchio lì di fronte se lapassa molto bene, ma è anche terribilmente solo!».La domenica successiva il bambino avvolse qualcosa in un pezzo di carta,scese al portone e quando passò quello che andava a fare la spesa gli disse:«Senti! Vuoi portare questo da parte mia al vecchio signore lì di fronte? Hodue soldatini di stagno, questo è uno dei due; deve averlo perché so che èterribilmente solo».Il vecchio domestico sembrava molto contento, annuì e portò il soldatinodi stagno nella vecchia casa. Più tardi fu chiesto al bambino se aveva vogliadi andare a fare una visita, i suoi genitori gli diedero il permesso e andònella vecchia casa.E i pomi di ottone sulla ringhiera scintillavano molto più del solito,sembrava che fossero stati lucidati in occasione della visita, e sembravache i trombettieri intagliati – perché sulla porta erano intagliati deitrombettieri in mezzo ai tulipani – soffiassero con tutte le forze, le loroguance erano molto più gonfie. E suonavano così: «Tattaratà! Arriva ilbambino! Tattaratà!» e la porta si aprì. In tutto il corridoio c’erano vec-chi ritratti, cavalieri con l’armatura e dame in abiti di seta; e le armaturetintinnavano e gli abiti di seta frusciavano! Poi c’era una scala che un po’saliva e un po’ scendeva, e si arrivava su un’altana che in verità era piut-tosto rovinata, con grossi buchi e lunghe crepe, dai quali però crescevanoerba e foglie perché all’esterno, nel cortile e sul muro, c’erano tante pian-te: sembrava un giardino, ma era solo un’altana. C’erano vecchi vasi difiori con la faccia e le orecchie d’asino; i fiori crescevano come volevano.Un vaso traboccava di garofani, di piante che, germoglio su germoglio,dicevano molto chiaramente: «L’aria mi ha accarezzato, il sole mi ha ba-ciato e mi ha promesso un piccolo fiore per domenica, un piccolo fioreper domenica!».E poi entrarono in una stanza dove le pareti erano tappezzate di pelle diporco sulla quale erano impressi fiori d’oro.

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La vecchia casa

Giù nella strada c’era una casa vecchia vecchia, aveva quasi trecento anni,lo si poteva leggere sulla trave dove l’anno era intagliato insieme a tuli-pani e tralci di luppolo; c’erano interi versi scritti come nei tempiantichi, e su ogni finestra era inciso nel legno un volto che faceva le boc-cacce; un piano spuntava un bel pezzo sopra l’altro, e proprio sotto iltetto c’era una grondaia di piombo con una testa di drago; l’acqua pio-vana sarebbe dovuta uscire dalla bocca, ma usciva dallo stomaco perchéla grondaia aveva un buco.Tutte le altre case della strada erano così nuove e pulite, con grandi finestree mura lisce, si vedeva che non volevano avere niente a che fare con quellavecchia casa; sicuramente pensavano: «Per quanto tempo quel rottamedovrà rendere ridicola questa strada? E poi le sue verande sono tanto spor-genti che dalle nostre finestre nessuno può vedere quello che accadeall’angolo! La scala è larga come quella di un castello e alta come quella diun campanile. La ringhiera di ferro sembra la porta di un vecchio loculo, epoi ha i pomi d’ottone. Che cattivo gusto!».Anche sull’altro lato della strada c’erano case nuove e pulite, e la pensava-no come le altre; ma alla finestra c’era un ragazzino con le guance sane erosse, gli occhi limpidi e radiosi, a lui la vecchia casa sembrava la più belladi tutte, sia alla luce del sole sia al chiaro di luna. E se guardava il murodove l’intonaco si era staccato, poteva star lì a inventarsi le immagini piùstrane, come doveva essere una volta la strada, con le scale, le verande e ifrontoni a punta; vedeva i soldati con le alabarde e le grondaie a forma didrago. Era proprio una casa da guardare! E ci abitava un anziano signoreche portava calzoni di pelo, aveva una giacca con dei grossi bottoni di ot-

HUBERdisegni di

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«La doratura se ne andrà,ma la pelle di porco resterà!»

dicevano le pareti.

E c’erano poltrone con la spalliera alta, riccamente intagliate e con i brac-cioli da entrambi i lati. «Siediti! Siediti!» dicevano. «Uh, come scricchiolo!Adesso mi verrà sicuramente l’artrite come al vecchio armadio! L’artrite allaschiena, uh!».Poi il bambino entrò nella stanza dell’altana dove sedeva l’anziano signore.«Grazie per il soldatino di stagno, mio piccolo amico!» disse il vecchio. «Egrazie per essermi venuto a trovare».«Grazie, grazie!» o meglio «Cric! Cric!» dicevano tutti i mobili; erano tantiche quasi si ostacolavano l’un l’altro nel guardare il bambino.E in mezzo alla parete era appeso un quadro con una bella signora, cosìgiovane, così allegra, ma vestita proprio come ai vecchi tempi, con la cipriasui capelli e i vestiti inamidati; non disse né «grazie» né «cric», ma con isuoi occhi dolci osservò il fanciullo, che subito chiese al vecchio: «Dovel’hai trovata?».«Giù dal rigattiere!» disse l’anziano signore. «Ci sono molti quadri; nessu-no conosce le persone che raffigurano e nessuno se ne cura, perché sonotutti morti e sepolti, ma io ai vecchi tempi l’ho conosciuta e adesso anchelei è morta e sepolta da mezzo secolo».E sotto il quadro, dietro un vetro, c’era un mazzo di fiori appassiti; proba-bilmente anche quelli avevano mezzo secolo, tanto sembravano vecchi. E ilpendolo del grande orologio andava avanti e indietro e la lancetta girava enella stanza tutto divenne ancora più antico, ma loro non se ne accorsero.«A casa mia» disse il bambino, «dicono che sei terribilmente solo».«Oh» rispose lui «i vecchi pensieri vengono a farmi visita, con tutto quello chepossono portare con sé, e adesso vieni anche tu! Io me la passo molto bene».Poi prese da uno scaffale un libro illustrato, c’erano lunghi cortei, le carroz-ze più strane, come non se ne vedono più ai giorni nostri, soldati come fantidi fiori e cittadini con le bandiere al vento; i sarti avevano la loro con unpaio di forbici tenute da due leoni, i ciabattini invece l’avevano senza scar-pe, ma con un’aquila a due teste, perché i ciabattini devono sempre fare inmodo da poter dire: ecco un paio. Be’, quello sì che era un libro illustrato!E l’anziano signore andò in un’altra stanza a prendere marmellata, mele enoci; si stava proprio bene nella vecchia casa.

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riusciva a seguire il ritmo perché le note erano troppo lunghe, e così si ap-poggiava su una gamba chinando la testa in avanti, e poi sull’altrachinando la testa in avanti, ma non funzionava proprio. Voi eravate moltoseri, tutti quanti, sebbene fosse difficile, ma io dentro di me ridevo e per-ciò caddi dal tavolo e mi ammaccai, e sono ancora ammaccato perché nonera giusto da parte mia ridere. Ma ora mi torna tutto in mente, e anchetutto ciò che ho vissuto; e sicuramente questi sono i vecchi pensieri, contutto quello che possono portare con sé! Dimmi un po’, cantate ancora ladomenica? Parlami un po’ della piccola Maria! E come sta il mio compa-gno, l’altro soldatino di stagno? Già, lui sicuramente è felice! Io non ce lafaccio più!».«Ma sei stato regalato!» disse il bambino. «Devi rimanere qui. Non lo ca-pisci?».E l’anziano signore entrò con un cassetto in cui c’erano tante cose da ve-dere: scatoline, piccole bottiglie di profumo e vecchie carte, grandi e doratecome non se ne vedono più. E vennero spalancati altri cassetti e venneaperto il pianoforte: c’era un paesaggio dipinto all’interno del coperchio,ed era così stonato quando l’anziano signore lo suonò; e poi canticchiò unacanzone.«Già, lei sapeva cantarla!» disse e fece un cenno col capo verso il ritratto cheaveva acquistato dal rigattiere, e gli occhi gli brillarono.«Voglio andare in guerra! Voglio andare in guerra!» gridò il soldatino di sta-gno più forte che poteva, e si gettò sul pavimento.E dove andò a finire? Il vecchio cercò, il bambino cercò, ma era scomparsoe non si trovava più. «Lo ritroverò sicuramente!» disse l’anziano signore, manon lo trovò più; il pavimento era troppo sconnesso e bucato; il soldatinodi stagno era caduto in una fessura e rimase lì come in una tomba aperta.E quel giorno passò e il bambino tornò a casa, la settimana passò e ne pas-sarono molte altre. Le finestre erano tutte gelate; il bambino dovevasoffiarci sopra per avere un foro dal quale guardare la vecchia casa, e lì laneve si era infilata in tutti gli intagli e le incisioni, copriva tutta la scalacome se non ci fosse nessuno in casa, e infatti non c’era nessuno, l’anzianosignore era morto!La sera si fermò una carrozza sulla quale lo caricarono dentro una bara, do-veva essere sepolto in campagna. Partì, ma nessuno lo seguiva, tutti i suoiamici erano morti. E il bambino mandò un bacio sulle dita verso la barache si allontanava.

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«Non ce la faccio più!» disse il soldatino di stagno che stava in piedi sul cas-settone. «Qui tutto è così solitario e triste; no, quando uno ha vissuto infamiglia non può abituarsi a una vita così! Non ce la faccio più! La giorna-ta è cosi lunga e la sera è ancora più lunga! Qui non è affatto come a casatua, dove tuo padre e tua madre parlavano così allegramente e tutti voibambini facevate un bel baccano! Ma come è solo il vecchio! Credi che glidiano dei baci? Credi che qualcuno gli rivolga dolci sguardi o faccia l’albe-ro di Natale per lui? Non avrà altro che una tomba. Non ce la faccio più!».«Non devi essere così triste!» disse il bambino; «mi sembra che sia così belloqui e tutti i vecchi pensieri, con tutto quello che possono portare con sé,vengono a farvi visita».«Già, ma quelli io non li vedo e non li conosco!» rispose il soldatino di sta-gno. «Non ce la faccio più!».«E invece devi farcela!» disse il bambino.L’anziano signore ritornò con un viso allegrissimo, la migliore marmellata,noci e mele, e così il bambino non pensò più al soldatino di stagno.Il bambino andò a casa felice e contento, passarono giorni e passarono set-timane; con la vecchia casa ci si scambiavano cenni col capo e poi ilbambino tornò a fare visita al signore.I trombettieri intagliati suonavano: «Tattaratà! Ecco il bambino! Tattara-tà!» e spada e armature dei cavalieri tintinnavano e gli abiti di setafrusciavano, la tappezzeria di pelle di porco parlava e le vecchie sedie ave-vano l’artrite alla schiena: «Ahi!»; era proprio come la prima volta, perchélì ogni giorno era uguale all’altro e ogni ora era uguale all’altra.«Non ce la faccio più!» disse il soldatino di stagno. «Ho pianto stagno! Quiè troppo triste! Piuttosto mandatemi in guerra a perdere gambe e braccia!Almeno sarebbe un cambiamento. Non ce la faccio più! Ora so cosa signi-fica ricevere la visita dei vecchi pensieri, con tutto quello che possonoportare con sé! Io ho ricevuto la visita dei miei e puoi credermi, alla lunganon c’è proprio niente di divertente, alla fine stavo quasi per gettarmi giùdal cassettone. Vedevo così chiaramente tutti voi nella casa di fronte, comese foste davvero qui; era di nuovo domenica mattina, ricordi? Tutti voibambini eravate davanti al tavolo e cantavate il salmo come lo cantate ognimattina; eravate così assorti, con le mani giunte, e papà e mamma erano al-trettanto solenni, e poi si aprì la porta e la sorellina Maria, che non haancora due anni e danza sempre quando sente musica o canti, di qualun-que tipo siano, entrò – anche se non doveva – e cominciò a ballare, ma non

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Alcuni giorni dopo nella vecchia casa si svolse un’asta e il bambino videdalla finestra le cose che venivano portate via: gli antichi cavalieri e le anti-che dame, i vasi con le lunghe orecchie, le vecchie sedie e i vecchi armadi;qualcosa finì di qua, qualcosa di là; il ritratto della donna che era stato tro-vato dal rigattiere tornò dal rigattiere e vi rimase per sempre, perchénessuno la conosceva più e nessuno si curò più del vecchio dipinto.In primavera la casa fu demolita perché la gente diceva che era un rottame.Dalla strada si poteva guardare dentro la stanza con la tappezzeria di pelledi porco, che fu strappata e fatta a pezzi; e le piante intorno all’altana si ab-barbicavano incolte alle travi cadenti. Poi tutto fu sgomberato.«Finalmente!» dissero le case vicine.

* * *

E fu costruita una splendida casa con grandi finestre, muri bianchi e lisci,ma davanti, dove sorgeva la vecchia casa, fu piantato un giardinetto e suimuri dei vicini si arrampicavano tralci selvatici; davanti al giardino fu eret-ta un’inferriata con un cancello di ferro, aveva un aspetto moltoimponente, la gente si fermava e guardava dentro. E i passerotti si posava-no a dozzine sui tralci, parlavano tutti insieme, per quanto potevano, mamai della vecchia casa, perché non la ricordavano. Erano passati tanti annie il bambino era cresciuto ed era diventato un uomo fatto, un brav’uomodi cui i genitori andavano fieri; e si era appena sposato e con la sua mo-gliettina si era trasferito in quella casa col giardino; ed era accanto a leimentre piantava un fiore di campo che trovava così grazioso. Lo piantavacon le sue piccole mani e calcava la terra con le dita. «Ahi! Che cos’era?». Siera punta. C’era qualcosa di appuntito che affiorava dalla morbida terra.Era… pensate… il soldatino di stagno, quello che era scomparso a casadell’anziano signore; era rotolato fra le tavole e i calcinacci ed era rimastoper molti anni nella terra.E la giovane moglie pulì il soldato, prima con una foglia verde e poi con ilsuo bel fazzoletto, che aveva un buonissimo profumo! Per il soldato dipiombo fu come svegliarsi da un letargo.«Fammelo vedere!» disse il giovane, rise e poi scosse la testa. «Be’, nonpuò essere lui, ma mi ricorda un soldatino di stagno che avevo quandoero bambino!» e così raccontò alla moglie della vecchia casa, e dell’anzia-no signore e del soldatino di stagno che gli aveva mandato perché era così

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terribilmente solo, e raccontò con tutti i particolari, così com’era acca-duto, al punto che la donna si commosse per la vecchia casa e perl’anziano signore.«Potrebbe anche essere lo stesso soldatino di stagno!» disse lei. «Voglio con-servarlo e ricordare tutto ciò che mi hai raccontato; ma devi mostrarmi latomba di quell’anziano signore».«Non so dove sia» disse lui, «e nessuno lo sa! Tutti i suoi amici erano morti,nessuno l’ha accudita e io ero solo un bambino!».«Doveva essere terribilmente solo!» disse lei.«Terribilmente solo!» disse il soldatino di stagno. «Ma è splendido non es-sere dimenticati!».«Splendido!» gridò qualcosa proprio lì vicino, ma oltre al soldatino di sta-gno nessuno si accorse che si trattava du un brandello della tappezzeria dipelle di porco, che aveva perso tutta la doratura e sembrava terra umida,ma aveva un’opinione e la disse:

«La doratura se ne andrà,ma la pelle di porco resterà!».

Il soldatino di piombo però non era d’accordo.

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HANS CHRISTIANANDERSEN nacque

nel lontano 1805, a Odense,nell'isola di Fionia,

che si trova in Danimarca.Così grande fu la sua

passione per le storie cheben 212 sono le fiabe con

cui si raccontò. Poi scrisseanche romanzi e poesie.

Reinventò la sua vita in infinite occasioni

e modi, ma sappiamo cheera un brutto anatroccolo

in un cortile dove tutti lo prendevano in giro, figlio di una lavandaia

che non era buona a nulla. Provò a iniziare la sua

carriera come sarto, poi a ballare e cantare perchè

adorava il teatro, ma allafine studiò, grazie a una

famiglia adottiva, e riuscì a far realizzare il destino che una vecchia gli aveva

annunciato quando erapiccolo: diventare un poeta.

Certo è che fu sempre un instancabile viaggiatore,

tanto che partì dal paese in cui era nato

a soli quattordici anni, per andare a Copenaghen

a cercare fortuna. Il suo grande amore

fu un ragazzo di nomeEdvard, ma s’innamorò

tante volte, spesso non ricambiato.

Le prime storie le ascoltòda piccolo, raccontate

da suo padre, un ciabattinoappassionato di fiabe che

voleva andare a combatterecon Napoleone, da suamadre che piangeva di

paura per i sogni di suomarito, e dalla nonna che

sapeva i segreti per farcrescere e conservare i fiori. Le storie furono i suoi primi

giocattoli: le metteva in scena nel suo teatrino

come un abile burattinaio,e ritagliava i manifesti

degli spettacoli teatrali per fantasticarci sopra.

Ad Andersen piaceva giocare

a dar vita alle figure, e voci confermano

che non se ne sia mai stancato.

Mi chiamo David Beauchard, ma i mieilettori mi conoscono semplicementecome DAVID B. Sono francese e vivo a Parigi ma parlo benissimo l’italiano: la mia parola preferita è “biscotti”, da dire e da mangiare. Però divoro anche i libri, infatti, nel fumetto Les incidents de la nuit,racconto della città in cui vivo e dellamia passione per i libri e le librerie.Negli anni ’90 ho iniziato a lavorareinsieme a un gruppo di disegnatori

che pensavano il fumettoproprio come lo pensavoio; abbiamo costituitoun’associazione che si chiama L’Association.

Per anni ho portato avanti un lungo lavoro a fumetti sulla miafamiglia intitolato Il Grande maleche racconta la mia vita, la malattia di mio fratello, i miei sogni e le visioni che abitavano i miei pensieri,e che li abitano tutt’ora. Poco tempo fa sono stato a Venezia e hoimmaginato Piazza San Marco piena dipanda invece che di piccioni, con turistiche danno loro del bambù: si potrebberoscattare foto molto interessanti…

Mi chiamo Christian Hinker

e sono nato nel ’67 a Strasburgo, dove ho studiato e preso

un diploma in illustrazione.

Il mio nome da quandofaccio fumetti è BLUTCH.

Mi sarebbe piaciuto vivere

agli inizi del secolo scorso,

andare a Tangeri e arruolarmi nella

legione straniera, oppure fare il boxer.

Se non fossi diventato un fumettista,

avrei fatto il meccanico in un garage.

Adoro l’odore del grasso caldo

e le macchie iridate del gasolio.

Ho iniziato a pubblicare le mie storie

a fumetti negli anni ’90 su una rivista

che si chiama “Fluide Glacial”;

dopo sono state raccolte in un libro,

Waldo’s bar. Ho poi pubblicato altri

fumetti intitolati Mademoiselle

Sunnymoon, La Lettre américaine,

Mitchum e Péplum.Prendo spesso ispirazioni da mondi

diversi dal fumetto come il teatro,

il cinema, la danza. Mi piace fare

collages: quando vedo una cosa

che corrisponde a quello che voglio,

la prendo. Così quando devo

inventare una storia, so bene cosa

serve per nutrire ciò che voglio

raccontare; è splendido, mi viene

voglia di rubare e posso farlo.

Mi chiamo ANKE FEUCHTENBERGER.

Sono nata quando le donne portavano

tacchi a spillo e pettinature a forma di

torre. A quattro anni mi sono innamorata

e ho deciso di diventare ladonna più bella del mondo.

A cinque un’operazione al volto ha annullato i miei progetti. A sette ero

ballerina e disegnavo con

il gesso sull'asfalto, soprattutto donne

che si chiamavano Natascha, Mascha

e Sascha. A diciassette ho deciso di fare

ritratti e a ventuno sono diventata

studentessa di grafica. A venticinque

ho avuto un figlio e ho deciso che la vita

cominciava in quel momento.

Allora ho disegnato i primi fumetti

e non ho più smesso. La mia prima storia

s’intitola Herzhaft-lebenslänglich

che in italiano significa “la gabbia dorata

del cuore”. Ho vissuto quindici anni sola

con mio figlio in città, nel bosco

e al mare, facendo manifesti per piccoli

teatri, bambole e costumi. Da sette anni

insegno disegno all'università

di Amburgo e passeggio spesso

con il mio cane e il mio amore italiano

lungo il fiume. Mio figlio è alto il doppio

di me e vuole espatriare in Giappone.

FRANCESCA GHERMANDI è natanel ’64 a Bologna dove vive anche oggi.Ha frequentato la scuola “Zio Feininger”dove ha scoperto la passione per il fumetto. A vent’anni ha pubblicato le sue prime storie a fumetti su alcune

riviste: racconti polizieschibizzarri e surreali, in cui si trovano strani animalie personaggi un po’ folli. Qualche anno dopo,

sulla rivista “Dolce vita”sono apparse delle strisce con un paperoa cui ne capitavano di tutti i colori, ora raccolte nel libro Hiawata Pete. Un altro dei suoi personaggi è Helter Skelter, un gatto sceriffostralunato che si ciba di sole sardine.Poi ancora c’è Rebo, un albo a fumettiche racconta le avventure quotidiane di un bambino che si confida con i suoi giocattoli. E anche in Pasticca,una storia muta disegnata a matita,troviamo una bambina con la testa a forma di pastiglia e gli occhi giganti. I suoi ultimi libri sono Le avventure diUlisse, in cui sono raccontate le impresedell’Odissea, e Bang, sei morto!, un’altra pazza storia a colori pubblicatain Francia e negli Stati Uniti.

Mi chiamo MARKUS HUBER e sonocresciuto in una cittadina nel nord della Germania. Ho studiato prima storiadell’arte, poi una materia difficilissimache si chiama sinologia, a Monaco,Pechino e Amburgo, dove vivo ora.All’inizio degli anni ’90 ho deciso di disegnare e da allora illustro riviste,antologie e libri per case editricitedesche e svizzere. Non so quanti anni avevo quando ho trovato il libro con i racconti di Andersen nello scaffale dei mieigenitori, forse nove, o anche meno.Visto da fuori, aveva un aspetto

talmente noioso che non l’ho neppure preso in considerazione. Poi ho scoperto che dentro

c’erano delle illustrazioni in bianco e nero incredibili, di

un signore di nome Gerhart Kraaz, tuttescure da far paura! Solo molto tempodopo ho letto le fiabe, e non eranoemozionanti quanto le illustrazioni;forse per questo sono diventato un illustratore, e non uno scrittore! Sono molto grato ad Hans ChristianAndersen per aver scritto il suo libro,perché altrimenti Gerhart Kraaz non avrebbe fatto le sue meravigliose illustrazioni.

Il mio nome è FRANCO MATTICCHIO.

Sono nato nel ’57 e ho cominciato a disegnare nel ’61.

Ho iniziato a pubblicarestorie a fumetti nell’85sulla rivista “Linus”,

e molte di queste sono state

poi riunite nel libro Sensa Senso.

Nel ’94 ho realizzato i disegni

e lo story-board per i titoli di testa

del film Il Mostro di Benigni.

Ho illustrato anche alcuni libri

per ragazzi come Tom Sawyer, La casa

incantata, Il pipistrello poeta, La notte

degli alberi. La casa editrice Nuages

ha appena pubblicato una mia storia

intitolata Trilogia del Sig. AHI.

Abito in una città vicino al confine.

Non ho la patente ma ho una bicicletta

giù in cantina che non uso mai. Uso

invece gli acquarelli (anglo-giapponesi).

Ho un sacco di dischi (al 90% tutta roba

vecchia) e un giradischi AKAI

che fa un giro in meno al minuto.

Sono miope dall’occhio destro

(quello che lavora), un po’ meno

dal sinistro (l’occhio pigro).

Forse dovrei mettere gli occhiali.

Mi chiamo LORENZO MATTOTTI e sononato nel ’54. Mio padre era un ufficiale e così ho vissuto in tante città. Tra le mie prime storie a fumetti ce n’è una che ho fatto a dodici anni mentre ascoltavo “Dark Star” dei Grateful Dead, una canzoneche amavo molto. La musica è la mia passione e da ragazzo disegnavo i manifesti per i concerti del gruppo musicale dei mieifratelli. I miei libri li ho fatti tutti con amici.Con Fabrizio che si fa chiamare Kramsky,con Lilia, Antonio, Claudio, Jorge, e con

Gabriella, disegnatrice anchelei. Il mio primo libro AliceBrum Brum mescola un viaggio in autostop con

le avventure di “Alice nel paesedelle meraviglie”. Ho disegnato poi un Huckleberry Finn immerso nella pianurapadana. Dopo questi libri in bianco e nerosono passato al colore, con storie semprepiù intime e oniriche. Fuochi, la mia storiapiù conosciuta, è un’avventura classica che si trasforma in viaggio interiore per conoscermi meglio. Sono fumettista,illustratore, pittore. E sono fortunato,perché posso girare il mondo per disegnare,che è un lavoro bellissimo. Ora vivo a Parigicon Rina e i nostri figli, Ambra e Simone,che spero leggano questo libro.

Disegnare è un’attività che non lascia

alzare le braccia e alla fine le ascelle

non ricevono l’aria necessaria.

Nonostante questo sono riuscito a finire

59 libri per bambini, 200 copertine di libri,

più di 1000 disegni per giornali

e un po’ di quadri e sculture.

Mi chiamo FABIAN NEGRIN e…

cavoli se ci ho dato dentro!

Mica mi lasciavo fermare da uno sporco

paio d’ascelle! Ogni anno uguale, inizio

a gennaio e disegno, disegno, disegno

fino a marzo. Poi l’odore d’ascelle

che inonda lo studio mi blocca.

Così a maggio mi lavo l’ascella (quella destra) e torno al lavoro rinfrescato.

Disegno da aprile a giugno,

ma ahimé, a luglio ci risiamo. Il fetore

mi paralizza. Mi alzo dal tavolo e ad agosto

mi lavo l’ascella (quella sinistra).

Poi faccio un’altra tirata fino a novembre,

massimo dicembre quando

(maledizione!) devo lavarmi l’ascella destra

una seconda volta. Sì, avete sentito bene:

nello stesso anno sono obbligato a lavarmi

l’ascella destra ben due volte.

Signori, è un vero miracolo

che ci sia una storia dell’arte con tutte

le lavate d’ascelle che si devono fare.

Bisogna proprio sudarsela quest’arte.

È dall’85 che lavoro come fumettista

e illustratore. Mi chiamoJAVIER OLIVARES.Le mie storie a fumettisono state pubblicate

su diverse riviste spagnole

e anche su Comix 2000,

un libro che raccoglie storie disegnate

da autori di tutto il mondo. Da parecchi

anni illustro libri per bambini, mi piace

molto farlo. Mi piace ascoltare il racconto

e farmi suggerire da questo il modo in

cui dar vita alle immagini. Uno dei miei

ultimi lavori, Los niños tontos, è stato

pubblicato dalla casa editrice “Media

Vaca” (che in italiano significa “Mezza

mucca”). A dire il vero avevo già lavorato

sulle fiabe di Andersen in Lo que hache

el abuelo, bien hecho està pubblicato da

“La Galera”… aiuto! Ho anche disegnato

e diretto cinque corti di animazione

visto che vado matto per il cinema.

Mi piacciono soprattutto i film con

i sottomarini. Lavoro sempre ascoltando

musica, così, a seconda di quello che

disegno, nel mio studio suonano

i Radiohead, Brad Mehldau, Bach, David

Sylvian o Björk. Ho un gatto grasso,

bianco e nero, che si chiama Spot e ogni

volta che può si sdraia sui miei lavori.

Mi chiamo STEFANO RICCI e sono nato a Bologna nel ’66. Poi sinceramente non mi ricordo bene. D’estate andavamo a Rimini.A un certo punto ho passato cinque anni in una scuola superiore di meccanica. Motori e macchine pesanti. Non ho la patente.

A diciotto anni ho cominciato a disegnare. Poi ho seguito, alla sera, i corsi di una scuoladi fumetto che si chiamava

“Zio Feininger”. A vent’anni ho pubblicato i primi disegni.

In questo periodo ho fatto il servizio civile.Mi piace specialmente la parola civile. L’ho fatto in ambulanza, per due anni e ho visto molte cose. Come fare il massaggiocardiaco a un bambino di un anno, che ha il cuore grande come un’albicocca.Nell’89 ho pubblicato il mio primo librodisegnato. Nel ’94 il primo a fumetti. Questo qui lo difenderei, l’altro mica tanto. Nel ’98 ne ho fatto un altro che si intitolaAnita. Nel ’99 ho cominciato a fare disegnianche molto grandi. Sempre nel ’99, nel 2002 e pochi mesi fa, ho pubblicato tre libri di disegni che si intitolanoDepositonero uno, due e tre. Via. Cioè è una serie, che vorrei poter continuare. Da due anni vivo ad Amburgo, in Germania, e questa qui è la mia vita in trentatré righe,che non sono mica poche.

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propensione per la terraferma prima ancora dell’innamoramento,

e con la sua ostinazione a voler passare per il dolore di una trasformazione senza ritorno.

Non lo sa l’imperatore che proprio per questo cerca di nascondere la propria insipienza

con sfarzose vesti inesistenti; non lo sa il brav’uomo che è andato ad abitare

la vecchia casa rimettendola a nuovo, ma rischiando così di perdere le proprie radici

e di dimenticare per sempre la propria infanzia, se non fosse per un soldatino di stagno

disseppellito dal giardino. Non lo sa la ragazzina attratta fatalmente dalle scarpe rosse

in barba ai divieti e alle convenzioni, senza pensare che scarpe simili aveva indossato

per la prima volta al funerale della madre; non lo sa l’imperatore cinese

che solo attraverso i libri viene a conoscenza dell’usignolo del suo giardino

e che poi sarà ben lieto di scambiarlo con un usignolo “virtuale”.

Simili considerazioni sono state quelle che hanno portato noi e Orecchio Acerbo

a ideare il progetto di questo libro e ci hanno anche spinto a scegliere gli artisti

che vedete qui pubblicati. L’accostamento di ognuno con una fiaba non è casuale

ma è stato pensato ancora prima del contatto diretto. Il desiderio era quello

di far emergere visivamente la contemporaneità di Andersen per come l’abbiamo vista.

Anzi abbiamo pensato che dovessero essere le immagini le vere chiavi attraverso

cui far passare la nostra interpretazione. Per ogni testo abbiamo cercato di trovare

un artista che per il suo segno e la sua poetica potesse ben dare forma

a quella particolare atmosfera che desideravamo emergesse. Per questo sono presenti

anche artisti che non si erano mai cimentati nell’illustrazione per ragazzi

ma che ci sembravano comunque i più vicini al nostro progetto. Abbiamo così assegnato

a ognuno una fiaba specifica e chiesto loro non semplicemente di illustrarne il testo

ma di interpretare con il loro stile quel senso di attualità che vi avevamo riscontrato.

A tutti vanno i nostri ringraziamenti per la pazienza e l’impegno con cui davvero si sono

confrontati con i testi proposti, interpretandoli a fondo con la forza del loro segno.

La speranza da parte nostra è che dalla combinazione di parole e figure

possa ancor più emergere la complessità del mondo anderseniano,

capace di creare personaggi e situazioni ormai divenuti proverbiali e sulla bocca di tutti,

ma spesso fraintesi o non conosciuti, proprio come il droghiere

che ha in casa tante poesie, ma senza saperlo.

Hamelin Associazione Culturale

La raccolta di storie e immagini che avete appena finito di leggere non vuole essere solo

una nuova antologia anderseniana, edita in occasione del bicentenario della nascita

del grande scrittore danese. All’origine di questo libro è piuttosto il desiderio

di interrogarci sulla contemporaneità di Andersen, ovvero sulla capacità

o non capacità dei suoi racconti di dire ancora oggi qualcosa di noi.

La risposta è stata ovviamente affermativa ma è andata oltre alla considerazione

che vale per ogni classico, che è reso tale –ci ricordava Calvino– proprio

per la sua capacità di parlare ai lettori di ogni epoca. Ci sono, a ben vedere, alcune

fiabe anderseniane che sembrano parlare proprio a noi e solo a noi, che riescono

a interpretare l’atmosfera dei nostri tempi e a rappresentare i nostri stati d’animo

diffusi. Letto in questa chiave, oggi Andersen ci appare soprattutto come grande poeta

dello spaesamento. Non bastano viaggi e trionfi, l’eclatante scalata sociale

di un povero ragazzo figlio di un ciabattino e di una lavandaia nella provinciale Odense,

né la promessa che dietro ogni brutto anatroccolo si nasconde l’elegante volo di un cigno.

Né è sufficiente a rasserenare la sincera fede anderseniana in un ordine divino,

che più di tutto si riflette nella natura, nella sua autenticità, nella sua ostinata vitalità.

Ciò che più rende queste fiabe intense e attuali è la capacità di raccontare

la disarmonia del mondo. Non è più quella eclatante e celebrata dai poeti romantici,

che pure ogni tanto riemerge come nella tragedia de L’ombra;

è piuttosto una disarmonia sottotono, soffusa, nascosta nelle pieghe del quotidiano,

ma non per questo meno dolorosa.

Che dire ad esempio di una vita come quella de Il pupazzo di neve, vera e propria icona

dello spaesamento, creatura che non sa come e perché è venuta al mondo, incapace

di riconoscere il sole e la luna, sbeffeggiato da un cane sapientone che pure

è alle catene. A renderlo struggente e attualissimo è il suo assoluto analfabetismo

sentimentale, quello che lo fa innamorare fatalmente di una stufa.

Il fatto è che il pupazzo di neve non sa cosa ha letteralmente dentro, ovvero non sa

che il suo corpo contiene un raschietto da stufa, vera origine del suo impossibile amore.

La grandezza dei personaggi anderseniani sta proprio in questa loro inconsapevolezza

che si traduce in smarrimento, in sconfitta, a volte in tragedia: nessuno sa davvero

spiegare “cosa ha dentro”. Non lo sa la Sirenetta con la sua incomprensibile

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orecchio acerbo Premio Andersen 2004 Miglior produzione editoriale “fatta ad arte”