L'Albero delle Parole

341
0

description

Sono passati due anni dall’apertura di Willoworld, il mio mondo virtuale, una piccola oasi fatta di byte, nella quale posso liberare la mia voglia di creare, comunicare, mettermi in gioco e rappresentarmi. Esattamente così, il gioco della rappresentazione, quello che continua fuori dal tavolo su cui ruzzolano i dadi. Questo libro dà un seguito al precedente “Complici di un gioco di dadi”, anche se a dire il vero i giocatori se ne sono andati da tempo. Rimangono invece le intuizioni e la voglia di raccontare.Ma il gioco ha sempre una parte importantissima in tutto quel che faccio. Se scrivo per gioco non significa che non lo faccia con passione o convinzione. Il significato della parola “gioco” può distorcersi, se visto da altri punti di vista. Giocare non è solo divertirsi, ma anche sperimentare, testare i nostri limiti, capire il mistero, rischiare, imparare, misurarci con gli altri. Insomma, il gioco va avanti, insieme a vecchi e nuovi giocatori.Il pantheon di autori che quest’anno hanno partecipato ai vari progetti di scrittura creativa del sito willoworld.net si è ampliato. L’idea di Willoworld è sempre stata quella di contenere la scelta dei componenti alle persone di mia conoscenza, ma con l’avvento dei social network, Facebook in primis, è diventato praticamente impossibile ignorare le possibilità di partecipazione da parte di esterni. Un legame esiste sempre, e questo è importante per il manifesto di Willoworld e di tutte le pagine ad esso associate.Nel corso di questo secondo anno di attività in rete sono avvenuti diversi cambiamenti e sono nate tantissime iniziative. La prima e più importante, anche se purtroppo non ha riscosso il successo che mi aspettavo, è stata La Giostra di Dante, il gioco di ruolo dei poeti e degli scrittori. L’idea era quella di creare una piattaforma su cui pubblicare i lavori con differenti pseudonimi, insieme alle biografie degli autori fittizi. Ho aperto poi un forum attraverso il quale i giocatori avrebbero potuto fare interagire i loro personaggi-scrittori tra di loro, in un classico scenario di GdR on-line. Purtroppo il gioco non è mai davvero partito, anche se sono nati alcuni personaggi davvero interessanti, con i quali ancora mi balocco. Molte delle opere presentate su questo libro sono firmate da questi autori immaginari, i quali sono anche comparsi in precedenti pubblicazioni.L’altro grande progetto iniziato nell’estate 2008 è il blog 101 Parole, nel quale sono presentati racconti brevissimi di esattamente 101 parole. Ad oggi hanno partecipato al progetto una decina di autori (alcuni anche provenienti dalla Giostra di Dante) e sono state raccolte quasi duecento storie. A fine anno verrà pubblicato un libro che raccoglierà tutti gli interventi.In questo libro compaiono anche dei lavori che sono il risultato di alcuni esperimenti narrativi, come ad esempio “Raccontami sulle note di…”, un giochino di scrittura creativa da fare ascoltando la musica. L’idea è quella di raccontare una storia, o anche una breve immagine, nel tempo di una canzone, lasciandosi trasportare dalla melodia. Ho raccolto una decina di questi interventi che appaiono anche sul mio ultimo libro. In questa raccolta ve ne sono alcuni completamente inediti.Quest’inverno ho iniziato alcune iniziative di scrittura cooperativa per e-mail per un progetto che ho chiamato “Passami la Storia”. Anche questo non ha avuto la partecipazione che speravo, ma qualcosa comunque ne è uscito fuori. In questo libro vi sono alcune storie che sono partite proprio da questa intuizione.Più passa il tempo e più mi riconosco nel ruolo di paladino delle storie, qualsiasi esse siano. Non vorrei peccare di arroganza con questo titolo, anzi, il mio approccio è sempre molto modesto, o al limite rappresentativo, cioè giocoso. Da qui è nato l’appello dell’”Orfanotrofio delle Storie”, un semplice pretesto per riproporre in una nuova versione le storie rimaste anonime, o quelle incompiute. Cercando nei meandri della rete ne ho trovate alcune d

Transcript of L'Albero delle Parole

Page 1: L'Albero delle Parole

0

Page 2: L'Albero delle Parole

1

L'ALBERO DELLE PAROLE

www.willoworld.net

Edizioni Willoworld

This work is licensed under a Creative Commons Attribution 2.5 Italy License.

Page 3: L'Albero delle Parole

2

Altre Edizioni Willoworld

Racconti del Nuovo Millennio - di GM Willo - 2007

Racconti del Millennio Passato - di GM Willo – 2007

Il Libro di Floria - di GM Willo – 2008

I Musikanti di Amberyn - di GM Willo – 2008

Complici di un Gioco di Dadi - a cura di GM Willo – 2008

Alla Ricerca del Dio Senza Croce - di V. Vannozzi – 2008

Versetti Poetronici - a cura di GM Willo e di Demiurgus – 2008

Le Rivelazioni di Giovanni Meraviglio - di J. Macini – 2008

Willoclick – The Talking Eye - di GM Willo – 2008

Sebastian Claw e altri racconti - di Jonathan Macini - 2008

Storie di Nuvole – di Aeribella Lastelle – 2008

All work and no play makes Jack a dull boy – di Jack Torrance – 2008

Raptus Interruptus e altri schizzi di quotidianità – di J. Lombroso ‘08

Elaborazioni - di Valentino Vannozzi – 2008

La Giostra di Dante – Edizioni Willoworld - 2008

Storie dall’eremo del nord – di GM Willo - 2008

Un Mondo a Gambe Aperte - di Gano - 2009

L'Urlo - Edizioni Willoworld – 2009

Page 4: L'Albero delle Parole

3

L'ALBERO DELLE PAROLE

a cura di GM Willo

Prima Edizione - Maggio 2009

Copertina di Kartworks

www.kartworks.net

Page 5: L'Albero delle Parole

4

Page 6: L'Albero delle Parole

5

DUE ANNI DI WILLOWORLD

Sono passati due anni dall’apertura di Willoworld, il mio mondo virtuale, una piccola oasi fatta di byte, nella quale posso liberare la mia voglia di creare, comunicare, mettermi in gioco e rappresentarmi. Esattamente così, il gioco della rappresentazione, quello che continua fuori dal tavolo su cui ruzzolano i dadi. Questo libro dà un seguito al precedente “Complici di un gioco di dadi”, anche se a dire il vero i giocatori se ne sono andati da tempo. Rimangono invece le intuizioni e la voglia di raccontare.

Ma il gioco ha sempre una parte importantissima in tutto quel che faccio. Se scrivo per gioco non significa che non lo faccia con passione o convinzione. Il significato della parola “gioco” può distorcersi, se visto da altri punti di vista. Giocare non è solo divertirsi, ma anche sperimentare, testare i nostri limiti, capire il mistero, rischiare, imparare, misurarci con gli altri. Insomma, il gioco va avanti, insieme a vecchi e nuovi giocatori.

Il pantheon di autori che quest’anno hanno partecipato ai vari progetti di scrittura creativa del sito willoworld.net si è ampliato. L’idea di Willoworld è sempre stata quella di contenere la scelta dei componenti alle persone di mia conoscenza, ma con l’avvento dei social network, Facebook in primis, è diventato praticamente impossibile ignorare le possibilità di partecipazione da parte di esterni. Un legame esiste sempre, e questo è importante per il manifesto di Willoworld e di tutte le pagine ad esso associate.

Nel corso di questo secondo anno di attività in rete sono avvenuti diversi cambiamenti e sono nate tantissime iniziative. La prima e più importante, anche se purtroppo non ha riscosso il successo che mi aspettavo, è stata La Giostra di Dante, il gioco di ruolo dei poeti e degli scrittori. L’idea era quella di creare una piattaforma su cui pubblicare i lavori con differenti pseudonimi, insieme alle biografie degli autori fittizi. Ho aperto poi un forum attraverso il quale i giocatori avrebbero potuto fare interagire i loro personaggi-scrittori tra di loro, in un classico scenario di GdR on-line. Purtroppo il gioco non è mai davvero partito, anche se sono nati alcuni personaggi davvero interessanti, con i quali ancora mi balocco. Molte delle opere presentate su questo libro

Page 7: L'Albero delle Parole

6

sono firmate da questi autori immaginari, i quali sono anche comparsi in precedenti pubblicazioni.

L’altro grande progetto iniziato nell’estate 2008 è il blog 101 Parole, nel quale sono presentati racconti brevissimi di esattamente 101 parole. Ad oggi hanno partecipato al progetto una decina di autori (alcuni anche provenienti dalla Giostra di Dante) e sono state raccolte quasi duecento storie. A fine anno verrà pubblicato un libro che raccoglierà tutti gli interventi.

In questo libro compaiono anche dei lavori che sono il risultato di alcuni esperimenti narrativi, come ad esempio “Raccontami sulle note di…”, un giochino di scrittura creativa da fare ascoltando la musica. L’idea è quella di raccontare una storia, o anche una breve immagine, nel tempo di una canzone, lasciandosi trasportare dalla melodia. Ho raccolto una decina di questi interventi che appaiono anche sul mio ultimo libro. In questa raccolta ve ne sono alcuni completamente inediti.

Quest’inverno ho iniziato alcune iniziative di scrittura cooperativa per e-mail per un progetto che ho chiamato “Passami la Storia”. Anche questo non ha avuto la partecipazione che speravo, ma qualcosa comunque ne è uscito fuori. In questo libro vi sono alcune storie che sono partite proprio da questa intuizione.

Più passa il tempo e più mi riconosco nel ruolo di paladino delle storie, qualsiasi esse siano. Non vorrei peccare di arroganza con questo titolo, anzi, il mio approccio è sempre molto modesto, o al limite rappresentativo, cioè giocoso. Da qui è nato l’appello dell’”Orfanotrofio delle Storie”, un semplice pretesto per riproporre in una nuova versione le storie rimaste anonime, o quelle incompiute. Cercando nei meandri della rete ne ho trovate alcune davvero carine, perlopiù in inglese, così le ho tradotte ed arrangiate, conferendo loro un po’ di dignità.

La pagina Willoworld Creativity, che raccoglieva i racconti, le poesie e le immagini degli autori di Willoworld, si è trasformata in Rivoluzione Creativa, prendendo spunto dal gruppo di Facebook fondato un paio di mesi fa. L’obbiettivo è quello di allargare il circuito e “infettare” il maggior numero di persone con questo splendido virus creativo. Rivoluzione Creativa infatti ha un suo manifesto ideologico, basato sul fenomeno del copyleft e del file sharing, temi che sento molto vicini. Credo infatti che nessun comunicatore, sia questo uno scrittore, un poeta, un giornalista, un musicista o un artista, possa permettersi di

Page 8: L'Albero delle Parole

7

continuare ad ignorare il fenomeno della condivisione del materiale informatico da parte di milioni di utenti. Chi è ancora legato alle ideologie del copyright, è automaticamente escluso da questa rivoluzione creativa in corso. Cambiare atteggiamento nei confronti dell’opera compiuta è in sintesi il messaggio di questa nuova corrente. L’opera non è un prodotto commerciabile, e non lo era neanche prima dell'avvento di bit-torrent. È il supporto che la rende “oggetto”, ma tolto questo, sia di carta o di plastica, ciò che rimane è l’informazione, che deve librarsi nell’aria e raggiungere più persone possibile. Perché l’informazione appartiene a tutti e non è di nessuno.

Rivoluzione Creativa significa proprio questo. È il miraggio di un nuovo corso, basato sulla condivisione dell’esperienza artistica ma non solo. L’altra grande ideologia che si nasconde dietro RC è la riappropriazione dell’autostima, perduta in cento anni di “industria degli idoli”. Per quasi un secolo la TV ci ha fatto sentire inferiori ai personaggi dello schermo. Ci ha subdolamente tolto la nostra dignità, ha giocato con le menti dei bambini, ha imprigionato alla poltrona l’immaginazione degli adulti. Internet ha spento la TV e ha creato il flusso. É finito il tempo degli idoli e dei semidei di cellulosa. Noi saremo i fan di noi stessi.

Di strada però ce n’è molta da fare. Rivoluzione Creativa si unisce alla corrente di cambiamento che scorre sulla fibra ottica e nell’etere, conscia del fatto che la rete è solo un mezzo, e saranno gli utenti a decidere come vorranno continuare ad usarla.

Mi auguro che questo libro abbia un seguito. Willoworld entra nel terzo anno di attività e sarà quello cruciale. La sua sopravvivenza dipenderà dalla partecipazione ai vari progetti nei mesi a venire.

L’Albero delle Parole è un segnale positivo. In principio il titolo di questo libro doveva essere “La Stagione delle Parole”, nel segno della raccolta dopo il primo anno di semina. La partecipazione quest’anno è stata assolutamente più consistente, e questa fa sperare bene per i progetti futuri. La raccolta ha dato i suoi frutti, gli alberi sono fioriti e le parole sono volate via nel vento, depositandosi su queste pagine, scostando il drappo, rivelando il mistero.

Benvenuti alla festa della creatività. E buona lettura a tutti!

GM Willo – Maggio 2009

Page 9: L'Albero delle Parole

8

NOTE SULLE OPERE PRESENTATE

Il libro si apre con un racconto lungo a “otto mani” iniziato nell’estate del 2008 e terminato solamente lo scorso inverno. Il Caso Khorner è stato un esperimento di narrazione cooperativa davvero molto interessante. La storia si è diramata e intricata capitolo per capitolo, e una volta che il racconto si è arenato, l’ho ripreso in mano personalmente a distanza di molti mesi, dandogli un degno finale.

Il Ciclo del Pathos raccoglie una serie di interventi di prosa di Demiurgus scritti tra il 1999 e il 2001 per l’associazione di letteratura interattiva Pathos. Demiurgus ha voluto riproporre questi scritti su Willoworld.

Il Ciclo di Udrien invece è una piccola raccolta di quattro racconti fantasy scritti quest’anno per omaggiare Robert E. Haward, il creatore di Conan il Barbaro.

L'Urna del Sacro Té é un esperimento narrativo a capitoli brevi del 1996, riproposto da Aeribella Lastelle sulle pagine di Willoworld.

Alcune delle opere presenti in questo libro compaiono anche in precedenti pubblicazioni della Edizioni Willoworld.

Page 10: L'Albero delle Parole

9

L’ALBERO DELLE PAROLE

LE STORIE

Page 11: L'Albero delle Parole

10

IL CASO KHORNERdi GM Willo, Charles Huxley, Demiurgus e Cainos

- Capitolo 1-Il pacco

Charles indossa il giubbotto, un vecchio pezzo di pelle marrone malconcio, allaccia stretti gli anfibi ed esce sotto la pioggia della sera. Sono le 23:30; a mezzanotte ha l’appuntamento col Rosso, il pusher che gli rifornisce la roba. Sale in macchina, aziona i tergicristalli e alza il volume dello stereo, tutto questo prima di ingranare la marcia e partire lentamente. La città sembra già dormire. Prende la via più lunga, per controllare se ci sono pattuglie in giro, ma le strade sembrano deserte. Arrivato al molo, parcheggia la macchina lontano dai lampioni, spegne il motore e si infila la 9 millimetri nella cintura. Il Rosso sembra essere in ritardo, come sempre, cosa che a Charles fa incazzare terribilmente, soprattutto quando si tratta di affari. Ci vogliono due sigarette prima che i fari illuminino la banchina. Lo stronzo è arrivato fin qua in macchina. Il Rosso scende con in mano una 24 ore nera e ha accanto un tipo alto almeno uno e novanta.

«Sei in ritardo» Charles schiaccia in terra la terza sigaretta.«Tranquillo amico, ero ad una festa» risponde il Rosso.«Ti avevo detto di parcheggiare lontano, lo sai che non

sopporto queste cazzate.»«Tu ti agiti sempre troppo, amico. Sta piovendo, che dovevo

fare bagnarmi tutto come hai fatto te? Che problema c’è? Tu ti agiti sempre troppo… Prendi sempre le cose troppo sul serio.» Per il Rosso è sempre tutto un gioco, sembra non rendersi conto che sta muovendo 3 chili di bianca purissima.

«Va bene, fammi vedere la roba.» Charles sta perdendo la pazienza, vuole andare via di là più velocemente possibile, c’è qualcosa che lo rende nervoso.

«Ok, ok, amico, ecco qua…» Le serrature della 24 ore scattano, le buste sigillate aspettano in fila di essere smistate. Charles infila la punta di un coltello a scatto in quella centrale e mette sulla

Page 12: L'Albero delle Parole

11

lingua un po’ di polvere. Aspra e acida, per niente amara, sembraquasi frizzare. Non fa in tempo ad aprire bocca e il freddo del ferro gli schiarisce le idee. Sembra che il Rosso l’abbia fregato. Sorride davanti a lui, mentre il gorilla gli preme più forte la pistola alla tempia.

«Bene, bene, amico… La tua roba ce l’hai. Ora dammi i soldi.» Il Rosso l’ha fregato. Chissà quale merda ha imbustato prima di partire. Charles sa che se non riporta la merce o i soldi a Cainos è spacciato. L’ultimo che ha provato a fregarlo é finito sventrato dalle palle alla gola, come un coniglio. Non ha scelta, allunga la busta nera piena di soldi e il gorilla l’afferra strappandogliela di mano. Il Rosso adesso sta ridendo. Charles cerca di prendere tempo, ma nessuna idea gli viene in aiuto; la situazione è davvero critica e lui lo sa. Tutto ad un tratto una voce. C’è qualcuno che sta cantando. Il Rosso si volta di scatto imitato dal suo gorilla. Se c’è un dio, allora questa volta è dalla sua parte.

Tutto accade velocemente. Charles estrae la pistola e pianta tre pallottole nel torace del gorilla, che cade all’indietro giù dalla banchina, finendo nell’acqua nera. Il Rosso si volta puntandogli addosso un cannone da un chilo. Preme il grilletto. Niente, lo stronzo ha scordato di togliere la sicura. Nei suoi occhi un lampo di terrore, mentre Charles gli spara dritto in testa, a distanza talmente ravvicinata da fargli schizzare via la faccia. Sangue, cervello e pezzetti di cranio schizzano in aria, mentre il Rosso va giù con un tonfo. Charles si gira in cerca della busta nera. Niente. Il gorilla se l’è portata con se.

- Capitolo 2 -Il videogioco

«È sicura questa cazzo di chat?»«È criptata maestro, vai tranquillo…»«Ti è arrivato l’aggeggio?»«Si… L’ho appena provato. Roba assurda…»«Non m’interessa la tua opinione. Quando me lo puoi fare

avere?»

Page 13: L'Albero delle Parole

12

«In casi normali te lo caricherei su una piattaforma schermata, in modo che solo tu ci possa accedere. Ma questo non è un caso normale…»

«Certo cretino che non lo è! Portamelo stasera.»«Con questa pioggia?»«Fai come ti dico. Ti ho appena sparato sul conto un bonus di

2000 crediti. Ti aspetto.»La finestra oleografica tremola solo un istante, prima di tornare

da dove è venuta. Will gli ha attaccato una cimice di sua invenzione. Ne avrebbe seguito la scia, rivelandogli l’indirizzo.

“Ha avuto il coraggio di chiamarla chat cripitata!” pensa, mentre il cursore forma velocemente i caratteri sullo schermo: Simon Felipe Garcia Kornher, 205 E. 45th St. 212-867-5100.

«Dammi l’impulso dell’HGPS dell’auto» comanda la voce piatta del Traveller, un uomo sulla trentina con i capelli arruffati e occhiaie profonde. La sua voce è cambiata negli ultima anni. La usa quasi esclusivamente per parlare alle macchine, scandendo con precisione la fonetica delle sillabe.

«Caricami i dati sul deck della Ford.» Il computer annuisce con un leggera alterazione del brusio della ventola di raffreddamento. Will afferra la giacca in similpelle e guadagna velocemente l’uscita. Un minuto dopo è alla guida della sua auto.

Il videogioco poteva valere una fortuna. Avrebbe potuto guadagnarci almeno 30000 crediti, più che sufficienti a saldare il debito con Cainos. Gli erano rimasti due giorni di tempo per farlo, e non poteva certo permettersi di lasciarsi sfuggire quell’occasione.

Il mondo era pieno di menti depravate, gente disposta a sborsare qualsiasi cifra per provare le ebbrezze proibite dei Giochi-Tabù. Un mercato sotterraneo che stava fiorendo, e che avrebbe presto superato anche il giro degli stupefacenti.

A Will questo non gli importava un accidente. A lui serviva la roba, e quando non aveva liquidi, Cainos gli faceva credito. E avrebbe continuato a farglielo, se non faceva il furbo e gli restituiva quello che gli aveva prestato.

Il deck di bordo detta indicazioni con una voce femminea di bassa qualità. “Lo devo aggiornare questo dannato aggeggio”

Page 14: L'Albero delle Parole

13

pensa, mentre imbocca una via laterale che lo avrebbe fatto piombare addosso all’auto di Kornher. Imposta la velocità di crociera in modo da favorire la collisione. Il puntino lampeggiante sul deck, che indica l’auto del suo bersaglio, si muove rapidamente lungo la strada principale. Non riuscirà ad evitare l’impatto con la sua Ford, in corsa lungo il vicolo adiacente.

Lo stridio dei pneumatici sull’asfalto bagnato spaventa un gatto tigrato che passa di lì. É l’unico essere vivente in circolazione. Il paraurti rinforzato in cemento e acciaio della Ford va a colpire esattamente lo sportello del conducente dell’altra auto, una vecchia Cadillac verde scura. L’idea è quella di ammazzarlo sul colpo, il topastro di merda. A Will non piace mettere mano sullearmi da fuoco.

L’impatto scaraventa la Cadillac sul marciapiede opposto. La Ford invece rimane dov’è, in mezzo alla strada deserta. Will non si preoccupa neanche di spostarla. Scende velocemente e si avvicina alla sua vittima. Riesce a vederla attraverso il finestrino frantumato. Ha la testa poggiata sul volante e non si muove.

Il videogioco giace sul sedile posteriore. Deve essere rimbalzato nell’abitacolo prima di depositarsi lì. Will apre lo sportello posteriore e allunga la mano verso una custodia scura. Kornher è ancora vivo. Lo può sentire respirare, un rantolo che non gli lascia molte speranze.

«Mi dispiace amico. Dovevi stare più attento con quella chat!»Will rimonta sulla Ford e accende il deck portatile. Deve

assicurarsi che il materiale sia quello giusto.Cerca con le dita il plug sottopelle e ci spinge dentro lo spinotto.

Estrae il disco dalla custodia e lo infila nella fessura laterale del deck. Questa se lo divora in un sol boccone.

La spinta è impietosa. Trovarsi in quella situazione non è affatto piacevole. Bambini, urla, violenze, sesso sfrenato. Un’orgia di sangue e sperma in cui decine di infanti vengono seviziati ed uccisi brutalmente. A chi potrebbe mai piacere quella roba? Quale mente disastrata poteva reggere quegli impulsi? Ma soprattutto, chi erano stati gli artefici di un videogioco così orripilante ed efferato?

Page 15: L'Albero delle Parole

14

Will si disconnette per vomitare il suo sandwich fuori dal finestrino. “Quella roba valeva almeno 100 testoni”, è il suo ultimo pensiero, prima di accendere il motore e imboccare la strada di casa.

- Capitolo 3 -L’orco

Nella stanza 116 della clinica privata Trauma Squad, la luce artificiale avvolge l’ambiente, conferendogli un aspetto freddo e asettico. Kornher è tenuto in un coma farmacologico da massicce dosi di antidolorifici e antibiotici. Il suo corpo è letteralmente traforato di agocanule, assediato da deflussori per le flebo, il suo volto semicoperto da una maschera ad ossigeno. Seduto al suo fianco, incurante del categorico divieto di fumare, Popoff aspira profondamente il suo sigaro di tabacco ogm, saturando l’aria di fragranze tossiche.

«Svegliati! Non puoi morire… devo essere io a divorarti l’anima, bastardo…» sibila con una voce graffiata dal troppo fumo e traboccante d’odio.

Si alza con calma, spegnendo il sigaro sulla fronte di Kornher: il suo battito cardiaco aumenta, la linea verde dell’ECG sembra eccitarsi e danzare nella sua corsa folle. Vladimir Popoff soffia in faccia a Kornher l’ultima boccata di fumo rimastagli nei polmoni lordi di catrame, osserva soddisfatto l’ustione circolare sulla sua fronte: gli ricorda il mirino laser della sua Sternmayer intelligente.

La porta della stanza si apre, l’infermiera cinese spinge un carrello bianco, dal ventre d’acciaio saturo di fiale e soluzioni saline. «Ora uscire, prego. Medicazione…» balbetta mrs. Wong.

«Io esco quando decido di uscire, muso giallo, io entro quando decido di entrare. E se ti azzardi a dire a chiunque che mi hai visto qui, fosse anche quella mezzasega che ti scopa, ti caccio in culo quella siringa che stringi nelle mani.»

Mrs. Wong indietreggia, finendo per sbattere la schiena contro la porta. Popoff le si avvicina, guardandola come una vipera scruta un topo prima di inghiottirlo. «Ci siamo capiti?»

Page 16: L'Albero delle Parole

15

Le sfiora un seno, annusando il suo profumo al muschio bianco. «E cambia profumo: questa merda zen appesta.» Poi la scosta con forza dalla porta. Nel volto di mrs. Wong la paura è mista al disprezzo, ma un occidentale non avrebbe mai fatto caso alla differenza delle sue espressioni. Per Popoff sono tutte uguali, bambole cinesi usa e getta, buone solo per uno cazzo di snuff.

Appena Vladimir lascia la stanza l’Orco gli appare davanti. Un terrore riverenziale lo invade, la vipera non si era accorta dell’aquila che volteggiava sopra la sua testa. L’Orco si avvicina al suo sgherro con un sorriso diabolico, la sua voce taglia il silenzio del corridoio, illuminato da gelidi neon.

«Hai notizie della merce?» chiede, senza smettere di sorridere.La cravatta spunta dalla giacca come una lingua cadaverica, le

mani, invece, sono nascoste nelle grandi tasche del cappotto, 30.000 €$ di artigianato nanotecnologico.

Popoff non riesce a parlare: l’Orco non tollera fallimenti. Non è colpa sua se Kornher non si è ancora svegliato. Era già un fottuto miracolo che non fosse morto. Ma all’Orco non importa, l’unica cosa che ha importanza è la merce.

«Non ancora capo, quello stronzo è imbottito di farmaci e non si è ancora svegliato…» L’Orco piega il collo, poi la sua mano destra scatta come una frusta, avvinghiando la trachea del russo come un cappio d’acciaio.

«E allora sveglialo…» ruggisce.«È impossibile, la cinese lo sta medicando, proprio ora…» tenta

di replicare Vladimir, ma la stretta gli stronca la voce e la carotide. Il russo cade al suolo, emettendo orribili gemiti, soffocati dall’orrenda mutilazione. Poi l’Orco estrae dalla tasca anche l’altra mano, rivelando un cannone d’acciaio lucido e polimeri plastici: Popoff tenta di urlare, ma nessun suono esce dalla sua gola spaccata, mentre un proiettile grande come una biglia gli spappola il petto. «Risposta sbagliata!» sospira l’Orco, senza alcuna emozione. Poi la signorina Wong spalanca la porta, ma non riesce a realizzare l’accaduto: un secondo proiettile solca l’aria, centrandola in piena fronte. «Azione sbagliata!» conclude l’Orco, prima di uscire indisturbato dalla clinica, mentre le telecamere tentano inutilmente di registrare la sua immagine,

Page 17: L'Albero delle Parole

16

schermata dal cappotto olografico griffato Mitzuni. Entra poi nella sua limousine, salutando con un sorriso Mara, la sua baby-puttana.

«Hai trovato cosa cercavi, paparino?» chiede la bambina con aria ingenua. L’Orco le accarezza il mento: «Adesso si, piccola mia… al resto ci penserà il Segugio.»

L’autista mette in moto il mostro di metallo e, mentre il cerca-persone del Segugio inizia a suonare, Mara apre la zip del suo paparino.

- Capitolo 4 -Il Boss

I soldi cominciavano a girare, gli affari cominciavano a girare, e come di consueto, in perfetta simmetria, anche le palle cominciavano a girare per i problemi.

Era passato un bel po’ di tempo da quando il suo ruolo era quello di factotum del signor Zusetstu Takanawa, influente boss della malavita cinese di Sun-City. Ne era passato di tempo da quando da sotto gli occhiali scuri spiava i movimenti della bellissima figlia, Trisha Takanawa… e poi quel titolo sul giornale. “Trisha Takanawa è morta!!!”

«È morta signore… signore mi sta ascoltando?»Distratto dai suoi pensieri, i suoi occhi dietro gli occhiali scuri

vedono nuovamente l’ufficio ancora in allestimento, la sua mano percepisce di nuovo il freddo legno in mogano della sua scrivania. Lo splendido volto di Trisha Takanawa viene sostituito da quello del fedele sgherro.

«Chi è morta?» chiede Cainos con voce pacata.«La nostra agente, quella che avevamo infiltrato nella clinica, la

Trauma Squad, con il compito di monitorare e prelevare le dovute informazioni da Kornher, una volta ripresosi.»

Lo stupore è d’obbligo. Kornher gli doveva dei soldi. Mezza Sun-City doveva soldi a Cainos, e l’altra metà era quella che dormiva tranquilla.

Page 18: L'Albero delle Parole

17

«E in che modo siete riusciti a dispensarla da quella tremenda dipendenza da ossigeno che la tormentava, in una missione di copertura talmente semplice?»

«Signore, sembra che ci siano stati dei problemi inaspettati…» la voce dello sgherro comincia a tremolare. Non era mai buon segno quando diveniva sarcastico, il boss.

Cainos torna a riflettere, a parlare fra se ad alta voce “…ci sono stati dei movimenti a nostra insaputa, movimenti importanti da attirare così tanta attenzione per una semplice consegna…” e continuando a parlare alza la mano destra, che fino a quel momento era rimasta adagiata sulla scrivania. Nel movimento un luccichio colpisce l’occhio dello sgherro, che intravede in quella mano un lucente rasoio dal manico d’argento e la lama in freddo acciaio.

«Non dobbiamo disperare, signore» deglutisce, suda, balbetta. Nel frattempo il suo probabile carnefice ammira la lucentezza del suo gioiello.

«Ritengo che nessuno abbia sospettato che fosse una dei nostri, e che nessuno possa risalire a noi…»

Lo sgherro tenta in tutti i modi di assumere un’espressione rilassata, e ridacchiando abbozza una battuta.

«Ritengo che si sia trovata nel posto sbagliato nel momento sbagliatissimo, e che quindi ne abbia subito le conseguenze.»

«Ritieni?»Il tono non presagisce niente di buono. Nervosamente si

appresta ad aggiungere: «Si signore, inoltre Kornher è ancora vivo, possiamo sempre riprendere i suoi soldi, cioè i tuoi soldi. Anzi, adesso sappiamo che c’è qualcosa di più dietro e potremmo usare le dovute precauzioni…» questa volta il tono è più risoluto.

«Si, potremmo!»«Forse è la strada giusta. La perdita è stata minima, la ragazza

uccisa era della vecchia guardia dei Takanawa, una cinese alle prime armi…» Un flash irrompe nella mente di Cainos. Quel nome rievoca l’angelico volto di Trisha, la sua pelle di porcellana.

Page 19: L'Albero delle Parole

18

«…se riflette Signore si è dimostrata una pedina sacrificabile, che ha compiuto un ottimo lavoro. Con la sua morte ha rivelato un complotto inaspettato.»

«Basta così, hai ragione, mi hai convinto, rimaniamo con il piano prestabilito. Metti un’altra infermiera a sorvegliare Kornher e piazza un uomo a sorvegliare lei. E ricordati che questa volta sei ufficialmente responsabile.»

«Certo signore. Potrei consigliarle di utilizzare…»«No, non consigliare, non voglio uno dei nostri. Voglio uno al

di fuori, uno che non possa essere ricondotto direttamente a noi. Puoi utilizzare Charles. Al momento sta gia portando avanti un affaruccio per nostro conto.»

«Certamente signore» sono le sue ultime parole, prima di scomparire per sempre dalla vista del boss.

“Tuuuuuuuu… Tuuuuuuuuuu… Tuuuuuuu…” il telefono da libero.

«Pronto Charles, ho un altro lavoro per te, non appena avrai finito con quella consegna. Uno dei miei sta venendo da te a darti i dettagli, senti cosa ha da dirti. Se sei ancora interessato a lavorare per me a tempo pieno, e ti consiglio di esserlo, si potrebbe liberare un posto… Il suo.» Click.

-Capitolo 5-Lavoro sporco

«Maledetto figlio di puttana.» Charles sputa sul corpo senza testa del Rosso, il cellulare stretto nella mano sinistra mentre nella destra ancora fuma la 9 millimetri. I biglietti verdi galleggiano nell’acqua nera, ormai zuppi. Si allontana velocemente da quel delirio di carne e sangue, monta in auto e parte sgommando.

«Cosa cazzo racconto a Cainos adesso? Quel cinico psicopatico mi sventra se non gli riporto indietro qualcosa.»

Charles poggia l’indice sulla serratura scanner e rientra in casa. Getta il giubbotto a terra e si siede sul divano nero. Si rialza veloce, nervoso, come un topo in gabbia, afferra di nuovo il cellulare. Se non si calma lo spezzerà. Compone il numero di

Page 20: L'Albero delle Parole

19

Shag, mentre ringhia allo specchio. «Pronto?» Qualcuno dovrà prendersi il pacco stasera, e non sarà certo Charles.

«Shag, sono io. Hai 9000 crediti da investire?» Solo lui potrebbe trovarli così in fretta, in una serata soltanto. Solo quella piccola sanguisuga può toglierlo dai casini.

«9000 K? Una bella cifra amico… Cosa hai da propormi?»«Vieni qua. Subito.» Charles sa che entro tre ore Shag e almeno

un paio dei suoi saranno lì, invaderanno casa sua con le loro catene d’oro e le puttane strafatte di cui il bastardo si circonda sempre. Si avvicina all’armadietto, sceglie la più forte delle tre fiale e si prepara. La siringa attende pronta sul bracciolo del divano, Charles stringe forte il laccio, facendo risaltare le sue vene martoriate. Infila l’ago, mentre la vena pulsa ad ogni goccia di Black Lace che inietta. La roba entra veloce in circolo mentre la mascella di Charles si serra. Schiuma verdastra gli cola dai lati della bocca, la pupilla, sempre più piccola, diventa la punta di uno spillo, mentre la musica del riproduttore sembra voler sfondare le casse.

Il campanello squilla, Charles inspira profondamente ed apre la porta. Shag insieme a due coglioni ricoperti d’oro entrano nella stanza seguiti da una troia dai tacchi vertiginosi. «Allora Charlie, cosa mi vuoi proporre?»

«Odio quando qualcuno mi chiama Charlie… Lo sai?» Due buchi nel petto al primo stronzo. Black Lace danza nel sangue contraendo i muscoli in spasmi dolorosi. Charles è veloce, velocissimo, prima che il secondo negro capisca cosa succede ha già la lama dentro la carotide. Black Lace aiuta… Black Lace danza veloce. Charles neanche si accorge che alla mano con cui teneva il coltello mancano una paio di dita, spappolate da un proiettile appena sparato. Charles tira il grilletto… Può poco con la pistola scarica, in tutto il casino non si è ricordato di ricaricarla. Mentre la troia urla, Shag gli spara ancora una volta. Lo manca. In un secondo salta addosso al negro, mentre la mano sinistra zampilla sangue Charles addenta forte il collo del ricettatore. La mascella si serra stretta, i muscoli tesi dalla droga sintetica come cavi d’acciaio. Un gorgoglio accompagna la morte di Shag, non prima del terzo sparo che gli centra la coscia. Niente, nessun

Page 21: L'Albero delle Parole

20

dolore. Black Lace fa il suo dovere. Charles si volta verso la ragazza. «E ora troia, è il tuo turno.»

-Capitolo 6-Cannibal Party

Il videogioco si chiama Cannibal Party. A Will gli tremano le mani quando risale in superficie, dopo aver esplorato le ultime videoteche dello sprawl. Un prodotto Shikoku, ideato e redatto dall’illustre mago dei Giochi-Tabù, Hideyoshi Kimura.

Nel sottosuolo c’è molto fermento a riguardo. Alcuni dicono che si tratti un autentico snuff, altri che sia totalmente digitalizzato, e che Kimura non esista nemmeno. La solita manovra economica della Shikoku per far salire il prezzo del prodotto. Ogni tanto rispolverano un vecchio nome, e Kimura è sempre stato il loro cavallo da battaglia.

La leggenda vuole che il sadico programmatore giapponese usi mettere in scena il girato, che poi trasforma in videogioco, in un ingegnoso lavoro di post produzione. Il risultato è ovviamente dei più realistici.

Cannibal Party incomincia con una classica scena di violenza hard-core perpetuata ripetutamente su dei bambini. Il set è una casa ottocentesca; tende di velluto color porpora e lenzuoli bianchi dappertutto, per far risaltare il sangue sprizzato dai corpicini dilaniati. L’escalation è ovviamente verso il basso. Si parla di iniziazione alla demonizzazione, attraverso ripetuti rapporti carnali con infanti e susseguenti smembramenti. L’ultima scena è un banchetto sontuoso in cui i bambini uccisi vengono divorati in più portate.

La recensione turba così profondamente il Traveller che un minuto dopo il distacco è già sul divano ad iniettarsi un po’ di tranquillità. Si chiama Blue Marine, leggera come le onde del bagnasciuga e profonda come gli abissi. Will ascolta il suo corpo galleggiare verso il largo, in un torpore cosmico che gli restituisce un minimo di divinità. Al risveglio è intontito e già in piena astinenza. La Blue Marine è quasi finita, e Cainos non lo rifornirà mai se prima non gli riporta i suoi soldi.

Page 22: L'Albero delle Parole

21

Le serrande sono abbassate, ma una luce intensa penetra violentemente dai lati. È tornato il sole, pensa Will, mentre si prepara il caffè. La custodia del videogioco giace distrattamente sul tavolo della cucina. Il disco è ancora dentro al processore.

Will afferra la custodia ed è preso da un irresistibile tentazione; gettare via tutto, far sparire quella follia, prodotto di menti depravate. Ma Cainos non gliela avrebbe fatta passar liscia. Non gli avrebbe concesso altro tempo. E poi lui di tempo, senza la sua cara amica blu, non gliene rimaneva molto.

Il gorgoglio del caffè lo riporta sulla terra. C’è qualcosa di strano nella custodia. È priva di copertina, ma è rivestita di plastica trasparente per inserircene una. Sotto il cartoncino scuro spunta l’angolino di un post-it giallo. Will lo estrae con cautela. Un nome, un indirizzo, un numero di telefono.

Vladimir Popoff.

- Capitolo 7 -Tanto va la gatta al largo…

La signorina Wong giace a terra, riversa nel suo stesso sangue. Il camice da infermiera orribilmente imbrattato, lo sguardo perso nel vuoto, incredulo, come stupito. Anche Vladimir è a terra. Solo il neon del corridoio conferisce movimento alla scena, quando decide di sfarfallare un po’, prima di esaurirsi completamente.

«Ci mancava anche questa…» mugugna il detective, gettando a terra la sua sigaretta senza nicotina. La sua squadra è al lavoro da almeno due ore: il fotografo avrebbe potuto realizzare un calendario macabro con tutti gli scatti che aveva prodotto. In rete avrebbe sicuramente venduto più di una edizione a basso costo dell’enciclopedia duecani.

Le due giovani reclute della polizia di Sun-City stanno ancora tentando di inserire i due corpi nelle body-bag, lottando con i loro conati. È la prima volta che recuperano due corpi per il dipartimento scientifico. Il primario del Trauma-Squad osserva in silenzio la scena del crimine, accanto al detective, con le braccia conserte ed un espressione preoccupata.

Page 23: L'Albero delle Parole

22

«Non va bene…» borbotta. «Se la stampa venisse a saperlo perderemo credibilità, detective… è necessaria la massima discrezione…»

Il detective Anderson si volta verso il primario, legge il suo nome sul tesserino, osserva il suo taschino ricolmo di strumenti medici e tre penne da 2000€$ l’una.

«Dottor Kaboto, una sua collega è morta… e lei si preoccupa del suo reparto?» Il primario non si scompone. «Tutti moriamo. Questa è una clinica privata, la morte fa parte del nostro lavoro.»

«Potrebbe essere lei il prossimo, dottore… neanche questo la preoccupa?» Questa volta il dott. Kaboto deglutisce, sbattendo ripetutamente le palpebre, un vecchio tic adolescenziale.

«E perché dovrei?» balbetta. «Non ho nemici…»Il detective allora lo incalza. «A quanto sembra, la sua

infermiera ne aveva eccome… o forse è solo capitata nel posto sbagliato al momento sbagliato, ma io non né credo al caso né alle coincidenze…»

Il dott. Kaboto ascolta in silenzio, nervoso…«Ho bisogno di sapere tutto sul paziente della stanza 116 e sulla

signorina Wong, oltre alle registrazioni delle telecamere di sicurezza, ovviamente…»

Il dottore conduce il detective Anderson nella sala di sorveglianza, un loculo dalle pareti ricoperte di schermi, una piccola scrivania, ed un agente privato che sonnecchia annoiato su una sedia di alluminio. Al loro ingresso la guardia assume l’espressione più intelligente che riescea simulare, si alza in piedi, aspettando sull’attenti le richieste del dottor Kaboto.

«Consegni al detective Anderson le memorie del reparto 7, ala C, stanza 116, tutte le registrazioni, comprese quelle in archivio.»

«Ricevuto dottore, ma devo avvertirla che non troverà molto, detective. Qualcuno ha disturbato la ricezione con qualche tecnologia cinese. Roba cazzuta, per almeno cinque minuti ho pensato ad un guasto al sistema di video-sorveglianza.»

«La procedura standard obbliga a suonare l’allarme dopo trenta secondi di guasto al sistema, agente. Anche questo finirà sul rapporto, dottor Kaboto, dovrebbe scegliere meglio i suoi collaboratori…»

Page 24: L'Albero delle Parole

23

Il dottore fulmina con lo sguardo la guardia privata, ma non aggiunge altro. Intuisce che è solo un ricatto per estorcere informazioni normalmente riservate o coperte dal segreto professionale. «Cosa vuole sapere, detective?» conclude con voce rassegnata il dottore.

«Voglio ogni fascicolo, ogni cartella, ogni appunto, della signorina Wong e del paziente della 116. Non abbiamo molto tempo, dottore, quelli della scientifica stanno aspettando i cadaveri per l’autopsia e per i rilevamenti.»

Il dottore si direge verso la porta, la apre facendo un cenno al detective. Poi, senza neanche voltarsi verso la guardia, pronuncia le parole «Lei è licenziato.» E chiude dietro di se la porta.

Dopo qualche ora i due corpi giacciono in altrettanti lettini di metallo, con un cartellino agli alluci dei piedi ed un lenzuolo bianco come sudario. Le scansioni hanno rilevato le impronte digitali dell’uomo sul camice della donna, all’altezza del seno, le stesse ritrovate sul sigaro che aveva bruciato la fronte del paziente della 116. Evidenti segni di strangolamento sono stati osservati sul collo dell’uomo, tale Vladimir Popoff, pregiudicato, con una lista di reati da far accapponare Jack lo squartatore.

Incrociando i dati rilevati sulla scena del crimine, le tracce lasciate dall’infermiera e da Popoff, l’agente Anderson ricostruisce tassello per tassello la scena, fermandosi di tanto in tanto a riflettere, aspirando la sua ennesima sigaretta salutista.

Le dita scorrono veloci sui due terminali del suo studio. Volti, facce, rapporti, si intrecciano come i pezzi di un puzzle misterioso: era quello che gli piaceva del suo lavoro, quell’opera di scoperta, l’ordine che emergeva dal caos. Non gli importava della pena che eventualmente avrebbe inflitto al colpevole: era solo una sfida, una lotta contro il caso, una missione personale.

«Rapporto: la signorina Wong non risulta residente in nessun paese della confederazione, né iscritta a nessun database digitale o ad alcuna scuola per infermieri, dottorati di ricerca, associazioni del cyberspazio o nella banca dati della polizia di Sun-City.» Spenge la sigaretta nel posacenere di metallo.

«Vladimir Popoff…» aggiunge, espirando l’ultima boccata di fumo «risulta invece collegato ad una fitta rete criminale, che

Page 25: L'Albero delle Parole

24

opera in vari settori della malavita organizzata. Dalle indagini degli agenti Fargo e Roswell, entrambi deceduti due mesi fa in servizio, la rete è governata da un individuo senza scrupoli che si fa chiamare l’Orco… voci di corridoio legano questa cellula alla produzione di videogiochi illegali e ad una lista impressionante di reati.»

L’agente Anderson cerca un’altra sigaretta, ma il suo pacchetto è ormai vuoto. Sbuffa… «Qualcosa non torna… C’è puzza di affare andato a monte… E solo il paziente della 116, Kornher, anche lui pluri-pregiudicato, potrà fare luce su questa vicenda.» Spenge il registratore, alza la cornetta del videotelefono interno. «Capo… si, ci sono novità. Ho bisogno di una squadra… si… no… perfetto, loro andranno benissimo… dobbiamo piantonare la stanza 116: Kornher è l’unico che può darci informazioni… perfetto… le farò sapere… grazie per la fiducia…»

Il sole cala su Sun-City, nascondendosi dietro i grattacieli, formicai di metallo, freddi come il cuore dei suoi abitanti.

“Questa volta ci lascio le penne…” sospira Anderson.Poi scopre un mozzicone di sigaretta abbandonata nel

posacenere: due, tre boccate al massimo… “Abbastanza” pensa, ed il sapore di sinte-tabacco rende meno amaro il suo nefasto presentimento.

- Capitolo 8 -Una spiacevole sorpresa

La stanza è completamente ricoperta di sangue. La puttana di Shag anche, con la gola squarciata e la lingua sporca di sperma che penzola dal taglio. Cravatta colombiana. Charles prepara nuovamente una siringa, questa volta carica di nanochirurghi. L’effetto della Black Lace sta finendo e il dolore comincia a farsi sentire. Su di un panno sporco di sangue c’è la pallottola e l’accendino con cui ha sterilizzato alla meglio il coltello. Sul megaschermo l’orgia continua, mentre una donna asiatica viene sodomizzata con un bastone elettrico, le urla si confondono con la musica che non ha smesso per un attimo di riversarsi dalle casse dello stereo. Appartamento insonorizzato, i soldi spesi meglio in

Page 26: L'Albero delle Parole

25

assoluto. Charles si rilassa sul divano accanto al corpo di Shag. I nanochirughi cominciano il lavoro, la mano smette di sanguinare e lentamente Charles riprende il controllo di se. Passano i minuti. Va già meglio…

Afferra il telecomando e richiama l’hi-fi al silenzio. Respira…

“Mi è andata proprio bene questa volta” pensa lo scagnozzo una volta uscito dall’ufficio di Cainos. “È chiaro che il capo comincia a tenermi in considerazione, o semplicemente si è accorto che non è colpa mia, in effetti cosa avrei potuto fare? Meglio non pensarci, anzi posso scaricare la patata bollente a quel fallito drogato di Charles, che se la veda lui.”

Così continuano i suoi pensieri e le sue illusioni, mentre attraversa la parte ricca della città per avvicinarsi alla terrificante periferia di Sun-City, che di sole ha ben poco. Passa un paio di quartieri senza notare niente di strano. È una di quelle serate tranquille, si trova ancora ai margini della reale periferia. Charles si è sistemato in una zona con case autonome, segno evidente che non se la passa poi così male.

Ecco la porta, parcheggia la macchina e si avvicina tranquillamente, suona il campanello ma nessuno risponde. Suona e chiama ma la risposta è sempre la stessa. Origlia alla porta ma non sente nessun rumore, gira il pomello e la porta si apre, chiede permesso ed entra.

“C’è Charles in piedi che ansima, ecco perché il silenzio.”“C’è Morte sul tutto il pavimento, ecco da dove viene il sangue

che ha addosso.”“C’e’ Black Lace nel suo corpo, ecco perché tutto questo

casino.”“C’è uno sconosciuto davanti a lui, ecco perché sono morto.”

Il fischio dei polmoni sottosforzo lentamente si assottiglia, sebbene lo stordimento sia sempre forte, e la ragione torna a prendere la sua posizione nella rispettiva zona del cervello. Charles si guarda attorno e non può che provare disgusto per quello che ha fatto, non può che provare disgusto per il sapore di

Page 27: L'Albero delle Parole

26

sangue e i lembi di carne strappata che ha in bocca, non può che trovare conforto per il denaro che ha recuperato.

Adesso deve stare tranquillo, deve fare rilassare il corpo, metabolizzare la droga, sorbirsi i laceranti crampi allo stomaco per le restanti due ore; la Black Lace da anche questo. Decide di sdraiarsi comodamente sulla poltrona, penserà dopo a sistemare tutto quel casino, adesso solo relax, deve stare quieto, e fare pensieri quieti. Basta anche con Cainos. Si basta! Paga bene ma è troppo rischioso. Ha troppi nemici e ci sono altri farabutti a Sun-City a cui offrire servizi, e i loro nemici non sono mai così audaci.

“Si, è la cosa più giusta da fare, la più quieta… respira, inspira, respira, inspira, rilassati, apri gli occhi, la luce intermittente della segreteria telefonica, qualcuno deve avermi chiamato quando ero fuori.”

Click - Pronto Charles, ho un altro lavoro per te, non appena avrai finito con quella consegna. Uno dei miei sta venendo da te a darti i dettagli, senti cosa ha da dirti. Se sei ancora interessato a lavorare per me a tempo pieno, e ti consiglio di esserlo, si potrebbe liberare un posto… Il suo. – Click

Una fiammata al volto, di scatto lo sguardo al pavimento; Shag, due negri e la troia… No, non solo, c’e’ anche un uomo in giacca e cravatta giusto all’entrata, sdraiato prono sul pavimento ma col volto che guarda innaturalmente il soffitto; ha un’aria sorpresa, comicamente sorpresa.

Un lacerante dolore allo stomaco… No, non e’ la Black Lace. È ancora troppo presto. Questa è un’altra cosa; si chiama Angoscia!

- Capitolo 9 -La trappola dell’Orco

La cimice si era fatta strada attraverso chilometri di fibra ottica, per penetrare nel processore di Kornher e rivelarne la locazione. Ne poteva usare solamente una, per questo non aveva potuto rintracciare il compratore. Ma quel foglietto giallo apriva mille nuove possibilità.

Page 28: L'Albero delle Parole

27

Will si accomoda sulla sua sedia di vimini reclinata, il volto a pochi centimetri dallo schermo olografico. In mano tiene il post-it con l’indirizzo.

«Cercami Vladimir Popoff, 5 W. 15th St. 212-347-8281.»Il disco inizia a grattare, come infastidito dal comando. La voce

del deck annuisce con un suono sintetico, proveniente da un unico speaker montato sulla parete.

«Localizzato.»Ci sono cose che la voce non può ordinare ad una macchina.

Will estrae da sotto la sedia la sua tastiera wireless e incomincia a far danzare le sue dita sopra le cinque file di tasti neri. Il deck del suo obbiettivo è spento, segno che il depravato è fuori, ma gli bastano un paio di comandi per rimetterlo in funzione. Dopo di che tutta la storia del signor Popoff è a sua completa disposizione.

Venti minuti più tardi Will si è già reso conto che quel contatto non è altro che un mediatore, un pesciolino insignificante nell’oceano della malavita di Sun-City. Se voleva piazzare il videogioco doveva contattare direttamente il compratore. Doveva cercare più a fondo…

«Esplorami l’Orco.»Quel nome rimbalzava in molti files che Vladimir aveva cercato

maldestramente di criptare. Di sicuro doveva trattarsi di un personaggio importante, con tutta probabilità colui che voleva il videogioco e che aveva ingaggiato Popoff per trovarglielo.

Rimette a posto la tastiera ed allunga le sue ossa annichilite, cercando un po’ di sollievo. Aspetta la risposta dallo speaker. Un nome vero, una strada, un numero. Qualsiasi cosa può andar bene, ma l’altoparlante rimane muto. Will chiude gli occhi. È alla ricerca di un luogo tranquillo nella sua testa, per combattere il desiderio impellente della sua amica blu.

Quando li riapre si accorge che ha appena commesso un grave errore. Dati perlopiù indecifrabili scorrono veloci attraverso lo schermo olografico. Le finestre sono andate, il cursore pure.Dannazione, pensa Will mentre riafferra la tastiera. Gocce di sudore gli imperlano la fronte. I comandi non rispondono, la

Page 29: L'Albero delle Parole

28

cascata ininterrotta di numeri e simboli diventa sempre più incomprensibile.

«Rimuovi, rimuovi!» La voce non è più quella quasi sintetica che ha l’abitudine di utilizzare con la macchina. È fin troppo chiara la nota di terrore con cui pronuncia quelle due parole.

Will si alza velocemente dalla sedia, catapultandosi verso l’interruttore generale. STACK! La stanza sprofonda nel buio rotto solamente dalla luce esterna, che continua a penetrare le serrande abbassate. La ventola del processore decelera fino a fermarsi. I led diventono gli occhi morenti di creature aliene.

Will voleva trovare l’Orco, ma come succede nelle favole, era stato l’Orco a trovare lui.

- Capitolo 10 -Convergenze

Mara rimette a posto gli oggetti di paparino, quelli che stimolano e a volte lasciano segni, lividi, graffi e tracce indelebili nell’intimo. Nella megasuite dell’Hilton Hotel le tende color porpora giocano con i riverberi delle candele, sparse per tutta la stanza. Incenso e musica zen, come piace a lui. Mara è dolce e ci sa fare; gli ricorda la cinesina, l’unica donna che è riuscita a scalfire il cuore dell’Orco. Trisha Takanawa.

Ma gli orchi non si possono permettere gli affari di cuore. Strapparle la vita fu il dolore più grande, il piacere più sottile. Dolcissima Trisha, pensa, mentre la sua nuova baby si avvicina al plasma. Ci danza un po’ in controluce, mentre scorrono le immagini di “Jungle”, produzione sudamericana, piccolo budget uguale grande film. Sullo schermo una ragazza indigena viene seviziata ripetutamente da un branco di archeologi bianchi. Mara è sensuale con le sue non-forme. Ha il corpo di una dodicenne e la mente di una di cinquanta. L’Orco ha un’altra erezione. Ha un membro che fa paura, risultato di molteplici operazioni di extension, ma la sua bambina sa come accoglierlo. Anche lei è stata sottoposta a numerosi interventi di “incavamento”. Sono fatti l’uno per l’altra.

Page 30: L'Albero delle Parole

29

Il telefono squilla. Non si può disturbare l’Orco in momenti come quello. Afferra il cellulare per scaraventarlo dall’altra parte della stanza, ma il nome che vi lampeggia sopra lo fa bloccare. È il Segugio.

«Prega di avere buone notizie, perché non amo essere disturbato quando Mara balla per me.»

«Sono stato da Kornher, e poi a casa sua. Maldestro, il ragazzo. Qualcuno deve averlo fregato mentre portava la merce al tuo sgherro. Qualcuno che ci sa fare con i computer, ma non tanto quanto me.»

«Hai un nome?»«Di più. Ho un indirizzo: Will Coston, 16 O. 22th St. 212-332-

5459.»«Ottimo lavoro!»L’erezione è andata a farsi fottere, ma presto ne avrebbe avuta

una ancora più grande.«Aspettami qui piccola. Tornerò con un gioco nuovo…»

L’agente Anderson ritorna sulla scena del delitto, e questa volta è un massacro. Tre corpi dentro la stanza di Kornher, due alla porta e uno nel corridoio. Lo riconosce subito, è quello del dottor Kaboto. Il killer è entrato dalla finestra, ha fatto saltare le cervella ai due agenti che tenevano d’occhio Kornher, uno di quelli nel corridoio ha provato ad entrare ma è stato freddato subito, poi deve esserci stata una breve sparatoria. L’uomo usava proiettili Killer-Pool, quelli che rimbalzano sulle pareti. Non gli è stato difficile eliminare gli altri due agenti. Una pallottola deve essere rimbalzata un po’ nel corridoio, fino a esplodere nella testa del primario.

Kornher giace privo di vita nel suo letto. Ha una siringa piantata nel braccio e non appartiene alla clinica. Il killer lo ha fatto parlare con una dose fatale di Boost, roba da servizi segreti. Anderson in pochi secondi ricostruisce la scena nella sua testa. Maledice se stesso e tutta Sun-City. Poi si scaraventa nel corridoio verso la sala di sorveglianza e s’imbatte in un settimo cadavere; è quello della guardia.

Page 31: L'Albero delle Parole

30

Entra nella stanza delle registrazioni, non aspettandosi di trovare nulla. Ma forse il killer non ha perso tempo. Chiede al terminale i footage dell’ultima mezz’ora e… bingo! La faccia dell’uomo non dice nulla, ma un fotogramma della telecamera del parcheggio può bastare. Anderson esce dalla clinica con l’unico indizio che lo mantiene in gioco; un numero di targa.

Will sa che se vuole salvarsi non può nascondersi, non con personaggi come Cainos o l’Orco. Se vuole avere una minima possibilità deve rischiare. Riaccende il deck e inizia a scavare. Incrocia nomi, dati, facce, indirizzi. Ha bisogno di qualcosa. L’informazione è potere… Trisha Takanawa, è lei la chiave.

Il vero nome dell’Orco è Theoderich Forsbach, di origine tedesche. Dieci anni prima lavorava a fianco di Juri Gazdik per il noto boss nippo-cinese Zusetsu Takanawa. Gazdik è il vero nome di Cainos. Insieme hanno arrecato terrore nelle strade di Sun-City, fino al giorno in cui Juri scoprì che il suo amico se la faceva con la sua donna; Trisha… L’odio di Gazdik divenne follia quando la figlia del boss venne trovata decapitata nel letto di Forsbach.

Passarono gli anni e i nome cambiarono, le facce vennero alterate dagli interventi chirurgici, ma nel sottosuolo della matrice si possono rinvenire le storie che ancora non hanno una fine. Questa è una di quelle.

«Pronto Cainos?»«Will, che piacere risentirti. Hai i miei soldi?»«Si, e forse qualcosa di meglio….»«Attento pesciolino, non giocare con gli squali…»«Theodorich Forsbach.»«Cosa?»«Ti aspetto. Click.»

Charles è sotto la doccia quando sente squillare il telefono. È tentato di non rispondere. Vuole andarsene, scappare più lontano possibile dal macello che ha appena compiuto. Ma i dolori ritornano insieme al desiderio di lei. Black Lace, dove sei?

Page 32: L'Albero delle Parole

31

La segreteria scatta. Charles spegne il getto d’acqua per ascoltare. È la voce di Cainos.

«Charles, lascia perdere tutto e precipitati sulla ventiduesima; Will Coston. Ti aspetto sotto casa sua. Ah, dimenticavo, portami i soldi. Ho una sorpresina per te, roba di prima qualità. A dopo.»

Charles esce dal bagno. Il salotto assomiglia a una macelleria poco pulita. Apre l’armadio; pantaloni, maglietta, giacca, scarpe, tutto rigorosamente nero. Il cannone è carico. Si riparte.

- Capitolo 11 -Sensazioni…

Will continua a rigirarsi tra le mani il dischetto. Sulla liscia superficie argentata non c’è neanche un segno, una parola che possa minimamente ricondurre a ciò che contiene. È una copia pirata, ovviamente. Presto saranno qui. Non sa in che ordine, ma saranno qui, tutti quanti. Tanto vale finirsi la scorta, pensa. Un tuffo nel mare blu, sempre più giù, sempre più giù…

Driin! Driin!È Cainos, insieme a quel pazzo di Charles. Si accomodano in

salotto. Hanno due cannoni lucidi e pronti a scattare. Cainos non tollera stronzate. Charles ha negl’occhi la follia dell’astinenza.

«Parla, pidocchio!»Will deglutisce, ma l’amica blu gli da una mano. Afferra la

custodia del videogioco e la mostra ai due.«Prima di tutto vorrei saldare i conti. Questo videogioco vale

almeno centomila crediti…»«E che cazzo ci faccio io con un videogioco?» ride Cainos.

Charles gli va dietro.«Va bene, se mi dai un po’ di tempo te lo piazzo io…» continua

il Traveller.«Dove lo hai preso?»«Oh, un lavorino di hacking. Ce l’aveva un fesso di nome

Kornher…»Cainos scatta come la corda di una arco, punta il pistolone alla

tempia di Will, freme, quasi non riesce a controllarsi.«Allora sei stato tu a ridurre Korher così!»

Page 33: L'Albero delle Parole

32

«Che cazzo succede?»«Kornher mi deve dei soldi, e tu mi vorresti piazzare la roba che

gli hai rubato?»Will ha fatto male i suoi calcoli, ma ha ancora da giocare

un’ultima carta.«Ok, ok… Parliamo di Theodorich Forsbach.»«Si, parliamone…» la voce di Cainos è il bisbiglio di un

demone.«È l’Orco.»«Cosa?»«Quel depravato che si fa chiamare l’Orco. È lui!»«Se mi stai dicendo una stronzata ti giuro che il mio amico

Charles qui ci metterà intere settimane ad ammazzarti…»«Sta venendo qui…»«Cosa?!!»«Non sa che siete qui. Pensa che io sa da solo. Potete fotterlo…»Il dito di Cainos s’irrigidisce sul grilletto. Una linea indefinibile

separa Will dal sonno più lungo.Driin… Driiin… Driiiiiiiiiiiin!«È lui!»Poi incomincia l’olocausto.L’Orco irrompe nell’appartamento preceduto dal Segugio e un

secondo sgherro. Charles si muove veloce, nonostante la ferita alla gamba. Fa secco lo sgherro e poi si mette al riparo dietro il sofà. La pistola di Cainos è in traiettoria verso la porta. Non spreca il vantaggio, anche se il colpo deve passare attraverso il cranio del povero Will. Ferisce il Segugio e poi trattiene il corpo del Traveller per usarlo come scudo.

Intanto due proiettili Killer-Pool sparati dal Segugio rimbalzano freneticamente nella stanza. Uno colpisce di striscio Charles, che impreca e manda tutti a farsi fottere. Rinuncia al riparo e scarica il cannone addosso ai bastardi. È una mossa azzardata. La testa del Segugio esplode, ma l’Orco ha tutto il tempo di mirare al suo bersaglio. Charles fa due passi indietro cercando di rimettersi gli intestini dentro lo squarcio che gli si è appena aperto nel basso ventre. Ci rinuncia e crolla dietro il sofà.

Page 34: L'Albero delle Parole

33

Juri e Theodirich si ritrovano uno davanti all’altro, le pistole puntate alle rispettive facce. Facce cambiate durante gli anni, ma i loro occhi sono quelli di sempre.

«Perché l’hai uccisa?»«Perché ti amava, e non potevo sopportarlo.»

Anderson spalanca la porta dell’appartamento di Will Coston. Di scene come quella che gli si presenta davanti ne ha viste anche troppe, ormai. La sparatoria non ha lasciato supertesti. Ci sonosei uomini riversi al suolo, e solo due hanno la faccia ancora intera. Il detective sa che non dovrebbe toccare niente, ma il buio e la puzza sono intollerabili. Si avvicina a una finestra e la spalanca. Si chiede da quanti mesi non sia stata aperta.

La luce irrompe sulla scena come il risveglio alla nuda realtà dopo un sogno bellissimo. Anderson è stanco. Si chiede che senso abbia raccattare i tasselli di assurdi puzzle come quello che ha davanti. Poi il suo sguardo va a un oggetto riverso sul pavimento; la custodia di un dischetto. La prende. Anche questo non dovrebbe fare. Se la rigira tra le mani. Sulla nera superficie risaltano cinque macchie di sangue. Apre la custodia, estrae il dischetto, e qualcosa gli dice che tutto è partito da quell’oggetto. Ma non sa se fidarsi delle sue sensazioni, ormai. L’ultima che ha avuto era una delle più nefaste, e invece sembrava che se la fosse cavata anche questa volta.

Poi un led rosso incomincia a pulsare sulla superficie del dischetto.

«Che diavolo è?»

ESTRATTO DAL SUN-CITY JOURNAL

Per combattere la pirateria informatica la Shikoku, nota produttrice di videogiochi per adulti, ha messo sul mercato una nuova tecnologia, il Pirate-Mine-System. Si tratta di un metodo non molto ortodosso per fronteggiare il dilagante problema. In pratica il software trasforma il supporto su cui è stato copiato in un trasmettitore. Al satellite della Shikoku basteranno un paio di giorni per rintracciare la copia e intervenire seguendo le normali misure riserbate ai pirati informatici.

Page 35: L'Albero delle Parole

34

L’intervento del laser satellitare è veloce e non lascia traccia. Il pirata viene fulminato all’istante e la copia ovviamente distrutta.

La multinazionale ha sperimentato il prodotto in segreto e sembra aver dato i risultati sperati. Ci sono stati alcuni incidenti, come nel caso del detective Anderson della squadra omicidi (ne abbiamo parlato in un articolo precedente), ma le autorità non sembrano voler intervenire legalmente contro la Shikoku. In fondo si tratta di una piccola perdita, in una lotta che va avanti da anni contro l’inarrestabile contro-cultura del file-sharing.

Charles HuxleyGM Willo

DemiurgusCainos

2008-2009

Page 36: L'Albero delle Parole

35

AL DI LÁ DEL CAMPOdi Davide Bandinelli

Ci ripariamo dentro il capannone semi dismesso del comune. Con l’oscurità di questa tarda sera di novembre è arrivata anche la pioggia, rumorosa e gelida.

Siamo accanto ad una moltitudine di oggetti e macchinari per la manutenzione stradale, ci sono cartelli, attrezzi, sacchi di sale, e persino un’enorme scavatrice che mi fa un po’ paura.

Penso che se torno a casa bagnato mia mamma mi sgriderà di sicuro.

Cesare e Tiberio non sembrano così preoccupati, forse i loro genitori non sono tanto apprensivi.

Li guardo invidioso mentre liberano da un vecchio zaino una specie di piatto di metallo e una torcia militare. Io tutte le sere verso le otto dovrei tornare a casa per la cena, è una regola che cerco di rispettare per non ricevere rimproveri, loro due invece mi pare non abbiano un orario stabilito.

Le gocce di pioggia che precipitano sul tetto del capannone, dal suono che sprigionano, sembra che abbiano una consistenza inspiegabile.

Cesare prende lo Walkie Talkie che tiene fissato alla sua cintura e comincia ad avvitarci sopra una antenna più lunga e potente di quanto non fosse quella originale e, con un tono di voce appena percettibile da farmi intendere che non devo sentire, dice a Tiberio qualcosa:

- Vediamo se è ancora qui. -Capisco bene invece quello che ha detto. Ho un brivido di

spavento e d’istinto guardo il muro che si erge pochi metri più avanti dal capannone e ciò che delimita: sagome di alberi scuri avvolti dal vento, e il suono di migliaia di rami e foglie che si stormiscono tra loro. Tutto ciò mi rende inquieto, alimentando la mia paura e una forte curiosità.

Appoggio la mano destra sul mio coltellino custodito in una fodera di pelle legata alla vita.

Page 37: L'Albero delle Parole

36

In realtà si tratta di uno sbucciapatate con il manico in sughero. Me l’ha regalato Cesare dopo averne corretta l’impugnatura ed averlo affilato, ma sembra un coltello a tutti gli effetti e mi dà comunque un grande coraggio e un senso di autorevolezza.

Lui ne ha uno più grande del mio, con una lama ricurva da una parte e una seghettata dall’altra. Il suo manico nasconde un kit medico e all’estremità di esso vi è avvitato un tappo con incastonata una piccola bussola. Anche questo mi tranquillizza.

- Cosa volete dirmi? - Dico alzando il tono della voce più del dovuto, ormai stufo di una situazione che dura da ore.

Tiberio mi punta la torcia in faccia e mentre distolgo lo sguardo abbagliato, ammonisce:

- Giura che non lo dirai a nessuno. -Guardo Cesare che ricambia severo. Tiene in mano lo Walkie

Talkie e questo strano disco di metallo collegato con una cordicella ad un’asta lunga una ventina di centimetri dello stesso materiale.

Era tutto il pomeriggio che ci lavoravano sopra. Quando ero entrato nel nostro rifugio, sotto casa di Cesare, avevo sorpreso Tiberio con una maschera grigia da saldatore, e Cesare con un trapano che reggeva con tutte e due le mani.

Avevo chiesto cosa stessero facendo ma nessuno mi rispose, sembrava che li avessi disturbati.

Poi Cesare completato il lavoro con un soffio energico diretto sui due fori situati all’ estremità del cerchio di metallo, mi aveva detto che più tardi mi avrebbe mostrato qualcosa, ma solo se gli dimostravo di essere pronto. Ricordo di aver pensato subito a come dimostrarglielo.

Li avevo trovati straniti come non mai quel pomeriggio, ed era chiaro che qualunque cosa stessi per apprendere sarebbe stata per loro libera ed esclusiva volontà. Tutte le domande che avevo posto, anche con grande insistenza, non avevano avuto risposta.

- Adriano, devi promettere su noi Goblins, che questa cosa rimane qui. - Mi dice Cesare.

Ci penso un attimo e mi vengono in mente alcuni che sarebbero stati interessati a esserne informati: il mio amico d’infanzia Maurizio, le mie sorelle più piccole, ma sovrastato da un

Page 38: L'Albero delle Parole

37

immediato senso di colpa, giuro sui Goblins che custodirò il segreto.

- L’ altro giorno io e Tiberio mentre eravamo nel bosco abbiamo trovato Elliot. - Mi dice Cesare senza tanti giri di parole.

- Chi è Elliot? - Domando spostando lo sguardo su Tiberio che sembra intento a studiare la mia reazione.

- Allora l’ hai giurato, non devi dirlo a nessuno. - Ripete Cesare.Penso adesso a tutte le cose malvagie che potrebbero capitare a

tre ragazzini di dodici anni in una buia notte d’inverno ai limiti della periferia cittadina, a questa fantomatica persona che probabilmente vive sola nel bosco cibandosi forse di carne di bambino.

Mi viene quasi da piangere.- E’ un extraterrestre. - Dice Cesare fissandomi intensamente.- Lo abbiamo chiamato Elliot. - Continua.Totalmente incredulo, mi rilasso un attimo. Per quanto ne so io

non esistono gli extraterrestri, e comincio a ritenere che si stia trattando di uno scherzo.

- Ma dai, non scherzate. -Mi pare però che i loro volti siano seri. Cerco di analizzare il

loro atteggiamento in cerca di un gesto che possa svelarmi il complotto. Sono però impassibili, e torno ad agitarmi.

- Se vuoi puoi vederlo, noi dobbiamo portargli da mangiare e questa specie di Gong. - Dichiara Tiberio, e aggiunge:

- Non fa paura, è piccolino e parla un po’ la nostra lingua…Se non te la senti di venire, aspettaci qua. Noi gli abbiamo promesso che saremmo tornati. -

A questo punto cominciano a tremarmi le gambe, rimango in silenzio pensando a qualcosa da dire. Tiberio, nel frattempo, tira fuori da una delle sue numerose tasche un pacchetto di noccioline ricoperte di cioccolata.

- Ma piove! - Ribatto con la prima cosa che mi viene in mente cercando una scusa.

Si guardano a vicenda e la torcia torna a illuminare il mio viso.Sono combattuto, non riesco a prendere una decisione. Andare

adesso nel bosco sotto questa pioggia vuol dire fare i conti con la

Page 39: L'Albero delle Parole

38

mamma e con un extraterrestre, ma rimanere da solo ad aspettare non sarebbe peggio?

Prendo fiato e dico che sono con loro.Voglio sapere se si tratta di uno scherzo, se davvero è atterrato

un UFO proprio qui, in questa città dove non succede mai niente, e voglio conoscere tutto quello che sanno loro, i mie amici: Cesare e Tiberio.

- Bene, tieni questa. - Dice Tiberio consegnandomi la torcia.L’ abbiamo gia saltato quel muro infinite volte e dove ci

troviamo è il punto migliore per farlo. Dinanzi al capannone del comune ci sono degli oggetti che ci aiutano nell’impresa. Trasciniamo una grata fatta con delle barre cilindriche a ridosso del muro del bosco, una identica l’avevamo già scaraventata dall’altra parte ormai da quasi un anno ed è ancora lì nella stessa posizione, la alziamo con poca forza e la usiamo come scala.

Scavalcano il muro in un balletto, io li seguo per ultimo.Dall’altro lato c’è una radura e un vecchio pozzo chiuso da una

botola arrugginita.La torcia militare non ci aiuta molto, ma il luogo lo conosciamo

bene. Per adesso siamo solo noi, la pioggia e il rumore del vento tra le foglie.

- Andiamo. - Incita Cesare cominciando a correre sul sentiero che si inoltra nel bosco.

In cima a questo sterrato, dopo diversi tornanti, si trova una villa antica che probabilmente appartiene o era appartenuta ad una nobile famiglia ormai decaduta. Sappiamo per certo che non ci abita più nessuno, ma l’accesso all’interno è impossibile, dato che tutte le porte sono ben chiuse. Ogni tanto arriva un signore anziano con il suo cane, pensiamo che sia il guardiano. Una volta ci ha scoperti e il suo cane ci ha rincorso abbaiando fin quasi giù alla radura. Mi ricordo però che raggiunta la scala, mentre la scavalcavamo, ci mettemmo a ridere come matti.

Adesso invece si aggiunge a tutti i miei timori anche quello del cane, non ci avevo pensato prima. Speriamo che con questo tempo almeno il guardiano se ne stia a casa.

- In che posto dobbiamo andare? - Chiedo a Tiberio che è al mio fianco mentre corro.

Page 40: L'Albero delle Parole

39

- Dovrebbe essersi riparato dentro il casottino di pietra, accanto al tronco spezzato. -

Appena giunti ad un altro sentiero, che da quello principale si inoltra impervio verso il cuore del bosco, ci fermiamo un attimo. La volta di rami e foglie che ci sovrasta riesce a ripararci non poco dalla pioggia che sentiamo continua a cadere.

- Ma com’è fatto? - Domando prendendo fiato.- E’ come tutti gli UFO, ha le antenne, tre dita per mano, ma

deve essere un bambino che probabilmente si è perso. - Risponde Tiberio.

- Con questo marchingegno… - Aggiunge Cesare sollevando quella specie di Gong. - …dovrebbe mettersi in contatto con i suoi. Dobbiamo aiutarlo capisci? - Poi guarda verso l’alto in direzione del tronco spezzato e prosegue: - Senza che nessuno lo scopra ovviamente. -

Se si tratta di uno scherzo l’hanno studiato proprio bene, non riesco a stare calmo, la paura di conoscere ciò che nessuno al mondo ha mai visto prevale su tutte le mie curiosità di bambino.

Alzo la torcia sul tratto di strada che ci separa ancora da Elliot e riprendiamo a muoverci.

Appena giunti al casottino di pietra, notiamo subito che la porta è aperta. Ci disponiamo con cautela intorno all’entrata e, dopo aver cercato approssimativamente una via di fuga illumino il suo interno.

Pare che il piccolo locale sia vuoto. Dentro ci sono solamente alcuni tubi attaccati al muro e un paio di confezioni vuote di noccioline ricoperte di cioccolato.

- Se n’è andato. - Dice Cesare.- Forse sono già venuti a prenderlo. - Aggiunge Tiberio.Li guardo mentre controllano in giro. Cesare mi prende la torcia

e comincia a chiamarlo dirigendosi dietro la piccola struttura di pietra.

- Mi avete preso in giro. - Dico rivolto a Tiberio con una calma improvvisa.

- No, te lo giuro, è stato qui per diversi giorni. Ci abbiamo parlato, gli abbiamo dato da mangiare. Forse si è nascosto da qualche altra parte. -

Page 41: L'Albero delle Parole

40

- Io se non lo vedo non ci credo. -Cesare torna facendosi largo tra le felci e tiene ancora in mano

lo strano disco scuro e la torcia.- Lasciamo questo strumento nel casottino, nel caso dovesse

essere ancora da queste parti. - Dice.- Forse si è nascosto perché ha percepito la presenza di Adriano,

ha avuto paura. - Esclama Tiberio.Queste parole mi tranquillizzano ancora di più, ma sono quasi

completamente bagnato e sento l’acqua sui capelli e nelle scarpe, adesso il timore numero uno diventa mia Mamma che gia sarà in ansia.

- Proviamo ad arrivare fino alla villa, forse si è rifugiato là dentro. - Dice Cesare.

- No, io me ne vado, non mi avete dimostrato nulla, non penso che esista davvero un extraterrestre -

Si guardano di nuovo anche loro completamente bagnati, poi Cesare entra piegandosi nel casottino e posa a terra il suo Gong, prende di nuovo lo Walkie Talkie e chiama Eliot un paio di volte ancora. La radiolina emette un fruscio senza risposta.

- Bene, torneremo domani. - Dice.Quando torno a casa mia mamma mi obbliga sgridandomi a

farmi la doccia, mentre io cerco di immaginarmi come sia fatto Elliot. Penso ai poteri che può sprigionare dalle sue tre dita, o forse dalle antenne, mi chiedo se diverrà anche mio amico.

Piano piano mi convinco che esiste.Per tutta la cena, di fronte ai miei genitori e alle mie due sorelle

più piccole, cerco di trattenermi nel rivelare l’incredibile notizia, ma voglio più prove, voglio esserne certo, dopotutto potrebbe sempre trattarsi di uno scherzo, domani, decido, andrò di nuovo nel bosco. Più tardi nella mia cameretta immagino una situazione come la cena di stasera in cui pronuncio: Mamma e Babbo, care sorelle, da oggi la mia vita prenderà una strada nuova. Mi dispiace tanto lasciarvi, ma io e il mio amico Elliot abbiamo una missione da compiere: salvare il mondo.

Rannicchiato nel mio letto mi addormento in un sonno profondo.

Page 42: L'Albero delle Parole

41

In cima alla rampa che dal mio garage arriva alla strada, trainando la mia bici a braccia per raggiungere poi la scuola, vedo in lontananza Cesare e Tiberio. Li vedo molto piccoli al di là del campo, ma noto bene i loro movimenti mentre lasciano le loro biciclette al bordo del capannone. Vanno certo da Elliot.

Senza neanche pensare a ciò che è giusto o sbagliato, salgo in sella e cerco di raggiungerli. Attraverso il campo che separa le nostre abitazioni dal bosco alla massima velocità. Non piove ma l’ aria è gelida, si sente solamente il suono delle ruote sull‘erba e del mio zaino carico di libri che sbatte e che fa eco ad ogni buca che prendo. Lascio la bici dove l’hanno lasciata loro e a corsa raggiro il capannone fino a raggiungere la grata che hanno già sollevato e superato. Ci salgo sopra e li chiamo.

Dopo un attimo mi rispondono.- Adriano siamo qua, vieni. -La loro voce è lontana, deduco che siano arrivati al casottino di

pietra.Salto dall’altra parte e continuo fin dentro il bosco.Li vedo finalmente accanto alla porta di metallo aperta, sono

immobili e guardano l’ interno.Mi avvicino diminuendo il passo, e prima di riuscire a vedere

cosa si nasconda davanti a loro, sento un suono che non ho mai sentito prima: acuto, ondulato e incantevole.

Perdo i sensi.Quando apro di nuovo gli occhi dopo non so quanto tempo,

sono nudo e sospeso in un luogo dalle pareti trasparenti, non vedo bene cosa ci sia oltre, capisco solamente di riuscire a respirare in questa specie di acqua che mi sommerge, e che forse sono prigioniero.

Di fronte a me ci sono due marziani che mi fissano e muovono le loro antenne velocemente. Hanno in mano qualcosa da qui emerge un raggio blu che direzionano sul mio corpo, con leggerezza e movimenti armonici.

Ora non ho paura, mi sento bene. Sono convinto di potermi muovere come voglio, non sono legato a niente, solo che non ne ho voglia. Sono anche convinto che in questa specie di grande acquario si trovino sia Cesare che Tiberio, li sento al mio fianco, e

Page 43: L'Albero delle Parole

42

come me ondeggiano in questa linfa trasparente illuminati da macchie blu.

D’ improvviso un altro suono. Meno dolce di quello sentito nel bosco ma sempre acuto e con la stessa dirompenza.

E’ mia Mamma che mi sveglia.Ho subito una sensazione di disagio appena sveglio, come tutte

le mattine del resto, ma poi sono contento che sia stato solo un sogno e il pensiero di raccontarlo ai miei amici mi risveglia completamente. Ritengo che anche se Elliot sia piccolo e buono non è detto che lo siano i suoi genitori.

In cima alla rampa che dal mio garage arriva alla strada, trainando la mia bici a braccia per raggiungere poi la scuola, vedo in lontananza Cesare e Tiberio.

Page 44: L'Albero delle Parole

43

VICOLO CIECORaccontami sulle note di...

É una dannata giornata di febbraio, di quelle che ti penetrano le ossa, e non ti fanno stare fermo. Hai bisogno di muoverti, di camminare, di afferrare una bottiglia e andare…

Ma che succede quando imbocchi la strada senza uscita? No, non puoi permetterti di tornare indietro. Non c’è più niente alle tue spalle, solo il fetore della solitudine, il rancido retrogusto di un’amicizia perduta.

Già vedi la fine della strada, un muro compatto che ti sovrasta, ma ancora speri in una via d’uscita, in una porta su un altro mondo. Ancora qualche passo… Calpesti tombini mentre i giornali svolazzano. È un vicolo cieco, un maledetto vicolo cielo.

E allora ti siedi con la schiena appoggiata al muro, e ti stringi le ginocchia. Guardi la strada che hai appena attraversato, conti i lampioni, le auto in sosta, le porte delle case chiuse, come chiusa è ogni tua possibile uscita.

Piangere potrebbe essere la giusta alternativa. Ma non ricordi più come si fa.

E allora tiri giù una altro sorso e pensi: “Si vedrà!”

GM Willo sulle note di “One Way Street” di Mark Lanegan

Page 45: L'Albero delle Parole

44

UNA PARTITA A BILIARDOdi GM Willo

Chiusi gli occhi e le luci si accesero.Mi trovavo in una sala da biliardo, dieci, dodici tavoli disposti

in fila, pareti ricoperte di stecche, gessetti blu, lampade verdi sopra i teli, mattonelle marroni, sedie di formica, finestre su una strada buia. Era quella la sala d’attesa?

La stanza era pressoché deserta. C’era solo un giocatore, defilato al tavolo più distante; il numero dodici. Mi avvicinai col pensiero e un attimo dopo ero seduto di fronte a lui. Mirava la numero otto in una buca d’angolo. Attesi il colpo. Il silenzio era assordante. Toc! Con precisione la palla nera percorse tutto il tavolo depositandosi con dolcezza nella buca.

«Bel colpo!» mi venne di dire.L’uomo, un tipo anonimo di mezz’età, vestito con un paio di

jeans e una giacca scura, mi rivolse un sorriso.«Te l’aspettavi, vero?» Aveva una voce roca, graffiata dal

tabacco e dall’alcol.«Cosa?»«Che andasse a finire così. Buca d’angolo…»«Che vuoi dire?» Ero confuso e non lo nascondevo.«La tua vita. La numero otto, in buca d’angolo.»«Vuoi dire che era lei?»«Beh, hai rimbalzato un bel po’ prima di finire in buca. Alla fine

ci finiscono tutte…»«Ehi, ferma un attimo. Mi vuoi dire che siamo di là? Che alla

fine il cancro l’ha avuta vinta?»«Beh, questo lo dici tu. Forse può bastarti…» Si era messo a

lavorare la stecca con il gessetto, ma continuava a guardarmi, da oltre la frangia che gli ricadeva sugli occhi.

«Ed io che credevo che avrei trovato delle risposte…»«Ehi uomo, non ti preoccupare. Non sei il primo che pensa di

trovare delle risposte da questa parte. Qui si gioca solo a biliardo. Ti va di fare una partita?»

Page 46: L'Albero delle Parole

45

Che altro potevo fare. Avevo l’eternità davanti. Mi alzai e afferrai una stecca.

«A cosa giochiamo?»«A Destino. Lo conosci?»«No.»«La vedi la numero quindici, laggiù?»«Si…»«Tua figlia Giulia. Se la butti in buca è salva, altrimenti… dopo

tocca a me.»Mi regalò un sorriso di cui avrei fatto volentieri a meno.E così mi ero ritrovato a giocare al Destino insieme al braccio

destro del Caso. Non potevo farcela, era una partita impari, uno scherzo di cattivo gusto. Se solo…

E appena lo pensai, apparve. Un bicchiere di scotch sul bordo del tavolo da gioco. Ecco quello che mi ci voleva… Lo buttai giù d’un fiato e preparai il colpo.

«Ordina pure quello che vuoi. Va tutto sul mio conto…» disse il tipo col ciuffo, continuando a sorridere.

Non lo guardai. Non guardai nemmeno la palla, o la stecca, o la buca. Chiamai il colpo pensando alla piccola Giulia, quando aveva solo tre anni, e si buttava dallo scivolo a testa in giù, e le dicevo di stare attenta, ma poi lei mi sorrideva e non potevo resisterle. La biglia battente descrisse una retta attraverso il tavolo verde, sfiorò appena la numero quindici vicina alla buca laterale, la palla bianca e bordeaux ruzzolò con sicurezza dentro la cavità. La piccola Giulia era salva, almeno per il momento…

«Bel colpo» ammise il mio compagno di gioco.«Cosa mi aspetta, adesso?»«Ancora domande? Te l’ho già detto, qui non troverai risposte.

In verità ti dico che di risposte non ci sono, da nessuna parte. Né nella sala dei biliardi, né giù al bar, né tanto meno in strada…»

In quel momento sentii transitare un’auto, vidi le luci degli abbaglianti scorrere sul palazzo di fronte, mi avvicinai alla finestra e guardai giù. Ma l’auto era già passata. Fuori pioveva, e i lampioni illuminavano le pozze. Il silenzio era straziante.

«Beh, dici che non esistono risposte, ma tu sei già una risposta. Giochi a biliardo con le vite degli uomini, è un fatto no?»

Page 47: L'Albero delle Parole

46

«Scusami se mi ripeto, ma questo lo dici sempre tu. Ci credi solo perché te l’ho detto? La numero sei, quella verde. Lo sai chi è?»

Poteva essere un sogno? Non avevo mai sentito che il cancro ti prendesse così, di punto in bianco, sul divano mentre guardi la TV spenta e cerchi di farti una ragione di quello che ti sta per succedere. La morte, l’amore, il tempo, il senso di tutto… Mi aggrappai all’idea del sogno e continuai a giocare.

«Che diavolo vuoi da me?» urlai. Ma in quell’intercapedine onirica, l’urlo diventò un sussurro.

«La sei è tuo padre. Proprio lui, il vecchio ubriacone, quello che non è neanche venuto a vedere la sua nipotina, quello che non si è fatto sentire per più di dieci anni, quello che metteva mano alla cintura volentieri, quando ne combinavi una grossa… La numero sei, dai su… Non è difficile… Un colpo secco ed è salvo. Ah, dimenticavo, puoi sempre decidere di passare il turno…»

Il suo sorriso era diventato un ghigno. Sul bordo del tavolo apparve un secondo bicchiere. Lo afferrai con decisione, lo alzai e proposi un brindisi. “A te, padre… ti ho già perdonato così tante volte che non me ne frega più niente, ormai…”

Già, proprio un colpo secco ci voleva, e la sei fu fuori dal gioco. Ne rimanevano troppe, però…

«Quanto deve andare avanti questa storia?»«Non ti stai divertendo?»«No!»«Io invece si. Quella gialla, la uno. Quella è tua moglie.

Vogliamo provare a buttarla dentro?»Per me poteva bastare. Cercai l’interruttore dei sogni, avete

presente? È un po’ come allungare una mano nel buio della cantina, e mentre senti il tocco delle ragnatele ti auguri che il ragno non s’incazzi e ti venga a fare un salutino. Ma niente interruttore, questa volta. Cavoli, forse ero morto per davvero. Maledetto…

Il colpo era difficile stavolta. La uno era coperta da altre due palle. Avrei potuto mirare alla sette, per farla carambolare sulla gialla. Un colpo estremamente complesso, ed io non sono mai stato un granché come giocatore. L’alternativa era mettere fuori

Page 48: L'Albero delle Parole

47

gioco il mio avversario, nascondendogli la biglia dietro altre palle. Ma potevo fidarmi di lui? Chissà di cosa era capace…

«Puoi passare, se vuoi…» incalzò il braccio destro del Caso. Non gli badai e preparai il colpo.

Pensai al giorno in cui la conobbi, alle cretinate che feci per farmi notare, a come mi guardava storta, ridendo al tempo stesso, alla vacanza in Grecia e all’amore sugli scogli, ai litigi e alle passioni, all’ultimo sforzo, dopo ore di travaglio, che segnò la nascita di nostra figlia, e a tutte le volte che avevo bisogno di una carezza e c’era lei. Pensai a tutto questo chiudendo gli occhi, poi li riaprii e colpii, sicuro, con forza, dritto verso la biglia bordeaux. Stoc… toc… toc… la uno in buca d’angolo… salva… e la bianca in buca laterale…»

«Peccato…» sospirò il mio avversario.Riaprii gli occhi e le luci si spensero. La TV era morta ma il led

in alto mi diceva che erano quasi le due. Al piano di sopra il miei due gioielli respiravano piano, e sognavano di volare. O almeno me lo auguravo…

Una fitta allo stomaco. La solita fitta, quella che mi tormenta ormai da settimane. Domani iniziamo la chemio, poi si vedrà.

Volete sapere cosa penso?Non penso niente. Le Grandi Risposte non m’interessano.

Continuerò a pormi domande fino alla fine, e cercherò di rispondermi in sincerità, anche se dovrò contraddirmi. Lo facciamo tutti, no? È cosi che passiamo ogni singolo istante delle nostre esistenze.

Ma ho smesso di credere al bianco e al nero, a dio e al diavolo, al male e al bene. In questo momento, solo di una cosa sono certo: se vuoi morire tranquillo, impara a tirare di stecca!

Page 49: L'Albero delle Parole

48

L'IMPERATORE DEL MONDOdi Hermes

I colorati vessilli dell’esercito brillarono illuminati dalle prime luci dell’alba, l’esercito era gia sveglio ed operoso, molte armature scintillarono illuminate dai raggi puri dell’astro nascente. Il suono cristallino di una tromba salutò il nuovo giorno e richiamò gli uomini nei ranghi, nel centro dell’accampamento da una tenda sfarzosa comparve l’Imperatore di tutti i Popoli, splendido nella sua armatura d’oro, imponente brandiva una spada dall’elsa gemmata e dalla lama scalfita da mille battaglie. Lo sguardo severo del sovrano passò in rassegna i suoi Cavalieri, disciplinati e fedeli sino alla morte, montavano su cavalli da guerra pronti al comando loro Signore, ma l’Imperatore ordinò ai suoi generali che quest’oggi avrebbe cavalcato da solo. Gli fu portato il suo cavallo e galoppò verso il sole nascente. Il vento soffiava da oriente portando con se uno strano odore salato, l’imperatore spronò il suo destriero attraversando la prateria verde quindi si arrestò dove la terra finiva bruscamente. Un’alta scogliera era l’ultimo confine della terra, poi davanti agli occhi del sovrano c’era solo acqua, una distesa infinita. Questo doveva essere il mare senza fine di cui aveva sentito parlare, solo acqua sino all’orizzonte dove mare e cielo si baciavano, questi erano gli ultimi confini del mondo.

Il conquistatore scese da cavallo e si guardò intorno con un misto di rabbia e sconcerto, si rese conto che le terre erano davvero finite e aveva conquistato l’intero mondo conosciuto. Eppure nell’uomo c’era una sorta di rammarico, era ancora insoddisfatto, gli mancava qualcosa a cui non sapeva dare un nome. Né il giacere con una donna né l’affondare la spada nel cuore di un nemico avrebbe placato questa inquietudine, eppure nessun uomo prima di lui aveva mai raggiunto un’impresa cosi grande. Lui era il signore del mondo venerato come un Dio, uno dopo l’altro popoli lontani si erano piegati alla sua spada, possedeva ogni ricchezza immaginabile e la sua parola era legge, eppure sentiva un senso di vuoto opprimente. Quell’immensa

Page 50: L'Albero delle Parole

49

superficie liquida lo metteva a disagio, non poteva né conquistarla né poteva porvi dei confini.

Un gabbiano volteggiò sopra il sovrano, lanciò il suo grido nel vento, sembrò all’imperatore una risata beffarda, poi l’uccello si tuffò nel blu sottostante. L’uomo guardò l’uccello volare, in quel momento, in quel silenzio, finalmente solo, comprese la natura del suo sconforto, chinò la testa e pianse comprendendo la sconfitta e l’inutilità della sua vita. L’Imperatore del Mondo intese che la sua intera esistenza era senza significato. L’uomo cercò indietro nella memoria meravigliandosi di aver perso il conto delle battaglie vinte, possedeva così tante terre da non ricordane i nomi, come non ricordava più i nomi dei tanti che nel suo nome si erano sacrificati e per un suo ordine avevano ucciso. Quell’uomo aveva dedicato la sua intera esistenza a combattere e conquistare, poi osservando l’erba, il mare, le nuvole comprese che nulla di questo poteva essere rivendicato da qualcuno. Valutò quanto fosse stato sciocco fare la guerra e uccidere per conquistare qualcosa che non si può possedere. L’imperatore osservò il gabbiano uscire dall’acqua con un pesce nel becco e poi spiccare il volo, capì che mai sarebbe stato libero e felice come quell’animale. Avrebbe dato tutte le sue armi e ogni suoi ricchezza per barattare la sua vita con la semplice esistenza di quell’uccello.

Page 51: L'Albero delle Parole

50

DESIDERIO DI PROLEdi Fida

CAPITOLO I

“Siete disposti ad accogliere con amore e responsabilmente i figli che Dio vorrà donarvi?”.

Ricordo, come se fosse ieri, quelle parole a cui non avevo mai dato tanto peso perché credevo fosse naturale che, dopo qualche anno dal fatidico sì, si cominciasse a pensare alla maternità. Oggi, però, la sento come una cosa sempre più lontana perché come ogni martedì, da quasi otto mesi, mi ritrovo seduta nell’angusta sala d’attesa del reparto di sterilità dell’ospedale. Appoggiata con la testa al muro e le gambe accavallate, aspetto di sentire pronunciare il mio nome dall’infermiera di turno e intanto mi riecheggiano i rimproveri di mia suocera che mi ripete continuamente di non essere capace di fare un figlio.

“Perché proprio io?”, mi chiedo ormai laconicamente, eppure in famiglia non ci sono casi di infertilità; quarta di cinque figli, credevo che non sarebbe stato poi così difficile imitare mia madre. Invece da circa otto anni il mio tenero batuffolo non vuole arrivare. Lo sogno ogni notte con il suo pagliaccetto blu e le minuscole scarpe da ginnastica, occhi cerulei come sua nonna e capelli fulvi (purtroppo!) come mio padre. Anche adesso se solo ci penso mi sembra di vederlo nella sua culletta, circondato dalle nonne che gli ripetono incessantemente “dai bello, dì no-nna, no-nna”.

Lo so, la speranza è l’ultima a morire, ma quando la fortuna ti schiva di continuo, cominci a credere che forse il diavolo il suo zampino ce lo abbia messo sul serio. Comunque, siamo qui io e mio marito Riccardo, che attendiamo il risultato del test di gravidanza delle beta fatto stamattina presto, sperando in un esito positivo. Nel frattempo il mio sguardo vaga per la sala; intorno le verdi mura piastrellate dell’ospedale sono tappezzate da locandine che pubblicizzano una sana sessualità e il consulto di medici specializzati in casi di sterilità, cercando in questo

Page 52: L'Albero delle Parole

51

modo di risollevare l’animo di tutte quelle donne che si ritrovano nella mia stessa situazione. Con lo sguardo assente vengo attratta dall’immagine di una coppia che si bacia appassionatamente, come Rossella O’Hara e Rhett Butler in Via col Vento, e questo non per la scena in sé o per quello che questa può evocare, ma perché proprio sul naso di lui un minuscolo ragno cerca di risalire fino alla sua ragnatela, costruita sul soffitto con meticolosità certosina. Questo mi fa pensare a quanto sia diverso il mondo animale dal nostro: noi dotati di razionalità e loro di pura bestialità. Eppure in una cosa siamo uguali: entrambi ci prendiamo cura dei nostri “cuccioli” come se nulla al mondo abbia maggior valore.

“Sandra, puoi entrare per favore!” queste le parole dell’infermiera che mi chiama. Leggermente spaventata ma fiduciosa mi alzo di fretta, mi avvicino alla porta in metallo verde e la caposala comincia a parlare di impegnative e di ticket che devo pagare perché non risultano sul suo computer e intanto il cuore, che batte a mille all’ora comincia a rallentare. Senza troppa attenzione prendo quei soliti fogli che mi vengono dati e, preceduta da Riccardo, mi dirigo verso il lungo corridoio che porta al centro prenotazione e pagamento ticket. Mentre camminiamo mano nella mano, mi ritorna in mente la prima volta che ho percorso quel lungo tunnel bianco. Proprio a metà vidi una ragazza incinta, di non più di 25 anni, che avanzava lentamente barcollando a destra e a sinistra, come una papera, mentre un anziano signore, di sicuro suo padre, la seguiva portando un borsone da viaggio così grande e stracolmo che sembrava quasi sul punto di scoppiare. Ero rimasta come imbambolata di fronte a quella scena e il mio cuore esultava di una gioia inspiegabile: non capivo perché ma quelle persone avevano instillato in me una felicità enorme. E poi come brillavano gli occhi azzurri di quella ragazza: pensai che forse, un giorno, anche i miei avrebbero luccicato in quel modo.

Le casse sono vicine. Un tintinnio elettronico ma leggero ci avverte che siamo arrivati e la scena che si presenta non è poi delle più incoraggianti: un orda di persone, per lo più anziane, che si ammassa di fronte a quattro sportelli, come alle poste nei

Page 53: L'Albero delle Parole

52

primi giorni del mese quando si deve ritirare la pensione. C’è chi strilla da una parte perché afferma di essere stata scavalcata nella fila, chi invece sonnecchia seduto su di una sedia azzurro cielo e chi cerca di tenere a freno l’impazienza di qualche bambino esausto di aspettare.

Preso il numero ci sediamo e restiamo lì per una mezz’ora in attesa del nostro turno: una mezz’ora che sembra quasi un’eternità.

CAPITOLO II

Nell’attesa che arrivi il mio turno mi guardo intorno sbirciando qua e là nei giornali sportivi che i vari “avventori” dell’ospedale si sono portati furbescamente dietro. Al gran vociare, che viene fuori dal lungo serpentone di fronte alle casse, si sommano le strilla dei giovani impiegati, più o meno esperti, che cercano di smaltire la fila il più presto possibile. Diversi nomi si sentono distintamente: c’è chi chiama un certo Gianmarco, chi invece aspetta una risposta da una tale Marialuisa. Intanto aspetto con mia moglie Sandra e ripenso a quanto tempo abbiamo passato tra queste quattro mura pur di avere quella che, a detta di molti, sembra essere la gioia più grande: un figlio. “…O almeno fin quando sono piccoli” così come dicono amici e parenti alle prese con ragazzi ormai adolescenti e sempre più incontrollabili. Comunque io un bambino lo desidero e questo mi basta perché ciò che più sogno è sentirmi chiamare papà o babbo, se penso alle mie origini toscane.

Finalmente un dlin-dlon mi avverte del mio turno, pago e invece di tornare di fronte al reparto, riesco a convincere mia moglie ad andare a prendere un caffè e a fare una passeggiata. Così agitata e tesa non l’avevo mai vista nemmeno il giorno del matrimonio, quando riuscì a litigare con i suoi genitori. Di certo anche io non posso dire di essere la quintessenza della calma visto che, in cuor mio, spero molto in questa risposta. Per allentare la tensione ci mettiamo a chiacchierare di tutto e di niente fino a ricordare i diversi tentativi di inseminazioni che

Page 54: L'Albero delle Parole

53

abbiamo fatto e che ci hanno un po’ imbarazzato; chi per un motivo e chi per un altro. Non potrò mai dimenticare le innumerevoli volte che mi sono dovuto chiudere dentro quel bagnetto di 3 metri per 3 per raccogliere lo sperma; e quante volte è poi accaduto di non esserci riuscito, cosi da mandare a monte l’inseminazione. Questa cosa è certamente strana visto che di questi problemi non ne ho mai avuti, ma l’imbarazzo di fronte a tutta questa faccenda è stato grande.

Proprio io che, alle scuole superiori prima e all’Università poi, sono sempre stato considerato un perfetto amatore, secondo il parere delle mie tante ragazze. Eppure anche con mia moglie di problemi non ne ho mai avuti, forse qualche defaliance ma niente che non si potesse risolvere; in quei momenti invece, sarà la strana situazione o il fatto che le pareti così sottili, come carta velina, del bagno, non riuscivo a rilassarmi come avrei dovuto. Ma allora non è poi così vero quello che le donne dicono della bestialità dell’uomo che può farlo a comando quando vuole: io non ci sono riuscito e per diverse volte, purtroppo.

Intanto, un altro po’ di tempo è passato e cominciamo ad avvicinarci al reparto che è sempre più affollato di giovani signore, alcune accompagnate dalle mamme, altre da amiche o sorelle. Quante donne nella nostra stessa situazione ogni giorno abbiamo visto avvicendarsi e tutte con la stessa espressione stanca o delusa, ma questo è il rovescio della medaglia. Tutto può andare estremamente bene o estremamente male e questo, purtroppo, il dottore lo ha sempre messo in chiaro, fin da subito, con tutti i suoi pazienti.

CAPITOLO III

Siamo ancora in attesa e niente ancora è cambiato; l’ansia sale così come il via vai delle signore. Mi guardo intorno e leggo per l’ennesima volta quei messaggi di buon augurio che, parenti e amici di ogni nuova mamma hanno lasciato sulle pareti del reparto di neonatologia vicino a quello della riproduzione.

Page 55: L'Albero delle Parole

54

“Oggi è nato Alberto!”, “Auguri a Marta e Piero per il terzogenito dalla cricca del bar!”, “Stefano sei il nipote più bello che abbia mai potuto sperare!”. Tante parole dolcissime che colpiscono il cuore ma che lette in quella situazione lo portano a sprofondare in un abisso inesorabile, lasciando anche uscire una piccola lacrima, di felicità e di tristezza insieme.

“Proprio ora? non si può rimandare di qualche ora o nel pomeriggio? Vi avevo detto che sarei stato impegnato per l’intera mattinata!…E’ poi così urgente? Non potete fare proprio a meno di me?… Ok, arrivo, datemi solo dieci minuti!”, con queste parole mio marito Riccardo, avvocato di fama già da alcuni anni per un terribile caso di omicidio di un bimbo di 5 anni, mi dice di dover fare un salto nel suo studio e poi in tribunale. Così imprecando mi lascia ma solo dopo avermi dato un bacio leggero sulla bocca e chiedendomi scusa. L’ho lasciato andare senza troppi problemi anche perché l’attesa sarebbe stata troppo stressante soprattutto per lui che già da qualche tempo soffre di pressione bassa. Distraendosi un po’, almeno, non avrebbe rischiato di svenire come già era successo altre volte, anche in presenza del dottore, durante i controlli di routine.

Giocherellando con il tetris, che ho sul mio telefonino di ultima generazione regalatomi dai suoceri per il mio compleanno, vedo un’ombra avvicinarsi e distrattamente volgo lo sguardo in quella direzione: un uomo di 30 forse 40 anni mi si avvicina e mi parla, lì per lì non l’ho riconosciuto a causa del sole contro, finché allungando la mano verso di me mi rivolge un saluto.

Era lo psicologo. Un uomo di bell’aspetto, piacevole se non fosse per quel suo piccolo tic di toccarsi i capelli continuamente. Una persona gentilissima e dalla voce dolce e rilassante.

“Buongiorno Sandra, anche oggi qui, vedo!”“Aspetto la risposta del test di gravidanza, speriamo bene!”“Vedrà andrà tutto bene, ne sono certo. In bocca al lupo!”.Con queste parole si allontana da me perché è stato chiamato

dall’infermiera per una consulenza urgente, e strizzandomi l’occhio valica la porta così da non vederlo più, anche se ancora riuscivo a sentire la sua voce che rivolgeva un saluto al primario.

Page 56: L'Albero delle Parole

55

“Che tipo questo psicologo!”: fu questo il commento di una donna, leggermente in soprappeso, che nel frattempo aveva occupato il posto vicino a me. Una ragazza più meno della mia età, che avevo visto già altre volte ma con la quale non avevo mai scambiato molte parole tranne i soliti saluti.

“Lei crede?”, rispondo con poche parole perché non so cosa dire. In fondo non mi è mai piaciuto dare giudizi su persone che non conosco in profondità. Lo considero un bravo dottore perché fin dall’inizio ha saputo mettermi a mio agio; proprio io che non avrei mai pensato di frequentare uno strizzacervelli perché non credo molto a questa scienza. La sola idea di farmi psicoanalizzare mi infastidiva e invece lui ci è riuscito e forse con buoni risultati. Sapeva sempre dire la parola giusta al momento giusto, soprattutto quando ci capitò di parlare delle tante mamme che, negli ultimi tempi, erano diventate oggetto della cronaca nera per aver ucciso con un perfetto aplomb i loro piccoli figli. Mi spiegò che si trattava di casi estremi e che non sarebbe mai potuto essere il mio caso, perché il problema alla base di quelle donne era una forma degenerata, per malattie pregresse, di depressione post-partum, che le donne stesse non hanno riconosciuto e di conseguenza non si è intervenuti adeguatamente con l’aiuto dei familiari e dei medici.

Ricorderò sempre quella signora, come dire, molto appariscente per i modi di fare e di vestire, che un giorno, accompagnando la nuora per un controllo ecografico, usò un’espressione poco felice verso queste “mamme assassine”, così come le chiamavano su tutti i giornali, definendole “indegne e spregevoli”. Una reazione forte ma allo stesso tempo comprensibile se si pensa che la nuora era una paziente del centro di sterilità da più di dieci anni e che grande era il suo desiderio di diventare nonna.

EPILOGO

Un venticello caldo ma refrigerante mi distoglie da questi pensieri; do un’occhiata veloce all’orologio per vedere che ora è quando mi sento chiamare dalla caposala che mi dice di entrare

Page 57: L'Albero delle Parole

56

perché la risposta è arrivata. Con il cuore in gola la raggiungo e, superata la porta del reparto, un forte calore mi investe. Notai il caldo quasi soffocante nonostante i condizionatori accesi, ma lo considerai normale visto la presenza di feritoie al posto di vere e proprie finestre. Una volta dentro mi fanno accomodare mentre l’infermiera rovista all’interno dello schedario per prendere la mia cartella clinica. Per la privacy la inserisce in una busta bianca e me la porge. Le mani tremano, la testa gira e comincio a pensare a cosa fare e dire in caso di un esito positivo: come comunicarlo ad Riccardo e a mia madre, ma soprattutto come prendermi una sana rivincita con mia suocera.

Invece di aprirla come avrebbe fatto qualsiasi altra donna nella mia stessa situazione, mi incammino verso la mia auto e stranamente mi accorgo di avere un’andatura abbastanza sostenuta tanto da correre più che camminare. Non capisco come mai: forse per la paura che quella semplice busta mi venga tolta di mano; una busta che, se poteva essere di poca importanza per molti, per me rappresentava il tesoro dei pirati.

Giunta davanti alla macchina ci metto parecchio tempo prima di trovare la chiave e, una volta aperta la portiera, mi siedo, mi allaccio la cintura e stretta nel mio pugno chiuso, come saldato, la risposta è ormai del tutto raggrinzita. Rimango per buoni dieci minuti immobile seduta in macchina senza pensare a nulla. Paura, agitazione, emozione o curiosità: cosa mi agita a tal punto non lo so con esattezza. Certo è che mi ritrovo a fissare la mia mano appoggiata al clacson dell’auto come una ebete. Mi faccio forza e, prima di arrivare a casa, decido di aprirla. Nonostante l’inchiostro fosse parecchio sbiadito riesco comunque a decifrare le scritte e il valore dell’analisi: 5335. Dopo averlo confrontato con i valori standard di riferimento ammutolisco e non riesco quasi a crederci. Le altre tre volte era sempre 0 ed ora è cresciuto così tanto. Un brivido attraversa il mio corpo e tutte le mie percezionisembrano aumentare a dismisura. Dunque qualcosa è cambiato finalmente. Ripenso sempre a quelle quattro cifre: 5..3..3..5. Una perfetta simmetria per un risultato che non avrei mai sperato.

Con un sorriso e una lacrima che mi riga la guancia ripenso al piccolo che forse presto crescerà dentro me e che altrettanto

Page 58: L'Albero delle Parole

57

presto allieterà la mia famiglia scombussolando, in meglio, la routine della mia… della nostra vita.

Sono ormai arrivata vicino casa: in fondo alla strada, sopra un negozio di abbigliamento per bambini, si concluderà questa avventura solitaria. Prima di salire però decido di telefonare a Riccardo e comunicargli la notizia: compongo il numero e 5335 mi ritorna in mente: cerco di non confondermi e premo OK. Il telefono squilla per una, due, tre volte ed ecco che con la sua voce dolce e leggera, senza neanche chiedere chi è o chiamarmi per nome mi dice: “Allora come è andata? Non tenermi sulle spine…”

Quella agitazione, motivata, che tutto ad un tratto traspare dal timbro della sua voce, mi fa un po’ sorridere e mi intenerisce. Senza null’altro aggiungere gli comunico il numero. 5..3..3..5 e contemporaneamente con la mia mano mi sfioro il ventre immaginandomi la faccia che Riccardo può avere in quello stesso momento dall’altra parte della città. Rimaniamo per quasi un minuto in silenzio ognuno ad ascoltare il respiro dell’altro e alla fine, dopo avermi detto “ti amo”, riattacca il telefono. Ed io crogiolandomi al sole di quella bella giornata, con il vento fresco tra i capelli, quando ormai non poteva più sentirmi, sussurro, flebile, “anch’io”.

Page 59: L'Albero delle Parole

58

LA SOLUZIONE DI JESSIEProgetto "Passami la Storia"

Ci sono cose nella vita che cambiano; altre invece non cambieranno mai.

Nonostante i miei cinquant’anni di servizio non riesco ancora ad abituarmi a scene come queste, povera Jessie. E pensare che l’ho vista crescere: mi sembra ieri che correva felice nel giardino davanti casa e mia moglie…ah! come si arrabbiava quando le calpestava con i suoi piedini minuti le orchidee!

Ma stranamente quel 15 di giugno non la vidi per tutto il giorno: una giornata plumbea nonostante l’avvicinarsi della stagione calda.

Poi verso le 16 però mi arrivò una telefonata che mi mise una grande inquietudine addosso.

«È a terra» farneticava l’altro capo del telefono, «riesco ancora a sentire il battito regolare del suo fragile cuore, ma il suo sguardo, fisso verso il muro davanti a se, sembra accompagnare serenamente quello stato di quiete a cui ora appartiene, quasi voglia fingere di non accorgersi della ferita che le bagna la fronte…»

La voce, spezzata dal pianto e dal riso, forse alla mercé di quello stramaledetto crystal mat, la riconobbi subito; era quella di mia figlia Denise, sua amica d’infanzia, compagna di scuola, di università, e complice di mille altre incomprensibili storie di una generazione allo sbando.

«Denise, smettila. Che cosa succede? Ti sei drogata? Dove sei?…» ma lei continuava a delirare.

«…oh papà, vedessi com’è bella, mi sta sorridendo… non ti preoccupare, siamo da Sin, ti ricordi, te l’ho presentato… stiamo girando un film… ma Jessie ormai ha finito…»

«Non ti muovere di lí, vengo subito» le urlai nella cornetta. Provai a riordinare i pensieri, a rimanere legato alla routine, ma quella era mia figlia e non potevo aspettare l’ok della centrale. Infilai in auto e schiacciai con forza il pedale dell’acceleratore.

Page 60: L'Albero delle Parole

59

Sin, certo che lo ricordavo, che il diavolo se lo porti… Era il loro spacciatore, sicuro. Si faceva passare per un artista moderno, com’è che li chiamano, concettuali… stonzate! Piccola Denise, in quale guaio ti sei cacciata, pensavo, mentre la sirena dalla mia auto sgombrava il traffico dei rientri pomeridiani.

Entrai nell’appartamento e il tanfo mi fece riassaporare il sandwich del mio pranzo. L’odore era quello di birra rancida e cibo avariato. Li trovai in camera da letto. Lui mezzo nudo con la cinepresa in mano, mia figlia in un angolo con un ago nel braccio e la povera Jessie seduta sul pavimento accanto alla porta, il revolver vicino alla mano. Povera piccola Jessie.

Denise era in piena O.D. ma se la sarebbe cavata. Sin me lo levò dalle mani l’agente Reeves, che per fortuna mi aveva seguito dalla centrale, altrimenti ne sarebbe rimasto ben poco di quel pezzo di merda. Poi arrivò la scientifica.

Ci sono cose nella vita che cambiano; altre invece non cambieranno mai.

Le persone cambiano. Le generazioni cambiano. Le mode, i costumi, le canzoni, i vestiti, i locali, le automobili… tutte queste cose inutili non fanno altro che cambiare, ma la morte rimane sempre la stessa.

AUTORI: GM Willo, Giulia, Daniele, Fida, Andrea C.,Jonathan Macini

Page 61: L'Albero delle Parole

60

IL CUORE DELLA LUCERTOLAdi GM Willo

«Ciao, come stai?»E come cazzo dovrei stare, mi andrebbe di dirle. Invece

rispondo “bene”, e sorrido pure. Non mi va di darle vantaggi. Ai suoi occhi voglio apparire forte, anche se dentro sono a pezzi, come se il cuore me l’avessero gettato nel tritacarne. Stronza! Sei anni insieme, e una mattina si sveglia e mi dice “non ti amo più!” Ma che cazzo vuol dire?!

«Ci sei domani? Se non disturbo verrei a prendere le ultime cose…»

Certo che disturbi. Disturbi ogni singolo minuto della mia giornata, perché non riesco a non pensare a te. Non dormo, non mangio, non posso neanche ad andare a lavoro senza che l’immagine del tuo volto venga ad ossessionarmi. Sei un virus, ecco cosa sei!

«No, ci mancherebbe. Vieni pure.»Magari parliamo un po’, mi verrebbe da aggiungere. Ma

abbiamo anche parlato troppo. E quando si parla troppo, non c’è più niente da dire. Ci sono i ricordi, che a me sembrano bellissimi e a lei non fanno il minimo effetto. Ci sono i rancori, e quelli lei li ricorda benissimo, mentre io me li sono già dimenticati. E poi ci sono i momenti d’indifferenza, e quelli sono la vera ragione per la quale lei verrà a prendersi le sue dannate ultime cose.

«Come va a lavoro?»Ma che cazzo te ne frega! Non ti è mai interessato quello che

faccio. Eh certo, perché prima t’interessavo io, adesso invece t’interessa solo rimanere amica, riprenderti le tue cose e non fare più scenate. Vuoi la dissolvenza, la chiusura col sorriso, il finale di Hollywood, i titoli di coda con i ringraziamenti, così poi ti potrai buttare a capofitto nel tuo prossimo film, senza sensi di colpa…

«Bene. Marzo è stato un buon mese…»«Sono contenta. E poi distrarsi fa bene, non trovi?»

Page 62: L'Albero delle Parole

61

Questa te la potevi risparmiare, stronza! Chi vedi adesso? Ci dev’essere qualcuno, lo so. C’è sempre qualcuno, quando si cambia in questa maniera. Un po’ stronza lo sei sempre stata, ma mai così. Chi è? Un collega? Uno che hai incontrato in palestra? Uno che t’inforca dopo lo spinning?

«Si. Cerco di non pensarci, sai com’é…»Patetico. No, non fare il patetico adesso. Ce l’hai quasi fatta. Tra

poco arriva il bus, la saluti e te ne vai. Non tornare sull’argomento, altrimenti sei fregato…

«Vedi qualcuno?»Ma perché non te ne stai un po’ zitta, troia! Si, vedo te, tutti i

giorni, nella mia testa, ti guardo chiudendo gli occhi, vedo i tuoi capelli sparsi sul cuscino, le tue labbra che mi accarezzano, la tua lingua che gioca. Vedo sempre e solo te, capito… stronza!

«No, solo i miei amici, ogni tanto. Domenica andiamo a pescare.»

«Dove?»«In montagna…»«Bello…»Ma che fine hai fatto autobus di merda! Sei in ritardo di sette

minuti. Vuoi vedere che la corsa è saltata. Se è così mi tocca a farmi torturare per un altro quarto d’ora.

«Sai, io vedo qualcuno… Volevo dirtelo, perché mi piace essere sincera.»

Che sorpresa! Ma davvero?«Sai che ci tengo alla nostra amicizia…»«E se ti spingessi sotto l’autobus, che ne diresti?»Troppo tardi. La frase mi esce senza pensarci. Perché sapete, a

volte la linea che divide l’immaginazione con la realtà è talmente sottile…

Lei strabuzza gli occhi, rimane in silenzio, forse ha anche un po’ di paura. In quell’istante la vedo sotto una nuova luce, vulnerabile e stronza. Qualcosa ricomincia a battere dentro il petto. Il cuore è un muscolo strano. È come la coda delle lucertole. Lo puoi buttare nel tritacarne, ma quello ricresce, e torna a pulsare, più forte di prima.

Page 63: L'Albero delle Parole

62

«Guarda, quello è il tuo autobus. Ti aspetto domani per la roba. Ciao…»

Lei risponde con un timido ciao, sale sull’autobus e si dilegua.La verità, specialmente la più crudele, può fare miracoli!

Page 64: L'Albero delle Parole

63

OSSESSIONEdi Giulia Riccó

Ossessioni. Bisogna stare attenti alle ossessioni.E bisogna stare attenti ad ignorare le persone. Non le sopporto

proprio le persone che ti ignorano volutamente dopo che le hai cercate, mi mandano nei pazzi. Vorrei vedere lei se venisse ignorata. Mi manda in bestia. Bisogna stare attenti alle ossessioni, ad ignorare e ai pazzi. Io non sono pazza. Mi ci fanno diventare ignorandomi. Eccola è arrivata al lavoro. Fammi riprovare… ecco messaggio inviato. Niente. Eppure l’ha letto, l’ho vista che lo leggeva. Maledetta, ignori anche ora eh? Le persone non spariscono solo perchè lo vuoi. Non importa, dovrai ascoltarmi tra poco.

Fa un freddo cane stamani, meno male che ho messo i guanti. Uh però che bell’ambientino di lavoro si è messa su la simpatica. Vediamo che faccia farà quando mi vede.

Sei sbalordita eh?… Ma che fai non mi parli? Mi eviti??? Ignori anche ora, ma sei proprio pazza! Vuoi provocarmi??? Che nervoso, ecco mi sta salendo il nervoso. Non mi dire di non urlare, urlo quanto mi pare e piace sai!? Adesso mi ascolti… ossessione… te ne vai? Mi volti la schiena?. Non farlo mai più. Non ignorarmi… ascoltami! Guarda che ti ammazzo… Dio che voglia di spaccarti la testa! Fai la strafottente… eccoti servita… con la tua bella statuina regalata da papà per la laurea. Eccotela in testa maledetta ossessione. Ora non puoi più ignorarmi… ora ascolterai fino in fondo. Hai paura ora? Non mi ignori… si ti ho ammazzato ossessione… perché mi ignoravi. Non mi ascoltavi e io odio le persone che non ascoltano e ignorano volontariamente. Ero qui davanti potevi ascoltarmi, rispondermi e invece mi hai ignorato. Mai ignorare un’ossessione.

Ora non sei più così altezzosa. Ora sei sono un corpo flaccido riverso a terra… quanto sangue… ma cos’è quell’espressione? Ignori anche adesso che ti ho uccisa ossessione? La mia

Page 65: L'Albero delle Parole

64

ossessione… mi ignora anche ora! Ti ucciderò mille e mille volte ancora finché finalmente non mi ascolterai maledetta ossessione… Non ignorarmi mai più.

Page 66: L'Albero delle Parole

65

LA PIETRA E LA FANCIULLAdi Cainos

C’era una volta una giovane bellissima di un piccolo villaggio.C’era una volta un palazzo signorile su di un piccolo villaggio.C’era una volta un fiume che attraversava quel piccolo villaggio

e che ne garantiva l’abbeveraggio.C’era un signorotto ricco e potente che abitava quel castello e di

tanto in tanto scendeva giù al villaggio per fare compere nel fiorente mercato.

Un giorno il signorotto intravide una bellissima giovane e la volle in sposa. E così le ordinò.

La giovane, felice di divenire una nobile signora, andò danzando lungo il fiume e si sedette su di un masso della sua riva.

Su quel solido masso si ammirò nello specchio d’acqua del fiume, su quel solido masso cantò la sua gioia, su quel solido masso pensò quanto sarebbe stata felice la sua vita.

Il masso ascoltò.Nei giorni seguenti il masso non vide tornare nessuno. Sentì

solo in lontananza canti e musiche di festa, e poi per giorni nulla più.

L’uccellino cercava di rallegrarlo con il suo canto, ma non era come quello della fanciulla. Il gufo tentò di raccontargli storie per rallegrarlo, ma non vi riuscì. L’acqua continuò a passargli accanto accarezzandolo con i suoi flutti ancora più forte, ma questo non bastò.

Tutti gli animali accorsero per dirgli qualcosa e rallegrarlo.Il Masso non ascoltò.Passò del tempo, e il tempo premiò il masso che vide tornare la

giovane fanciulla, anche questa volta era felice. Cantava e quel canto scioglieva il metallo dentro di lui, si sedeva e quel calore lo riscaldava più del sole.

La giovane era felice perché di lì a poco avrebbe avuto un figlio, e godeva delle passeggiate che fra qualche tempo non avrebbe più potuto fare per la gravidanza.

Page 67: L'Albero delle Parole

66

Quando andò via per la seconda volta il masso capì che non sarebbe riuscito a resistere senza rivederla, senza sentire la sua voce felice, perciò chiamo Madre Natura pregandola di trasformarlo in un uomo.

Ma Madre Natura non era in grado di esaudire il suo desiderio e per questo il masso la maledì e soffrì.

Allora andò dal Diavolo, che gli chiese cosa volesse da lui.”La possibilità di avere con se la sua amata per sempre come

quel giorno. Sentire il suo calore, vedere la sua figura e udire la sua voce.”

Il Diavolo ascoltò.”Non posso fare tutto questo per te. Cosa hai da offrirmi, hai

forse un anima?”Il masso l’anima non l’aveva ma gli offrì la sua esistenza!Il Diavolo accettò. “Vedrai la sua figura e udrai la sua voce.”Pochi giorni dopo vennero degli uomini al ruscello e uno di

loro indicò il masso. Gli altri lo portarono via.Il masso non poteva fare nulla. Avrebbe voluto urlare “Fermi!

Fermi! Lucifero mi ha promesso che avrebbe portato qui la mia amata!” Ma gli uomini non riuscivano a sentirlo.

In un freddo studio il masso venne scolpito, scalpellato e poi chiuso dentro un sacco.

Quando il sacco fu tolto si ritrovò davanti ad un uomo, un ricco signore, e accanto a lui vi era la sua amata! Sembrava stanca, era pallida e il suo volto non era più così felice.

Il signore diede l’ordine di rimetterlo nel sacco. Il masso urlò che non voleva essere portato via perché desiderava restare con la sua amata. Ma nessuno riuscì a sentirlo.

Quando i primi raggi del sole lo colpirono, vide sotto di se un grande spiazzo con in lontananza una pietra, uguale a lui. Forse veniva dalle sponde dello stesso fiume.

Era una pietra ovale, con una grossa croce. Poi finalmente rivide la sua amata, e la vide camminare in lacrime verso quella pietra, e posarsi su quella pietra come avrebbe voluto che facesse con lui, e piangere su quella pietra come non avrebbe mai voluto vedere.

Page 68: L'Albero delle Parole

67

Fu lì che con furore chiamo il Diavolo e gli chiese il perché di tutto ciò.

”Ti ho dato ciò che ti era dovuto. Adesso da quassù potrai vederla e sentirla ogni giorno, fino a che avrà vita, anche se non so se ti piacerà quello che vedrai. Quello che sei e quello che rimarrai è il prezzo della tua esistenza che mi hai donato!”

”Ma perché quella pietra gioisce del suo contatto, perché non ci sono io al suo posto?” domandò disperato il masso. “Perché soffre così?”

”Perché quella pietra ha aspettato che la natura facesse il suo corso, senza forzare gli eventi, e così si trova ad ospitare il figlio morto della tua amata. Tu mi hai dato la tua esistenza e la tua esistenza sarà questa per sempre. Godi della sua vista fino a che non finirà, vicino a suo figlio, perché poi come suo figlio giacerà in una pietra. Chissà, se avessi aspettato forse saresti stato proprio tu ad ospitarla!”

Il masso rimase annichilito dal suo destino, e così rimase nei secoli dei secoli, prima fissando la sua amata sofferente, poi il suo freddo eterno giaciglio.

Page 69: L'Albero delle Parole

68

IL CICLO DEL PATHOS

I. NARCISOdi Demiurgus

Via Calzaioli sembrava una vasca di piranha frenetici…Il Mare con leggere onde scuoteva il branco che si perdeva nei

suoi flutti. Capelli soffocati dal gel, irti come spine dorsali di uno Scorfano. Stupide aguglie di mare, sottili come alghe che si agitavano nella corrente. Pesci-palla, obesi e lenti che si gonfiavano per incutere paura, Neri-pulitori dalla bocca a ventosa che all’arrivo dei pesci-carabineri, ripulivano il fondo dai loro rifiuti… Questa splendida vasca d’idioti che si sfregavano in preda alla noia, sfiorandosi e strusciandosi in un balletto primordiale di vita nell’acqua. Prede e predatori.

Lo squalo si mosse quasi contro voglia, vicino a lui una razza si scostò con il suo trench nero. Quante altre volte avrebbe dovuto mangiare senza saziarsi? Mosse le pinne in quel mare di ignoranza aprendo le fauci in uno splendido sorriso.

I vetri dell’acquario erano particolarmente lucidi quel giorno, i mammiferi le avevano lustrate a specchio, eliminando il muschio e la borracina. Le vetrine mostravano pelli morte di pesci tropicali dai mille colori,

pantaloni di cozze e collane di perle coltivate. E fu lì che lo squalo si fermò ad ammirarsi nei suoi occhi neri senza riflesso.

Tutto sembrò incendiarsi in mille fiamme di arcobaleno. Il rumore della gente era lo sfrigolio di una brace ardente ravvivata dalla rabbia. Un calore primordiale di odio febbricitante lo pervase… Avvampò nel vedere le sue occhiaie, violacee come fiaccole infernali. Il lavoro, la zona blu, gli orari, era un uomo importante, certo… ma stava perdendo la sua giovinezza…

Si voltò a vedere quella bolgia infernale di anime in pena, straziate dal caldo e dall’afa, quell’ammasso di pelle bruciata e seviziata dalle faville del suo odio. Piccoli gruppi di anime perse guardavano immobili il fiume di sangue e carne, altri si dimenavano inutilmente per sfuggire al fuoco della noia e

Page 70: L'Albero delle Parole

69

dell’ignoranza. Il rumore assordante del loro lamento di morte viva, dello strazio di vivere in mezzo ai tormenti di una vita vuota e sterile.

Chiuse gli occhi, per non vedere e non vedersi. Stese le ali piumate per accarezzare il vento della giovinezza che fuggiva via. Ricordò il candore delle sue penne, l’agilità dei suoi voli, le leggere planate sulla massa di piccioni tubanti e di passerotti stanchi. E poi giù in picchiata con la velocità di un candido falco, l’aria fresca e pulita sopra lo smog della città sporca, verso nuvole di fantasia.

Paesaggi da sogno, pianure incantate, voli pindarici e sfreccianti virate… Si fissò con odio nel riflesso dei suoi occhi; aveva scordato tutto. Tutto.

Le sue ali rotte e stroncate dalla “Maturità”. Il volo impedito da un ciclone di stress ed impegni, di orari precisi, di lavoro in borsa, di amanti gelose e di nauseante sesso. Ancorato alla ruvida terra, come una pianta ammirava il cielo che gli apparteneva. Affondò le sue radici nel fango della palude di Via Calzaioli,

ancorato alla melma ed a terra bruciata. La teca della serra era riflettente e pulita, il giardiniere l’aveva ripulita dal fango e dalla polvere. La pianta muta, in silenzio, voltò i suoi petali per guardarsi di nuovo. Che splendido fiore…

Un candido Narciso si riflesse nei suoi occhi di clorofilla, dolce nettare estrasse dalla palude di emozioni sporche. Splendido, commovente, ondeggiante vegetale di inumana bellezza, accarezzato dal vento affondava le sue radici nella morbida terra, il dolce liquido della sua linfa si incendiò col calore della vita che aveva scordato.

Il rumore delle ragazze e dello stereo dei negozi e vetrine era assordante. Scalpiccio di scarpe di gomma e tacchi come trampoli, illuminati da neon violacei e giallastri lampioni ragazzini fumavano e parlavano di calcio. Un tappeto di cicche e lattine e giornali strappati, il frenetico movimento di umani al pascolo in una sporca città. La commessa uscì dal negozio con preoccupazione e paura…

- Si sente…bene? -

Page 71: L'Albero delle Parole

70

Gli occhi sgranati, persi in un paesaggio fantastico di elementi armoniosi… Mi voltai lentamente, senza mai staccare il riflesso del mio volto dai miei occhi. Splendido.

Cosa voleva questa mezza tacchetta bionda platinata incellofanata come un cadavere?

Voglio vedermi. Ed ammirarmi.- Signore… sono sei ore che fissa la vetrina.. …noi dobbiamo

chiudere… -Splendidi denti come zanne affilate e perfette… Morbido corpo

di eterno bambino, criniera splendente di mossi capelli… Labbra carnose, suadenti e provocanti.

[No... Non ora... Adesso che ho trovato il mio amore, il mio amante...]

Corsi come un folle verso un’altra vetrina… il sole stava scendendo, il riflesso era meno forte..

[No... ti prego... ancora un attimo...]Nel fioco riflesso quel taglio degli occhi, conturbante donna e

maschio tenebroso. Mi avvicinai alla sua bocca… E lo baciai con il calore del rosso Sole calante che lo portava via. Chiusi gli occhi per assaporare quel tenero momento di eccitazione ed appagamento.

Un colpo forte, dietro il collo, una mano gigante chiusa in una stretta possente. Un suono sordo e lo schianto sul vetro. Il mio splendido volto urtò con violenza la vetrina del negozio di vestiti. Caddi a terra come polline pesante nel fragore dei vetri rotti…

- BRUTTO DEGENERATO DEL CAZZO! TI INSEGNO IO, PERVERTITO, A MOLESTARE MIA FIGLIA!!! -

Sangue… linfa vitale di una pianta strappata… Dolore, del mio amante perduto, del mio compagno rubato dall’ombra nel riflesso… Bianco Narciso lordato dal rosso liquame.

Punito fui dagli Dei per la mia insolenza, come allora il dolore mi scosse mentre statua divenni, sulle rive di un fiume Eco piangeva, sentivo ancora il suo pianto nel rumore assordante della folla impaziente.

- IO TI SPACCO LA FACCIA, PORCO BASTARDO!!! -Il pugno ricadde con violenza inaudita, la rabbia di un padre

che difende una figlia…

Page 72: L'Albero delle Parole

71

[Forse aveva scambiato il mio bacio per una dichiarazione scurrile, non importa, adesso avrà altro a cui pensare...]

Un suono di ossa rotte come legnetti incurvati e spezzati, carne esplosa lacerata da dentro, ossa che schizzano in piccole schegge. La mano era un brandello di carne e di sangue, le dita distorte orribilmente deviate. Cominciò a tremare col dolore nel volto, mentre il suo sangue bagnava il mio viso. Splendide dita, come lame affilate, stesero il sangue come rossetto infernale.

Il mio volto… come doveva essere in quel momento? Macabro e stupendo, perverso e maligno, profondamente ebbro della sua bellezza.. Una statua di carne immota e perfetta, scolpita da Dei con mani ispirate. L’uomo svenne dopo un rantolo sommesso di dolore, mentre sua figlia, un orribile ammasso di carne straripante dai fianchi, agitò i suoi capelli di stoppa nerastra e con voce di cornacchia mi offendeva e urlava “Polizia!”…

Nel silenzio. Mi mossi calmo, cercando il mio riflesso nello specchio del negozio… Entrai soddisfatto, inebriato dalla mia stessa presenza, che stupendo essere… Come sacchetti della nettezza gettai nel cassonetto del passato giacca, cravatta, pantaloni e tutto quello schifo firmato Versace che portavo addosso. Presi una camicia di ciniglia rossa orientale, collo alto dai ricami stupendi, cento piccoli bottoni dorati accarezzavano birichini il mio petto nudo. Un boa di piume di corvo nero abbracciava il mio collo,

s’intrecciava bramoso con le mie ciocche di capelli lucidi e puliti. La gonna viola dai riflessi notturni con un sole morente, mi ricordava il mio amore, copriva i neri anfibi dalla punta squadrata.

Uscii soddisfatto, sentii gli sguardi su di me. Tutti per me. TUTTI.

Camminavo tra la folla immobile che stupita ammirava il mio splendore, mentre cercavo la mia immagine nei loro occhi sgranati. Ed un profumo di sesso, inebriante aroma, pervase la strada nell’eco dei miei passi. Un profumo di nettare, di polline raro, la bellezza sgargiante del mio corpo perfetto. Petali bianchi di Narcisi in fiore secernevano brividi di piacere perverso. Una

Page 73: L'Albero delle Parole

72

statua perfetta, un fiore prezioso… Un NARCISO splendente che sognava se stesso desiderando il suo corpo.

Lasciai il lavoro, lo stress, le mie amanti, abbandonai tutto meno me stesso. Adesso ho il mio amore, in ogni specchio e riflesso, mi guarda bramoso, eccitato, perverso….

Narciso è il mio nome, guardatemi adesso!

Page 74: L'Albero delle Parole

73

II. LA METAMORFOSI DI NARCISOdi Demiurgus

Bagliori bluastri di pigre sirene, un cielo piombato di pioggia che non vuol piangere su di me. Mani guantate mi frugano addosso, mi scuotono, mentre sudato li lascio fare, non m’importa…

Ho gli occhi secchi e la faccia di un morto, livido, freddo…“…Capo, dia un’occhiata…”Il poliziotto estrae il foglio giallastro umido di morte, l’ultimo

mio scritto.Lo estrae dal cappotto che ho indosso, madido di fango

grigiastro… il suo cappotto dalle piume nere…“…Forse è un permesso di soggiorn…o una lettera per un

parente…”Non ho parenti, idiota, non più… ho rifiutato il mondo del

Maestro del Segreto, dell’Eletto dei Nove, del Cavaliere d’Oriente o del Principe Cavaliere Rosa-Croce, li ho rifiutati tutti… compreso mio padre, li ho ripudiati per essere libero di morire… Lasciami in pace…

“Cosa ti sei fatto? Mi senti?” - Si volta verso il suo superiore-“Questo è in un altro mondo, Capo…”

Io ti ammazzo ignaro del cazzo… ti ammazzo… io ero una NOTA! Uno dei 49!

“Mi ascolti? Hei! Mi ascol…”Uno scoppio, un altro. Immobile miro alla testa, si sfalda come

la mela rosa dai vermi, sangue grigio mi investe, il superiore mi guarda per un attimo, un attimo solo, premo il grilletto, adieu…

Un altro scoppio: muori ignaro del cazzo, muori, tu che non comprendi…

Non ho nemmeno la forza di farlo.Lo immagino e basta, m’immagino i due pulotti che scoppiano

come palloncini pieni di sangue, si spappolano su per i muri, ricordo il suo Potere Perduto che veniva in mio aiuto, ma non accade niente.

Page 75: L'Albero delle Parole

74

Nulla: la Realtà mi resiste, non sono più in grado di piegarla con un respiro, non più…

ECO… piccola sofferente, dolcezza divina… come ti comprendo adesso… Mi ha lasciato sai? Ed io ho acconsentito, anche io ho voluto il rituale.

Dovevi vederlo, era bellissimo; l’ultima metamorfosi, è tornato ad essere un fiore che dorme sul ruscello.

“Mi devi dare i documenti…”Quanto può andare veloce il pensiero, assente ingiustificato nei

momenti più belli, quando si perde nella gioia utopica della felicità… ma dove è adesso il mio… lento e devastato dalla tua assenza?

“Ora mi stai facendo incazzare, Barbone, li hai i documenti o no?”

Il capo mi fa pena… vita di merda la sua, un compagno imbecille sul lavoro, una moglie odiosa a casa…

Invidia il mio dolore? Gli avranno strappato via anche quello con la routine, la Presenza è ovunque…

“Lo portiamo in centrale, capo?”Che cazzo vuole da me? Vai via, ignaro, lasciami solo… Ho

perso il mio amore, cosa vuoi ancora da me?“Ci imbratta la macchina questo rifiuto, guardalo… mi fai

schifo!”Vero, devo essere orribile: sento i capelli come stoppa setolosa e

quasi mi soffoco respirandoli, col fiato corto nauseato dal mio stesso odore di sudore e di alcool vomitato in chiazze acide.

Accanto a me una bottiglia di Whiskey spaccabudella, un Oban invecchiato,

mi ricorda che l’ho comprato e aperto, assaggiato e scolato “Ieri”, anche se non voglio ricordare - Ieri -

“Non ti vogliamo da queste parti, hai capito?”Ieri, cazzo che dolore, era il 28 ieri!Mi sputa con odio, il vecchio frustrato dalla vita. Cazzo che

male, era il 28… è passato solo un giorno.Il giovane ci prende gusto e mi stampa la marca del manganello

sul labbro.

Page 76: L'Albero delle Parole

75

Il mio foglio, la poesia che ho scritto per lui… ridammela bastardo… ridammela!

Non la rompere ti prego… non la rompere… pesta me, ma non la rompere…

“Poesie…Capo, il Barbone scrive Poesie!”Non la rompere.Non la buttare via, ti prego…Per gli Eterni, per quello che ero, per quello che ho perso

lottando contro gli Assoluti, non la rompere…Mi guarda come fossi un pedofilo dopo una rapida lettura: era

l’ultima cosa che abbiamo scritto insieme.L’ultima poesia che avevamo steso accarezzandoci la mano…

Non la buttare via…ti prego….“Riprenditi questa merda…”Se ne vanno.Finalmente… andate via……adesso devo dormire…Mi risveglio pietrificato dalla postuma, vincolato dallo strazio

della Garrota alcolica.Un rapido gesto ed il laccio nero, annodandosi come il serpente

Kundalini, morde i miei capelli; gli occhiali sono ancora lì, con le lenti violacee che sembrano piangere due gocce di vetro lucidato; li indosso, mi chiudo il cappotto carezzando una piuma sporca caduta a terra, vicino alla borsa…

È passato solo un giorno.La zip metallica della borsa si lacera come un ventre di donna al

tocco del bisturi nel taglio Cesareo, rivelandomi narcotizzata il suo tesoro celato, un piccolo feto al silicio: il portatile su cui le mie dita hanno lasciato il suo odore, chissà se la batteria è ancora carica.

Vuoi che ti carezzi i tasti, bambino informatico? Allora accenditi, aiutami a ricordare, riporta la mia mente a ieri sera! Accenditi!

[Avvio del Sistema in corso…attendere prego]Prego… tu non puoi pregare. IO ho pregato perché accadesse…

ma che ne sai tu, stupida macchina.

Page 77: L'Albero delle Parole

76

Scrivo seduto tra bidoni d’immondizia, odori acidi e zecche nascoste,

fra parassiti invisibili che succhiano quel poco di sangue alcolico che è rimasto in circolo…

Voglia di scrivere, d’estraniarsi, non diversa dalla voglia di un tossico di iniettarsi eroina fusa nel cervello.

Scorticarsi la carne e divenire pensiero, tranciarsi le inutili gambe piegate sul cemento, chiudere gli occhi e continuare a scrivere, piangere a dirotto, con la gola rotta ad ogni parola sonora e continuare a scrivere.

Nessuno lo vedrà, potrà solo leggere un assurdo scritto.Il rumore quasi ciclico del Kikkle-tikkla dei tasti mi

accompagna in questo Lutto terribile; mi prende per mano, passandomi attraverso un leggero tocco di polpastrello le infinite parole.

A chi farò leggere questo delirio sperando che mi comprenda, dannato me, questo è quello che vorrei!

Essere compreso dall’estraneo… Quando l’estraneo sono io.E soffro, come se ogni dito schiacciasse una piaga ancora aperta,

il dolore si trasforma in caratteri neri su carta bianca: questa è la magia della scrittura: soffrire nel silenzio e poter vedere il dolore sullo schermo.

Addio.Mi hai lasciato, per sempre, Narciso.Mi hai lasciato l’Eredità di esistere, nel tuo testamento il dolore

segreto di essere Uomo.Arriverò al termine di una retta che per definizione non ha fine.

La certezza: Morirò.Il mio viaggio sarà il racconto migliore, pieno d’errori, ma a

correggerlo ci penserà un altro… finalmente.

Mi sveglio da un sonno orribile, ho sognato di scrivere in mezzo ai bidoni… Nausea e vomito.

si può sognare di scrivere? Forse… perché adesso non ne ho la forza.

Mi hai lasciato, Narciso, che cos’è questo vuoto che sento…

Page 78: L'Albero delle Parole

77

La sera del rituale, adesso ricordo, la litania dell’assurdo cancello, l’Assenza, eravamo così lontani!

“Prendimi la mano”- mi dicesti- “Accompagnami a casa…”Varcammo i cancelli di Arda e le terre inviolate di Avalon,

superammo le nebbie eterne dei campi elisi e del reame del grande Lupo in attesa del Ragnarok, cavalcammo i Sogni dell’Uomo fatti materia eterea, dritti fino all’antico ruscello che ci attendeva scrosciando tranquillo.

L’enorme statua era curva ed immersa nell’acqua di cristallo, lastra funerea e monumento splendente.

Per il cielo un velo dorato, come i petali del Fiore che ti fu tanto caro.

Respirammo quell’aria di Sogno, percepimmo insieme il risveglio dell’Eterno dalle gote gonfie di muse.

“Io devo restare nei Sogni dell’Uomo, tesoro mio… La guerra è iniziata, laggiù, la ragnatela del tempo sta per essere congelata dal ragno Bianco e Nero. Mi aiuterai, Amore?”

Quanto mi donavi, tesoro mio, quanta passione nelle tue mani che finalmente avrei potuto toccare; parlavi con la mia voce, come avevi sempre fatto, ma stavi formandoti nelle trame dei Sogni…

Per la prima volta ti avevo davanti, vedevo ME come un clone platonico di amore, eri il doppio simmetrico delle mie passioni…la perfezione speculare resa materia: avevi rotto lo specchio.

Mi avvicinai a te con il ruscello che cantava un requiem di amore eterno, tutto divenne luminoso nelle Terre dei Sogni. Ero dentro di te, sentivo la tua essenza prendere forma con gli Uomini che sognano.

Ci specchiammo negli occhi, Uomo e Dio, e nei riflessi dell’altro ognuno desiderava se stesso…

Il tempo si fermò, sfruttammo l’eternità ricordi? Ci riprendemmo tutto il tempo che il mondo ci aveva negato sfiorandoci la mano senza toccarla, per l’eternità dell’assenza del moto.

Page 79: L'Albero delle Parole

78

Poi il soffio di morte tinse l’acque di nero, l’incubo che avevo nascosto esigeva il tributo d’amore.

Gocce di Pathos, il potere perduto cadeva dal tuo volto come vapore pesante… io ero immobile.

Ero un uomo che sperava di fermare gli Dei, un Uomo incastrato nell’eternità, un prigioniero che vedeva morire il suo unico amore dalle grate del tempo, ti avevo davanti e non potevo neanche salutarti, baciarti!

Che dolore, che male al petto, Narciso!Il rituale, la statua del tuo delitto d’orgoglio sfidò l’immobilità

lasciando polvere nera dietro di sé… la roccia si tinse d’alabastro e ti abbracciò soffocandoti.

Mi parve di vedere un sorriso sul tuo volto, ma troppe lacrime miracolose vincevano la stasi dei miei occhi sbarrati, ti vedevo come attraverso il delittuoso ruscello, morivi liquido, tra i flutti dei Sogni.

Stavi morendo, Amore, ti stavo perdendo.Il Pathos ci stava lasciando trasformandoti nel quadro di Dalì,

ricordi, ci scherzavamo insieme…“Io sono molto più bello di quella mano di gesso ingannevole!”Forse tu stesso hai deciso di trasformarti in quel quadro, per

me.Ed a volte ti Sogno, curvo e marmoreo ventre di vita per un

Narciso splendente, uovo primordiale del nostro assurdo Amore per l’Uomo, fuso in quel rosso della tela di un folle, che nascondi la testa per non versare davanti a me una lacrima di dolore, immerso in un lago di specchio.

Che dolore, Narciso… che strazio. La poesia… te la leggo, vuoi? Leggere… per Sognare di nuovo…

Il Canto di Ulisse

Ed è senza alcun suono che ti ricordonel bianco del cielo velato e svanito;solo il silenzio tendeva un accordoper il lamento di un uomo finito.

Page 80: L'Albero delle Parole

79

Nascosi il pianto stringendoti forteschiantandomi il petto di lacrime amare,

ma più forte di me ti strinse la morteforzando l’abbraccio senza esitare.Mi hai tradito, ingannato, ricordi?

Moristi là, lontano; senza me accanto.Dentro la stanza i passi miei sordi

rompevano secchi il muto tuo pianto.Rimasi seduto con la morte davanti,

come un Ulisse legato alla nave.Nel silenzio udivo i suoi canti

che ti presero lento con voce soave.

Page 81: L'Albero delle Parole

80

III. LACRIME DI SILENZIOdi Demiurgus

É giorno, di nuovo…Come falene impazzite gli uomini cavalcano i loro obblighi per

soddisfare i loro deviati desideri. Sogni sepolti dall’abitudine e della noia, uomini che scansano il loro riflesso per la propria insicurezza.

Mi alzo stanco… Il letto matrimoniale abbracciato da lenzuoli blu notte di raso, il mio corpo nudo si struscia ancora su quella pelle artificiale e liscia prima di alzarsi ed ammirarsi nella sala satura di specchi rotti… Mi osservo nel mio riflesso; perso in quel limbo di immacolata bellezza scopro più volte la mia stupenda Natura… Nascosti dietro capelli neri e lisci i miei occhi sono ambra misteriosa. Io, Uomo, porto dentro l’essenza delle passioni del mio Sogno, come un essere magnifico incastonato nella resina antica.

Mi crogiolo dentro il mio risveglio. La vista è rincuorante in questi giorni di passione e dolore…

Per un attimo la mente è distolta dalla mia presenza, scossa dal suono fragoroso di un nome, mia sorella…

“Maya” Perché non riesco a vederla, non sento i suoi sogni? Perché sembra aver dimenticato la sua bellezza?

Mi rimetto a dormire… Lo specchio sopra il letto è incrostato ed antico, la mia immagine è sporca d’ossidazioni e di crepe… Il mio incubo. Quanto poco basta all’occhio di un uomo per essere ingannato…

“Maya”… Di nuovo avverto il suo nome, portato dai sogni di chi non può sognare… un grido, un lamento sommesso di voci senza suono di chi non vuole sognare.

“Maya, lei non sta sognando, impazzirà!”Mi alzo di scatto, il mio corpo è un lampo di adrenalina e

sudore… Stavo ancora dormendo? Stavo ancora sognando?…”MAYA”…..Ed il dolore s’impadronisce del mio cuore…“…Non….sta …Sognando….”

Page 82: L'Albero delle Parole

81

La mia bocca è pesante, non riesco a parlare, visioni terribili, un Uomo senza Sogno, un Mondo senza Sogni.

“Ecco…. perché non sente la nostra voce…ecco perché non ti ode, Sogno….”

Tremo. Nei nodi dei sogni scelgo i più terribili, viaggio come un treno su rotaie d’etere… La cerco… senza vederla, Urlo il suo nome, ma solo l’Eco della mia voce mi risponde piangendo.

“Devo andare da lei… devo impedirlo! Non può finire così! Non può morire per questo!”

Non posso uscire nudo, anche se mi piacerebbe, devo vestirmi, devo andare da lei, povera Maya, donna senza Sogni.

La camicia di ciniglia rossa mi stringe dolce e morbida, accarezzando il mio petto, due gocce di profumo, “Eternity” di Calvin Kleine, piangono per me le lacrime che non voglio mostrare. Nere piume di Corvo baciano il mio collo, mentre fascio le gambe con strisce di seta di tenebra. L’Ombretto inarca i miei occhi, incorniciati da eye-liner e da ciglia affilate. Ho rifinito i pennelli, uso le dita per stendere il viola rossetto…

Un timido bacio, a quel Dio nello specchio, poi le stringhe strozzano gli anfibi borchiati.

….”Maya”….La città è uno schifo oggi, sudicia e sporca come una pattumiera

di metallo. Il cemento stride sotto i miei passi veloci, corro in una città di esseri stanchi. Corro veloce in un mondo al rilento, fatto di piccoli passi, di lentezza e degrado. La stazione è immobile, come gli altri del resto. Un’occhiata al tabellone, il treno è in partenza, più veloce di me, stride chiudendo le bocche di acciaio.

“Lo perderò….non riuscirò a raggiungerla! NOOO!”Ma io sono l’Eco della mia immagine… urlo il suo nome, vedo

il suono partire, corro slittando tra le sue onde concentriche, tra mille riverberi e scansando i ritorni. Narcisi viola s’inseguono uguali, una linea retta del mio nome scagliato. Protetto dal velo del Sogno, inseguo il mio suono che sbatte sul treno,

come tasselli di un domino le mie immagini svaniscono in un lampo, lasciandone una seduta nel treno che corre impazzito. Eco piange, per il suo amore negato…….

“Maya”….

Page 83: L'Albero delle Parole

82

“Sto arrivando”…

.

.

..…....Finalmente mattina, una brutta mattina. Un sapore amaro in

bocca e la schiena a pezzi, unica nota buona, non ho fatto sogni, i sonniferi hanno dato l’effetto voluto. Un senso di disagio e realizzo: “Ci mancava anche il ciclo, dovrò passare in farmacia.”

Strano, in anticipo. Una stonatura, una vibrazione della pelle all’altezza della nuca. Qualcuno mi pensa. Mi viene da sorridere d’istinto, penso a Merlino che appena sveglio chiede a mia madre di me. Il sorriso mi muore sulle labbra, un sognante, più probabile. Maglia nera e gonna nera, sono già in lutto evidentemente. Il portiere dell’albergo in cui mi sono trasferita saluta

“Buon giorno signora Crocetti, esce?”.Esco? Perché, dove devo andare? Mi sono vestita e preparata ad

uscire automaticamente, dove devo andare? Mi faccio chiamare un taxi, in ogni caso.

“Alla stazione”Perché? Ma che mi succede stamattina, dove vado?......

Sono in un ventre di un bruco di metallo… Come Crisantemi vedo dondolare in un prato di morte ogni uomo dentro questo treno. Nessuno di loro ha più Sogni, aspirazioni, rispetto di se. Sono piante mangiate dai piccoli vermi colorati del divertimento, del lavoro, della noia… Sono foglie appassite dal grasso in

Page 84: L'Albero delle Parole

83

eccesso, da pelle rugosa, da unghie smaltate… Radici bruciate da troppa invidia e repressione, una religione opprimente, desideri soppressi. Ed in mezzo a loro luminoso come un alba, un Narciso li osserva schifato… Vedo i loro occhi invidiosi ammirare ed odiare la mia camicia da feste trans, le mie nudità fasciate e coperte da strisce di seta. Non m’importa cosa stanno pensando, sono schiavi e non se ne sono accorti. Mi volto e l’ipnotizzante scorrere del treno che saltella sulle rotaie mi rapisce; il finestrino mi mostra un paesaggio che corre impazzito, mentre io sono fermo dentro i miei occhi. Tutto là fuori corre veloce, schizza frenetico e si nasconde al mio sguardo.

“Devi vedere così Maya… senza pace, senza tranquillità. Un mondo impazzito che ti sta inglobando” Sento il treno mordere il ferro con le sue zanne da bruco, ci stiamo fermando. Sono arrivato. Subito gli ignari si apprestano a correre, stanchi e depressi, in quel mondo che ho visto dal finestrino… Ed è un balletto di valige, cappelli, giubbotti, sudore con una musica senza canto e melodia di rumori.

“Dove sei Maya?”Non la vedo, non riesco a vederla in questa serra di piante

secche. Dovrei riconoscerla, dovrei sentire il suo suono di rabbia, ma non riesco a vederla…Mi siedo stremato su di una panchina, sono accanto ad un barbone che non mi chiede neanche l’elemosina. Dietro la folta barba la sua bocca rumina un panino indecente, un cappello ammaccato, degli stracci per coperta… La decadenza. Diventerà anche il Pathos come lui, diventeremo anche noi così? Costretti a cibarsi di emozioni sempre più unte e artificiali…

Noi, Note cadremo in rovina come questo relitto?!Piango, non posso impedirlo; il trucco si scioglie deturpandomi

il volto in uno sguardo depresso… Stiamo sprecando il nostro nutrimento. Stiamo gettando al vento la nostra vera ed unica ricchezza.

…Ed io ne sarò testimone impotente…....

Page 85: L'Albero delle Parole

84

.

.Urla di rabbia che m’investono come tornadi sabbiosi, una

tormenta di odio e di paura finissima e tagliente. Maya sta sfogando la sua ira contro un barbone. La percepisco fortissima, la sua rabbia non è per me, ma è come solida, pesante, le sue parole sono usate come un arma… Potenti ed unite in un intreccio spaventoso, Furia e Paura frustano con le loro mille lingue di fuoco il povero uomo. Mi stupisco che non siano percepite dagli altri ignari in questa bolgia di banalità. Tutta la sua rabbia, tutto il suo furore esploso nella mente di un derelitto, di un ignaro, mi sconvolge come egli rimanga fermo, non impazzisca di dolore… Mi alzo di scatto, un ultima occhiata all’uomo che siede accanto a me, ha finito il misero panino, si volta e mi chiede subito di dargli qualcosa… Negli occhi l’eterna fame, l’eterna sconfitta. [Esistono coppe che non hanno fondo…Esistono coppe che non si colmano mai] Discordia di Destino, anche la fame è una di queste? Sono così simili Fame e Rabbia?

Mi scuoto, non devo perderla, mi muovo veloce scansando valige, gomiti, carrelli cigolanti e comitive di giapponesi… La vedo inveire isterica, convulsioni folli di raro furore. Lontana… piccola e unica. Allungo il passo, la stazione è un fiume di carne, non riesco a risalirlo. Il mio respiro è sempre più affannato, un altro treno si è appena fermato e una nuova inondazione di acqua sporca m’investe, la sto perdendo, non riesco a raggiungerla! La vedo voltarsi, di scatto mentre tenta di allontanarsi, ma barcolla e si poggia ad un muro, stremata, stordita indebolita… Pochi istanti, mi sto avvicinando, le gambe non la tengono, ma si raddrizza di nuovo. Rinvigorita da nuova Rabbia, la sento esplodere velenosa, ma non ha nessuno contro cui sfogarla.Sono vicino, la sto per raggiungere, lei si piega e raccoglie qualcosa da terra, troppo caos, non riesco a vedere cosa, ma subito lo schiaccia con violenza sotto il tacco.

Un altro sfogo, rabbia pura. Sembra sentirsi di nuovo male, porta la mano alla fronte poi la ritira allarmata e sconvolta, negli occhi la paura intrisa delle domande non risolte, un fazzoletto

Page 86: L'Albero delle Parole

85

che si colora di un rosso inconfondibile, sta sudando sangue. Lavedo. È davanti a me, pochi passi, il mio volto deturpato dalla sofferenza. Respiro affannato, un soffio di dolore dietro il collo, potente, sensazioni discordanti, come nugoli di freddo sfuggente e valanghe di bollente magma.

[DEIFOBE]No...Non è possibile...No.[DEIFOBE]Il duello è stato violato. Il Limite è stato infranto. Padrino di un

Ordalia che mai sarà consacrata. Mille schegge di vetro mi feriscono il costato, il velo squarciato dalla morte. Vacillo sotto il peso del dolore, adesso siamo noi due barboni ubriachi. Premo sulle orbite con le dita per non vedere, per non vedere quel sangue che le deturpa il volto… Le unghie smaltate blu notte lacerano insensibili le mie palpebre, piccoli rivoli di porpora disegnano una coda di serpente sotto i miei occhi. E nel buio il passato ritorna prepotente:

[Non serve più adesso... Non serve... Andranno avanti... in ogni modo... Ed i miei occhi piangeranno sangue mentre dovrò non vedere il loro...]

[Di sangue ne vedrai ben poco... le signore dell'Enigma e della Discordia si affronteranno in un modo più sottile e sicuramente più tremendo...]

Paolo Lucchesi.Io avevo visto. Avevo già visto questo sangue… Perché nessuno

lo ha impedito! Ho pregato che questo non accadesse, ma NESSUNO ha compreso le mie parole. PERCHÈ!

Guardo Maya negli occhi deturpati, il suo volto è una maschera rossa, suda piccole gemme di sangue pesante.

Page 87: L'Albero delle Parole

86

“PERCHÈ?” L’unica parola che da tempo urlavo. L’unica domanda che la mia voce bagnata dalle lacrime riesce a pronunciare…

Cado in ginocchio, stremato, Deifobe è morta. Il duello è terminato con una doppia sconfitta. Piango ed aspetto… In ginocchio maledico questa morte, mentre Maya stremata mi osserva, la rabbia è ancora forte dentro di lei.

Piango ed aspetto… Donna senza Sogni, un altro incubo è stato partorito nel Mondo. Lacrime di dolore e rabbia, di sangue e sudore. Narciso mi guarda, piange, in questo momento lo odio, odio tutto il Pathos, Deifobe è morta, me l’hanno sottratta. Non potrò far esplodere la rabbia e l’amarezza e l’odio e il furore. Non sopporterò la pressione che fanno nella mia testa, le mani a trattenerla, come se questa dovesse scoppiare. Guardo Narciso ormai inutile, padrino defraudato. Deifobe è morta, mia sorella è morta, sono monca, sono incompleta, ho perso l’integrità. Bianca, ho perso ogni colore, bianca, ho perso ogni pensiero. Guardo Narciso, mi pulisco il viso dal sangue e lo lascio là, a guardarmi. Mi allontano tra la folla che si scansa, sorpresa. Solo…

In mezzo ad un nugolo di figure fumose come sbuffi di un treno, eterei esseri stuprati della loro bellezza, mille sagome di vapore sbiadite… Stremato, il naso si stringe tra le lacrime soppresse, un peso nella gola, zampilli salati che distruggono i miei occhi di perla. Non riesco a parlare mentre la vedo allontanarsi, non si è sfogata con me, non mi ha attaccato con la sua rabbia di fuoco… Ho apprezzato il suo gesto in questi istanti dolorosi.Vorrei dire una frase per consolarla, ma so che non ce ne sono.

Esiste solo il silenzio. La gabbia di Eco, la sua maledizione, la mia punizione. Strazianti lacrime di silenzio…

Page 88: L'Albero delle Parole

87

IV. UNO STRANO INCONTROdi Demiurgus

É stato come se in un attimo mi avessero strappato il cuore…per fortuna la sensazione di dolore passò subito; tempo di piegare la schiena e portarsi le mani al petto che tutto era già passato. Subentrò subito però un’altra sensazione più allucinante: tutti i colori erano sfasati… ero circondato da una marea di persone bionde con i capelli blu e con gli occhi viola… evidentemente dalla mia espressione si doveva capire, perché un ragazzo dall’aria gentile mi chiese in un inglese un po’ distorto ” right? Are you all”. Ma come parlava questo? Continuò a parlarmi anteponendo sempre l’ultima lettera della frase che stava per dire… E mi resi conto che ad un tratto parlavano tutti a quel modo… la cosa più grave era che mi sembrava tutto normale… L’impressione era come se un prisma avesse scomposto la realtà come fa di solito con la luce, sostituendo al primo colore l’ultimo e traslando il resto… Tutto era sfasato, tutto non era al suo posto e in un certo senso si… stavo quasi per dimenticare com’era la VERA realtà… Calmai il ragazzo dicendogli che mi era andata di traverso la birra… con un po’ di sforzo sorrisi e distolsi così tutti gli sguardi da me…

E in un attimo ero spaccato in due…“Che sta succedendo?”“E TUTTO NORMALE…”“La realtà è distorta”“E TUTTO COME AL SOLITO… PRENDI UNA PENNA…

CHIEDI UN FOGLIO… SCRIVI! SCRIVI!”Chiesi al barista un foglio e una penna e mi misi a scrivere…

anzi la sensazione era come se la penna scrivesse da sola…“SPESSO CERCATE DI SEMBRARE CIO’ CHE NON SARETE

MAI”“LA RISPOSTA E’ CIO’ CHE PARE… ANCHE SE

SBAGLIATA”“LA PERSONA PIU’ INTERESSANTE E’ QUELLA CHE

SCARTI PER CASO E PER CASO REINCONTRI”

Page 89: L'Albero delle Parole

88

Scrissi per mezz’ora e più, felice contento.“IL SAPERE E’ CIO’ CHE VUOI… SAI CIO’ CHE VUOI

SAPERE”“LA VITA TI CAMBIA…”Scrissi a caratteri cubitali… quando fui colto dalla sensazione

che il “prisma” fosse vicino… sempre più vicino… fuori FUORI!!Presi i foglietti le sigarette e corsi fuori… e c’era lui…

zoppicante e fiero… che stava girando l’angolo. Prima che sparisse iniziai a ricorrerlo… lo presi per una spalla “Dottore?? Dottor Kaneirzen?”

Compresi tutto… lo sfasamento, gli scleri, la follia, era stato lui era lui l’elemento “sfasante”…

“Cosa sono questi?” Fu questa la mia prima domanda mostrandogli fogliettini, parto della mia mente divenuta folle, che avevo tirato fuori senza rendermene conto… “Cosa sono queste cose che sono nella mia testa??”…

Lui mi guardò, mi riconobbe, mi sorrise… ero io l’autore dell’e-mail che aveva ricevuto il giorno prima, nella quale, la domanda dei documenti della sua macchina per l’immortalità, celava una richiesta curiosa e vogliosa…

“Sei te… è la tua mente che tira fuori quello che ha dentro e che vorrebbe esprimere… mente che è stata chiusa e ingabbiata dalla tua nota… Merlino.”

“Ma è merito suo questo? La trasformazione che ho subito questa sera, la voce dentro di me… è tutto merito suo?”

“Certo! Io non ho fatto altro che aprirti la mente, renderla folle, al mio livello, in modo che possa chiarirti quello che tu mi hai chiesto. Volevi risposte? Ti do risposte. Stasera risponderò alle tue domande. Ti ho allargato il punto di vista. In modo che ti possa spiegare fino in fondo non solo come funziona la macchina, ma anche il mio sogno… Come speravo che tu lo capissi se non eri al mio livello? Se non eri un folle, come lo sono io. Come gli altri insistono a definirmi?”

Il dottore barcollò in avanti accennando dei passi, per dirigersi verso il muro a cui appoggiarsi, il suo potere lo sosteneva ma non lo avrebbe fatto per molto altro tempo. Si appoggiò al muro dell’edificio del Pub e continuò…

Page 90: L'Albero delle Parole

89

“Bella la tua mail… piena di curiosità, piena di voglia di sapere e provare sulla tua pelle. Belle parole hanno usato… di nascosto; segretezza quindi. Da Chi? Dal movimento? Da Destino? Che tutto sa in quanto parte integrante di lui stesso? O più semplicemente da Merlino? Destino di Enigma, nemico giurato di me e Mostro? Vuoi sapere o no?”

“CERTO CHE VOGLIO SAPERE” gli dissi con un’ostentata tranquillità suggeritami dall’altro mio io. Stavo iniziando a parlare come lui con naturalezza…

“E allora stai pronto alla verità come mai l’hai sentita, da un punto di vista completamente folle… fuori degli schemi… Allora… da dove partire… Sai te cosa è successo nei primi tre secondi dell’universo?”

“No! Non so cosa è successo 100 anni fa figurati nei primi tre secondi dell’universo…”

“L’universo ha cominciato a invecchiare!… Devi sapere che tutto è costituito da atomi. E gli atomi sono costituiti, a loro volta, da corde finissime più fini di un punto che esiste solo nella nostra immaginazione. Si chiamano Supercorde e queste, sfregando, costituiscono quel fenomeno che noi definiamo invecchiamento: ‘La degenerazione, la caducità cellulare’. Niente è per sempre… Questo fenomeno è il famoso fattore Q. Questa forza che avanza e disgrega ogni cosa… Se noi eliminiamo questa forza, semplicemente la materia non invecchia. Vedi io ho inventato questa macchina, quella che chiamano IMMOMACHINE, che fa appunto questo, elimina il fattore Q. Applicando questo all’organismo umano, l’uomo diventa immortale… i tessuti non degenerano e l’uomo può vivere per sempre.

Sai cosa vuol dire questo? Che non avrai più preoccupazioni, che la tua vita, così come la concepisci finirà, e inizierà una vita senza tempo apparente: potrai dedicarti a qualsiasi cosa tu vorrai, senza preoccuparti di poter morire e dover invecchiare.”

“E se stai facendo tutto questo bene all’umanità perché il PATHOS ti dovrebbe fermare?”

“PATHOS PATHOS” gridava la mia seconda voce…“Il Pathos…” rispose lui “lo sai cosa è il Pathos? Lo sai cosa

sono veramente le Note? Sono strette di mani fra eterni, sono

Page 91: L'Albero delle Parole

90

intersezioni sinusoidali fra le energie degli eterni… niente più… e cosa pensi che possa capire questo essere, immortale, limitato, di un sogno di un uomo? IO toglierei il peccato originale all’uomo, gli renderei ciò che Adamo ed Eva hanno perso… Distruggerei Assenza e Presenza in un colpo solo… E loro mi vogliono fermare… loro… ” e con questo il dott. K. prese un respiro e si fermò per un attimo. Il suo potere cedette, si dovette sedere per terra.

E poi iniziò a raccontarmi il suo sogno, la sua rabbia contro le note e la gerarchia del Pathos. La gabbia dalle sette sbarre dorate e i due cani fuori ad aspettarci…

“Cosa pensi che succeda quando il Pathos partirà? Quando le sette sbarre dorate spariranno, e i due cani liberi di sbranarti? Invece così sarai inattaccabile… cosa faresti se i cani fossero addormentati e il lucchetto della gabbia fosse aperto?”

“L’occasione fa l’uomo ladro.”“E tu cosa sei? Non sei un uomo? Cosa faresti?”Dopo tutti i suoi discorsi annuivo soltanto. Vedevo con

chiarezza il suo sogno e lo condividevo; la follia aveva preso il sopravvento: il suo punto di vista era chiaro… e aveva ragione! Non c’era ma che non avesse risposta, non c’era se che teneva… tutto quadrava… tutto tornava… le equazioni avevano i suoi risultati e tutto era perfetto.Ma come potevo abbandonare Merlino? Come avrei potuto tradirlo? Merlino non aveva senso per lui, così restrittivo… un carceriere…

“Il mio discorso è finito ora sta a te… cosa fai? Ricordati che IO una scelta te la do… io ti ho ‘risvegliato’ stasera, ho fatto in modo che tu capissi… Beh ora sta tutto a te… il mio non è un ultimatum… hai ancora il libero arbitrio… a te l’ultimo passo, a te la scelta finale.

“Gli davo le spalle in quel momento, mi sarei voluto girare, ma il mondo mi crollò addosso. Quella che era stata la sensazione di dolore di partenza impallidì a confronto. Tutto roteava. Un conato di vomito. L’oblio.

Riaprii gli occhi e mi trovai appoggiato alla colonna esterna del Pub. Il rivestimento in legno era stato graffiato dalle mie stesse unghie. Guardai i solchi. I miei occhi vedevano… IO VEDEVO:

Page 92: L'Albero delle Parole

91

l’immagine s’ingrandiva; ero capace di vedere in profondità, sempre più dentro alla materia… la visione si fermò quando riuscii ad intravedere delle corde, la base della materia, che vibravano, che si consumavano fino a che non rimaneva che una sola corda. Realizzai che ero arrivato alla fine dei tempi, l’attimo si era dilatato fino a riempire 100.000 anni. Tutto ciò che era non c’era più. Di nuovo l’oblio.

Riaprii lentamente gli occhi e niente era mutato da quando ero arrivato la sera stessa… Anche i colori erano tornati al loro posto… la gente era bionda gli occhi erano blu.

“Il Dottore!!!!” Mi girai… nessuno… si era volatilizzato…Non era un’allucinazione. NO NON ERA DECISAMENTE

UN’ALLUCINAZIONE…L’unica cosa che mi riecheggiava in testa era l’ultima parola del dottore…”SCEGLI… SCEGLI”

“HO GIA’ SCELTO!”

Page 93: L'Albero delle Parole

92

V. L'ABISSOdi Thomas Kaneirzein & Lord Raphael Von Matsch

Non posso dirvi come iniziò questa storia, il luogo od il quando. Forse perché dove avvenne quell’incontro non esisteva nessuno dei due… La loro curiosità nacque in un istante dal bagliore di un ombra, attorno ad un tavolo dove Psiche, inconsapevole, stava per partorire il seme della sua follia più profonda. Aveva sparso il suo polline duplice nell’aria di Galileo, ma Thomas allora stava germogliando su Psiche di Sogno, il domatore delle ombre. Sopra la roccia fluida del detentore del Libro di Thoth.

Intravide i neri artigli del Mostro ticchettare spettrali sul tavolo di legno bruciato, e capì un frammento della sua nera anima… I suoi occhi divennero ombra oscurando il bianco dei suoi globi immobili e fissi.

Intravide l’essenza di quel Nero vietato agli uomini, e comprese che i sette colori dell’arcobaleno del Pathos non avrebbero mai portato la conoscenza annidata in quel vuoto di tutto… Qualcosa che contempla solo se stesso… Un Guardiano che contempla la propria essenza.

Le candele danzavano il loro tetro spettacolo, fatto di luci e di ombre. Il Mostro annientava la luce con il solo respiro. Ogni parola oscurava un riflesso e presto fu notte sulle due figure.

“Un guardiano che decide di fuggire via. Di essere altro… Anzi, di ESSERE. Finalmente… di essere!”

Le parole del Mostro erano lame nella notte. Pesanti come mannaie di un boia incappucciato e tetro mutilavano l’anima di Thomas. Senza cattiveria, senza sadismo. Con la pura verità.

“Vide i colori… oltre che il nero? Diventò un colore? Assunse una sfumatura di due colori diversi, di Psiche e di Sogno?”

Il volto di Thomas era un vortice di follia. Le domande uscivano da sole come espulse dalla sua razionalità.

“No… Incontrò un frammento di BIANCO altrettanto insoddisfatto. E insieme decisero di accostarsi l’uno all’altro, per contenere tutta la gamma dei colori.”

Page 94: L'Albero delle Parole

93

Il Dottore, lentamente, prese il cucchiaio da tè appoggiato sul tavolo. Un gesto meccanico, senza distogliere l’attenzione dalle perle nere nel viso del Mostro. La fiamma giallastra della candela cominciò ad accarezzare il fondo del cucchiaino, con carezze suadenti e sensuali. Sembrava un amplesso mentre il limone e l’ero tagliata come neve cominciarono a bollire sul rovente letto di metallo. Quante volte avevano raggiunto l’orgasmo, insieme?

“DA DOVE VIENE QUESTA MAGIA? Da dove prende potere o chi l’ha inventata?”

La voce del Doc uscì come un respiro dal profondo di un abisso. L’ago della monodose venne investito da un bagliore di luce dello stoppino incendiato, prigioniero della cera intrisa di Loto Nero. Come un animale di acciaio lucido si accoppiò lentamente con il liquido bollente. E quel blasfemo miracolo avvenne di nuovo. Un’unica cosa, un maschio intriso di donna, metallo fuso alla plastica pregno di eroina. L’Androgino, l’ermafrodito della Morte celata nel piacere, era risorto di nuovo. Ed il laccio di gomma morse il suo braccio facendo urlare la gonfia vena violacea.

Un sorriso beffardo: “Dal Mostro? Dalla Volontà del Mago? OGGETTIVAMENTE FUNZIONA? E che ne so? Funziona!” (Niente più che un sorriso beffardo… Ed ecco spiegata la Macchina dell’Immortalità, che funziona, nonostante i modelli teorici non la sostengano adeguatamente…)

Il dottore alienato dalle parole del Mostro contemplava il suo velenoso amante. Le parole non venivano più decifrate dal suo cervello, troppo impegnato a pregustare il nuovo amplesso.

Perché si drogava? Non se lo chiese due volte. L’eroina attendeva. Con lei non esistevano domande o problemi. I problemi sorgevano quando non circolava nel sangue accarezzando le sue vene. Il suo amore si avvicinò con la lentezza di chi può aspettare.

“Maestro…”Con lentezza ipnotica lasciò colare una goccia sul ferro freddo e

lucente. Thomas stava facendo l’amore con la propria Morte. L’ago lo penetrò, lacerando la pelle con un rumore orribile ed

Page 95: L'Albero delle Parole

94

impercettibile. Come era difficile, le prime volte, concepire quel dolore. Adesso era nettare degli Dei.

“Ho sempre pensato che funzionasse! Infatti ha sempre funzionato! Ad Atlantide ci abbiamo fatto funzionare un continente. Nessuno ha mai avuto dubbi che funzionasse, infatti ha sempre funzionato.”

Il Mostro continuava a parlare, mentre gli occhi del dottore si spensero chiudendosi. Nessuna parola. Nessun rumore, nessun luogo. In ogni istante il calore dell’amplesso con la sua dama bianca ogni volta vestita e celata in manti diversi. Frigida e gelida per farsi desiderare ancora di più, o sadica e potente come il respiro di un Dio. Il corpo si incendiò in ogni suo labirinto remoto. Sembrava carne liquida mentre si contorceva, nessuna articolazione, movimenti istintivi. Poggiò con mano pesante il corpo morto della sua amante sul tavolo, svuotato della sua mortale anima. Gettò il capo all’indietro estendendo il collo in un respiro che dilatò tutto il costato. Adesso erano una cosa sola.

In un lampo di Follia drogata riaprì gli occhi, orribili e pregni di un Male ancestrale dell’uomo. L’onnipotenza dentro le sue pupille. La voce di un Demone fatto uomo, profonda e calda come un getto di magma: “Lord… noi con la macchina utilizziamo… DIO.”

Venosta vide quegli occhi ed il silenzio calò come un manto di pesante tenebra. Il suo volto venne squarciato da quello sguardo. La voce del Mostro aveva tremato per un attimo, prima di rompere quella gabbia di non rumore? La voce del Mostro uscì dalle sue labbra con la calma dell’acqua. Come quasi sempre.

“Cosa stai cercando di dirmi, Thomas?”Un rivolo di sangue stava colando piano dal suo naso. Lasciò

che quel liquido disegnasse una serpe sul suo labbro… E lo leccò con un piacere perverso.

“Padre… Ho visto cosa richiameremo sulla Terra… Ho visto un Incubo che non ricordi.”

“Parlamene.”“Un tuo sogno… Noi prendiamo qualcosa fuori dal nostro

universo…. Che non è materia… Che non è energia….”

Page 96: L'Albero delle Parole

95

Un capillare esplose, senza rumore, inondandogli di rabbia l’occhio sinistro. Non aveva più nessun aspetto di un uomo se non per il suo corpo. Un Morto che si muoveva guidato dai fili della droga.

“Questa però è la tua interpretazione, Thomas, tienilo presente…”

Un orribile sorriso disegnò il volto del male sulla faccia rigata dal sangue.

“L’onda K…. Il nuovo fattore che abbiamo inserito nell’universo… Insomma… Padre… E’ il modello descrittivo di DIO!”

“E’ una interessante interpretazione. Quindi la nostra Macchina è il nuovo Dio?”

“No… Non sto scherzando…”“Neanche io.”La voce del Mostro strisciò nel silenzio, scansando l’eco e

penetrando nella testa sconvolta dalla droga e dalla terribile rivelazione.

“Abbiamo costruito lo Spirito Santo, padre…!”“Infatti. Lo abbiamo costruito noi.”Thomas divenne una statua di carne rigida. Le parola erano

fiumi di follia sfuggiti al lago piatto della razionalità. L’essenza di Psiche.

“Scese il Figlio per redimere l’Uomo… Ma non bastò… Ed alcuni uomini insoddisfatti chiamarono la seconda parte del loro triplice essere… SULLA TERRA.”

“Oh no, Thomas. Noi non lo abbiamo CHIAMATO. Stiamo COSTRUENDO un Dio, lo stiamo FABBRICANDO noi. Esisterà PER noi. Nostro.”

“E noi esisteremmo per lui… Per il suo volere… ed il suo volere è il nostro. A noi incomprensibile.”

“Non è vero. Il suo volere è l’obiettivo per cui è progettato. Esso è un Dio meccanico. Ed una Macchina molto semplice. Esso è PROGRAMMATO.”

Un accenno di risata. Un motivetto improvvisato, sottovoce: “We are building God… God out of wires… Assembler coded God… Switch controlled redemption…”

Page 97: L'Albero delle Parole

96

Attimi immobili di domande che si sgretolano mutandosi in risposte.

“É raccapricciante ed affascinante…” (C’era una parte dell’antico progetto Atlantideo che non avevano ancora decifrato…La ragione per cui di tanti dubbi sul principio di funzionamento della macchina, e soprattutto sulla fonte di energia… Un componente del motore per il momento era ancora una grande X sul progetto: un generatore di cui erano note dimensioni, potenza in uscita e richiesta di energia per il suo startup, ma di cui non era stato ancora riscoperto il meccanismo…E il Mostro non riusciva ancora a ricordare. O, se ricordava, taceva. I reattori a fusione… Collegati al componente X stesso, teoricamente in grado di generare un campo magnetico superiore ai 2,5 tesla… I reattori a fusione dovevano solo collaborare allo STARTUP del generatore principale! Poi si sarebbero limitati a produrre l’energia nutrizionale…Il Generatore X, la parte della macchina che trae da altrove la non-Energia/non-Materia che diventa l’Onda K. “Trae da altrove”, diceva Thomas. Venosta diceva: “produce”. Quel componente che trasforma energia dissipata in energia utilizzabile… Un assurdo termodinamico… Qualunque cosa sia in realtà, è in esso l’assurdo termodinamico. Nessun altro ne era a conoscenza, ma per il Dottor Kaneirzein quel componente era ancora una ‘X’.)

Thomas capì con cosa veramente aveva a che fare… Qualcosa di così infinitamente potente da poter generare un altro universo… E quello che lo sconvolgeva era la calma e mancanza di stupore con cui Venosta ne parlava.

Si sentì bruciare gli occhi dalle fiamme dell’eroina. Spingeva i suoi occhi nel nero dell’incoscienza. Tutto era deformato e piegato, più difficile da comprendere. Le parole erano rimbombi di esplosioni di suoni. Si grattò il collo con le unghie mangiate dalla sua follia.

“La quantità di informazioni che ho spedito è servita a molti per conoscere il silenzio… Forse la paura di non capire gli scritti non li ha fatti ancora decifrare il tomo… ‘Il fattore Q’ ha momentaneamente placato gli animi…”

Page 98: L'Albero delle Parole

97

“E’ solo questione di tempo perché giungiamo a comprendere il funzionamento del Componente ‘X’, Thomas.”

Aprì gli occhi rigati dal sangue e incorniciati da impressionanti occhiaie… Respirò con fatica parlando mentre il fiato usciva controvoglia.

“…lo spero, Lord.… o ci sbraneranno di insulti… Quanta ipocrisia troverebbe il suo sfogo in rabbia…”

“Oh, devo solo riuscire a ricordarmi la password con cui è stata criptata quella parte dei dati. Vedrai, non ci vorrà molto. La mia memoria si fa sempre più definita ogni giorno che passa.”

Lo sguardo del dottore era ormai irrimediabilmente spento. Il grigio delle sue pupille non lasciava riflettere nessuna delle anime delle nere candele.

“Ti posso aiutare, padre?”“Non credo. Non vedo come potresti… Mi dispiace, Thomas,

ma devo cavarmela da me.”Parlava chiudendo gli occhi e sforzandosi di riaprirli di

nuovo… immobile… Dove era in quel momento? In quanti posti la sua mente poteva correre con la velocità di una sinapsi?

“Sibilandoti parole rivelatrici… Aprendo porte ormai chiuse dalla memoria… In una trance, nel nero della perdita di coscienza… In un coma programmato costruito dalla mia voce…”

“Vorresti ipnotizzarmi, Thomas? Non credo che funzionerebbe…”

“Temo di no. Io voglio riportarti sull’orlo del baratro della non-coscienza… Farti rivedere quello che eri, sei e potresti diventare… E farti ritornare indietro…”

Un accenno di sorriso: “Ehi, non è così indietro, Thomas… É solo una password con cui ho criptato i dati dieci millenni fa…”

(Ma in realtà Mostro non riusciva a smettere di scrutare quel corpo di carne e sangue immobile sulla sedia. No, non poteva. Una statua di blasfema natura, un’Eresia di arte macabra. Oscura bellezza intrisa di fascino… Stava contemplando la Morte che esitava con la sua falce!)

“Quante volte sei morto dopo averlo fatto… Quante vite hai scordato dopo?”

Page 99: L'Albero delle Parole

98

“Ormai le ricordo tutte, Thomas. E i dettagli vanno ogni giorno definendosi più chiaramente.”

Thomas inclinò la testa come un drago addormentato, gli occhi si chiusero. Adesso era una scultura immersa in un silenzio di roccia. Le parole uscirono dalle ombre della stanza.

“Ti sei completamente risvegliato, MOSTRO?”“Si è completamente risvegliato l’insieme degli uomini che sono

stato in oltre diecimila anni.”Una lacrima di sangue finì di martoriare quel volto sconvolto.

Come una cicatrice rossa che si riapriva, la guancia veniva tagliata dal sangue nero e pesante. Immoto. Thomas mosse impercettibilmente le labbra. La voce non proveniva più dalla sua gola.

“IO sono sul baratro, padre… Ma ho paura di vedere… la visione mi soffoca il respiro… E’ troppo doloroso per resistere… Per questo assaporo la Morte Bianca…”

Venosta sentì un animale gelato correre sulla sua spina dorsale, zampettando ad una folle velocità. Il presentimento che si trasforma in verità. Comprese da quella frase il rischio enorme che si nascondeva in quella mente perversa. Venosta parlò come se avesse davanti un suicida in bilico su di un abisso:

“Torna indietro Thomas… Non sacrificarti… Non è giusto che tu ti sacrifichi. Potresti diventare felice, quando la Macchina sarà conclusa. Sì, ti renderò felice, nel nostro nuovo mondo! Non c’è ragione di indugiare sull’orlo del baratro…”

Pausa.“Infinito tempo fa… io…. io ero sull’orlo… di un baratro… E

l’ho abbandonato. Me ne sono liberato. E non me ne sono mai pentito. Quella è stata LA decisione!”

Con voce di bambino corrotto dal dolore, Thomas sentì il naso stretto tra il morso delle lacrime. La voce bagnata… tremante… (Aveva in mano la sua vita, era onnipotente sul Mostro!)

“COSA c’è… in fondo al baratro… in quel nero?”Venosta era impietrito. Due statue in un equilibrio troppo

precario. Un errore… Un errore soltanto e Thomas sarebbe saltato.

Page 100: L'Albero delle Parole

99

“Il NIENTE Thomas. Il NIENTE, la FINE. Il Non-Essere che la nostra Ragione non può contenere.

La Morte senza ritorno di tutte le facoltà.”Thomas aprì gli occhi ormai esplosi nel sangue. La voce

divenne il triste canto dei bambini non nati:“LA FINE DELLA STORIA!”“La fine della storia, sì. Era il mio… il suo… il suo compito

assicurarsi che la storia finisse.”Il silenzio era la lama di una spada perversa e posseduta,

magistralmente affilata dal tempo. Ogni parola lacerava i piedi nudi dei due uomini in equilibrio sopra a quel filo. Il dolore in ogni frase, in ogni ricordo…

“…Azael?”"A Z A E L”“Era il guardiano…”Raphael cambiò tono…uscì un filo di voce infantile, morbida,

quasi femminile dalla sua bocca.“Azael era bellissima… Bellissima nonostante fosse un

Guardiano. E le sue ali nere portavano segni di Memoria. Il sangue delle Storie spezzate aveva lasciato macchie sulle sue ali. Bellissima… Ella avvertiva come Distruzione le proprie azioni, ella si dibatteva contro il Destino, Desiderava Mutamento… Iniziò a Pensare, a Sognare…”Come se avesse sempre conosciuto i misteri del non esistere, la voce di Thomas cominciò ad scorrere come un torrente di vento bollente. Le due voci si inseguivano, si rincorrevano, e si fondevano assieme, alternandosi per completare quella storia… Una oscura sintonia.

“…Muovendosi terminava il suo cammino. Guardando cancellava quello che aveva visto. Ma si ricordava…”

“Ma disertò. Ella disertò dai compiti dei guardiani… E la incontrai…”

“Perché non ti cancellò? Perché non portò la parola fine sulla tua pergamena di pelle e sangue?”

“Sangue… Io non avevo sangue… Non avevo carne… Spirito e penne bianche! Ingrigivano, sai? Avevano preso memoria. Vedevo depositarsi sulle mie ali la polvere. Io dubitavo… Io avevo VOLONTÁ! Mi costrinsi ad andarmene… E la incontrai.”

“Da chi? Da chi ti liberasti? Dalla tua natura?”

Page 101: L'Albero delle Parole

100

“Dal mio compito.”“E le ali divennero grigie per entrambi… Ali nere che

incontrarono le ali bianche… Memoria era su entrambe… E cominciasti a sognare con lei… É la tua storia, Mostro? Siete in due, adesso?”

“Sì, siamo due. Siamo due colori. Due mezzi esseri insieme fanno uno.”

“Ma da soli non esistono…”La voce cambiò di nuovo. Venosta riprese a parlare.“In qualche modo, sono esistiti. In qualche modo che non posso

più comprendere.”“Il Risveglio, dunque è il ricordo delle azioni compiute? Altre

Note si sono Risvegliate?”“Credo che nessuna delle Note si sia ancora Risvegliata del

tutto. Credo che nessuna delle Note riesca a ricordare ciascuna delle proprie vite umane. Altrimenti agirebbero diversamente. Anche tu Thomas, la tua esperienza della tua stessa vita umana è breve e parziale. Ma io ne ho vissute migliaia e migliaia… Io ho assaporato tutta la gamma delle emozioni che gli uomini possono provare, e ne ho il ricordo, ora. Non è vero, non è vero che le Note emettono calore restando fredde. Non è vero che le Note sono alieni, le Note sono umane perché lo sono state! Lo sono state così tante volte… Ed ora la loro reazione è stata di credersi Dei alieni. Anche la mia lo è stata… Ma ricordando… Ricordando tutto è diverso. E cos’altro potrei desiderare se non essere umano?”

“FALSI ricordi hanno nella loro essenza… perché troppo dolorosa è la strada che hanno percorso…?!”

Thomas ebbe la stessa sensazione di gelo che aveva scosso il Mostro attimi prima. Il presentimento che si sbriciolava in rivelazione. Quel dolore sottile. E vomitò parole della paura di un uomo. Prima si sentiva onnipotente. Adesso era disarmato, prigioniero di un suo stesso incubo.

“Il trauma della morte ha fatto dimenticare alle note il loro vero essere… E’ orribile!”

“Io non credo nel ‘vero essere’, Thomas, lo sai. Mi hanno detto che le Note vengono da un irraggiungibile Altrove. Forse è vero.

Page 102: L'Albero delle Parole

101

Io, da parte mia, a quanto pare ti ho appena rivelato da dove vengo. Sono una giovane Nota, in fondo. Ma cosa importa da dove vengono? Per tutto questo tempo sono state esseri umani. Come permettersi di dimenticarlo?”

Sperduto. Solo. Un limbo di domande dalle risposte orribili. I suoi orecchi volevano sentire quello che la mente temeva di aver capito.

“Maestro, è possibile che gli Eterni provengano dall’Altrove… E le Note si siano formate con la risonanza Eterni-Uomini?

“Credo di no. Ci sono stati anche per… me? … per LORO degli Altrove. TANTI Altrove. Tante guerre combattute, bianchi contro neri e con le Note nel mezzo. Infinite volte. Ma questo mondo ha qualcosa di speciale… O sono solo io che lo sento così?”

Il passato tornò con la forza di uno tsunami di ricordi. Thomas vacillò su quella corda affilata e tesa tra la Vita e la Morte…

“NO! Anche io appena ho sentito il Pathos… Capii… Ma nessuno sembrava ascoltarmi… Flavius mi ascoltò, ma ho troncato i rapporti con lui… Il disturbo…Era sempre successo che il PATHOS infondesse le emozioni… si cibasse di… Ma qui non succede! Padre… è quì il mio baratro… E’ questo il mio baratro…”

Il Mostro aveva davanti il terrore di Thomas. Lo percepiva in ogni sua vibrazione. Immenso. Soffocante. Doveva espellerlo, o avrebbe saltato per fuggire a quel dolore…

“Spiegami Thomas… Cosa non succede? Vuoi dire che su questa Terra…?”

Il Mostro non riuscì a finire la sua frase. Thomas lo interruppe con la rabbia di mille vittime di una guerra non voluta.

“Sì… IL PATHOS È CAMBIATO! IRRIMEDIABILMENTE CAMBIATO!”

“Su questa terra, e in quella guerra, nei giorni della mia nascita…”

“L’uomo lo sta cambiando… il disturbo… ma non so se è l’uomo… NON SO COSA È!!”

Lo sentiva… Stava per saltare… Doveva fare qualcosa. Ma era impotente.

Page 103: L'Albero delle Parole

102

“Per la prima volta vorrei RICORDARE ancora più indietro, ricordare meglio quello che accadde prima che io nascessi… E cosa li CAMBIÓ permettendo la mia nascita? …non me lo ero mai chiesto… Perché accadde che io iniziassi ad ESSERE?”

L’epitaffio di Thomas. Il terrore che si fece udire in quelle parole.

“ECCO IL MIO BARATRO, MOSTRO…”La voce del Dottore era un rantolo di odio per la propria natura

inconsapevole… Come se il limite di “essere uomo” lo continuasse a vincolare a quel dolore profondo.Era davanti all’infinito… E non riusciva a vederlo perché esisteva. Sottili lacrime tagliarono il suo volto, deformato da un’espressione aliena di orrore incomprensibile…

“Davanti ad uno specchio vedo i miei occhi riflessi… E nel riflesso vedo i miei occhi… Ed ancora il mio riflesso… Ma esisto… SONO UOMO… E pur essendo davanti all’infinito… Dentro i miei occhi… Io vedo il nero…”

Il Mostro percepì il desiderio del Dottore di saltare in quel limbo di orrore… Nella Fine delle Storie.

E ancora cercava disperatamente di prendere tempo, sorpreso dalla propria impotenza, dalla propria incapacità di fermare quell’anima che scivolava via dalle trame del Destino…

“So come ti senti… Vorresti essere uno specchio per poter vedere il riflesso puro di uno specchio dentro uno specchio…”

“Ma sono uomo…………”Si accasciò stremato… Le forze lo abbandonarono… Un timido

singhiozzo… nascosto… velato… dal dolore più enorme che un uomo possa contenere…

“THOMAS!!”Raccolse la testa di Thomas nelle mani, per non lasciarlo cadere

nel vuoto. Gli asciugò le lacrime.“PERCHÉ??????”Il grido proveniente dall’interno più profondo echeggiò nel

ronzio di fondo del silenzio. Le pareti ascoltarono e tremarono a quella domanda. E rimasero immobili, senza risposta. Per tremare ancora in quel dolore incontenibile che sfuggiva dalla carne del Dottore…

Page 104: L'Albero delle Parole

103

“IO NON SONO UN UOMO!”Come si può stringere un morto, e sentire le sue parole? Come

poteva Raffaele consolare un morto che non voleva vivere? Perdita del controllo. Singhiozzi. Il flusso delle acque calme si era spezzato.

“THOMAS! Thomas… Thomas è così bello essere UOMO… Io non vorrei mai più essere altro…”

Immerso in quel vuoto vomitava con lacrime di sangue parole nel mondo di carne… La mancanza di speranze, la voce di un prigioniero in una gabbia da cui non fuggirà mai.

“Perché ho questo fardello?! PERCHE’ DESTINO MI HA INCASTRATO IN UN CORPO DI UN UOMO?! perché… perché……………perché………per…ché….Padre…….?”

La droga strinse Thomas nel suo ultimo sadico abbraccio. La voce del Mostro era fluida e pesante.

“ThomasThomasT h o m a sT h o m a s………..

T

H

O

M

A

S

!“

Venosta corse in cerca di soccorso medico…….

Page 105: L'Albero delle Parole

104

….....…….Buio nella stanza. O era lui che non vedeva quelle luci

accecanti? Quel triplice disco di luce sulla sua testa… Dove lo aveva già visto? Sembrava un ufo… un disco volante… Non riusciva a pensare, era troppo fatto, conosceva quei momenti, “meglio aspettare che passi”…

….….....…….(Cazzo che male… Non respiro… e non riesco a vedere dove

sono… Sarò morto? Lo spero… o forse no? Vuoi vedere che mi sono sparato dell’ero di merda nelle vene…)

AHI CAZZO! voci lontane, piene di un riverbero assordante… Spazio di gomma, il tempo surgelato in un limbo di buio malleabile. (Ed ora che devo fare….? Mi verrà a prendere qualcuno o dovrò andare io? Ma che cazz…) …AHIIIII!

Rumore di ferri sottili che ticchettano, nessuna percezione del corpo, meno che per un dolore intangibile e profondo. Odore di etere… (Etere? che cazzo c’è l’etere in questo cazzo di posto?!…. sono finito in un posto che puzza di etere…) di nuovo il rumore dello strofinio del ferro sul ferro… (Ma dove sono? Cosa sono? Aspet…Già… Mi sono fatto, parlavo con il MOSTRO e poi quel dolore al petto…. Ma sono ancora fatto o sono morto?)

Un’esplosione nella carne, tra la quarta e la quinta costola. Con tutta la prepotenza cieca della sofferenza, il corpo di Thomas fu squarciato da un orribile tubo di gomma. Il corpo ritornò a farsi sentire, inondato dai messaggeri del dolore… (Che dolore,

Page 106: L'Albero delle Parole

105

merda… che dolore… Ma allora vuol dire che sono vivo… SONO VIVO!)

La voce uscì deformata dalla droga… Sembrava un barbone troppo ubriaco per aprire gli occhi…

“So..sONo VIvo?!”“Si rilassi, Kaneirzein: la stiamo operando. Stiamo inserendo il

tubo flessibile del 24 per il drenaggio di una falda toracica. ‘Pneuma toracico’, non è niente di grave, ma è un po’ doloroso…”

“Si rilassi, Kaneirzein: la stiamo operando. Stiamo inserendo il tubo flessibile del 24 per il drenaggio di una falda toracica. ‘Pneuma toracico’, non è niente di grave, ma è un pò doloroso…”

(Puttana del cazzo! “niente di grave”… Mi state martoriando, stronzi… Un tubo del 24… mettitelo dove da anni non entra più niente il tubo del 24 stronza…) Un attimo… e la sua amante di bianca essenza riprese a scuotere forte il suo sangue… (…Eccoti…meno male che non mi hai abbandonato…. almeno tu….almeno tu…….)

.

..…….…...Un lampo, quella visione… Un traslucido essere alieno,

trasparente solo in parte… La sua struttura non permetteva di distinguere con chiarezza i suoi contorni… Se avesse avuto un’immagine definita sarebbe apparso un serpente dalla testa enorme, come uno spermatozoo, munito di fauci e privo di occhi, coperto di bava viscida ed appiccicosa. Bianco come il lattice o la neve dell’Everest. Ma era trasparente e faceva ancora più schifo. Strisciava con folle velocità inseguendo il Thomas in un labirinto di mura bianche… Odore stordente di Etere… il respiro ansimante, disperato, unico angosciante suono. Gli balzò addosso con rabbia e con un orribile verso stridente, forandogli il costato. Thomas sentì quella viscida testa penetrare nel suo fianco,

Page 107: L'Albero delle Parole

106

insinuarsi spaccando la carne tra due costole, arrivare al polmone e cominciare a succhiare… Si gettò in terra, urlando in preda ad un ancestrale terrore misto al lancinante dolore. Cercava di estrarre l’orribile animale tirandolo per la coda, unica parte sporgente dalle sue membra, ma era come se fosse attaccato con filamenti appiccicosi come pseudopodi all’interno del corpo. L’essere alieno si cibava della sacca d’aria e dei suoi liquidi interni, succhiandolo da dentro. Le mani sguisciavano dalla coda contorta e frenetica unta di un liquido, di un siero velenoso… Non riusciva a capire come liberarsene, il dolore lo stava annientando… La disperazione lo prese tra le sue braccia, mentre immobile sentiva il ventre dell’animale gonfiarsi per il fiero pasto che stava consumando. Era impotente… sperava solo che la Morte arrivasse tempestiva a salvarlo. Ma con un grido sottilissimo e stridente, l’animale sguisciò zuppo di sangue e grumi fuori dal costato, col guizzo di un’anguilla di mare, forse sazio del nutrimento che aveva succhiato. Si lasciò dietro la figura sudata ed ansimante del dottore ed una vomitevole scia di bava…. E sembrò voltarsi… Come per far capire che non sarebbe stata l’ultima volta che si sarebbe cibato…..

….....…….Il tempo di un respiro….“ARRRGGGGGGHHHHH!!!! TIRATEMELO VIA! TIRATELO

FUORI DA ME!!!!”“Si calmi, Dottore, è tutto passato!”“PASSATO UN CAZZO!!!!E’ DENTRO DI ME!!! LEVAMELO!!!

LEVAMEEEEELOOOO!!!!!”“XXXXXX-XXX, 2cc, endovenoso, presto!”“NOOOO!!!! SI STA CIBANDO DI ME!!!! …SI STa cibando

di……si sta… ci……

Page 108: L'Albero delle Parole

107

…..…......La mano sottile e bianca di Raffaele accarezzò teneramente il

suo volto sudato.

Page 109: L'Albero delle Parole

108

VI. EURIDICE ELETTRICAdi Thomas Kaneirzein & Lord Raphael Von Matsch

23 Novembre 1999Barcelona, Hospital de Sant Pau

Il rumore dei macchinari dell’ospedale, sottile e fastidioso: un insieme di piccoli ronzii di fondo uniti a odiosi bip e respiri artificiali. La maestosa architettura neogotica dei corridoi, le luminose vetrate… non possono nascondere l’odore di medicine e di etere nell’aria.

Il rintocco perfetto dei passi nel corridoio. Cammino in silenzio, io, Raffaele Venosta, il Mostro. Scosso. Ma il copione mi impone di darlo a vedere il meno possibile. Che io sia un potente immortale o semplicemente un potente uomo d’affari, il cliché è insindacabile: occhiali scuri calati sul nulla.

Ma sono scosso, davvero. In apprensione, come è frequente ormai. Perché vado a trovare Thomas. Per la decima volta in una settimana.

Ricoverato d’urgenza… una forte crisi respiratoria dovuta ad uno “pneuma toracico”… così aveva detto il Medico. Come se alla sua salute occorresse un nuovo malanno. Cazzo.

I miei passi regolari tra i pilastri e le arcate. Falsa cattedrale dai muri color sangue. Ancora una settimana in un dannato ospedale. Ho scelto per lui il più bello del mondo, ma pur sempre un ospedale. Ma sono anche felice, felice sì, perché lui ha ripreso conoscenza. Sono felice, perché ora sta meglio. Anche se sarà come sempre di cattivo umore. Thomas… Sono venuto per riportarti a casa, vuoi?

Camera 2, Letto 26. Luce al neon. Fredda e cupa. Lui siede sulla poltrona di pelle nera imbottita, addormentato davanti allo sfarfallio del vecchio schermo poggiato sull’antica scrivania di mogano.

Ovunque libri ed appunti, fogliacci accartocciati e post-it. Formule, equazioni, grafici e disegni ovunque… “La sua eredità”, la chiama lui… Un quadro allucinante in una stanza fatta di

Page 110: L'Albero delle Parole

109

Caos. Metallo freddo e umido sulla superficie del mio cervello. Striscia, stridente. Non mi piace. C’è qualcosa di anomalo…

Silenzio… Troppo silenzio, nessun movimento…Il respiro mi muore in gola, la mia voce è un sibilo freddo:

“Thomas?”Inspiro. Un odore allarmante. Adrenalina in circolo. Il senso del

combattimento che si attiva. Domatore di Ombre. Pochi passi. Con circospezione. Come muovendomi su un campo di battaglia. Come camminando sulla coda di un drago addormentato. Mi guardo attorno, cerco le ombre negli angoli della stanza. Con uno sguardo, comando di coprirmi le spalle… Poi quel movimento…

Una caduta a rallentatore drammatica e rivelatrice. La sagoma di Thomas rigida come un manichino che crolla esanime dalla sedia. Mi muovo veloce, scatto verso di lui… ma i miei movimenti sono pesanti e rallentati. Attraverso uno schermo di adrenalina i secondi scorrono lenti come ore.

Ho tutto il tempo di fare i miei calcoli, tutto il tempo di sapere precisamente che non ce la farò… Ma il mio movimento non cambia.

Invano, disperato, mi getto ad afferrarlo… Impotente, lo vedo precipitare dall’orlo di una voragine… La Voragine che ha intravisto, cercato, inseguito…Un tonfo sordo. Immagini innaturalmente prive di velocità.

I lunghi capelli gli coprono il volto sudato e pallido, le labbra violacee serrano il suo mento in un ghigno di dolore… Occhi aperti su un vuoto immobile…Sono chino su di lui. Solo il movimento incessante dei miei occhi rompe il peso del silenzio. Angoscia. Le mani mi tremano. Cerco affannosamente, disperatamente un segno di vita… Il minimo segno di vita… Tocco il suo collo… è freddo, rigido, pietra… Il suo polso… nessun battito…

La mia voce emerge con le lacrime, e non la sento…“…T…

…h…

Page 111: L'Albero delle Parole

110

…o…

…m…

…a…

…s….

!“

Lascio il braccio… il suo braccio… rigido… senza vita… cade… cade sul pavimento mentre resto in attesa del suono… del suono della pietra che si spezza…”. . . N O O O O O !”

Mi azzanno la lingua, soffocando l’urlo nel caldo sapore ferroso del sangue. Un barlume di vita. Ma è la mia. Adrenalina…

E Thomas immobile sul pavimento.”Come cazzo fa una persona a morire così, in un ospedale, sotto osservazione?! Non è possibile, non ci credo… Thomas! Non tu…”

Incredulo… Scuoto il capo, osservo il tuo volto cadaverico. Non ci credo, non riesco a crederci. Gli occhi privi di quella luce e quei riflessi della vita, grigi, spenti. E immagino ancora che tu mi stia guardando… ma tu sei…

Il tuo corpo giace rigido e cianotico sul pavimento freddo dell’ospedale.

“Gli infermieri… La rianimazione… LA RIANIMAZIONE!!”Pensieri, movimenti, incerti, scoordinati, un piede verso la porta

e gli occhi verso di te. E non riesco a crederci.“E’ morto, Raphael. E’ una cosa normale, in fondo”“No, Azael, noooo! Come posso permetterlo?”“Puoi impedirlo?”“Sì, devo, voglio impedirlo!”Esito sulla soglia della porta, e non riesco a non continuare a

guardarlo. In quello stato di bellezza orrenda. E vedo, vedo quella mano serrata in un ultimo insensato gesto… Il laccio di gomma come una serpe d’acqua che stritola la carne irrigidita, viola… Quelle vene gonfie…

Page 112: L'Albero delle Parole

111

“No, cazzo, no, cazzo, no…” Sto piangendo.“INFERMIERAAAAAAA!”Crude immagini della realtà nuda, vecchia e sudicia

mendicante che si spoglia in pubblico per attrarre una briciola d’attenzione… Quel rivolo di sangue seccato come una lacrima del suo corpo da tossico… OVERDOSE. La realtà.

“Infermiera! Qualcuno! Sta MORENDO!! RIANIMAZIONEEEEE!!”

Un silenzio innaturale… Le proporzioni sfalsate… Immobile immagino me stesso gettarmi per terra con la testa tra le mani, piangendo, il volto deformato in una smorfia di angoscia… Solo…

“Non ti sei ancora abituato, Raphael?”“No, Azael, no… non così!!”I passi nel corridoio sembravano provenire da un tunnel

profondo… Echeggiavano come zoccoli su un duro selciato. Cosa fare? Sono inutile. Inadeguato. Impotente.

Entrano le infermiere, poi il dottore, in una corsa disperata. Un defibrillatore… un ambu… Rapidi gesti e voci agitate dalla morte. Sono una linea di niente in un angolo, e taccio. Voci come colpi di pistola che mi sbattono da un lato all’altro della stanza… Il volto immobile imperlato di sudore… Mentre metà di me ride della metà che piange. Le due piastre aderiscono al petto, denudato del rosso pigiama di raso…

“FZZZZZZZZZZZZZ!!!!!…RESPIRA….1,2,3……FZZZZZZZZZZZZZ!!!!!… RESPIRA… 1, 2, 3… …FZZZZZZZZZZZZZ!!!!!… RESPIRA…”

Tempo… Fuggi… Sabbia… Polvere… Ti odio… Polvere… Speranza uccisa… Morte… Ti odio… Morte… Non portarlo lontano da me…Il suo corpo sembra un manichino guidato da quelle terribili scosse. Si piega, si contorce, rigido, obbligato da quella vita elettrica ed artificiale che torce i suoi muscoli, ma poi fugge, fugge via, come un alito di vento… Neve sul terreno bagnato, prima di tingerlo di bianco si è sciolta in fango.

Il suo volto completamente privo di ogni espressione, di ogni emozione, mentre viene percorso, stuprato dalla corrente… Un’immagine di una bellezza orribile…Spezzo questo pensiero,

Page 113: L'Albero delle Parole

112

odiandomi. Immagino la mia voce farsi folgore. E la folgore danzare attraverso il metallo dei cavi, serpeggiare attraverso la pelle per prendere a schiaffi il suo cuore e svegliarlo….

“…1, 2, 3… FZZZZZZZZZ!!!!!… Respira… Lo stiamo perdendo!”

No… no… no… no… no… no…”Adrenalina… 1, 2, 3 FZZZZZZZZZZZ!!!!!… Respira….. 1, 2, 3 FZZZZZZZZ….Respira…”

“E’ morto da troppo tempo…. non ce la faremo mai!”Il dottore è una maschera di rassegnazione e sudore… Quello

sguardo perso dietro gli occhiali appannati, il camice bianco come la neve che non riesce a far posare su Thomas. Gli sguardi delle infermiere si incrociano in una triste complicità. Respiri affannati contemplano la Morte. (Il dottore si asciuga il sudore dagli occhi premendo con le dita protette da guanti di lattice le palpebre stanche e pregne di lacrime non piante. Un attimo di magnifico buio… In tutti quegli anni di lavoro non si era mai abituato a quella blasfema bellezza. Non si era mai potuto permettere una lacrima… un pianto… una debolezza. Prepotente la Nera Signora riprese il suo posto da primadonna nella sua mente. Ed una nuova forza lo investì, scuotendolo del desiderio di vita, reagì, non si sarebbe piegato alla Morte…)

“Continuiamo, per Dio! Finché non avrò scaricato questo fottuto attrezzo!”

“….1, 2, 3…FZZZZZZZZZZZ!!!!!!!!….respira….”Osservo la squadra agire in silenzio. La loro disperazione.

Scivolo in ginocchio accanto al “fottuto attrezzo”. …Sottovoce …Il Nome del Potere. Un Comando della Volontà. Cento Penne Bianche di Ali. Cento Penne Nere intinte nel Sangue. La mia voce è folgore. Duecento sillabe di nomi morti…

“FZZZZZZZZZZZZ!!!!!! respira…1, 2, 3…FZZZZZZZZZZ!!!!!! respira…..”

Sfioro con le dita il defibrillatore, immaginando di trasformarmi in corrente elettrica…

“THOMAS!! THOMAS!! IO LO SO CHE MI SENTI THOMAS!!”

Page 114: L'Albero delle Parole

113

L’odore della pelle bruciata è insopportabile… Il corpo annerito dal bacio delle scariche… I peli ormai bruciati e arricciati in un orribile abbraccio di morte… E quell’assordante riga verde continua dall’orribile suono…”biiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiii”

Zampette d’insetto dal palmo della mia mano affondano non viste nella scatola di metallo… la corrente delle mie sinapsi affluisce nella macchina…

“Mi senti, Thomas? Sto venendo a cercarti…”* * * * * * *Sono elettricità. Foro la pelle di Thomas e viaggio lungo i suoi

nervi. Sono un drago con ruote di gomma e una coda di scintille. Sfreccio in una tenebra tempestata di puntini di luce…Vengo a prenderti, Thomas. Una fitta autostrada intrecciata di tessuto neurale. Una ragnatela perfetta e complessa di contatti e di svincoli. Sfreccio cambiando direzione: ho sempre conosciuto la via. Scintille dietro di me. Il vuoto davanti.

Io lo so che sei ancora qui… Ancora qui…Uno schermo nero… liscio… vuoto… nel vuoto della morte. Un canale che ha perso il segnale, e dentro quell’immagine… Il deserto che si sbriciola piano piano in miliardi di piccoli ‘0'…Presto prima che tutto sia svanito…Mi tuffo nello schermo nero… Schegge di vetro ovunque…

Con il fragore di una tormenta di sabbia le infinite sequenze di piccoli ‘0' mi danzano davanti…

Un piccolo ‘1' cerca di fuggire dietro di me… ma viene afferrato ed inglobato nell’assurda ragnatela…”Nooooo!”

Una sequenza indecifrabile che descrive la morte…”01010101? grido “11111111 11111111? Dalla mia voce scaturiscono uniti una serie di minuscoli ‘1' annodati e contorti… Sfaldano il muro di neon intrecciato e ricreano la memoria del corpo di Thomas… Ma Thomas cade… Cade a terra e io non posso afferrarlo… La memoria del suo corpo cade a terra, disgregandosi in ogni sua unità…”Thomas!”

Ed eccole di nuovo fagocitate dal mare della Morte… Davanti allo schermo una figura si lascia intravedere, prende forma, vestendosi di ‘0'. Un manto stracciato che ondeggia scosso

Page 115: L'Albero delle Parole

114

dall’assenza di vento. Il volto un cranio deformato dallo sfarfallio dei numeri. Solo due mani senza carne né nervi stringono nelle inconsistenti ossa l’icona di una falce.

Levita immensa davanti a Raphael separandolo dallo schermo vuoto…

* * * * * * *Azael porse la mano a Raphael, per aiutarlo a rialzarsi. Raphael,

piccolo come un bambino, si issò sulle spalle di Azael, il gigante… I suoi occhi di ghiaccio ardente fissi sulla tetra apparizione…

“Chi sei?”Un sibilo disumano echeggiava in quella totale mancanza di

suoni: il lamento congiunto di milioni di vittime. Per un attimo Raphael e Azael udirono quella di Thomas… Thomas… forse era dentro di lei… imprigionato e nascosto nella matrice dei suoi ‘0'…

“Restituiscimelo”.“Restituiscicelo.”Un suono distorto… Orribile… Il teschio si mosse sfarfallando,

fissando nella retina di Raphael un’orribile sequenza di istantanee. La Morte che ride… La figura aprì il suo manto di ‘0' e stese le braccia in gesto di sfida. Chinò l’orribile volto di assenza-di-vita e si mosse levitando in direzione di Raphael…

“Mi riconosci?”, disse Azael carezzando i capelli lucenti di Raphael.

“Io sono sfuggito ad un baratro più profondo. Credi che io possa temerti?”

La figura si arrestò nel suo silenzio.“Noi siamo 01010101… Siamo PIU’ COMPLETI…SUPERIORI!”Due piccoli ‘0' arrestano il loro cammino dove orbite scure e

profonde deformandosi davano una sorta di espressione a quella forma di non-vita… Cominciarono a roteare in ogni direzione delle tre dimensioni… Presero il colore del sangue… del sangue di Thomas…

“Noi abbiamo una opzione sulla sua anima. E’ nostra. Noi la pretendiamo indietro.”

Page 116: L'Albero delle Parole

115

Quel sangue che aveva contaminato con quella merda di eroina…

“THOMAS!” gridò Raphael, agitandosi tra le braccia di Azael…“THOMAS!”Due sfere rosse come le labbra di un’odalisca cominciarono a

secernere strisce di ‘1' dal colore del sangue… Caddero sulla sabbia lordandola del suo colore… Le mani di Raphael, piccole mani di bambino fatte di 11111111, si frapposero tra il sangue e la sabbia a raccogliere quelle gocce nel loro palmo.

“Thomas è NOSTRO!”Ricordi nella mente del ragazzo… Quelle lacrime di sangue che

aveva pianto quando lo aveva sorretto… Che aveva asciugato con amore infinito… Perché gliele stava rendendo? Stavano superando la morte… Stavano fuggendo alla morte… Dense d’amore… per quella donna… e per Raphael… Due bocche all’unisono in una sola voce:

“Sono qui per te, Euridice. Sono disceso alla porta degli Inferi. Torna da me, mi appartieni! IO NON TI PERMETTO DI LASCIARMI!”

La figura ammantata venne scossa e sfasata… lo spazio intorno a lei ne risentì piegandosi… Raphael e Azael fronteggiavano quell’essere rinchiuso in una sfera di assenza di spazio. Quel volto di zeri intrecciati aprì la bocca denudata dalla pelle. Una serie di orribili denti delinearono una spettrale smorfia di dolore. I due globi carmini ebbero un riflesso violaceo. Un sussulto fece tremare la fragile consistenza del manto lacerato…. La bocca si stava aprendo e chiudendo ancora… Come se stesse simulando il pronunciare di un nome:

“M….O…..S…..T…..R…..O……”La figura si ritrasse di colpo.“Torna da me…”Sferzò la falce in una rabbia inaudita, il grido sottilissimo, di

rabbia e odio profondo per quella inutile piccola cosa che voleva sfuggire dalla sua essenza… Azael levò un grande braccio per coprire Raphael, intrappolando con la sua carne e ossa di 00000000 la lama della Morte! E sorrise.

Page 117: L'Albero delle Parole

116

Raphael si gettò in avanti, le mani piene del sangue di Thomas, per afferrare l’ombra di colore in quegli occhi…

“Io, che fui il Messaggero della Guarigione, a costo di invocare il mio Potere Rinnegato mi opporrò alla tua perdita… non ti lascerò andare via da me… THOMAS!”

E le sue labbra sfidarono le zanne di ‘0' del teschio, cercando di raccogliere il respiro di Thomas da quel cimitero… La Morte si ritrasse in un ultimo disperato gesto. Di nuovo quel disturbo che deformò lo spazio, echeggiò nella sfera di nulla come il battito di un cuore… La lama della falce era incastrata nella trama degli ‘0'. E quella forza dell’esistenza la sferzava con i suoi ‘1'. Poteva la morte morire esistendo?

“RESTITUISCI CIÓ CHE É NOSTRO, e vattene…”Forzato da qualcosa al suo interno, il volto scheletrico si mosse

di nuovo:“…..P..E…R..D…O..N..A…M…I…………A….I…U…T…A….M

…..I……”E tutto divenne una danza frenetica di stracci e di ossa, di fili di

‘0' che rilucevano in un macabro ballo… Un canto sembrò echeggiare in lontananza…

“Sì sono io la morte e porto corona… e sono di tutti voi… signora e padrona…”

Azael, perdendo sangue da un braccio dilaniato, si avvolse attorno a Raphael per proteggerlo… Ma Raphael piangeva, e cercava con le labbra il respiro sperduto di Thomas…

“Antichi noi siamo quanto te, Morte…” — disse il gigante nero — “Guardiano e Messaggero degli Assoluti rinati a nuova forza. Più e più volte all’argilla o al metallo abbiamo impartito la vita… Noi non riconosciamo il tuo dominio! Noi siamo oltre la tua giurisdizione.”

Lo interruppe Raphael, la voce di un bimbo in lacrime: “BASTA CON TUTTO QUESTO! Ridacci soltanto THOMAS!”

Come partorito dalla matrice di ‘0', un uovo di ‘1' intrecciati venne vomitato dalle fauci della morte. Si udì un suono enorme, smisurato… come un lampo… un tuono dal boato stordente …FZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZ…..

Page 118: L'Albero delle Parole

117

La morte si ritrasse, occhi in fiamme… Indicò con un dito ossuto e contorto verso quell’uovo di roteanti ‘1'… [ Thomas Thomas Thomas Thomas Thomas Thomas] Si divise a metà… ed a metà ancora… Raphael e Azael si avvolsero attorno all’uovo a ricoprirlo… E si ritrovarono separati dalla sua scomposizione… Pian piano lo spazio si contorse su se stesso. Per un undici volte.

Un boato echeggiò ed sarebbe echeggiato in eterno. Un nuovo terribile, affascinante Big-Bang. Un’esplosione che solo la vita può causare. E la sabbia cominciò a formare le dune…Sorrise Raphael, vedendo 0 intrecciarsi a 1, 0 intrecciarsi a 1… 01010101, frammenti di una realtà vivente.

Sorrise Azael cingendo con un braccio il suo piccolo amante… L’altro braccio ciondolava distrutto, ma lui ignorava il dolore. Spalancarono le braccia e le dita, gli occhi e le labbra, per abbracciare il calore della coscienza di Thomas che ritornava potente. Un respiro lontano mosse l’aria trasformandola in vento.

Ancora un rumore immenso lacerò il silenzio: era la vita che tornava nel deserto della mente di Thomas. Sabbia calda nasceva dal manto di ‘0'…

“Non lasciarmi mai più…”* * * * * * *Il vento riprese a soffiare con rinnovato vigore. Spalancai le ali e

mi lasciai portare dal vento del tuo respiro. La sabbia si aprì rivelando il suo tesoro. Un corpo nudo, immobile e vivo… Respirava a fatica in una placenta di sabbia bagnata. Un corpo di adulto scolpito nella sabbia.

“Sei debole amico mio, e ancora freddo… Sei ritornato da un lungo viaggio e da un profondo abisso… Ma non ti lascerò mai più andare via!”

Rannicchiato in posizione fetale, attendevi di rivedere la luce. Mi sdraiai sul tuo nudo corpo di sabbia, avvolgendolo con il mio, baciandoti dolcemente sulle palpebre chiuse, per incoraggiarti a risvegliarti.

Un possente tremito smosse le dune e disegnò mille onde… Dal profondo, un boato preannunciò la nascita.

Sette steli di roccia si alzarono di nuovo dalle sabbie, prepotenti ed incuranti di cosa smuovevano: la vita non aspetta quando

Page 119: L'Albero delle Parole

118

deve fiorire. Tutto tremava, e finalmente anche i tuoi occhi ebbero un fremito.

Il vento soffiava con forza incontrollabile, la sabbia pungeva come spilli affilati, la sabbia si intrecciò in trame e matrici di fili. Si annodarono ancora.

“Sono con te, amico mio.”E i tuoi occhi si aprirono in quella nuova trama.“Questo è solo l’ennesimo parto. Non temere il dolore.”I tuoi occhi si aprirono accogliendo la luce… La retina iniziò a

stimolare il cervello con la mia immagine… La bocca si aprì per lasciar uscire un filo di voce: “…..P…..A….D….R…..E……….”

“Hai visto? Sei riuscito a tornare da me… Lo sapevo.”E riflesso nei tuoi occhi vidi il mio sorriso luminoso. Come

quello di un bambino. O di una madre.* * * * * * *“1,2,3……..RESPIRA………FZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZ!

”“PIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIII…PIPIPPI………PI…….PI………PI…

…”[..zerounozerounozerounozerounozer...]“É tornato! Dottore presenza di battito cardiaco!”“cough… cough…”Mi rialzo a fatica dal pavimento della stanza d’ospedale.“Smettere con il defibrillatore! Ossigeno, presto!”“Battito?”“Regolare, dottore! E’ un MIRACOLO!”La frenetica attività dei medici e degli infermieri non mi

spaventa più… Ora io ho una certezza… Ora io so…“Attività cerebrale?”“E’ un vulcano dottore! È un miracolo!”…che non mi lascerai mai più.* * * * * * *Thomas mosse impercettibilmente un dito.

Page 120: L'Albero delle Parole

119

VII. SIAMO NATI OGGI... SIAMO!di Thomas Kaneirzein e Monica Rewinsky

(Terzo in comodo Lord Raphael)

(Barcellona, 27 Novembre 1999)

Migliaia di anni. Secoli. Un istante. Paesaggio surreale. Un posto lontano da tutto. Un luogo dove è facile perdersi d’incanto come in una fiaba. Splendida cena. I palati ne sono ancora estasiati. I profumi dei vini e delle pietanze volano ancora nell’aria. Monica e Raffaele parlano ancora. Di nuovo sulla terrazza. La luce che investe l’ambiente è minima. Un magnifico cielo stellato li copre dall’alto. Un posto lontano da tutto. Un luogo dove è facile perdersi d’incanto, come in una fiaba.

“Bene, arriva il caro Thomas” sussurra Raffaele, mentre porta alle labbra l’ultima goccia dello squisito nettare rosso che stava gustando in compagnia di Monica.

Thomas. Monica sobbalza. Ma non lo lascia vedere. Tenta di mantenere legate tutte le emozioni che la investono. Il profumo del vino l’aiuta a distrarsi per un istante.

“Thomas, bentornato. Come ti senti ora?” Sussurra Monica sorridendo. Si avvicina a lui delicatamente e gli accarezza i capelli con dolcezza. Ora sta meglio. Anche lei. Forse anche grazie al discorso fatto con Raffaele. Già, le parole di Raffaele.

Un posto lontano da tutto. Un luogo dove è facile perdersi d’incanto, come in una fiaba.

“Molto meglio, Monica, Molto meglio. Sai? Ho avuto la conferma che le orecchie volevano sentire.” La calda voce di Thomas si mischia al profumo del vino e alla flebile luce delle stelle.

“Ne sono felice, qualsiasi cosa ti abbia fatto ancora sorridere come ora, sia la benvenuta Thomas. Questo luogo è un incanto. Il caldo odore di salsedine mi fa dimenticare tutto… Qual è la vostra magia?” Monica sorride anche a Raffaele.

Page 121: L'Albero delle Parole

120

“Il mio cuore sapeva cosa erano diventate le Note…”. Thomas perde lo sguardo lontano oltre l’orizzonte del mare. Di nuovo una smorfia di sottile dolore sul suo volto.

Raph si schiarisce la voce, interrompendo la breve pausa di silenzio che si era creata tra loro. “Thomas, caro… Credo che Monica volesse intendere altro… se per una volta riesci a lasciare da parte le Note…”

“Sì Raffaele, sarebbe bello dimenticare questi discorsi per una volta. Ma se Thomas ha piacere di parlarne, io lo ascolterò volentieri.” Monica si adagia comoda tenendo il bicchiere di vino stretto tra le mani su una colorata poltrona.

“Le mie orecchie volevano sentire quei cori sgraziati…” aggiunge ancora Thomas.

“Thomas… Mi dispiace per tutte queste incomprensioni con Le Note. Devi ammettere però che molte delle tue parole sono state davvero forti, tesoro. Mi auguro che ciò non porti nessuna conseguenza, me lo auguro di cuore!”

“Dovete dare tempo anche alle Note di crescere…” Interviene Raffaele. Mentre parla si allontana con calma verso l’entrata di casa per lasciare il terrazzo.

“Sì, sono d’accordo… anche molte di loro devono crescere, anche molti di noi…” aggiunge Monica.

“Già, e bisogna che cresca anche il piccolo Thomas Kaneirzein…”

Raffaele si ferma e lo osserva con amore di padre. In silenzio il suo sguardo si posa sugli occhi di Thomas.

“Da adesso… finché vivrò… darò loro il tempo… io… che ne dispongo per una vita soltanto.” Thomas pronuncia queste parole senza mai allontanarsi dagli occhi di Raffaele. Monica sente un leggero imbarazzo ad essere lì con loro. Sono molto legati. Lo sente. Eppure i loro sguardi nascondono anche un senso di sfida sommesso, appena percettibile.

“Aspetta… solo una domanda… Raffaele, aspetta…” Monica spezza il silenzio ancora.

“Dimmi, Monica…” Raffaele si volta verso di lei.Un leggero imbarazzo nella voce tradisce Monica. “Sì… Ecco…

Nei tuoi occhi, Raffaele, a volte vedo una luce particolare che non

Page 122: L'Albero delle Parole

121

so definire. Ti dico cosa sento, così come lo sento. Da quando sono risvegliata in Pathos ti osservo e seguo i tuoi passi e le tue parole, vedo una Nota, un uomo, e ancora una Nota divisa a metà… ma ieri ho capito perché, ti ringrazio per avermi regalato una parte di te. Solo, a volte non sono sicura che tu non possa esplodere nella tua parte peggiore. Anche contro di noi. Noi che dici di amare. E contro Thomas. Thomas che dici di amare. C’è una luce in te, a volte mi rapisce. A volte mi confonde.”

“Monica! Posso essere stato crudele. Posso esserlo ancora. Uccido, a volte. Ma mai coloro che amo… Mai!” Pronunciando quest’ultima frase, lascia la terrazza.

Monica guarda Venosta allontanarsi. Segue i suoi passi leggeri in silenzio con lo sguardo. Monica e Thomas restano soli. Un posto lontano da tutto. Un luogo dove è facile perdersi d’incanto, come in una fiaba.

“Siamo soli ora, Thomas. Sono in imbarazzo. Non credevo potesse succedermi.”

“Hai fatto arrabbiare Venosta e sei in imbarazzo perché sei sola con me? A volte non ti capisco… amore…”

Thomas ha la voce calda e sensuale. Quella voce rimbomba come un’eco nel cuore di Monica. Il vino, gustosissimo e profumato, le bagna ancora le labbra.

“L’ho fatto arrabbiare, Thomas? Dici? Non credo, lui è andato via per noi. Lo so… me lo ha detto prima che tu arrivassi. Cosa ho detto che non va?”

“Perché, Monica…” Thomas ha lo sguardo triste mentre la guarda.

“Mi spiace, pensi che lo abbia offeso? Spiegami, Thomas, non capisco!”

“Il Mostro non si offende davanti a me… davanti a te… ti ha gettato la risposta nel silenzio. È solo, Monica. Viene etichettato e temuto perché è diverso. È come un nero in una tribù di 48 bianchi. Ed io non capisco il perché di tutto ciò e soffro per lui.”

Thomas prende il suo vino. Lo sorseggia con calma. Chiude gli occhi. Come se stesse gustando il nettare più dolce della terra. Un posto lontano da tutto. Un luogo dove è facile perdersi d’incanto, come in una fiaba.

Page 123: L'Albero delle Parole

122

“È solo, Thomas? Non lo siamo tutti? Ha il tuo amore, la mia ammirazione. Certo, anche se non condivido le sue idee. Non solo la nostra, tu hai fratelli, sai? E molti restano affascinati da lui. Molti.”

Siamo soli. Tutti siamo soli. Per un istante Monica si perde nei suoi pensieri.

Una voce lontana. Un’immagine lontana…“Siamo soli, tutti, Thomas.” aggiunge ancora. Poi si volta e lo

guarda.”Ascolta, Thomas. Sarò sincera. Non sono del tutto convinta che lui non ti farà mai del male, o che non ti userà mai. Come non sono convinta che non lo farà con me e con tutta l’umanità che tanto cerca. Forse ci userà anche inconsciamente. Ma potrebbe farlo. Anche con te. E sarebbe la tua fine. A me a volte il suo amore fa paura. È soffocante. Ti soffoca… La sua luce è particolare. Ma sono qui ora, nella sua casa. Con lui non ho mai avuto problemi. È stato sempre gentile con me. Anche se non ho mai taciuto le mie riserve nei suoi confronti. Lui lo sa bene.”

“Mi sta già usando, Monica. Udii quelle parole: io non ti permetterò di morire! Gli servo, Monica. Gli servo… come lui serve a me. Siamo uno squalo ed il suo pesce pulitore. Questa è la nostra natura, ormai. Questa e mille altri ancora sono gli amori che ci legano.”

Thomas allontana lo sguardo da Monica. Si perde ancora nell’orizzonte che si apre dalla grande vetrata di fronte a loro. Sulla terrazza. Con il profumo di salsedine che inebria le narici. Con il rumore delle onde che sembrano sempre più vicine ad infrangersi su di loro.

Un posto lontano da tutto. Un luogo dove è facile perdersi d’incanto, come in una fiaba.

“Usarsi in questo modo forse vi tiene uniti e vi fa sentire meno soli. Forse vi fa rispettare l’un l’altro. Ma in quali altri modi vi amate? I vostri sguardi sono così intensi. E ieri, dopo che Raffaele mi ha mostrato quella parte di sé… I Vostri sguardi erano molto intensi. Più del legame di cui mi stai parlando ora… Vuoi spiegarmi?”

“Amori. Amori insediati nella natura dell’uomo, Monica. Amore nel trovare un compagno nella solitudine, nel farlo sentire

Page 124: L'Albero delle Parole

123

importante ed unico, nel farmi sentire vivo e fondamentale, nelle opportunità che mi dona. Nella fatica che butto nelle cose che mi chiede gentilmente di fare. Ancora in mille altri modi ancora…”

“Vi amate Thomas? Vi amate come un padre e un figlio, come due amici, profondamente, o anche… anche come amanti? Anche come amanti, Thomas?” Monica è imbarazzata. Ma questo non la ferma dal continuare il discorso. Ormai sente che deve arrivare in fondo.

Il vino intanto continua a deliziarle il palato. Le voci sono come echi lontani e vicini. Il ricordo ancora di una voce. Ora lontana. Lontana. Troppo, forse.

“Monica… Credo che una parte di lui mi desideri come l’aria che respira.”

Thomas abbassa la testa leggermente. Sempre tenendo nelle mani il suo calice tinto di rosso.

“E tu, Thomas?” chiede Monica con voce quasi tremante.“Io, Monica? Io sono l’amore e l’odio, Monica…”“Lo desideri, Thomas? Desideri anche tu quella parte di lui?”Un posto lontano da tutto. Un luogo dove è facile perdersi

d’incanto, come in una fiaba.“Io? Non posso desiderarla, Monica. Non riesco. Non posso…

Io desidero soltanto una cosa…” Thomas posa con lentezza il suo calice. Si alza dalla sedia. Lo sguardo fisso negli occhi di Monica. Si avvicina a lei con passo molto lento. Per occhi, il riflesso di un deserto remoto. Una mano delicata si avvicina al volto di Monica. Il Pathos stride ancora il suo magnifico accordo e le gambe del dottore lo sorreggono di nuovo. Ancora. Monica resta immobile senza emettere un suono. Ancora una volta un’immagine diversa di Thomas davanti a lei. Un’immagine dalla quale resta ancora una volta completamente rapita. Il nettare rosso e Thomas… Non c’è altro ora davanti a lei e dentro lei. Non c’è altro ora in lei.

L’aria nella terrazza è densa di amore fuso a Pathos. L’odore della spuma del mare è inebriante come un profumo afrodisiaco. La mano di Thomas così calda. Il suo passo e il suo vigore dimenticato. Lei chiude gli occhi e si perde in quella calda carezza. Il calore penetra ancora dentro di lei. Come in quel

Page 125: L'Albero delle Parole

124

sogno perduto tra la sabbia. Come in quel sogno. Un sogno ora provoca emozioni reali. Tangibili. Vere.

Due labbra carnose e pesanti, roventi e dolci come un siero divino, si strofinano sulle sue. Un posto lontano da tutto. Un luogo dove è facile perdersi d’incanto, come in una fiaba.

L’odore del mare permea l’aria completamente. La spuma che fa sentire il suo delicato sciogliersi e ricrearsi. Tutto si fa reale. Sensazioni vive, e odori, e suoni, che penetrano nelle narici, nelle orecchie, e si insinuano lentamente fino all’anima. Una fitta nebbia di emozioni li chiude in un cerchio mobile.

Flussi di emozioni dolci e delicate e forti e penetranti circondano l’atmosfera. In contemporanea colpiscono le loro menti, i loro corpi, i loro respiri.

In che tempo, in che luogo, in che dimensione i sentimenti si sono fermati? Forse, solo dentro di loro. Puri. Come acqua limpidissima.

“Le tue labbra, Thomas…” Il sussurro di Monica, persa nel vortice delle emozioni che la rapiscono. Come acqua limpidissima, lontana dal petrolio e dagli squali nascosti.

“Io… mi ricordo del tuo bacio… Monica…” La voce di Thomas si infrange sulle labbra in leggero movimento. Il rumore delle onde che si infrangono educate sulla vetrata accompagna i gesti, come una dolce melodia i suoi ballerini. In quella coreografia surreale e reale al contempo.

“Il tuo bacio, Monica. Lo ricordo nella mia mente. Adesso. Mille volte più forte mi esplode nell’anima. Sei carne Monica. Sei passione. Passione intrisa nelle mie membra.”

“Anche io, Thomas. Il tuo bacio caldo. Non l’ho mai perduto nella mia mente.”

“Come potevamo scordare quel momento, quando NOI eravamo DEI? …Monica.”

…Mentre ancora i gesti lenti si muovono in accordo con i suoni circostanti, e mani che si toccano, e pelle e emozioni che si infrangono…

“Il tuo bacio, Thomas, è mille volte più forte. Sì. Forte come una nuova linfa, mi attraversa. Come il mio corpo lo sente ora. Come mai la sola mente poteva sentire.”

Page 126: L'Albero delle Parole

125

“Come Adamo baciò Eva. Due anime in un mondo tutto loro. Solo loro, Monica.”

Un mondo da plasmare nelle loro menti. Un mondo ancora da definire. Un mondo loro da vivere a modo loro. Il loro sogno. Il sogno lontano da ogni comprensione possibile tranne la loro. Il sogno che nessuno ancora mai ha scoperto in loro. Un sogno nato nel flusso del loro risveglio alla nuova vita. Da quanto tempo li aveva rapiti? Il tempo. Non possono saperlo più nemmeno loro, ormai.

Un sogno impossibile da imprigionare. Un sogno che sopravvive anche a loro stessi. Un sogno libero, con voce propria, che vaga nelle loro anime, con luce propria, senza legami. Un sogno che si ribella ad ogni tentativo di essere soffocato. Impossibile imprigionarlo, anche solo per un istante.

“Ho conservato dentro di me ogni tuo ricordo, AMORE…”Thomas e l’AMORE. Monica e l’AMORE. Le parole echeggiano

libere nello spazio fra le loro labbra e il loro respiro.“Amore… Ogni tuo sguardo rubato da lontano… Ogni istante

di silenzio confuso nell’eco delle mille voci che ci avvolgevano… Le sensazioni della memoria sul mio corpo non sono minimamente paragonabili a ciò che sento ora.”

“Questo è il nostro sogno. Quello che avevamo percepito era un timido allarme, un avvertimento. Per prendere fiato in questaapnea fantastica.”

Le parole echeggiano libere nello spazio fra le loro labbra e il loro respiro.

“È dunque questo, l’AMORE? Allora non ho mai amato davvero, prima di te? O forse esistono mille volti che l’AMORE possiede… Un sentimento che esplode senza freni! Io vibro come corde di violino.”

Thomas e l’AMORE. Monica e l’AMORE. Le parole echeggiano libere nello spazio fra le loro labbra e il loro respiro.

“Siamo un solo strumento, Monica. Siamo un solo strumento Thomas. L’AMORE è la nostra melodia. L’AMORE è la danza che i nostri desideri stanno ballando, nella coreografia di questo Sogno, che è nato a prescindere da noi.”

Page 127: L'Albero delle Parole

126

Monica accarezza con dolcezza la nuca di Thomas. Le sue mani entrano in profondità e si muovono leggere, stringendo e carezzando i suoi capelli. I capelli di Thomas. I suoi capelli girano gioiosi tra le sue dita. Si attorcigliano come piante rampicanti, desiderose di andare lontano.

“Monica…” Thomas assapora quei brividi prodotti dalle sottili unghie della donna. Perso nel suo sguardo. In quella passione che stava crescendo.

“Monica… Io ti desidero… Semplicemente… Semplicemente… Ti desidero…”

“Thomas…” Le labbra di Monica sussurrano nelle sue orecchie, mentre respira l’odore che come musica la sua pelle emana verso di lei.

“…AMORE MIO…” Thomas muove la testa tra le sue mani. Come un gatto desideroso delle carezze del suo temporaneo padrone, amico, amante.

“Sì, Thomas… AMORE MIO…”.“Con te ho imparato che il tempo non ha confini. Non ho più

paura del tempo. Dove sei, con chi sei… Non ha importanza. Sei dentro di me. Ti sento ora come un pugno nello stomaco. Un dolore sottile e robusto e meravigliosamente piacevole mi accarezza.” Le parole echeggiano libere nello spazio fra le loro labbra e il loro respiro.

Un posto lontano da tutto. Un luogo dove è facile perdersi d’incanto, come in una fiaba.

Le mani e le braccia seguono i movimenti del desiderio. Le braccia di lei lo avvolgono completamente.

Thomas chiude gli occhi, stringendola con un innaturale vigore. Monica poggia la testa sulle sue spalle, come nel loro sogno, mentre con le mani libere ancora si fa spazio con le dita sulla sua pelle nuda e calda.

Con una nuova dolcissima forza che lo rende VIVO… finalmente… Thomas avvicina ancora le sue labbra a quelle di lei… Assaporando senza fretta quell’antico sapore del migliore dei vini.

Page 128: L'Albero delle Parole

127

Monica apre e chiude le labbra, per sentire ogni piccolo istante di quel momento eterno. Lui le morde teneramente quei dolcissimi lembi di carne caldissima.

“Nulla, nulla è stato mai più gustoso alla mia mente, alla mia bocca, che il tuo sapore.” Le parole echeggiano libere nello spazio fra le loro labbra, il loro respiro e la loro pelle. Thomas piega lentamente il collo. Dolcemente, come un canto di voci bianche. La sua bocca bacia il collo di lei, strisciando leggera verso l’orecchio. Monica chiude ancora gli occhi. Thomas apre la bocca in un sussurro leggero. Ogni singola parte dei loro corpi è sospesa nel vortice che li avvolge delicato. Librati in aria. La sensazione di nuotare.

Quel respiro potente e dolcissimo urta leggero, con tutta la sua passione, l’orecchio di Monica. La passione che entra da quella soglia per spargersi delicata dentro di lei. Difficile far uscire ancora suoni dalla bocca. Tutto si perde in una danza sinuosa al tocco degli amanti. Tutto si perde nei loro respiri leggeri.

“Thomas… La macchina delle emozioni, Amore, ricordi? Ora potremmo registrare come un film tutto questo. Riviverlo ancora, ogni istante desiderato.”

“Ora potremo vivere le nostre emozioni, Monica…”Le parole, sempre più a fatica, echeggiano libere nello spazio fra le loro labbra, il loro respiro e la loro pelle. Un respiro profondo di Thomas. Un timido morso al lobo destro, morbido.

“Viverne sempre di nuove…” Le parole, sempre più a fatica…Un altro respiro. Più profondo del primo. Stupendo, più del primo. Più sensuale del primo.

“Sempre più forti. Sempre più vere…” Le parole…Il respiro era fuso con il suo. L’istinto più profondo e più naturale scuoteva Thomas da dentro…

Il respiro di lui entrava dentro di lei. Difficile, impossibile ormai controllare ogni singolo movimento del corpo e dei sensi, mentre le sue dita, come fiori mossi al vento, accarezzano la schiena di lui. Impossibile ritrarsi dalla tempesta che la colpisce, dal vortice che la avvolge.

Accarezza la pelle di Thomas, così morbida, così calda. Ogni carezza uno scossone di emozioni che la colpisca in tutta se

Page 129: L'Albero delle Parole

128

stessa. La bocca di Thomas esita ancora un attimo sul lembo caldo del lobo. Torna seducente verso la linea del mento, liscia come seta. Sale verso il bordo superiore del labbro, succhiandolo, ed incatenando la sua bocca in una tenera e rovente prigionia. Le mani di Monica salgono piano, non tralasciando nulla al loro tocco durante il percorso stabilito, senza un obiettivo preciso. Carezze accurate. Carezze dettagliate. Mani tremanti che tornano ai capelli. I capelli di Thomas…Le braccia di Thomas la cingono da dietro. Forti. Con ampi gesti circolari fa scorrere le dita morbide sulla camicia, formando onde e pieghe suadenti. La camicia sembra sgusciare di propria volontà da una spalla di Monica. Mentre la bocca ansimante la bacia su quel nuovo punto di passione.

Quella spalla scoperta, rotonda e liscia. La lingua passa timidamente ad accarezzare la fossa del collo, tra la scapola e la nuca… Per scendere a bagnare la spalla. Le labbra di Monica si tuffano con decisione, perdendosi ancora tra i capelli di lui. Le dita danzano ritmate dai loro respiri. Unico suono che si perde nella terrazza.

L’unico suono che sente o percepisce. Ogni movimento tra i suoi capelli le provoca un sussulto Un timido morso di Thomas, ancora, sulla pelle morbida e vellutata. La camicia scivola via, addormentandosi come un drago di seta sulla terrazza. Un piccolo gemito esce timido dalle labbra di Monica. Un piccolo gemito che immediatamente lascia il posto alla passione sfrenata che le cresce dentro. Le mani si aprono dietro di lei. Grandi. Forti. Prepotenti e gentili. Le stringono i fianchi, per poi salire incrociate verso la schiena. Gemiti, ancora. Più forti.

Le mani di Thomas, agitate da nuova musica, cominciano a stringere a sé il suo corpo fremente. Ad accarezzare, ancora e ancora. Un suono improvviso, come di un filo tranciato. Gli occhi di Monica, mai aperti, per sentire con l’anima ogni piccola emozione esplodere dentro. L’eco di un’onda alle loro spalle, ed una strisciata di palline candide e lucenti cominciano a ballare cadendo sul pavimento. Un altro, ancora ed ancora… un altro.

Il rumore delle piccole sfere striscianti sul filo grigio è un gemito di passione. Le piccole perle bianche saltellano sul

Page 130: L'Albero delle Parole

129

pavimento, salutando la nudità di Monica. La bocca di Thomas non smette di baciare nessuna parte di quella donna, la passione fatta carne. La bocca, le mani, tutto il corpo di Monica vibra incontrollato al contatto della pelle di Lui. Adesso le sue labbra assaporano il seno di Monica, inclinando il capo con lentezza estenuante. Le mani tra i capelli di lui. Ancora. Mentre il suo calore si muove lento su di lei, che ancora posa le labbra sulle sue spalle, per fermarsi su quell’odore di corpi nudi.

“Io… IO TI AMO.”I seni di Monica, al contatto delle labbra di Thomas, pulsano

come entità indipendenti. Un corpo mosso in ciascuna sua parte dalla totalità di una vita. Con la lingua Thomas disegna piccoli cerchi intorno ai seni lisci di Monica. Morbidi e sodi. La schiena di Thomas. Le sue mani non perdono mai la rotta stabilita dai sensi. Le unghie delicate accompagnano i suoi movimenti in armonia. Per passare ad accarezzare le sue guance di seta.

Ancora le mani di lei si lasciano rapire dalle spalle di lui. Un istante di esitazione ancora. Si posano e si addormentano ancora un istante sulle sue spalle. Lentamente riprendono la marcia, come fili d’erba mossi dal vento leggero. Sollevano delicatamente i lembi della vestaglia che accarezza il corpo di Thomas, e con la stessa calma accompagnano la discesa di quel tessuto morbido, che abbandona il suo corpo lasciandolo nudo.

Thomas esita un istante, poi con un unica linea la lingua disegna una retta che parte dal seno arrivando alle labbra. Sembra ritrarsi al contatto della bocca. Lei afferra le sue labbra, un morso leggero. Bagnarle piano con i movimenti della lingua, che disegnano piccoli cerchi e curve disarmoniche, senza fissa meta, seguendo solo il desiderio dettato dalla spasmodica ricerca di quel sapore, ancora.

“TI AMO, Monica….” sussurra in attimo di immobilità estrema, con gli occhi di nuovo persi nell’infinito dei suoi. Sapori, odori. Così nuovi, così antichi nei loro ricordi. Due corpi nudi. Pelle nuda. Calore. Sensi. Passione. Amore. Il calore dell’altro. L’odore dell’altro. Il desiderio dell’altro. Il desiderio per l’altro.

“Sì… AMORE… e ancora… ancora…”

Page 131: L'Albero delle Parole

130

Un’unica parola che si perde nell’emozione dello sguardo di lui negli occhi di lei. Come una valanga di emozioni, brividi dagli artigli di cristallo graffiano le loro schiene, quando il contatto delle loro nudità li scuote con il calore del fuoco. Il respiro ormai è come il battito impazzito del cuore. I suoni si fondono tra loro, e così gli odori.

“Nulla, nulla è stato mai più gustoso alla mia mente, alla mia bocca, che il tuo sapore.”

Non è più possibile controllare. Fermare. Sottrarsi. Non è più possibile, ormai. Il rumore del mare. Il suo profumo di salsedine. I loro corpi. Il calore del contatto. L’odore. Il respiro. Ancora il suono dei movimenti. Un tutt’uno. Il desiderio è come un fuoco che arde incontrollato. Il battito cardiaco accelerato rimbomba nell’eco del respiro. Primordiali istinti si impossessano dei due, mentre si avvicinano stretti, senza mai staccarsi da quell’abbraccio di fuoco, verso il bordo della finestra.

Con un gesto rapido e deciso, Thomas solleva Monica stringendola per i fianchi. Quel giovanile vigore inaspettato la stordisce. Immersa in quei baci profondi. Persa in quei baci profondi. Il vento prende ad accarezzare la schiena di Monica, dalla finestra aperta dietro di lei, per lasciare entrare i suoni del mare sotto di loro. Tutto si impregna dei loro profumi, mentre liscia i capelli di Thomas mossi dal vento, scoprendogli il volto.

Thomas, la sua forza. Un nuovo uomo ora, davanti a lei. Un uomo desiderato da sempre. Un desiderio tenuto legato in eterno che comincia a liberarsi. Il suo volto.

“Ti desidero, AMORE… Non posso più stare fuori da te.”Le loro nudità si incontrano. Monica guarda Thomas

intensamente. Solo un istante, e in quello sguardo lui capisce che in lei arde lo stesso desiderio. La sua carne bacia sfregandosi con le sue carni. Piano… Lentamente… Ancora il respiro sale, piccole perle di sudore cominciano a fondersi sui due corpi. Corpi uniti. Corpi serrati. Corpi compenetrati. Mani agganciate alle spalle di lui. Il vento ancora le solletica la schiena. I capelli di lui, mossi dal vento, che le accarezzano confusamente la pelle. Una carezza di carne, una stretta rovente. Un dolore. Il piacere di quel contatto

Page 132: L'Albero delle Parole

131

mai provato con la donna che desiderava da troppo tempo. Lentamente, cercando di controllare ogni movimento.

“Thomas…!” Il suo nome quasi urlato e soffocato insieme. Un contatto che spezza respiri.

“Mo…nica…” i muscoli si contraggono. Il contatto interno diventa piacere folle. Caldissimo. Quasi impercettibile il divario dei corpi differenti. Thomas getta il suo volto tra il collo e la spalla di lei, mentre estende il collo per godere di ogni attimo, di ogni vibrazione.

Monica chiude ancora gli occhi per perdersi, per non pensare. Thomas, parte di lei. Ogni piccolo movimento la fa impazzire. Il desiderio di lui è sempre più forte, e sempre più deve controllare la sua forza istintiva di possedere tutto il suo essere.

“Lasciati andare, Monica… Lasciati anda…re…”Volti uniti, si sfregano come tutto il loro corpo. In un

movimento antico, l’essenza della passione. Thomas entra dentro di lei con la passione di un’onda.

“Impazzisco, Thom..as.. per t..e…”Il respiro gli muore in gola, mentre il calore lo brucia come carta

sul fuoco.“Non usci..rei….MAI….dal …tuo..C..orpo…MAI….”Il calore. Il fuoco. Il calore ancora. Esplodeva. Libero. Lei si

stacca dall’abbraccio e posa le mani sulle sue spalle per accompagnare i movimenti di lui.

“Non usc..ire..ma..i am..ore Ti..preg..o”Come un leone, rabbioso in natura e schiavo del suo istinto,

corteggia pieno di gentilezza la leonessa, Thomas cade in preda all’antica fiamma della passione. Piccoli morsi e profondi graffi. Lei, serrando le spalle e non controllando più il desiderio di lui, lentamente lascia penetrare le unghie nella sua pelle. Movimenti leggeri, come cullati. Cullati dai sensi e dalla passione, unici complici di quegli istanti.

Movimenti più sfrenati per sentire ogni volta il fuoco che li possiede ad ogni movimento. Si stanno amando come mai avrebbero immaginato. Un sogno reale. Un sogno irreale. Un sogno…La parte animale, nascosta nell’uomo, prende la sua

Page 133: L'Albero delle Parole

132

rivincita sulla razionalità che la lega in cravatte ed in cappotti pesanti.

Movimenti forti e prepotenti sono l’essenza della passione e della dolcezza… ogni volta che le loro carni si sfregano, un pezzo di uomo muore per far nascere piacere. Nessun luogo. Nessun concetto di tempo. Gambe serrate abbracciano i fianchi di lui, mentre ondeggia seguendo il ritmo del mare. Solo il rumore del respiro, e del corpo che si muove ritmicamente in un ballo primordiale. Cambiando di ritmo, di tonalità, di velocità. Ora una carezza gentile. Ora una corsa sfrenata… Per restare. Per fermarsi. Per sentire tutto il loro Amore, prepotente e dolce, fermarsi.

Quanto tempo è passato, dove sono adesso? Lo spazio sono i loro corpi fusi… il tempo il piacere che smembrava l’anima… Il tempo. Cos’è il tempo?

Solo come un lembo leggero tutte le emozioni scaturiscono dai loro corpi e si alzano intrecciandosi. Il tempo. lo spazio. Le dimensioni. Si perdono, e restano incantati ad osservare l’amore. Il loro amore sembra non avere mai fine… movimenti decisi… desideri remoti che tornano con passione crescente… gemiti decisi… escono dalle labbra… mentre gli occhi si contorcono perdendosi senza sosta…

“Nulla, nulla è stato mai più gustoso alla mia mente, alla mia bocca, che il tuo sapore.”

I capelli si muovono uniti nel loro primordiale ballo. Un piccolo canto dalla bocca di Monica.. una melodia che lei aveva dimenticato. Di nuovo le sue braccia strette a lui. Quasi a volersi fondere con lui. Il respiro sempre più profondo, pura passione spinta nell’aria…

“Mon..ica….”“Tho…m..a..s”Ogni sillaba scandita da una spinta di lui mentre lei gli va

incontro, in una complice danza di passione.Non c’è più respiro. Respiro che esce e si ferma anch’esso a

guardare la loro lotta amorosa. Una lotta e una danza al tempo stesso.

Page 134: L'Albero delle Parole

133

Dall’alto i loro corpi appaiono come uno. Uno solo. Due e uno. Cosa sono in questo momento? Un Uomo ed una Donna. Lei che accoglie lui, tutto, nelle proprie carni roventi. Un unico essere ansimante di passione.

Si accolgono ancora. La Natura ha elargito uno dei doni più belli a due creature che per lungo tempo si sono dimenticate di esistere. I muscoli cominciano a fremere e ad irrigidirsi, scossi dalla passione ormai incontenibile. Ogni volta che Thomas si avvicina con decisione a lei, le due anime si fondono in una, perdendosi. Ad entrambi sembra di udire ogni suono l’una dell’altro. Di percepire ogni emozione l’uno dell’altra. Ogni ricordo. Ogni dolore. Ogni piacere.

Unghie serrate e pregne della loro pelle. Spasimi… Spasimi che donano nuova passione e forza. Movimenti sempre più decisi e precisi. Come richiamo di antiche memorie. Gesti perfetti che li portano verso il piacere immenso. Il cielo si sta schiarendo.

“Sei in m..e.. Th..omas…”“…..Son..o…..T..E……..MOn…i…ca….”“..si..i..i..IO…SoNo..te..si..i”Il flebile calore del sole si affaccia timidamente sui due corpi

uniti. Dietro l’orizzonte del mare coperto dalla notte, già un timido raggio fa capolino…

“…sI….Am.OR…E…….”Calore. Sole. Vibrazioni. Luce. Corpi compenetrati fino allo

spasimo.“…StIa…mo……SorGe..Ndo…Anche NoI….AM..O..rE……..”Le parole ricominciavano lentamente ad affacciarsi con

loro…Movimenti frenetici. Rapidi. Forza animale. Passione incontenibile.

“Re..sta…dent..ro..di m..e…”Calore. Fuoco. Calore come magma. Corpi intrisi. Carni

frementi e bagnate. Carni ansimanti. Esplosioni roventi.…E la quiete…Lusinghe del corpo, in strette roventi.

Aggrappati uno all’altra. Con movimenti leggeri che ancora li permeano. Getto di passione che ancora li unisce, azzerando il limite dei corpi divisi. Thomas. Respiro corto. Respiro spezzato. Respiro che muore e nasce sul collo di Monica. Labbra. Le labbra

Page 135: L'Albero delle Parole

134

di lui. Ancora le sue labbra, accarezzano pelle ora morbida. Muscoli rilasciati. Lentamente in riposo. Una stretta potente con le braccia la cinge di nuovo. Le sue braccia lo avvolgono ancora.

“AMORE mio…”Un colpo leggero. Nuovo ancora quel calore. Un sussurro

leggero e voce limpida e calda. E il sole decide di alzarsi con quelle parole. Un lampo di fioca luce, sembra la luce di una stella nei fianchi di Thomas. Lei si volta a guardare il sole. Poi ancora negli occhi di lui. Sorridendo.

“Ti…A.mO……RaG..Gio…..Di ..SOLE…….”Le sue mani accolgono il suo viso. Un bacio ancora. Leggero.

Sulle labbra poi sulla fronte. Ancora i suoi occhi. Gli occhi di Thomas. Lui si abbandona tra le sue braccia, inclinando lentamente il volto. Si struscia senza tempo sul suo collo di seta, sente il suo sangue pulsare forte sulle sue guance. Lei si lascia cadere dalle sue braccia e si volta a guardare il sole. Thomas scivola alle sue spalle, cingendola da dietro. Le mani di Monica prendono le sue e si fanno avvolgere completamente. Il petto di lui contro la schiena di lei.

Il sole sta nascendo, con la velocità ipnotizzante dell’alba. Le dita di Thomas strofinano quel ventre liscissimo e piatto. Le mani di lei stringono quelle di Thomas. Entrambe poggiate sul suo ventre.

“Un nuovo giorno… Mi sembra di nascere oggi… Thomas…”.“Siamo nati oggi… Monica… SIAMO…”Le mani sottolineano quella strana parola: SIAMO…

Page 136: L'Albero delle Parole

135

VIII. L'ULTIMO RESPIRO DI THOMASdi Thomas Kaneirzein e Monica Rewinsky

(Terzo in comodo Lord Raphael)

Il respiro diventa sempre più debole. Un flusso di ricordi.“Sto morendo… e non capisco perché… sento solo freddo ed il

respiro che si affievolisce…”[È il dolore più acuto e meraviglioso che io abbia mai provato.

Non ho paura di nulla, e nell'attimo della disperazione di perderti cresce la fierezza per il sentimento che proviamo. IO TI AMO. TU MI AMI, THOMAS. Nella morte, l'attimo più sublime dell'amore. Siamo stati scelti da mani superiori per questo…]

[Ma vorresti sempre tornare indietro… di un secondo soltanto… Per un ultimo bacio ancora. Monica… E se mi stessi spegnendo perché lo voglio? Padrone della mia morte e della mia vita… Se avessi deciso di morire… senza suicidarmi? Spinto solo da quella forza…]

È solo, tra le mura rosse e i pilastri della falsa cattedrale dai vetri colorati. Solo, in una stanza d’ospedale.

Il respiro è sempre più lento. Non ha droga nelle vene… il sudore lo bagna. E sa, sente che oggi morirà.

Non fugge, non scappa a quel freddo… La aspetta con l’amore nel cuore… E lei arriva.”Io sono accanto a te… lì con te… La tua Monica è accanto a te.”

Gli tiene forte la mano. Asciuga il suo sudore e canta una canzone dolcissima, solo per lui, perché la paura si allontani. Thomas chiude gli occhi. Le mani tremano. La droga lo reclama. Ma lui è forte nella sua stretta… E resiste all’astinenza… Nel silenzio di quel freddo. Monica lo bacia delicatamente in volto. Sente il richiamo della droga che fa fremere il suo corpo. Lo stringe. Non sarà l’eroina la sua ultima compagna. Thomas lo sa…

E la mano debole stringe con tutta la sua disperazione le dita morbide di Monica… Nel letto dell’ospedale, è coperto da un lenzuolo di lino bianco fino alle spalle… Un pigiama semplice e regale, del nero più profondo, di raso a strisce verticali, fascia il

Page 137: L'Albero delle Parole

136

suo corpo… I capelli, adagiati sul cuscino, cingono il suo volto sudato come una corona… Il suo corpo ha vissuto 29 anni… A volte il suo sguardo nascosto nel dolore dimostra secoli… Ma anche l’espressione di un bambino appena nato…

I capelli di Thomas. Monica li prende tra le mani e si accarezza il volto con essi. Ancora il frastuono lento e gentile dell’amore dentro di lei. Mentre sente la vita che le nasce in grembo. Mentre sente che la sua vita si perderà quando lui, il suo amore, non le donerà più un respiro… nessuno più.

Le labbra secche e screpolate dalla febbre. Un bacio ruvido e morbido sul dorso della mano. Ruvido…

[Mai le tue labbra, anche se sanguinanti o spaccate, saranno ruvide al mio tocco. Porto nel cuore il tuo odore. Le tue labbra sono la mia panna... in qualunque modo esse siano ridotte.]

Occhiaie rivelatrici cominciano a mostrarsi sul suo volto… Leggeri fremiti… Gli occhi chiusi… Cosa vedeva, in quel momento? …Quanto Amore aveva quell’uomo che aveva sfidato la Morte, il Mondo, la schiavitù della droga per Monica? Quanto Amore può provare un uomo?

“No! Thomas!”Le lacrime di Monica solcano profondamente la sua pelle, e

cadono a rallentatore sulla fronte di Thomas. Una stretta fortissima. Come se servisse ancora a riportare in vita la sua stessa vita…

“No… Non lasciarmi Thomas… no…” E poi un sorriso.Di ammirazione per la sua forza. Poi ancora una lacrima e

dolore. Quanto, quanto può amare una donna…? Quanto…“…No..n……Ti…..LAscErò….MAI………” E la mano sempre

più debole cerca di stringere il suo palmo… Gli occhi si aprono e le lacrime scesero come rugiada…

“…MAI……”Le lacrime. Quelle stesse lacrime con le quali Monica si era

dissetata ancora altre volte. Quello sguardo. Quegli occhi. Quando ancora il Pathos non conosceva il loro amore. Il loro amore che germogliava dentro di loro a loro insaputa, esploso come una quercia nel delirio della fine… Dell’ultima grande prova…

Page 138: L'Albero delle Parole

137

“Ti amo, Thomas. Sarò bandita da tutti… Mi scacceranno. Ma io TI AMO e non ho paura… Resta sempre dentro di me, amore mio, sempre…”

“VIVI…lOn.TAno….Da…Tut.ti…” Deglutì con fatica… Le ossa erano grattate dagli artigli dell’eroina…Ma non smise di parlare…

“…SarAi……BeLl..issim..a……….”“Thomas, non parlare… ti prego riposa. Non parlare. Saprò

cosa fare. Voglio solo stare qui, accanto a te. Ad adorare la tua presenza. Io non posso vivere senza te. Voglio stare accanto a te. Accanto a te, Thomas… vorrei dimorare sui tuoi passi. Vorrei camminare, guardare con i tuoi stessi occhi. Non m’importa se il mondo ti vede folle. Tu sei la mia STORIA, la più eccelsa. Sei la mia grande poesia, celata nella mia anima. Dall’orrido è nato il succo più dolce che palato mai abbia gustato. La vita si beffa di noi… Io sono qui a disperare per la tua morte. Io sono qui a decantare la tua vita. Io sono qui a commuovermi per l’amore che mi hai dato. Quello che terrò sempre dentro di me.”

Un timido sorriso squarcia la sua maschera di sudore e di male… Quel sorriso forte, guidato da quella donna… Che, nel dolore e nella gioia… Ama. Il respiro si fa ancora più flebile… Chiude gli occhi… E si addormenta con la mano stretta nella sua…

“Nooooooooooooooooooooooo!!!! THOMAS!!!!! NOOOOOOOOOOO!!!”

Il corpo ancora caldo. L’ultimo respiro che Monica ha inalato dentro di se. Le sue mani lo scuotono. Poi si fermano. Si accovaccia sulle sue spalle. Accarezza il volto e i capelli. Ancora mille baci, come mille petali che volano al vento. Ancora un po’ del suo calore… Quell’ultima stretta…

[RENDIMI ETERNO…]Le parole di Thomas sono nella sua mente come macigni…

Monica ancora stringe tra le braccia il corpo senza vita di Thomas. Il rumore delle lacrime è assordante e riempie la vuota stanza… Le lacrime che toccano il volto di Thomas. Quel volto che finalmente è rilassato. Stende con le mani le sue lacrime sulla sua pelle.

Page 139: L'Albero delle Parole

138

“Ti renderò Eterno, AMORE.”Il dolore che le squarcia il petto ora non è nulla in confronto…

alla desolazione della mancanza del sentire ancora il suo respiro… Un ultimo ancora…

* * * * * * *

Il dottor Thomas Kaneirzein si spegne a Barcellona, all’Ospedale di San Paolo, il giorno 8 Dicembre 1999, nel più completo anonimato e in segretezza. Nonostante le sue cattive condizioni di salute, l’effettiva causa della sua morte è ignota. Il suo rapitore-mecenate Raffaele Venosta, impegnato sul lavoro, sarà raggiunto dalla notizia oltre 30 minuti dopo il decesso.

Page 140: L'Albero delle Parole

139

IX. ULTIMA LACRIMAdi Monica Rewinsky

Il SUO AMORE per ME… IL MIO AMORE PER LUI…Il vento accarezzava i miei capelli.Non un abito nero.Il nero dell’angoscia.Il nero della rabbia.Il nero dell’ODIO.L’odio che avevamo SCONFITTO INSIEME.Il NERO. Il nero che ha torturato IL MIO RESPIRO, LUI, per

tutta la sua esistenza.Il Nero che lo ha legato, torturato…Indossavo il colore Rosso, rosso come la NOSTRA passione.La passione per la vita, per ME.Fu così che scelsi un abito rosso.Roma.Il “parco” del Verano era bellissimo quella mattina.La follia permeava la mia mente.Ero in un cimitero.Ma sentivo il cuore leggero.Mi inginocchiai nella terra umida lentamente, un raggio di sole

mi colpì le labbra.Socchiusi gli occhi. Thomas: amore mio…Gli occhi socchiusi, le piccole lacrime che scivolavano fino al

collo per poi cadere e penetrare nel terreno umido.Le ginocchia immerse nella terra. Le mani. Le mie mani

sondavano la terra. Potevo guardare quella fossa sotto i miei piedi.

Il sole come la carezza di Thomas continuava e solleticarmi con dolcezza.

“Raggio di sole”. Sentivo ancora l’eco delle sue parole nelle mie orecchie.

Nella mia anima.Il suo profumo tra i miei capelli.Il suo profumo…

Page 141: L'Albero delle Parole

140

“Siii.. ohhh si.. Raggio di sole…”. Un sorriso. Poi una risata.Il passato mi scivolava davanti come un ruscello.Lento e zampillante pieno di vivacità e suoni guizzanti.Così era stato Thomas nella mia vita.Potente come un tuono e leggero e trasparente come l’acqua.Difficile a dirsi?Lui che era “il male incarnato” per tutti quelli che non

vedevano oltre.Difficile a dirsi per occhi fragili.Difficile a dirsi per mani vuote.Difficile a dirsi per chi sonda solo in superficie e non si inoltra

mai.L’immagine della sua vestaglia rossa che non voleva saperne di

scivolare via dalla sua pelle per lasciarmi il campo libero.Scoppiò nella mia testa.Come un fotogramma impazzito tra i ricordi confusi.Scoppiai in una risata senza freni.Mentre le piccole e leggere lacrime scendevano.Vidi il suo volto sorridere davanti a me…il suo volto.“Non…Ti…LAscerò….”“MAI….”Le sue parole.La sua voce ancora dentro di me.Gli occhi si posarono ancora nella fossa.Raffaele era fermo sul lato opposto al mio.Immobile. Come pietra.Il suo sguardo allucinato e pregno di dolore.Non vedeva altro che dolore.Il più piccolo sforzo di vedere un po’ di speranza era morto in

lui.Thomas era morto in lui.Thomas era morto per lui.Thomas era morto per me.Raffaele aveva perso ogni speranza.LUI, lui che voleva essere come un uomo, aveva perso l’unica

ragione di vita di un uomo. La Speranza.Scoppiai ancora a ridere.

Page 142: L'Albero delle Parole

141

Una risata isterica.La sua immagine patetica.Mi sembrava un bambinone a cui avevano rotto il giocattolo

preferito.Tutto era follia nella mia mente.Il vento scivolava ancora tra i miei capelli.Tra i miei seni. Tra le mie gambe.Lo sentivo come il ricordo caldo delle sue carezze.Ancora Thomas in me…“Non…Ti…LAscerò…”“MAI….”Le sue parole.La sua voce ancora una volta dentro di me.Con le mani intrise di quella terra umida, la stessa terra che

avrebbe coperto per sempre il suo ricordo mortale.Cominciai a toccarmi le gambe con quelle stesse mani.La terra imbrattava le calze velate che rivestivano le mie gambe

irrigidite dal freddo.Il sole e le mie risate isteriche. Le mani e la terra sul mio viso.Si muovevano piano. Raffaele mi guardava sbigottito.Avrà pensato che forse Thomas mi aveva lasciato la sua follia.Lo guardavo e sorridevo.Tutto era in me. Mi riempivo di sole, di terra.Raffaele guardava in silenzio.Lui che voleva essere come un uomo. Come un uomo!Ancora una volta scoppiai a ridere istericamente.Il frassino. Quella bara di frassino chiaro.Immobile sotto i miei occhi.Per un istante m’invase l’assurda follia di aprirla. Guardare

ancora Thomas.Quel corpo senza respiro. Il respiro… Il respiro di Thomas…Il vento mi accarezzava i capelli volavano in una danza

armoniosa.A destra a sinistra. Il respiro di Thomas…Una rosa bianca mi attraversò gli occhi.Una mano delicata sulla mia spalla.Abel Caine. Mi voltai.

Page 143: L'Albero delle Parole

142

Mi sorrise.Posò la bianca rosa accanto al feretro. Mi donò un petalo di

quella rosa.Poi se ne andò sorridendo a Raffaele in silenzio, come era

venuto.Palpai piano quel petalo. Sentivo il calore della pelle di Thomas

che entrava dentro di me. I ricordi erano vivi. Forti. Un sussulto dal mio ventre.

La mia mano si posò su lui.La mano di Thomas sul mio ventre. Un ricordo vivo.Thomas alle mie spalle. Thomas e il suo respiro.“Non…Ti…LAscerò….”“MAI….”Ancora le sue parole in me.Angelo De Sarzana era immobile al fianco di Raffaele.Anche lui mi guardava in silenzio. Sentivo che capiva ciò che

provavo.Mi sdraiai completamente sulla terra. Accarezzata dal sole e dal

vento.Non sentivo più freddo.Facevo l’amore con gli elementi della natura.In loro cercavo ancora Thomas.Nella mia follia Thomas era in tutto ciò che mi circondava.Quell’amore non era svanito nel nulla. Ne ero invasa. Dentro e

fuori.Il sole e il vento mi baciavano piano…ancora.Le labbra di Thomas nei miei ricordi.Le sue labbra fisse e nelle mie.Thomas, dentro e fuori di me…Noi ora eravamo uno. UNO solo…Il suo respiro era il mio… il suo respiro viveva in me, con

me…per me.AMORE, Amore… l’ultima parola sussurrata e poi la terra celò

tutto.La odiai. Lui ora era suo.Una parte di lui gli apparteneva.Mi alzai. Lanciai in aria tutti i fiori che Raffaele aveva comprato.

Page 144: L'Albero delle Parole

143

Una serra. Le rose, le margherite, i tulipani i mille colori che ricoprivano quel luogo. L’allegria del suono dell’AMORE che mi circondava ancora legata al dolore della sua scomparsa.

Assurdo. Vero. Surreale. Vero.Un DOLORE immenso, una GIOIA immensa.Come potevo piangere ancora sentendo tutte quelle emozioni

che mi aveva incarnato IL SUO AMORE così in profondità.Come i miei occhi non capivano.Come si ostinavano ancora a piangere.Lui non era morto.Lui era morto.Ballare. Cantare.Sognare ancora, forse…Sognare Ancora.

Page 145: L'Albero delle Parole

144

LA FATA DEI DENTINIdi Marco Filipazzi

Il sottile rumore di drappi sgualciti si mischiava al minuscolo tintinnio d’avorio.

Un suono quasi impercettibile ma sufficiente per scuotere il sonno precario e pieno di eccitazione di Davide. Quel pomeriggio era stato dal dentista. Un uomo alto e allampanato, bianco come un cero, con i capelli sale e pepe, i denti ingialliti da troppe sigarette e l’alito in un misto di tabacco e menta.

Sulla punta del naso rapace poggiavano sottili occhiali attraverso i quali scrutava nella bocca aperta del ragazzo. Quando l’uomo aveva afferrato un paio di pinze uguali a quelle che il papà usava per aggiustare la bici, Davide era scoppiato a piangere.

D’altra parte era il primo dentino che toglieva.Il dottore e la mamma lo avevano rassicurato, dicendogli che se

avesse fatto il bravo la Fata dei dentini gli avrebbe portato un regalo. Però doveva comportarsi da ometto.

Certo, a Davide l’idea del regalo lo allettava parecchio, perciò si fece coraggio e respinse la paura.

L’operazione fu istantanea ed indolore. Il dottore mostrò il dente a Davide, il quale non seppe se provare gioia o orrore.

Sua madre lo prese con cura avvolgendolo in un fazzolettino di carta e infilandoselo in tasca.

Quando Davide aprì gli occhi nel cuore della notte, destato da quel leggerissimo rumore, il dentino era lì sul suo comodino, dove lo aveva messo prima di addormentarsi.

E poi c’era lei. In piedi, davanti al letto.Si muoveva come portata dal vento, con i piedi nudi che

sfioravano appena il pavimento.La Fata dei dentini.Non era per nulla come Davide se l’era immaginata.Era magra in modo innaturale; uno scheletro coperto di pelle

bianca come la luna, come se quella pelle fosse stata custodita in cantina e non avesse mai visto la luce del sole.

Page 146: L'Albero delle Parole

145

Indossava un abito argentato, antico come la notte, logoro di innumerevoli secoli di girovagare; i cui drappi sgualciti si muovevano come bandiere al vento. Solo che nella stanza l’aria era immobile.

Intorno al collo e alle braccia, lunghe e sottili come rami secchi, portava collane fatte con i denti di innumerevoli generazioni di bambini. Si attorcigliavano intorno alla gola, lungo le braccia, ricadendole sul petto. Anche gli orecchini erano di denti, così come la corona poggiata sul cranio calvo.

I suoi occhi erano di un bianco glaciale, in cui spiccava il nero antico delle pupille.

Davide la fissò, sentendo il sangue ghiacciarsi nelle vene, e lei ricambiò lo sguardo sorridendo, distendendo le labbra violacee, dure, la cui pelle si ruppe come ghiaccio.

La sua bocca era un ammasso di gengive purulente, sdentate, accarezzate da una lingua gonfia e viola.

La Fata dei dentini si mosse verso Davide sinuosa come una serpe, protendendo le dita nodose e inanellate di denti antichi quanto il mondo.

Le unghie erano frammenti di vetro nero che emergevano dalla carne delle dita.

Davide si tirò la trapunta sopra la testa, rannicchiandosi sotto le coperte.

Aveva il cuore in gola. Lo sentiva pulsare.Chiuse forte gli occhi e pianse sommessamente, a lungo,

inumidendo le federa e il lenzuolo. Quando finalmente si calmò e si fece coraggio, lento come una tartaruga sporse la testa oltre l’orlo della trapunta, tenendosela premuta sulla bocca. Si guardò attorno.

Solo giocattoli e peluche che lo scrutavano dubbiosi con i loro occhi di plastica, illuminati debolmente dal fioco chiarore della luna. Guardò il comodino. Il dentino era sparito.

Page 147: L'Albero delle Parole

146

IL REGNO DELLE OMBREdi Aeribella Lastelle

Piangevo.Piangevo per nessuna ragione in particolare.Piangevo perché mi sentivo triste, perché qualcosa

d’importante era finito, perché il giorno si stava per chiudere, e le ombre della sera venivano a reclamare il loro regno.

Piangevo per mille motivi, o forse solamente perché volevo essere consolata.

Piangevo seduta sui gradini di casa, la porta aperta alle mie spalle, così potevo sentire suonare lo stereo dal piano di sopra, il vecchio Tim Buckley.

Il bambino si avvicinò silenzioso e si sedette accanto a me. Lo conoscevo bene. Abitava dall’altro lato della strada e tutti i giorni lo vedevo uscire di casa con una grossa cartella rossa. Il suo nome era Leonardo, ma i suoi amici lo chiamavano Nio.

«Signorina Lastelle, perché piange?»La voce dei bambini ha proprietà magiche. Penetra gli scudi

degli adulti come una lama rovente nel burro, e va subito a toccare l’intimo.

«Ciao Nio. Oh niente, sono solo un po’ triste…» mentii. Provai vergogna. Io, l’adulta, la ragazza mancata, la signora mai stata, lo scherzo chiamato donna del ventunesimo secolo. Mentire a un ragazzino…

«Ha paura delle ombre?» mi chiese.Le ombre sono delle bastarde, lo sapete vero? Specialmente in

quelle giornate di maggio, piene di colori caldi, e fuori si sta in maglietta, ed è una meraviglia. Ma poi le ombre incominciano ad allungarsi, il sole penzola all’orizzonte e allora la maglietta non ti basta più. Arrivano i brividi agli avambracci, quelli che ti dovrebbero far sentire viva, ma che invece ti ricordano la tua caducità.

«Un po’…» confessai.«Si, anch’io ho paura delle ombre, ma conosco un segreto per

scacciarle.»

Page 148: L'Albero delle Parole

147

«Davvero?»«Si. Vuole conoscerlo anche lei?»Gli occhi di Nio brillavano d’aspettativa. I miei, grazie a lui,

avevano smesso di inondarmi il volto.«Nei sarei felice» ammisi.«Ecco qui.»Dalla tasca dei pantaloni tirò fuori una piccola torcia elettrica, di

quelle da attaccare al portachiavi.«Quando le ombre si fanno davvero insidiose, li sparo addosso

la mia lucina. Così mi accorgo di quanto sono innocue. Basta una lampadina per farle scappare…»

«È un’ottima idea, Nio.»«Lei ce l’ha una lampadina?»«Sfortunatamente no.»«Allora prenda questa. Io ne ho altre due a casa.»«Ma non posso accettare…»Ma per fortuna i bambini non capiscono il significato delle

buone maniere. Mi mise in mano la torcia e mi salutò.Di sopra Tim Buckley aveva finito di lamentarsi. “Maledette

ombre, stasera ve lo faccio vedere io!” pensai, rientrando in casa. Avevo voglia di sentire quella babuska di Kate, e di aprirmi una bottiglia di buon vino.

Dopo quel giorno non ho mai smesso di portarmi dietro una lampadina. Pensatela come vi pare, ma mi fa sentire piú tranquilla…

Page 149: L'Albero delle Parole

148

CHELATNA LAKEdi Davide Bandinelli

Ormai sfinito dal lungo viaggio, lascio cadere le borsa impermeabile nera sul pianerottolo di Freedom House in modo scomposto. Mi tolgo lo zaino con fatica e cerco nella tasca della giacca militare le chiavi del mio piccolo Chalet. Nonostante sia iniziata l’estate la temperatura non è certo la stessa di quella che ho lasciato in Italia, e lo capisco più dal respiro affannato che si trasforma in leggere nuvole di vapore, che dalla percezione del corpo, ancora caldo dopo il lungo cammino intrapreso. Mi sembra che il viaggio sia durato un mese, sono stanco.

Durante il volo transoceanico non ho chiuso occhio, una moltitudine di pensieri mi assediava la mente, e volti e parole assalivano senza tregua le mura della mia anima. Il libro che poco prima dell’imbarco avevo tolto dalla valigia in tutta fretta, era rimasto nella tasca posteriore del sedile davanti a me, spiccava solamente il segnalibro: la vecchia foto di una fiaschetteria fiorentina stampata su carta rigida.

Anche il successivo tragitto in autobus è stato travagliato, il flusso di pensieri era diminuito però, poiché la tristezza si alternava all’attrazione per il paesaggio che stavo attraversando. Sceso a destinazione infatti mi sentivo meglio, e il fatto di addentrarmi a piedi in quei boschi, poneva una sostanziale sosta all’interminabile valanga di ricordi.

Ancora con in mano le chiavi dello Chalet mi volto a osservare il panorama che per poco il sole mi lascerà vedere. La luce del tramonto rende il paesaggio incantato, i colori dell’acqua delle rocce e degli alberi si mescolano alla lucentezza dell’oro del sole, e la bellezza dello scenario che ho davanti da incantevole diventa divino. Il viottolo che arriva alla casa e che divide il prato, si piega fino a celare il suo inizio verso la riva del lago. Sulla parte sinistra dove sembra debba buttarsi nell’acqua, una fila di abeti nasconde a malapena il promontorio di legno, e seguendo una posizione rigorosamente lineare, si congiunge al fitto bosco che attanaglia tutto il lago in una morsa possente.

Page 150: L'Albero delle Parole

149

Sulla parte destra del viottolo invece, il giardino non recintato dopo alcuni metri si trasforma in una vasta tundra, dove spuntano arbusti di Cipero ed Erica, e si perde nelle montagne innevate che fanno da cornice a tutto quanto.

Entrato in casa la prima cosa che avverto, è un forte odore di legno ammuffito.

Poi la vista è il secondo senso che viene stimolato, perché la luce che passa dalla porta irrompe nella stanza principale del mio rifugio rilevando i due divani, il camino e il tappeto persiano, nel loro quieto silenzio.

Trascino lo zaino e la borsa dentro casa e lasciando aperta la porta vado ad aprire la finestra. Devo arieggiare l’ambiente visto che sono quasi due anni che il legno che vi si trova respira malamente.

Maria ed io avevamo comprato lo Chalet con i soldi della liquidazione alcuni anni fa. Era stato il nostro sogno nel cassetto fin da quando eravamo giovani. Non ce lo saremmo potuto permettere prima della pensione, ma parlandone, avevamo concordato che sarebbe stato bello passarci la vecchiaia, o se non altro, soggiornarci più tempo quando saremmo stati liberi dagli impegni di lavoro.

L’Alaska era per noi il paradiso in terra, uno dei pochi luoghi dove la natura è intatta. Quando lo comprammo fu solo dopo una lunga ricerca, avevamo girato numerose agenzie immobiliari specializzate e sfogliato pile di riviste. Spesso tornavamo a casa la sera con del materiale, e prima ancora di soddisfare bisogni primari come la fame o la sete, confrontavamo le nostre singole scoperte.

Avevamo vagliato soluzioni in altri stati del mondo prima di scegliere l‘Alaska, poi un giorno ci arrivarono tramite internet le foto di questo piccolo Chalet situato sulla riva del Chelatna Lake, e rimanemmo talmente ben impressionati che la scelta fu subito comune e immutabile.

Mi dirigo al piano di sopra dove si trovano il bagno e la camera da letto. In cima alle scale non vedo quasi niente, seguo il corridoio che ricordo privo di ostacoli e cerco a tentoni la porta sulla sinistra.

Page 151: L'Albero delle Parole

150

Con la finestra del bagno aperta riesco a vedere e a muovermi sicuro. C’è tutto: carta igienica, asciugamano, dentifricio, e due spazzolini che sembrano abbracciarsi per proteggersi dal freddo.

Giungo infine in camera e, ricordando bene la disposizione del letto e dell’armadio, riesco a trovare anche qui la finestra per arieggiare ed illuminare questa stanza.

La coperta di lana a scacchi adagiata sul letto mi infligge un leggero magone, è tutto come lo avevamo lasciato. Sul comodino vicino al letto vi è ancora una guida del luogo in inglese, poi sono i vestiti nell’armadio a trasformare l’afflizione in tormento, che dopo pochi secondi sfocia in un pianto.

Con Maria ricordo che fantasticammo su come poter vivere in modo autosufficiente, installando alcuni pannelli solari e comprando una mucca e delle galline. Quando concludemmo l’affare, eravamo così euforici che vivemmo esaltati per quasi due giorni interi.

La crisi economica mondiale stava arrecando seri danni a quasi tutto e a quasi tutti. Il mio innato senso critico e il mio genetico pessimismo ci aveva indotto a cercare una soluzione prima ancora che i problemi cominciassero a diventare evidenti. Questo fu un bene, perché con i nostri risparmi oculatamente nascosti, per una mia particolare fobia nei confronti delle banche, poi rivelatasi concreta, quando tutti cominciarono a vendere noi comprammo.

La prima volta che eravamo venuti allo Chalet che poi chiamammo Freedom house, fu quando ne avevamo preso possesso. Ci passammo le vacanze estive. Io imparai a pescare e cacciare, alcuni operai del posto montarono due pannelli fotovoltaici sul tetto e fecero alcuni lavori in muratura, Maria invece progettò un piccolo ricovero per animali da costruire sul retro che avremmo fatto poi, e riprese a studiare l’inglese.

In principio la scelta di comprare questa piccola casetta in legno fu stimolata dalla sola voglia di cercare un angolo di pace dove riposarsi solamente in periodi limitati, poi tornati in Italia, avvertimmo prima di molti altri che le cose cominciavano ad andare di male in peggio, e il pensiero di trasferirsi in pianta stabile divenne frequente.

Page 152: L'Albero delle Parole

151

Ci fu un lasso di tempo in cui tutto ciò che di spiacevole ci arrivava dai notiziari e dal mondo reale ci rimbalzava addosso. Stava per scatenarsi l’inferno e noi pensavamo di aver trovato la soluzione.

Torno al piano di sotto e cerco nel mazzo di chiavi quella che apre la porta di fianco al camino che porta giù in cantina. Il sole comincia a sparire dietro le montagne e non rimane molto tempo per portare la legna in casa con la luce del giorno.

In cantina fa più caldo che in casa. Con la torcia elettrica cerco il trasformatore che immette l’energia solare dei pannelli fotovoltaici negli accumulatori, e constato con piacere che c’è energia a sufficienza. Alzo una levetta e si accende una lampadina che debolmente illumina il piccolo locale e, simultaneamente sento il lieve ronzio di un motorino elettrico che comincia a pompare acqua dalla cisterna alle tubature. Sugli scaffali che si estendono su due lati ci sono provviste sufficienti per circa un mese: scatolette, pasta, latte in polvere e sacchi di farina. Accanto al trasformatore c’è un piccolo armadio di metallo dove tengo chiuso a chiave un fucile da caccia con due scatole di cartucce, e un paio di canne da pesca. Non c’è bisogno di controllare il contenuto, le ante sono intatte e non ci sono segni di forzatura.

Sollevato dal funzionalità dell’impianto elettrico che temevo avesse qualche problema, torno di sopra ed esco a prendere la legna.

Quando Maria si convinse di lasciare tutto, come da tempo avevamo deciso, si commosse. Pensò ai suoi familiari, a come avrebbero potuto cavarsela, alla sua città, a tutto ciò che era parte di lei. Non riusciva ancora a capire come mai il mondo andasse a rotoli e così velocemente. Cercai di consolarla garantendole che nel giro di qualche anno tutto si sarebbe sistemato, ne avevo la certezza, la storia lo diceva, dovevamo cercare di cavarcela solo per un po’ di tempo.

Sapevo bene che questa scelta sarebbe per lei stata più difficile. Io non avevo legami forti che si sarebbero spezzati in modo così brusco ed egoistico, ma non vi erano altre soluzioni per due

Page 153: L'Albero delle Parole

152

persone della nostra età costretti ad aiutarsi solamente l’uno con l’altro.

Il cinguettio di un uccello selvatico sovrasta tutti gli altri suoni del bosco. Proviene probabilmente dalla cima di alcuni abeti rossi che riesco ancora a identificare mentre cala la notte. Questo canto acuto seguito da un battito d’ali, mi porta all’ascolto del rigoglio dell’acqua del lago che a frequenze alterne sembra duettare con il fruscio del vento che soffia dolcemente tra i cespugli.

Mentre ascolto incantato il concerto del tramonto, i sentimenti che ne scaturiscono, e i sensi che percepiscono questa meraviglia mi fanno riflettere. Ora più che mai mi rendo conto di far parte dell’orchestra. Maria ed io una sera, proprio seduti in questo giardino ne ragionavamo: siamo nati con le piante, l’acqua e le montagne, e dovremmo vivere in armonia con la natura in quanto suoi figli. La gioia di quello che mi circonda mi frastorna, e un brivido di eccitazione comincia a scorrermi lungo la schiena. Apro le braccia rivolgendomi al cielo, come per accoglierlo, poi chiudendo gli occhi per un istante respiro aria fredda assaporandone il profumo.

Com’è stato possibile che l’uomo invece abbia ignorato tutto questo sostituendolo con l’avidità, e la brama di potere? Come è stato possibile che il progresso e la ricerca, abbiano portato l’essere umano alla distruzione e all’oblio, invece che all’amore e all’illuminazione?

La legna che avevo raccolto due anni prima si trova sotto la barca capovolta, insieme al carrello che mi serve per trasportarla. Ne avevo raccolta in abbondanza, e con i rami piccoli avevo creato delle fascine, utili per attizzare il fuoco. Faccio un paio di viaggi depositandola accanto al camino.

Non è molto umida, il telo di nylon con cui l’avevo ricoperta è stato utile, quindi accendo il fuoco facilmente e liberandomi della giacca mi chiudo in casa pensando a disfare i bagagli e a cosa mangiare.

All’interno del camino passano alcune tubature dell’acqua che provengono dalla cisterna in cantina. L’acqua riscaldata dalla fiamma viene poi spinta dalla pompa elettrica nei caloriferi del

Page 154: L'Albero delle Parole

153

piano di sopra garantendo una temperatura più adeguata anche nei periodi più freddi dell’inverno.

Penso che sarà dura abituarmi ad un tenore di vita così avvilente e così distante da quello che ho condotto fino ad ora, ma sono certo che mi servirà a superare questo triste momento. In montagna c’è sempre qualcosa da fare per poter vivere.

Fu circa un anno prima, mentre stavo ascoltando l’ennesimo notiziario che riportava di disordini avvenuti in Italia durante la giornata tra un gruppo di disoccupati e le forze dell’ordine, che Maria cominciò a tossire in modo rauco. Non ne fui molto impressionato in principio. Poi, giorni dopo, quando quell’episodio sembrava svanito, trascorse una notte turbolenta svegliandosi ripetutamente e avvertendo con gli spasmi un dolore al torace. Il giorno successivo andammo dal medico per una diagnosi.

Quel pomeriggio percepii il dolore in tutta la sua atrocità e forza devastante; le parole del medico che mi aveva chiamato in disparte dopo la visita, mi penetrarono nei timpani, e da lì, come un fiume in piena che oltrepassa gli argini con una violenza inaudita, inondarono ogni cellula e molecola del mio essere.

Oltre al senso di nausea che mi provocarono quelle parole, provai anche un forte senso di smarrimento. Compresi subito che l’eroico paladino, quale ero sempre stato agli occhi di Maria, era in realtà un impotente. Non sapevo più cosa fare.

Dovevo tornare da lei e parlarle, non avrei potuto nasconderle a lungo, il mio stato d’animo, lo avrebbe percepito subito presentandomi nei panni di un cavaliere così fragile e inerme.

Purtroppo era già tardi, i fumi delle ciminiere, i gas di scarico delle macchine, e quant’altro di diabolico aleggia in qualsiasi città moderna, era finito nei suoi polmoni sviluppando una malattia inestirpabile.

Tutti i nostri progetti di salvezza se ne erano andati in fumo in un istante.

Durante la malattia di Maria, avevo perso la voglia di vivere, non era forse un bene per lei che cercava conforto, ma ero esausto, io volevo solo che non soffrisse neanche un secondo.

Page 155: L'Albero delle Parole

154

Questi ricordi mi rimbalzano in mente senza sosta da un lungo tempo, sono qua per metterci una pietra sopra e cercare di dare un senso a tutto ciò, oggi mi sento meglio, sono riposato, è una bella giornata, e un buon odore di caffè che proviene dalla moka si espande nella stanza.

Anche Maria è qui con me.Prendo l’urna di cristallo che tenevo nella borsa impermeabile e

l’appoggio sul davanzale del camino appena acceso. Ho voluto che anche lei mi seguisse in questo paradiso e voglio che anche lei ne faccia parte, il mondo artefatto e ipocrita che ci ha allevato fino a ieri, solo esclusivamente per alimentare gli illogici affari di gente senza scrupoli con il risultato di una imminente guerra mondiale, non merita la nostra anima.

Sorseggio il caffè guardando fuori dalla finestra. Tutto è calmo l’acqua del lago accoglie i raggi del sole riflettendoli nella mia direzione, rimango alcuni minuti intento a cercare il punto migliore dove arrivare con la barca, poi poso la tazza e indosso la giacca per uscire.

Lo sciabordio dell’acqua sullo scafo è l’unico rumore che sento appena giungo a circa un centinaio di metri dalla riva. Guardo il fumo bianco che si alza dal tetto, non ci sono altri rifugi o abitazioni da questa parte di sponda, il mio chalet è l’unica struttura nel raggio di chilometri, poi prendo l’urna con delicatezza e sollevo il coperchio.

La guerra e le malattie come quella di Maria, sono la conseguenza dell’umano continuo trasgredire le leggi della natura, l’andare contro porta solo distruzione e caos. Spero che tutto quello che sta capitando lontano da qui porti almeno ad una nuova coscienza.

Appoggio l’urna scoperchiata sul filo dell’acqua, penso che sono stato comunque molto fortunato perché ho avuto la possibilità di conoscere Maria, e lascio dolcemente la presa.

Page 156: L'Albero delle Parole

155

CONDIVIDERE É REATOdi GM Willo

Ci sono sogni che vanno raccontati, perché altrimenti poi ci si dimenticano ed è proprio un peccato, non so se mi spiego. Cioè, questa cosa me l’ha detta un mio amico, il Cantini, un soggetto che vi raccomando. Ma a parte questo, forse c’aveva proprio ragione. I sogni fanno in fretta a scomparire dalla capoccia. A volte manco mi ricordo quello che ho mangiato a colazione.

Invece questo m’è rimasto proprio impresso, tanto che gli dissi al Cantini che poteva andare tranquillo perché me ne sarei sicuramente ricordato. Ma lui mi guardò con quei suoi due occhi da merluzzo, e fiatandomi una boccata di Tavernello in faccia mi disse: «Non ti fidare… scrivili sempre i sogni importanti. Non lo sai che siamo tutti un po’ profeti?»

E allora eccomi qui davanti a questo dannato foglio. Era dai tempi del liceo che non mettevo dieci righe una sotto l’altra, cioè righe nel senso scritte… vabbè, non ci confondiamo adesso.

Insomma, inizia il sogno che sono dietro allo scooter del Testa, un vecchio amico. Testa perché ovviamente c’ha una testa che se te la ritrovi davanti al cinema fai prima a andare a casa vederti i pacchi.

«Oh Testa, vai piano!» gli urlo da dietro. Lui fa finta di nulla e sorpassa il quattordici, quello doppio, che passa proprio a pelo sulla corsia. Dalla parte opposta arriva un furgoncino bianco Iveco. BANG! Le luci si spengono.

Mi risveglio (ma sto sempre sognando) in un letto d’ospedale. Tubi, tubicini, macchine, flebo, un monte di stronzate, e accanto a me c’è il Testa, sempre lui. Eppure è diverso, me ne accorgo subito. Sembra più vecchio.

«Oh Testa! Che cavolo è successo!»Lui si scuote perché non si era accorto che mi ero svegliato, poi

mi guarda come se fossi un fantasma.«Sei sveglio!» borbotta.«Certo, e allora. Perché fai quella faccia?» domando io, e intanto

mi accorgo che sembra davvero molto più vecchio.

Page 157: L'Albero delle Parole

156

«Perché sono vent’anni che dormi! Eri in coma. Ti ricordi l’incidente?»

Ecco spiegato tutto, mi dico. Insomma, mi ero giocato vent’anni di vita. Che sfiga, chissà quante scopate mi ero perso, per non parlare delle partite della Viola.

Comunque il sogno si velocizza. Dico al Testa di portarmi i vestiti che voglio fare un giro. Lui mi da una mano a prepararmi, e dieci minuti più tardi siamo già in strada.

«Dammi una sigaretta, vai!» gli chiedo.«Non posso» risponde lui.«Che hai smesso?»«No, è che le cose sono un po’ cambiate… dopo ti spiego.»Io rimango basito ma continuiamo a camminare. Arriviamo alla

stazione dei taxi.«Facciamo un salto da te?» gli chiedo.«Va bene.» Poi mi apre lo sportello e paga la corsa al tassista.«Io ti seguo col motorino» mi dice.«Allora non c’è bisogno del taxi, ti salto dietro.»«No, non si può.»«Certo che non si può, ma lo fanno tutti.»«Ma no, è che le cose sono un po’ cambiate nel frattempo…

dopo ti spiego.»Così il taxi mi trascina nell’ingorgo della città. Quello non è

cambiato, o forse si. È diventato ancora peggio.Arrivo a casa del Testa e lui è già lì con un sacchettino della

Coop. Tira fuori un pacchetto intero di sigarette e me lo passa.«Oh grazie, me ne bastava una.»Poi saliamo su.L’appartamento è sempre il solito, arredato alla stessa maniera,

insomma sembra non sia passato neanche un giorno e invece sono venti anni che non ci metto piede. I sogni son roba strana!

Dalla busta della spesa il Testa tira fuori una Moretti da 66, un panino con la mortadella e una barretta di cioccolato bianco, di quello che piace a me. Il Testa m’ha sempre voluto bene…

«Ma che fai, dai! Non importava… Cos’eri senza scorte?» nel dir questo gli apro il frigo e ci trovo ogni ben di dio. Salame,

Page 158: L'Albero delle Parole

157

acciughe, vinello, un barattolo d’olive verdi piccanti che ci vado matto.

«Ma che mi prendi per il culo» lo infamo. «Guarda quanta roba che c’hai, e mi sei andato a prendere la moretti e il panino alla coop…»

«Ma non ti offendere, scusa…» balbetta lui. «È che, come ti ho già detto, le cose sono un po’ cambiate in questi anni.»

«Vabbé, ora mi vado a rinfrescare un po’ in bagno e poi torno di qua e mi spieghi tutto.»

«Ma no guarda, non è proprio possibile. Non posso neanche farti usare il bagno.»

«Che cazzo dici?»Così il Testa si mette a sedere e incomincia a raccontarmi tutto.«Ti ricordi ai vecchi tempi che ci si scambiava la roba col

computer, si scaricava la musica, i film, i libri, ma c’era anche un monte di gente che non gli andava per nulla bene tutta questa festa. Insomma, col passare del tempo questa storia dello scambio è diventata qualcosa di veramente brutto. Non solo t’arrestavano se si beccavano a scambiarti la roba col computer, ma incominciarono anche a proibire gli scambi degli oggetti, insomma delle cose che si usa tutti i giorni. Per questo motivo non ti posso offrire una delle mie sigarette, non posso darti un passaggio sul mio motorino, non posso offrirti qualcosa da mangiare e neanche farti usare l’acqua e la saponetta del bagno. Oggi c’hanno questi satelliti che ti controllano anche in casa, 24 ore su 24. Insomma, se vuoi qualcosa, devi comprartela!»

Io rimango a bocca aperta. Meglio il coma, penso.«Vuoi dire che non si può più condividere nulla?»«Proprio così. A proposito, questi sono gli scontrini della spesa

e del taxi. Non che rivoglia i soldi, ci mancherebbe, ma potrebbero controllarti…»

«Ma non ci credo!»E mentre urlo questa frase mi sveglio. Boia che sogno, mi dissi. Nella stanza sentivo frinire la ventola

del PC. Mi avvicinai allo schermo e vidi la finestrella rassicurante degli ultimi download. Anche per quella sera lo spettacolo era assicurato. Presi la cornetta e feci il numero.

Page 159: L'Albero delle Parole

158

«Pronto Testa? Vieni da me a vedere un film?»

Page 160: L'Albero delle Parole

159

THE ENDdi Giulia Riccó

Kiyoko guardava l’orizzonte seduta sul grande cratere che si era formato dopo l’esplosione della bomba.

A Tokyo si festeggiava lo Shunbun no hi ma lì, ai bordi della Città Vecchia, le luci della festa venivano come inghiottite dal nulla. Solo il buio e poco altro regnavano lì dato che alle persone era interdetta.

Presto sarebbe arrivato Soichiro e finalmente tutto avrebbe avuto inizio… o meglio, sarebbe terminato.

Improvvisamente i fari di una moto illuminarono le sue spalle e l’assordante rombo del motore l’avvertì dell’arrivo di Soichiro.

Kiyoko guardò Soichiro e fece un cenno con la testa indicando la sacca contenente l’esplosivo.

“Cambierà qualcosa Siochiro?”“Tranquilla Ki-chan il Satellite di Controllo non terrorizzerà più

nessuno una volta saltato in aria. Neppure il Generale oserà più fare qualcosa senza il satellite. Fidati,finalmente saremo liberi!”

Kiyoko si guardò indietro, poi salì sulla moto e si tenne stretta facendo molta attenzione alla sacca. Soichiro partì e assieme sfrecciarono verso l’ascensore orbitale che portava alle colonie e al satellite. Insieme andarono incontro ad un nuovo futuro.

Page 161: L'Albero delle Parole

160

IL CICLO DI UDRIENdi GM Willo

I. IL MIO NOME É UDRIEN

La sua spada si chiama Gilda, e può considerarsi un’estensione del suo corpo. Questo è il fine ultimo del guerriero; diventare tutt’uno con la propria arma.

Udrien osserva il nemico avvicinarsi, ne studia i movimenti, respira cercando il ritmo. Il ritmo è tutto nella battaglia. Saper seguire il ritmo significa portare la danza della morte, saper anticipare o ritardare il battito significa prendersi un bel vantaggio.

Chi è questa volta? Cosa è che si avvicina? A Udrien non interessa. Sa soltanto che quella creatura è sulla sua strada, eniente e nessuno può premettersi di frapporsi tra lui e il suo obbiettivo. Nessun rancore. Nessuna emozione. Solo il freddo e letale acciaio della sua Gilda.

L’essere è contorto, bavoso, viscido. Una nefandezza del deserto incontaminato; le terre del disordine. Le sue zampe affondano pesantemente nella sabbia, la sua lingua penzola secernendo un liquido oleoso, probabilmente mortale. Ha una coda lunga e dentata, come quella di un rettile, ma la sua corteccia ricorda quella ispida dei rinoceronti. Eppure è un essere massiccio ma guizzante, il folle incrocio tra un coccodrillo, un verro e una nutria. Le sue proporzioni però sono quelle di un elefante. Rotea gli occhi davanti alla sua perda, un massiccio uomo delle montagne. Udrien è il suo nome, ma questo l’essere non lo saprà mai.

L’aria è quella torrida e secca tipica del deserto. La polvere si mischia al sudore. Il sole impietoso continua il suo percorso verso le montagne ad occidente. Udrien è stanco, ma non vuole sentire la stanchezza. Non ascolta il suo corpo. Adesso incomincia il ritmo…

La creatura guizza spalancando le sue fauci di ratto. Usa la coda per darsi lo slancio. Le sue zampe sono corte ma ben artigliate.

Page 162: L'Albero delle Parole

161

Un uomo comune non sarebbe sopravvissuto a quell’attacco improvviso, ma Udrien sta già danzando, anche se è rimasto immobile fino a quel momento. Il guerriero segue la scia della belva, ruota il corpo, scarta di lato e riprende posizione. Può tentare un colpo al fianco, ma preferisce non rischiare per adesso. La canzone è solo all’inizio.

Di nuovo faccia a faccia. Guardare il muso di quella belva è quasi una sofferenza, ma negli occhi risiede l’intento. Anche le creature più stupide nascondono qualcosa nello sguardo. Udrien appoggia il peso del suo corpo su una gamba. È pronto ad attaccare per primo. La bestia fa un passo indietro. Forse è infastidita. Forse per la prima volta conosce qualcosa che si chiama paura.

La paura è sorella e puttana. Questo usa dire Udrien ai suoi commilitoni, nelle serate balorde alla taverna del drago. Non ci si può fidare della paura, ma a volte è proprio lei che ti salva la pelle. E come una sorella ti rimane accanto anche se non la vuoi. E come una puttana, ti chiede il prezzo quando meno te lo aspetti.

Il colpo è una finta, un battito sincopato nel ritmo. La bestia ci crede, scarta e rilancia dall’altro lato. Mossa azzardata. Udrien l’aspetta al varco, ruota la lama, sente la dura pellaccia resistere al filo, imprime più forza e finalmente un fiotto di sangue scuro sprizza nell’aria polverosa. Nel silenzio asfissiante del deserto, rotto solo dai movimenti dei due contendenti, un urlo straziante si alza nel cielo. La bestia è ferita, e adesso è cento volte più pericolosa.

Udrien questo lo sa bene, ma non può evitarlo. La creatura è troppo grossa per poter essere uccisa con un solo colpo. Quello è il momento della svolta, la melodia che si velocizza, il ritmo che tormenta. Ma se fosse riuscito ad infierire un altro colpo, la creatura avrebbe smesso di crederci. Avrebbe sentito il morso della paura, quello vero, quello che non ti lascia scampo.

Il guerriero deve continuare a danzare leggiadro. Anche se ha il vantaggio non deve infierire. La fretta è la più grande nemica. Indietreggia con agili passi mentre la belva si muove nervosa verso di lui. Un affondo, un altro affondo, zampe, artigli, fauci

Page 163: L'Albero delle Parole

162

bavose. “La senti la canzone?” domanda Udrien al suo antagonista. Ma lui non può capire, è ferito, è arrabbiato, e poi deve fare i conti con quella strana sensazione…

La stanchezza affiora. Un’intera giornata di marcia attraverso il deserto è tutta nelle sue gambe, e sono loro la chiave di un buon combattimento. Sente che la danza non può proseguire per molto a quel ritmo. Sente che la fretta, come la paura, può essere puttana e sorella. Sente che ha un solo colpo a disposizione, edeve essere quello giusto.

La belva ha riacquistato fiducia. Non pensa alla ferita, non pensa alla morte, pensa solo allo stomaco che le impone di andare avanti, un pasto dopo l’altro. Nessun ideale, nessun motivo onorevole, o forse si. Cibo, ecco quello che siamo. Guerrieri e bestie.

Il sole si tinge di arancione. I picchi delle montagne gli sono poco più sotto e il disco si prepara ad affogare dietro quella dentatura. Presto sul deserto cadrà l’oscurità, e forse creature ancora più pericolose lasceranno le loro tane. Un altro buon motivo per non denigrare la fretta.

Le zanne si fanno più vicine, il miasma dalla sua bocca diventa insopportabile, le gambe incominciano a tremare. Per quanto tempo Udrien riuscirà ancora a sopportare un simile sforzo? Continua a retrocedere, un passo dopo l’altro, ma sta perdendo centimetri. La creatura è su di lui. La canzone è un rullio di tamburi e un apoteosi di corni. Ma nel momento chiave, una singola nota può decidere la grandezza della sinfonia.

Udrien affonda. Non porta il suo attacco come un selvaggio barbaro del nord, ma come il direttore di una grande orchestra. Il bersaglio è ovviamente il cuore. La punta di Gilda penetra con facilità, strappando la carne, spaccando la costola, immergendosi senza pietà dentro al muscolo pulsante.

La creatura si accascia nella polvere del deserto, geme, rantola, si dimena. È il triste finale della canzone.

Allora Udrien le si avvicina, poggia il piede sul suo grugno mostruoso e alza la spada in segno di vittoria. Poi le sussurra: “Povera bestia, non sapevi chi ti stava davanti. Il mio nome è Udrien!”

Page 164: L'Albero delle Parole

163

II. LAMIA

Udrien mosse un passo dentro il sepolcro e capì in quell’istante che aveva appena commesso un errore. Ma l’orgoglio parlò e fece tacere il buon senso. O forse era la curiosità, quella spinta che ispira ogni vero uomo. La scoperta, il mistero, il segreto; queste sono le ragioni di una vita randagia, senza un domani, senza una casa che possa dirsi tale. Solo la strada davanti ai tuoi piedi, ed il vento, a volte impietoso e gelido, portatore di pioggia, altre volte così caldo da toglierti il respiro. Perché Udrien era figlio di Guman, il dio del vento appunto, e la sua prima legge era quella di non tornare mai indietro.

L’oscurità divenne qualcosa di denso e appiccicoso. Udrien nonosò dipanarla, per paura che gli abitatori dell’antro si accorgessero della sua intrusione. Procedette adagio, attingendo informazioni dai sensi che molti uomini avevano perduto. Ma Udrien non era un uomo come gli altri.

Nel sepolcro era nascosto lo Scettro di Fride, un amuleto capace di piegare le leggi dell’universo. Ma Udrien non cercava conquiste più grandi della sua mente. Era lì per una scommessa di taverna, fatta in una serata goliardica insieme ai soliti avventori. Avrebbe recuperato lo scettro per dimostrare a quei balordi chi era Udrien, poi l’avrebbe distrutto, perché a lui non piacevano gli affari dei maghi, e gli oggetti troppo potenti diventavano automaticamente pericolosi.

La cripta si ergeva su una collina, a due ore di cammino dal villaggio più vicino. Da tempi immemori gli abitanti di quei luoghi raccontavano di una creatura malefica che si aggirava nell’ombra. I paesi contavano troppi vecchi e troppi pochi bambini. Vi erano bestie selvagge nella foresta, ma non facevano distinzione tra adulti ed infanti. La ragione delle molte sparizioni si nascondeva in quel sepolcro.

Udrien contava i passi, ricreava le distanze nella sua testa, annusava l’aria e ascoltava i rumori delle ombre. Gilda, la sua fedele spada, fremeva nella mano. Mentre il corridoio in cui era penetrato discendeva lentamente nelle viscere della collina, il

Page 165: L'Albero delle Parole

164

fetore aumentava, un miasma di putrescenza antica, pregno di una contaminazione di magia nera. Qualcosa di morto ed eterno abitava quell’antro, un’entità che un semplice colpo di spada non sarebbe riuscito ad uccidere.

Percepì, oltre l’oscurità soffocante, l’allargamento della cavità. Il corridoio terminava in un’ampia stanza e l’odore di morte era diventato ancora più penetrante. Adesso aveva bisogno di chiedere aiuto ai suoi occhi, non poteva permettersi di attendere un secondo di più. La rapidità, in situazioni simili, era cruciale.

Ma un attimo prima di richiamare l’incantesimo di luce legato alla sua spada, un globo dorato si accese nel mezzo della stanza. Incastonata al centro di una grande pietra piana, che non poteva essere altro che una tomba, la sfera di luce rivelò alcuni misteri del sepolcro. Un’ampia stanza circolare a forma di cupola, completamente spoglia se non per il feretro adagiato nel mezzo e alcune pregiate suppellettili posate sul pavimento. E poi c’era lei, una bellezza aliena, sensuale come le principesse delle isole equatoriali, prosperosa come le comari che portano l’acqua ai villaggi, intensa come le amazzoni del nord e pericolosa come i draghi del grande deserto. Seduta sulla fredda pietra, vestita solo di monili che riuscivano a coprire a malapena le parti intime, guardava il guerriero curioso, il topolino con cui il gatto ama divertirsi prima del pasto.

Nonostante ogni centimetro del suo corpo lo avvertisse del pericolo che si celava dietro gli occhi di ghiaccio di quella creatura, Udrien si mosse verso di lei non come un guerriero ma come una preda desiderosa di venire divorata. Abbassò la lama, alzò il volto, sporse il petto in avanti. Lei rimase immobile, sorridente, pronta ad accoglierlo.

«Un guerriero senza paura che finalmente viene a soddisfare le mie voglie…» sussurrò la donna, allargando sensualmente le gambe. Il globo di luce nascondeva la promessa del piacere più grande.

Udrien, a un passo da lei, si arrese all’invito. Poggiò la lama sulla pietra del feretro e si chinò per baciare quella bocca carnosa. Sentì la fredda pelle di quella creatura che non poteva dirsi umana, ma non ci badò, rapito com’era dall’incantesimo del

Page 166: L'Albero delle Parole

165

desiderio. La massa di muscoli ramati dell’uomo si adagiò sulle rotondità candide della donna, toccando, esplorando, cercando ed avvicinandosi alla congiunzione. Lei lo cinse con le gambe mentre lui entrava, inarcò la schiena mostrando i canini allungati, ma lui aveva gli occhi chiusi e non se ne avvide. Sentì invece il calore pervadergli il sesso, nonostante il gelido invito. Cercarono insieme il movimento, alternando i gemiti, dondolandosi insieme sull’altalena del piacere. Sempre più veloce, sempre più in alto, sempre più in profondità. La donna urlò artigliando la schiena del guerriero. Lui ignorò il dolore e continuò la sua scalata, ormai in prossimità della vetta. La creatura lo lasciò andare avanti, grata del dono ricevuto. Era pronta a concedere anche a lui il piacere supremo, prima di togliergli la vita.

Udrien sprofondò in un bagno di tenebra dolce. Aprì gli occhi e vide qualcosa muoversi nelle ombre che il globo di luce non riusciva a dipanare, i margini della stanza a forma di cupola. Bambini, alcuni appena neonati, dalle vesti lacere e dagli occhi infuocati, strisciavano verso di lui mostrando file di denti innaturalmente allungati.

«Venite miei piccoli. Venite a mangiare!» disse la donna, cercando poi la gola del guerriero. Udrien scattò in piedi come un felino. Cercò la spada, ma lei gliela scalciò via, e poi gli fu addosso.

Il guerriero non attinge forza solo dai suoi muscoli. Riuscire a richiamare e controllare il flusso adrenalinico può permettere ad un uomo di moltiplicare la sua potenza. La creatura era un vampiro, ormai il mistero era svelato, e Udrien non poteva permettersi di affrontare un essere del genere a mani nude. Sapeva di avere solo una possibilità. Afferrò la donna e la scaraventò dalla parte opposta della cupola. Poi, un attimo prima che la sua progenie dannata si avventasse su di lui, riuscì a recuperare Gilda, e a recidere la testa di un neonato dalle zanne di lupo.

La vampira, conscia di avere sprecato il vantaggio, divenne rabbiosa. Si lanciò addosso alla sua preda, certa che fosse ancora disarmata. Udrien alzò la punta della sua spada in traiettoria del cuore. Un secondo urlo, questa volta di dolore, si alzò dalla

Page 167: L'Albero delle Parole

166

collina maledetta. La donna bellissima, che aveva cercato ed elargito piacere con l’arte di un’esperta meretrice, si dimenava adesso con una spada infilzata nel petto. Udrien sapeva che non sarebbe bastato ad ucciderla. Sfilò con maestria la lama dal corpo della donna, e con un colpo preciso le recise la testa, che rotolò sul pavimento con un rumore sordo. Allora il corpo del mostro cambiò improvvisamente colore. Da candido divenne scuro, la pelle raggrinzì rapidamente e un attimo dopo della donna non rimase che una manciata di cenere. La stessa fine toccò alla progenie di piccoli mostri, i bimbi rapiti ai villaggi vicini.

Dentro la tomba Udrien recuperò lo scettro, e la sera dopo, mostrandolo agli amici di taverna, si compiacque di aver vinto la scommessa. Bevve a spese dei suoi compagni, e a fine serata crollò sotto il tavolo completamente ubriaco.

Nella taverna c’era un mago di nome Vasilios che non perse mai d’occhio l’oggetto, e appena ne ebbe l’occasione lo afferrò dileguandosi poi nella notte. Ma di come Udrien riuscì a recuperarlo, in questa storia non viene detto.

Page 168: L'Albero delle Parole

167

III. EVOCAZIONI PERVERSE

Gridia era una di quelle città tagliate fuori dalle grandi strade mercantili dell’Impero, sorta secoli fa in un territorio aspro, appollaiata alle rocce come un falco di montagna. Era il luogo ideale per portare avanti subdoli giochi di potere, lontano dagli occhi indiscreti della Guardia Reale.

Sulle case e i palazzi decadenti dominava la cupola della chiesa, l’occhio vigile che tutto vede e tutto giudica. Il vescovo Callalni e suoi due vicari erano diventati col tempo gli uomini più importanti della città, e la delegazione dell’esercito dell’Impero sul posto rispondeva ai loro ordini.

Udrien, appena mosse un passo oltre le mura di città, avvertì subito nell’aria quell’oppressione tipica di quei luoghi in cui la chiesa ostenta il suo dominio. Storse la bocca quando, entrando nella piazza principale, che si apriva proprio davanti alla cattedrale, rinvenì le tracce di un rogo recente. Bruciare le streghe era una delle pratiche preferite dei preti.

Entrò in una locanda e ordinò dello stufato e della birra. Gli avventori erano pochi e se ne stavano in disparte, ma si sentì i loro sguardi addosso. Non poteva certo pretendere di passare inosservato, con la montagna di muscoli che si portava dietro e che non si vergognava ad esibire, e la sua vistosa spada che lui chiamava Gilda. Ci era abituato e li ignorò, prendendo posto vicino a una finestra e osservando le incombenti vetrate della chiesa, che nelle ombre del vespro baluginavano dei riflessi delle candele. Qualcosa nel profondo gli sussurrava che un male ancora più grande del dogma religioso aveva messo radici nella città di Gridia.

Mangiò e bevve, ma non osò andare oltre i limiti. Aveva intenzione di lasciare quel posto all’indomani, e mettere più strada possibile tra lui e i misfatti che vi consumavano. Chiese una stanza e si ritirò, ma il fato volle che la finestra della sua camera desse proprio sulla facciata della chiesa. Rimase ad osservarla tra le ombre della notte. Quando la città, già di per se silenziosa, sprofondò nella quiete notturna, Udrien avvertì la

Page 169: L'Albero delle Parole

168

cantilena. Ne conosceva il timbro, anche se ignorava il significato delle parole. Quello non era un canto religioso, ma il rituale di un’evocazione blasfema. Non riusciva a prendere sonno. La nenia era appena percettibile, ma s’insinuava nell’anima, evocando strani incubi. A Udrien non piaceva essere disturbato. Afferrò Gilda e uscì fuori dalla taverna, puntando direttamente verso l’ingresso della cattedrale. Spinse con forza e quando la massiccia porta si mosse sui cardini rimase sorpreso. Probabilmente i cittadini temevano a tal punto quel luogo, che i preti non si preoccupavano di chiuderlo a chiave neanche la notte.

La navata centrale era disseminata di ombre, ma i sensi di Udrien lo avvertirono che nessuno lo stava spiando. Attraversò ad ampie falcate il locale fino alle porte che si aprivano sul retro. La litania continuava e sembrava provenire dalle catacombe.

Scostò l’uscio di una porticina che si apriva su un balcone di pietra e delle scale a chiocciola che sprofondavano nell’oscurità. C’era profumo d’incenso nell’aria, ma non quello che usavano i preti durante i sermoni. Aveva un odore stucchevole, stranamente esotico. Udrien arricciò il naso e proseguì, permettendo all’oscurità di ingoiarlo. Il guerriero poteva muoversi al buio come un gatto, attingendo ai sensi dimenticati, quelli sotto pelle, quelli che un vero uomo d’arme ha bisogno di conoscere se vuole rimanere vivo.

La scala contava ventitre gradini. Toccato il fondo Udrien scorse i contorni di una porta, oltre la quale bruciava una luce calda, forse una torcia. Il canto adesso era distinguibile in tutto il suo orrore: era il richiamo di un demone. Il guerriero ne aveva uditi di simili, nei suoi pellegrinaggi attraverso le terre di confine, luoghi impervi in cui abitavano culture molte più antiche di quelle dell’impero.

Nel momento in cui appoggiò la mano sulla maniglia, il canto si interruppe e il pavimento tremò. Udrien capì allora che l’invocazione era stata portata a termine, e qualcuno o qualcosa aveva attraversato il drappo tra i mondi, per giungere al cospetto dell’evocatore. Aprì piano la porta e si catapultò con la leggiadrezza di un felino dentro un corridoio appena illuminato. La luce proveniva dalla stanza che si apriva dopo pochi passi.

Page 170: L'Albero delle Parole

169

Udrien vi sbirciò all’interno, appiattendosi al muro del corridoio, e quello che vide lo tormentò per molte notti.

Tre uomini seduti su alti scranni, nudi e glabri, osservavano la scena che si teneva sulla fredda pietra del pavimento, dentro cerchi e simboli di gesso dai misteriosi significati. Nei loro occhi si rifletteva la luce rossa di due enormi bracieri che bruciavano ai lati della stanza. Era da lì che s’innalzava il profumo d’incenso. Tutti e tre gli uomini erano intenti a darsi piacere solleticando i loro i membri, ispirati dalla visione che avevano appena evocato.

Una fanciulla di rara bellezza giaceva riversa sul pavimento, e un essere contorto e peloso, dalla forma vagamente umanoide ma con la testa sproporzionata e una gobba gigantesca sulla schiena, le stava sopra. Udrien poté vederne il pene, enorme e rosso, che si apprestava a dilaniare la povera vittima. La ragazza era viva e cosciente, ma incapace di emettere grida, forse incantata da strani sortilegi, oppure troppo terrorizzata per ricordarsi di possedere una voce.

Era questa la follia che si nascondeva dietro le mura di Gridia. Preti perversi che avevano stipulato patti coi demoni, rituali erotici sotto la cattedrale, e sacrifici pubblici per terrorizzare i cittadini. Quante città erano vittime delle superstizioni e della bramosia di potere dei religiosi? Quante persone pagavano il prezzo della loro ignoranza? Udrien sentì la furia crescere come un fiume in piena, la lasciò defluire nei sui muscoli e poi abbandonò il suo nascondiglio, scagliandosi con la spada alzata incontro a quello scenario di follia.

Prima che i preti realizzassero quello stava succedendo, il guerriero riuscì ad afferrare il braccio della fanciulla e a trascinarla fuori dal cerchio di protezione. Il demone era prigioniero dei simboli di gesso, e non gli era permesso di attraversarli.

Poi si mosse verso gli scranni. Recise la testa di un prete mentre questi provava ad alzarsi, trafisse il secondo alla schiena, mentre cercava di scappare, e il terzo, immobile e stupefatto, era invece rimasto seduto, col pene gonfio e gli occhi sbarrati. Udrien lo sollevò con una sola mano e lo scagliò dentro il cerchio del demone. Fu allora che incominciarono le urla, ma prima che le

Page 171: L'Albero delle Parole

170

guardie trovassero il coraggio di investigare, Udrien era già lontano.

La ragazza aveva insistito per andare via con lui, e così erano scappati nella notte, mentre le urla del prete sfumavano tra le ombre, e le luci di Gridia si perdevano nella distanza. Camminarono fino al mattino e da un’altura videro l’alba, fulgida e bellissima. Lui guardò lei e si perse per un attimo nei suoi occhi.

«Dove vuoi andare?» le chiese.«Lontano…» sussurrò lei. E da quel giorno non si fermarono

più.

Page 172: L'Albero delle Parole

171

IV. LE SETTE REGINE

«Guerriero, perché ti interessano le terre del sud?»«Non ho alcun interesse per quelle terre. Ho solo bisogno di

rimanermene lontano dall’impero per un po’…»E così il capitano del Migrante, una nave mercantile che

trasportava metalli e altre materie prime, invitò a bordo lo straniero e la sua spada. Si chiamava Udrien, e il suo nome precedeva già la leggenda. Un guerriero rispettato, un guerrierotemuto, e forse, per qualcuno, un guerriero scomodo. Ma le dodici corone d’oro pagate in anticipo avrebbero convinto qualsiasi marinaio. Udrien era ricercato dalla guardia reale perché accusato di omicidio. La vittima era il figlio di un barone, un personaggio meschino di cui non si sarebbe certo sentita la mancanza. Ma sebbene la vittima avesse infangato il nome della sua casata con le sue malefatte, e la sua prematura dipartita avesse risolto molti inconvenienti, il delitto rimaneva e Udrien, quale principale indiziato, doveva essere portato a giudizio.

Il Migrante modificò lievemente la sua rotta, per evitare spiacevoli incontri con la flotta dell’impero. Dopo una settimana di viaggio furono avvistate le coste del continente meridionale, di cui si conosceva poco o nulla. L’impero aveva i suoi avamposti lungo la costa, ma nessuna guarnigione si era spinta verso l’entroterra. Erano territori selvaggi, abitati da popoli ostili e superstiziosi, e poi si aggiravano delle strane bestie, felini giganti e serpenti letali.

Udrien salutò con un cenno il capitano e il resto dell’equipaggio e lasciò il porto. I cavalli erano rari in quelle zone, la gente preferiva muoversi con i cammelli, ma Udrien non volle rinunciare a una buona cavalcatura, e pagò altre dieci corone per un cavallo che nella sua terra non sarebbe costato più di due pezzi d’oro. Prima che la voce del suo arrivo potesse arrivare alle orecchie delle guardie dell’avamposto, Udrien era già lontano. Oltrepassò montagne di roccia rossa e sabbia, costeggiò per due giorni quello che secondo le leggende doveva essere il Grande Deserto Equatoriale, e infine spinse al galoppo il suo cavallo

Page 173: L'Albero delle Parole

172

attraverso la sterminata savana, sulla quale poté avvistare i grandi felini muoversi a piccoli branchi; leoni e giaguari. Oltre la piana si apriva la giungla, una foresta incontaminata in cui si diceva vivesse il popolo più antico del mondo, i Léonidi, i figli del leone. La fuga si era trasformata in esplorazione. Udrien adesso non cercava solamente un luogo in cui il braccio dell’impero non lo avrebbe raggiunto. Voleva soddisfare la curiosità di ogni uomo del nord, accertare l’esistenza della città d’oro e delle sette regine immortali.

La storia veniva raccontata da secoli, forse addirittura da millenni, e più antica è la leggenda più incredibile diventa, perché nel tramandarla i menestrelli la colorano sempre di nuovi particolari. Le regine erano donne troppo belle per poterle contemplare senza impazzire, e per questo motivo indossavano sempre delle maschere. Mangiavano gli uomini e dimoravano in un palazzo d’oro e madreperla, che si ergeva in tutto il suo splendore sopra la città. Il cannibalismo era una delle pratiche che permetteva loro di vivere in eterno, insieme ad altre assurde stregonerie. Il loro popolo le temeva e venerava, e gli uomini facevano a gara per diventare il loro pasto. Perché si diceva che prima di mangiarlo, l’uomo veniva introdotto nella stanza del piacere, e le sette regine si toglievano le maschere e facevano all’amore con lui, tutte insieme. Al mattino l’uomo veniva trovato privo di vita ma con un’espressione beata sul volto. Poi veniva cucinato e mangiato.

Udrien non sapeva se credere oppure no a questa leggenda. Sicuramente un filo di verità doveva esserci, come con tutte le storie. La città d’oro e le sette regine… Fantasticava la mente del guerriero, mentre procedeva lentamente attraverso la vegetazione. Presto si rese conto che non sarebbe stato più possibile continuare a cavallo. La giungla diventava pian piano più intricata e non vi erano sentieri da seguire. Dette una pacca sul collo dell’animale e lo lasciò libero di tornare indietro. Forse sarebbe diventato il pasto di una famiglia di felini, ma quella era la vita. Un giorno si mangia, il giorno dopo si è mangiati…

Continuò da solo, aprendosi la strada a colpi di spada. Dovette accamparsi per la notte, ma preferì dormire su uno dei rari alberi

Page 174: L'Albero delle Parole

173

ad alto fusto che riuscì a incontrare, relativamente distante dai predatori notturni ed dagli insetti velenosi. Al mattino seguì una dieta di bacche e liquore di radici, un estratto che si era portato dietro dal suo paese. Due sorsi di quell’essenza valevano un pasto completo. Riprese il cammino annusando l’aria e prevedendo la tempesta. La pioggia infatti non tardò ad arrivare, una doccia calda ed insistente tipica delle zone equatoriali. La vista di Udrien non riusciva a protrarsi più di una decina di passi, ma il suo senso dell’orientamento altamente sviluppato lo tenne sulla giusta strada. La direzione era sempre quella: l’estremo sud.

La pioggia continuò per tutto il giorno e il guerriero temette di essersi imbattuto in una di quelle perturbazioni tipiche di quei luoghi, eventi climatici che potevano durare per mesi. Invece un vento nuovo spazzò via le nubi quando il sole stava quasi per spegnersi all’orizzonte. Udrien si arrampicò su un albero per vedere finalmente dove si trovava e la visione che gli si presentò davanti agli occhi lo lasciò esterrefatto. Nel riverbero rossiccio del tramonto, vide ergersi in mezzo a quello sconfinato mare di vegetazione la città d’oro, una cupola di edifici a vetri e a specchi, ampie terrazze fiorite e strade illuminate da globi di luce, cento, mille, diecimila costruzioni di pietra finemente lavorata e ricoperta di uno strato di vernice dorata. La stessa procedura era stata riserbata alle tegole dei tetti, cosicché pareva che l’intera città rilucesse del metallo più prezioso. Nel mezzo, su un promontorio verde circondato da alberi dalla folta chioma, si ergeva un palazzo con sette torri, anche questo completamente ricoperto d’oro, ma adornato da elaborate venature di madreperla, una visione che lasciò il guerriero senza fiato.

Poco più tardi Udrien uscì dalla foresta e incontrò una delle strade che portavano alle porte della città. Il sole era già tramontato e non incontrò nessuno lungo il percorso. Solo le enormi statue di due leoni sorvegliavano l’ingresso alla città dorata, effigi inanimate ma assolutamente inquietanti. Lo stesso Udrien dovette fermarsi e prendere coraggio per passarvi nel mezzo. Anche questi erano ricoperti d’oro e avevano due rubini per occhi.

Page 175: L'Albero delle Parole

174

Entrò nella prima taverna che incontrò, e appena mise piede oltre la soglia si sentì gli occhi di tutti gli avventori addosso. Il motivo era facile da indovinare; aveva la pelle chiara, mentre i Leonídi erano scuri come l’ebano, e alti in media un palmo più di lui. Udrien non si lasciò intimorire e sedette su uno sgabello davanti al bancone. La locanda sarebbe stata considerata un luogo lussuoso nelle sue terre, ma qualcosa gli diceva che nella città dorata era solo una taverna come le altre. Non conoscendo la lingua fece un gesto all’oste che capì al volo e gli servì un boccale di birra scura, calda e dolciastra. Udrien la trovò insolita ma buona. Ne bevve tre e finalmente avvertì il tiepido conforto della mente sul corpo. Incominciò a sentirsi a suo agio ma non aveva voglia di ubriacarsi. Posò sul bancone una sacchetto di monete che l’oste, nonostante non riconoscesse il conio, fece scomparire velocemente in un cassetto. Poi gli consegno la chiave di una stanza. Il guerriero si concesse un’ultima bevuta e infine si ritirò.

La mattina dopo Udrien girò per le strade della Città Dorata, che i Leonídi chiamavano Camarvilia, e non passò certo inosservato. Raggiunse la grande piazza del mercato e vide un corteo di gente che si muoveva verso il palazzo centrale. Si unì alla folla e ben presto scoprì che era in corso un torneo. La gente si riversava sulle gradinate di un anfiteatro e sotto di questa, su un ovale di terra rossa, dieci guerrieri erano pronti a combattersi fino alla morte. Il premio più ambito era l’accesso alla stanza del piacere.

E allora Udrien le vide e capì che la leggenda delle regine nascondeva più di un pizzico di verità. Sedute su dei troni sporgenti dalla gradinata opposta, sette donne vestite di veli epiume attendevano l’uomo che sarebbe diventato per una notte il loro amante, e per molti giorni la loro principale portata. Indossavano delle maschere che conferivano loro dei musi felini; una tigre, un giaguaro, una leonessa, una pantera, un ghepardo, una lince e un puma. L’anfiteatro era ghermito, la gente brulicava dappertutto, ma un corno si levò forte nel cielo, e allora tutti si quietarono e rivolsero lo sguardo alle sette regine. Insieme diecimila persone salutarono le donne immortali. Il modo in cui questo rituale avvenne lasciò Udrein sbalordito. Il guerriero

Page 176: L'Albero delle Parole

175

sedeva davanti ai troni, dalla parte opposta dell’anfiteatro. Nell’arena incominciarono i combattimenti, ma lui non perse mai d’occhio le regine, che rimanevano immobili ed imperscrutabili dietro le loro maschere.

Uno ad uno i guerrieri caddero, mischiando il loro sangue alla terra rossa. Un uomo alto con un elmo di bronzo ed una ascia bipenne uscì vincitore. Muscoli lucidi risaltavano sotto l’armatura, nell’accecante bagliore del pomeriggio equatoriale. Mosse ampi passi verso il centro dell’arena e, inginocchiandosi davanti ai troni, reclamò il suo premio.

Ma in quell’istante Udrien si alzò, e nessuno dei diecimila poté fare a meno di notarlo. Nell’anfiteatro era sceso il silenzio. Con un balzo scavalcò la fila di spettatori che gli sedevano di fronte e atterrò agilmente sulla terra rossa dell’arena. Sfoderando la spada che lui chiamava Gilda, andò incontro al vincitore del torneo, che lo superava di almeno due palmi in altezza. L’iniziativa delguerriero dalla pelle bianca non era prevista dal regolamento del torneo, ma l’occasione era troppo unica per interrompere il corso degli eventi. Le regine parlarono insieme. Udrien non poteva capirne la lingua, ma intuì il significato delle loro parole, perché il guerriero dall’elmo di bronzo si voltò verso di lui e alzò l’ascia, pronto a combattere.

Le incitazioni del pubblico s’innalzarono dagli spalti, mentre i due combattenti si avvicinavano al centro dell’arena. Saper leggere lo sguardo dell’avversario significava conoscere in anticipo le sue intenzioni. I Leonídi erano una cultura antica e molto diversa da quella dalla quale proveniva Udrien, ma esistevano anche i linguaggi universali, quelli del corpo e degli occhi. Il guerriero dalla pelle bianca attese impassibile, la spada salda tra le mani, la testa alta, le gambe in posizione di slancio. Fu il campione a muoversi per primo, descrivendo un semicerchio mortale con la sua lama bipenne. Udrien aspettò fino all’ultimo prima di scattare, ma non ripiegò indietro. Portò un affondo improvviso, agile , rapido e letale.

Il pubblico ammutolì. Il volto del guerriero dalla pelle d’ebano divenne una maschera di terrore. Gilda era penetrata in tutta la sua estensione attraverso l’addome del campione, che si sentì

Page 177: L'Albero delle Parole

176

velocemente svuotare delle forze. Lasciò andare l’ascia, cadde in ginocchio e infine sprofondò nella terra rossa, emettendo l’ultimo respiro.

Nell’asfissiante calura del meriggio, uno straniero dalla pelle bianca andò a reclamare il suo tributo. Il pubblico tacque fino al momento in cui le guardie delle regine entrarono nell’arena per scortare il nuovo vincitore al palazzo dorato. In quel silenzio imbarazzante, Udrien non abbassò mai la guardia, consapevole di avere leso l’orgoglio di un intero popolo.

Ma per quanto lo potessero odiare, la sua vita apparteneva adesso alle sette regine. Venne condotto attraverso un corridoio sotterraneo che dall’anfiteatro arrivava direttamente al palazzo reale. Sette ancelle lo lavarono, lo spalmarono di creme profumate e lo vestirono con una tunica bianca e dei sandali. Fu costretto a lasciare la sua spada alle guardie che non lo persero di vista un istante, e questo lo turbò molto. Ma presto la sua curiosità sarebbe stata colmata. Avrebbe visto in faccia le signore della città dorata, avrebbe fatto parte della leggenda. Uno straniero nella stanza del piacere. Udrien viveva per le emozioni forti, sempre sull’orlo del baratro, perché solo se il rischio era alto valeva la pena di stare al gioco. La prospettiva d’impazzire davanti alla visione delle principesse non lo preoccupava minimamente. Se quella doveva essere la sua fine, allora ne sarebbe valsa sicuramente la pena.

Le ancelle insieme a due guardie lo accompagnarono davanti a una porta di legno massiccio, finemente lavorato. Rimasero tutti quanti a debita distanza dalla maniglia. Uno dei due uomini fece cenno al guerriero di proseguire da solo. Udrien non ebbe bisogno di essere pregato ulteriormente. Afferrò la maniglia e sparì all’interno della stanza.

La luce era quasi accecante. Una grande vetrata si apriva per almeno venti metri su un intero lato della stanza, e oltre questa vi era una terrazza semicircolare che dava sulla città, e vi erano piante e fiori e una fontana che zampillava allegra. La stanza invece era occupata per la maggior parte da una vasca d’acqua cristallina, alimentata da dei rubinetti dorati che gorgogliavano nel silenzio del caldo pomeriggio. Davanti alla vasca vi era un

Page 178: L'Albero delle Parole

177

letto a baldacchino, il più grande che Udrien avesse mai visto, costruito in ferro battuto e placcato d’oro. Misurava almeno cinque metri in larghezza, ed era rivestito di sete dai colori sgargianti, e disseminato da decine di morbidi cuscini. Arazzi raffiguranti scene di caccia sfuggenti si muovevano appena accarezzati dalle brezze leggere. Il guerriero non si lasciò intimidire dallo scenario. Sapeva perfettamente quale sarebbe stato il suo compito, e il suo destino. Rimosse la tunica e la gettò in un angolo. Il suo corpo nudo, i suo muscoli scintillanti di creme, la sua lunga chioma corvina, si immersero delicatamente nella vasca. L’acqua era tiepida e profumata. Rimase in attesa, contemplando i riverberi dorati delle suppellettili e dei mobili che adornavano la stanza.

Entrarono insieme, tutte e sette, ancora adorne di veli e con le maschere ai volti. Si disposero davanti a lui lungo il bordo della vasca. Udrien le aspettava nell’acqua. Con un gesto abile e delicato rimossero le vesti, che si afflosciarono ai loro piedi. Sette corpi femminei turgidi ed abbronzati, dalle linee perfette. Seni ritti e pieni come pomi, ampi e sensuali fianchi nel mezzo ai quali spuntavano piccoli ciuffi scuri, invitanti, dolci e precisi. Con gesti congiunti si mossero verso di lui, scendendo gli scalini della vasca. Quei corpi meravigliosi ed immortali si immersero lentamente nell’acqua, e in quel momento Udrien afferrò il senso della leggenda. La visione di quella bellezza era talmente sconvolgente che una volta raggiunta, nessun uomo sarebbe mai riuscito a farne a meno.

Gli si fecero incontro, lo accerchiarono, allungarono una mano verso di lui, mentre l’altra la portarono dietro la testa, afferrarono il laccio che teneva legata la maschera e lo sfilarono lentamente, rivelando i loro visi. Udrien trattenne un grido. Il cuore gli balzò nel petto e accelerò in una corsa sfrenata. Era sicuro che gli si sarebbe spaccato in due. Lui che aveva affrontato demoni, draghi e creature né vive né morte senza mai abbandonarsi alle debolezze della mente, rimase vittima del tumulto emotivo. Restò immobile al centro della vasca, gli occhi sgranati incapaci di lasciare la presa, catturati da quei volti perfetti ma in maniera

Page 179: L'Albero delle Parole

178

aliena. Afferrò un respiro e vi si aggrappò. Poi incominciarono le carezze, i baci e tutto il resto.

“Udrien, sappi che incontrerai nemici che eluderanno la tua spada e i tuoi muscoli. Stregoni, fattucchiere e creature dannate, ma non solo. Esistono divinità che camminano sulla terra, e alcune di queste sono maliziose e adorano baloccarsi con gli umani. Se avrai la sfortuna, o la fortuna, d’imbatterti in alcune di loro, avrai solo una possibilità per salvarti. Per questo motivo hai bisogno di conoscere le arti della mente. La mente è come un palazzo pieno di stanze. Quando queste creature vorranno giocare con te, devi fare in modo di chiudere a chiave la maggior parte di queste stanze, e farle entrare solamente in una di queste. Poi la chiuderai a chiave per sempre, e te ne terrai alla larga, se non vuoi che il veleno in essa confinato si riversi dappertutto…”

Udrien ricordò le parole di Walkor, padre e maestro. Ogni arte di sopravvivenza che conosceva la doveva a lui.

Non bastò una sola stanza per confinare il fascino incantatore delle regine della città d’oro. Ce ne vollero sette, una per ogni volto, e dopo quell’esperienza rimase ben poco del vecchio Udrien.

Le amò con il corpo più volte, ma le confinò lontano nella mente, e quando tutte furono sazie, lui le lasciò dormienti nel grande letto. Uscì dalla stanza e ritrovò la sua Gilda, forse l’unica compagna che gli sarebbe per sempre rimasta al fianco. Uccise tre guardie prima di riuscire a conquistare l’uscita del palazzo, e meno di un’ora più tardi era già lontano, ingoiato dal groviglio della giungla.

Sarebbe andato ancora verso sud.Avrebbe svelato nuovi miti.Perché il suo nome era Udrien, e nella sua lingua significava

“forgiatore di leggende”.

Page 180: L'Albero delle Parole

179

SPENGI LA LUCEdi Jonathan Macini

«Spengi la luce.»«Ma dici sempre che ti piace guardarmi…»«Si, ma stanotte c’è la luna, vedi?»Il disco argentato si affaccia dalla finestra in tutto il suo

splendore, grande e luminoso, a guardarlo ci si può perdere nel mare della tranquillità… La luce è presa in prestito dal sole, è il riflesso di un bacio, si deposita sui due corpi nudi, abbracciati, ricoprendoli di una patina di candore.

L’overture dell’amore sono i baci e le carezze. Le labbra dei due amanti si adagiano sulle rispettive pelli, fremano le epidermidi, richiamano i sughi del piacere. E allora sono le lingue che introducono il tema principale, leggere, appena umide, scivolano sugli avambracci e dietro al collo. Si soffermano sui lobi, ci giocano un po’ e poi s’incontrano, toccandosi e ritraendosi.

Intanto le mani cercano, perché loro cercano sempre, non stanno mai ferme. Gli incavi, le curve, i muscoli, le parti nascoste, fino alle pelurie che nascondono gli interruttori del piacere. La luce della luna gioca con le ombre e regala il mistero.

La musica si arricchisce dei primi ansimi, i movimenti si fanno più veloci e cadenzati, gli arti degli amanti si attorcigliano come se volessero fondersi. Lui la sente strusciarsi, lei avverte l’estensione di lui. È arrivato il tempo dell’esplorazione.

La canzone si avvicina al ritornello. Lui scende giù, lei sente i brividi, chiude gli occhi, inarca la schiena, poi li riapre e guarda la luna, sorride, geme, avverte il bisogno di far fluire il calore che le alberga dentro. Spinge delicatamente la testa di lui e gli va sopra, accogliendo il suo dono. Conscia delle carezze d’argento sui suoi seni, inizia a muoversi al ritmo della canzone. Lui è sotto, la guarda, ed è come se guardasse dio, o l’infinito, il significato del tutto, l’amore e il piacere.

La melodia diventa un bolero che si ripete per molte battute, e sale, sale, sale, ma non fino all’apice. C’è ancora molta strada da fare, prima di abbandonarsi alla pace dei sensi.

Page 181: L'Albero delle Parole

180

La canzone cambia il tempo, è una suite, una lunga sinfonia divisa in movimenti. Lui si alza, la bacia, la guarda negli occhi, sono sempre uno dentro l’altra, una cosa sola, insieme alla luce della luna. Poi è lei che inizia a giocare con l’interruttore di lui. Il fuoco divampa all’altezza dell’inguine, sente il bisogno di refluirlo, si adagia accanto a lei e sprofonda la lingua nella dolce peluria, cercando e trovando con esperienza. La degustazione va avanti, tra spasimi e contrazioni, un’altalena di sensazioni al limite della sopportazione.

Tamburi e corni entrano prepotentemente nella melodia. I due corpi adesso cercano i limiti del piacere, avvalendosi di qualsiasi espediente. Lei ha la faccia sprofondata nel cuscino e da le spalle a lui, che le è sopra. Alterna il gioco dei suoi pistilli d’amore, approfittando del duplice invito. Le afferra i capelli, lei geme, lui muove un riff prepotente ma in qualche modo dolce. La vetta è vicina, ormai mancano pochi passi…

Lei asseconda il ritmo, si muove insieme, lo trascina, lo prega di continuare, di non smettere mai! Allora lui sa che il momento è quello giusto, perché capisce che non può più tornare indietro. Così aumenta il tempo, sempre più veloce, sempre di più…

Il finale è il trionfo e il trapasso, il gemito e il flusso, la nascita e l’abbandono.

La luce lunare bagna adesso i loro corpi sazi. I respiri si acquietano, le mani si cercano ancora, si trovano, si stringono. La notte e l’oscurità sua complice sono state celebrate nel modo migliore.

I due amanti si guardano. Sorridono…«Accendi adesso?»«No… aspettiamo ancora un po’.»

Page 182: L'Albero delle Parole

181

L'ULTIMA CICCAProgetto "Passami la Storia"

«Che diavolo sei venuto a fare qui se non abbiamo più niente da dirci?»

«Lo sai che non sono venuto qui per parlare.»Lo vidi frugare nervosamente nelle troppe tasche del giaccone

imbottito, fino a quando un accenno di sorriso sancì il successo della sua ricerca.

Un rapido movimento ed il bagliore della fiamma illuminò quello che in passato era stato il nostro unico rifugio. Anche qui iltempo aveva lasciato segni incancellabili come quelli sui nostri volti.

Poco prima, nella penombra, si era annidato il sospetto che quei lunghi anni non fossero mai passati; la polvere e un colpo di tosse proveniente dall’altra stanza ci richiamarono bruscamente al presente.

«Passami la cicca» gli chiesi. E lui me la offrì, come aveva fatto mille volte prima, in un tempo magico ma ormai perduto. Sulle labbra sentii il suo sapore, mischiato a quello del filtro e della nicotina. Bastardo, pensai. Potevamo realizzare in nostri sogni, fare quello che abbiamo sempre sognato, ed invece…

«Come sta?» mi domandò. E che cazzo gliene fregava a lui! Vedova a trentacinque anni, con due bambini piccoli. Ecco che cosa rimaneva di me.

«Non lo senti? Sta morendo…» gli dissi. E aspirai forte quella dannata cicca, cercando di farmi venire un tumore fulminante. Quanto lo odiavo. Quanto lo desideravo!

«Senti, volevo dirti soltanto che mi dispiace…»«Si, lo so…» e intanto pensavo “che stronzo! Scordati la cicca,

perché non te la rendo!”.«Comunque, grazie di essere passato. Adesso devo tornare da

lui…»«Certo. Se hai bisogno di qualcosa, non esitare…»

Page 183: L'Albero delle Parole

182

Esistono forze nascoste che ti permettono di fare cose impensabili. Attinsi a quelle per evitare di piangere, per non dargli anche quella soddisfazione.

«Va bene…»«Ciao…»«Ciao!»Lo osservai salire in auto e tornare verso la città. La sigaretta era

arrivata alla fine. Aspirai forte i suoi ultimi millimetri di tabacco e poi la gettai il più lontano possibile.

Fu la mia ultima cicca.

AUTORI: GM Willo, Gherardo, Ciccius, Lacate, Marcochao

Page 184: L'Albero delle Parole

183

SWEET LITTLE PAINdi Giulia Riccó

Mi sdraiai tra i fiori continuando ad assaporare i momenti passati con lui come a volermi fare del male. Mi torturavo dolcemente al pensiero delle notti passate assieme. Lui il mio dolce piccolo dolore. Guardai il sole sopra di me.

Era accecante.Chiusi gli occhi e vidi il suo volto. Mi sorrideva dolce e gentile.Ora era da lei, il suo antico amore. Lui che non sapeva decidersi

era andato da lei ancora una volta, chissà di cosa parlavano, se la stava accarezzando, se le ha mai parlato di me. Chissà se mi avrebbe pensando mentre guardava il suo viso.

Continuai a farmi del male pensando a tutte queste cose. Sentii come un dolore sordo che ti si incolla al cuore e te lo strappa piano, ti allaga le vene, ti artiglia lo stomaco come un drago affamato.

Riaprii gli occhi e, in un istante, il blu del cielo si mescolò al verde dell’erba e al viola dei fiori e una luce accecante mi ferì gli occhi. Li tenni fissi sul sole fino a farli lacrimare, poi li richiusi e sentii il mio stomaco in subbuglio e la mia testa galleggiare leggera. Mi tornò alla mente il nostro primo bacio, la nostra prima notte d’amore.

Di nascosto da tutti, all’insaputa di tutti avevamo coltivato il nostro affetto e il nostro amore così come si coltiva un piccolo giardino. Neppure noi ci eravamo accorti di quanto fosse profondo ormai l’affetto che ci legava. Fino al giorno in cui non ci incontrammo di nuovo. Tra amici, come amici, poi dopo, nella clandestinità della notte, come amanti. Mi risuonavano all’orecchio le sue parole d’amore e potevo ancora sentire il suo profumo invadere le mie narici. La pelle bruciante nel calore dei suoi abbracci. Quanto mi mancava tutto ciò.

Ripensare a quei momenti era dolce e straziante. Separarmi da lui e vederlo tornare alla sua vita senza di me fu ancora più doloroso.

Page 185: L'Albero delle Parole

184

Quante lacrime versai quando mi disse “Non so decidermi, sei la cosa più speciale che mi sia capitata e ho paura di perderti, ma non riesco a decidermi. Siete entrambe importanti”.

Fu come se qualcuno mi strappasse il cuore e lo gettasse tra le fiamme.

L’unica cosa che riuscii a dirgli fu di prendersi tutto il tempo che voleva, di pensarci bene perchè, tutti quegli anni passati con lei non potevano cancellarsi in un momento e che magari c’era ancora speranza di tornare indietro e aggiustare i pezzi rotti. Aggiunsi di non preoccuparsi per me che sarei stata bene comunque, che ero forte.

Che patetica bugiarda sono stata. Non stavo per niente bene.Avrei voluto averlo accanto, desideravo che si decidesse in

fretta per non restare in questo maledetto limbo ad aspettare. Era straziante straziante.

Stupida, stupida, stupida.Arrivò un messaggio sul cellulare. Non lo guardai pensando

che fosse lui che mi diceva che rimaneva da lei quella sera.Stupida e illusa.Ebbi un brivido di freddo. Il vento che si alzò mi asciugò le

lacrime.Lacrime? Non mi ero nemmeno accorta di essermi rimessa a

piangere. Sono proprio patetica.Eppure non potevo fare a meno di pensare a lui.E così continuai la mia silente tortura.“Sapevo che ti avrei trovata qui. Per fortuna che avevi detto che

saresti stata bene. Sei la solita sciocchina.”Aprii gli occhi. Il sole era tramontato e stavano comparendo le

prime stelle. Lui si sdraiò al mio fianco.Sentii un tuffo al cuore e un calore immenso quando mi prese la

mano.“Guarda quante stelle ci sono sta sera! Scegline una…”Guardai il cielo, poi guardai lui. “ Io l’ho già la mia stella.”

sussurrai senza fretta.Restammo lì abbracciati senza dire altro con un piccolo dolce

dolore a tenerci compagnia.

Page 186: L'Albero delle Parole

185

LA LAMA NELLA TELARaccontami sulle note di...

In bocca ho ancora il sapore dell’altra. Dolce come il miele nel momento, amaro come il fiele mentre penso a lei, il mio unico amore.

Potrei mentirle, mentire a me stesso mentire al mondo intero, ma non sarebbe mai più lo stesso. Non è un bivio, non esiste una scelta vera e propria. Esiste solo quello che è successo, in una notte alcolica d’inverno, tra le lenzuola di raso di una ragazzina incontrata per caso. E lei che mi cerca al cellulare, che impreca con le amiche perché non le rispondo ai messaggi, perché non sono dove dovrei essere.

Niente potrà mai cambiare quello che è successo. Niente e nessuno potrà cancellare questa storia, la storia di una scopata veloce, di una lussuriosa notte senza stelle.

Ho infilzato la lama nella tela del nostro quadro, ho aperto uno squarcio che non potremo mai richiudere. L’unica alternativa è rincominciare a dipingere. Un’altra tela, nuovi pennelli, un altro soggetto.

È l’inizio di un nuovo corso?Questo dipende da lei.Io sarò le sue tempere, se lei lo vorrà. Ancora, ancora ed ancora.Se lei lo vorrà…

GM Willo ascoltando “A Natural Disaster” degli Anathema.

Page 187: L'Albero delle Parole

186

L'URNA DEL SACRO TÉdi Aeribella Lastelle

Capitolo 1

Nella città di Clarabia, presso il palazzo reale della principessa Gigliola, si trova l’Urna del Sacro Tè, il cui prezioso contenuto altro non è che la cosa più desiderata dell’intero continente emerso (infatti gli abitanti dei Mari non usano prendere il tè!). Il pregiato contenuto dell’Urna è un estratto di foglie incantate di una pianta sconosciuta, proveniente da una remota dimensione dello spazio. Tali foglie possono essere utilizzate infinite volte e l’infuso che ne deriva possiede poteri illimitati. Per questomotivo viene chiamato il Tè dei Desideri.

Capitolo 2

Si conosce dunque la leggenda di questa magica Urna e del Tè dei Desideri, ma rimane ancora Mistero Velato ciò che presto accadrà. É un giorno sereno che preannuncia una visita inaspettata, ed ecco che il principe Vertusio, signore di una terra nordica estremamente fredda, giunge alle porte del palazzo di Clarabia circondato da accompagnatori, per omaggiare la bella Gigliola di splendidi doni. Ma nessuno è a conoscenza della malvagia congettura del principe, che in verità vuole solo impossessarsi della preziosa Urna. Ed è proprio per questo motivo che accetta l’invito della principessa a rimanere un po' di tempo a palazzo.

Capitolo 3

Avviene così che e furbo Vertusio, ormai in confidenza con Gigliola, si faccia rivelare il luogo segreto in cui l’Urna è deposta. Non passa molto tempo che una notte il perfido, aiutato dal suo consigliere e stregone di talento Demetrio, discenda nelle profondità del palazzo verso il nascosto loco, ed eludendo il volere delle guardie, recuperi il prezioso tesoro per poi fuggire a

Page 188: L'Albero delle Parole

187

cavallo nella notte. Ma ritrovandosi senza la sua cospicua scorta, probabilmente ancora immersa nel sonno nelle stanze del palazzo della principessa, si rende subito conto che il viaggio verso il suo paese si rivelerà alquanto lungo ed insidioso.

Capitolo 4

Al risveglio la principessa, appena accortasi del terribile inganno del principe, rimane estremamente sconcertata e subito raduna i suoi uomini migliori, ovvero i tre specialisti chiamati “Gli Artigli di Clarabia”. Questi valorosi sono niente poco di meno che: Cleodoteo il Magnifico, prode guerreggiante senza timore alcuno, il dottor Savino, illustre studioso e scienziato di successo, e Mr. Tebaldo, pensatore, inventore e validissimo factotum.

Tosto i tre salgono a cavallo e partono all’inseguimento dei due ladri.

Capitolo 5

Intanto i due fuggiaschi, approfittando di una breve sosta, si adoperano per soddisfare immediatamente il loro più grande desiderio, ovvero assaggiare il leggendario Tè. All’interno dell’Urna, peraltro di squisita fattura, trovano un piccolo uovo dorato agganciato ad una sottile catenella., da utilizzare come filtro per le pregiate foglie. E così in breve tempo i due preparano due tazze di fumante infuso che non tarda molto ad essere bevuto. Con estremo stupore dei due ladri nulla accade, eppure il Tè è veramente buono.

Capitolo 6

A corte la disperata principessa Gigliola, rimasta priva del suo prelibato Tè, cerca di consolarsi con una cioccolata calda. Il risultato, pessimo per la delicata pelle della bella principessa, la fa disperare ancor di più.

Page 189: L'Albero delle Parole

188

Capitolo 7

L’Artiglio di Clarabia cavalca attraverso le lande selvagge del paese, seguendo le tracce dei fuggiaschi. I tre giungono presso la foresta dei Tiziani, un popolo modesto e amico del bosco. E lì rimangono ospiti per la notte, scoprendo che nessuno è passato da quel territorio negli ultimi due giorni. Ormai convinti di essere stati ingannati da delle false tracce (era stata infatti una magia dello stregone Demetrio a piazzarle), la mattina dopo i tre valorosi ritornano sui loro passi, cavalcando veloci per recuperare il tempo perduto.

Capitolo 8

Nel paese dei Corridoni (alquanto ad est) il Governatore On-Tai-Ogoko viene a conoscenza del furto presso la corte della principessa Gigliola. Ben desideroso anch’egli di mettere le mani sulla leggendaria Urna, convoca immediatamente il suo gruppo scelto denominato Il Pugno di Ogoko. Questo è composto da otto guerrieri-canidì, specialisti in ogni tecnica di combattimento ed esperti in ogni arte di sopravvivenza. Anche per loro l’ordine è quello di recuperare il prezioso tesoro, così partono veloci verso ovest.

Capitolo 9

Il consigliere mago Demetrio, stupito forse più del suo principe dell’apparente inefficienza del magico infuso, promette a Vertusio di analizzare le foglie del composto, appena giunto presso il suo laboratorio. Ma la strada da percorrere è ancora lunga ed insidiosa.

Capitolo 10

Intanto la principessa Gigliola si dà per malata. Lei infatti si è convinta che senza la sua tazza di prelibato Tè dei Desideri quotidiana, la sua vita è condannata ad una lunga agonia che

Page 190: L'Albero delle Parole

189

presto la porterà sul letto di morte. I dottori si adoperano per trovare un rimedio.

Capitolo 11

Tornati sui loro passi i magnifici dell’Artiglio di Clarabia ritrovano finalmente le tracce dei due ladri, i quali sembrano aver tagliato la foresta passando per i Colli del Silenzio. Ancora irritati a causa dell’inganno delle false tracce, i tre spronano le loro cavalcature fino al tramonto, scoprendo però di avere sempre all’incirca due giorni di svantaggio sul principe ed il suo servitore.

Capitolo 12

Circondati dai silenziosi colli, il principe Vertusio e Demetrio lo stregone avvistano una casa solitaria nella valle. Desiderosi di un posto caldo per passare la notte, si affrettano a raggiungerla. Il padrone di casa, un Nano Nero di nome Silvestro con la barba ed i capelli bianchi come la neve, li invita con un sorriso ad accomodarsi presso il fuoco, ma il mago, malgrado l’apparente gentilezza della Stranfigura, ne diffida fin dall’inizio. Ed infatti durante la notte i due vengono attaccati improvvisamente da un’orribile Verme Gigante (non tutti sanno che i Nani Neri di notte si trasformano). Prontamente Demetrio lo stregone evoca uno Spirito Criptico per impegnare il mostruoso essere, e così i due hanno il tempo di scappare. Mentre fuggono nella notte, Vertusio maledice l'inutile Urna, e se stesso per averla così tanto desiderata, ma il suo fedele compagno gli assicura che in qualche modo il Tè dei Desideri mostrerà prima o poi i suoi poteri.

Capitolo 13

Nel paese dei Meridìani, situato a nord dei Colli del Silenzio, il principe dei nomadi Tiberio attende il risultato delle divinazioni della Zingara Veggente. È così che viene a conoscenza

Page 191: L'Albero delle Parole

190

dell’imminente arrivo del principe Vertusio e del suo consigliere in possesso dell’Urna del Sacro Tè.

I nomadi si preparano ad accogliere i fuggiaschi.

Capitolo 14

I tre uomini della principessa Gigliola giungono presso la casa del Nano Nero e qui hanno un interessante conversazione con lo strano personaggio. Scoprono infatti di essere finalmente sulla giusta strada, giacché due notti prima i due ladri si erano fermati nel medesimo posto. Estremamente ospitale e gentile, Silvestro invita infine il gruppo a rimanere per la notte, ma il saggio dottor Savino, che la sa lunga e grassa (nonché 5 o 6 più del Diavolo), si scusa da parte di tutti dicendo: “Mi dispiace ma andiamo di fretta!” Col tramonto in faccia i tre tornano all’inseguimento.

Capitolo 15

Intanto il Pugno di Ogoko, dopo aver raggiunto il lato orientale dei Colli del Silenzio, si divide in quattro coppie per esplorare meglio la zona.

Capitolo 16

Viaggiavano al riparo di una scarsa vegetazione, intenti a passare inosservati per l’insidioso paese dei Meridiani, quando il principe Vertusio insieme al suo compagno stregone cadono nell’imboscata che li attendeva. Circondati da un gruppo di esperti guerrieri nomadi, i due vengono fatti prigionieri e l’Urna viene consegnata al principe Tiberio. Impaziente come un bambino, quest'ultimo fa preparare immediatamente una tazza del prezioso infuso dalle magiche proprietà, ma quando lo beve ne rimane alquanto deluso (non certo per il gusto, decisamente squisito).

Page 192: L'Albero delle Parole

191

Capitolo 17

Giunti nel paese dei Meridiani, i componenti dell’Artiglio di Clarabia vengono a sapere della cattura dei due fuggiaschi con l’Urna. Consci dell’inutilità di chiedere al principe dei nomadi il tesoro recuperato in nome della principessa Gigliola, unica e sola proprietaria, congetturano un qualche espediente per riappropriarsi segretamente del prezioso.

Capitolo 18

Due guerrieri canidi del paese dei Corridoni giungono presso la casa del Nano Nero e scoprono importanti informazioni riguardo l’Urna, ma sfortunatamente per loro decidono di trascorrere la notte presso l’ospitale focolare. Solo uno di foro riesce a mettersi in salvo dall’improvviso attacco del verme gigante, e spronando veloce la sua cavalcatura si dirige verso nord.

Capitolo 19

Il principe Tiberio, scontento del trofeo appena conquistato, decide di usufruirlo per uno scopo a lui molto caro. Subito ordina una scorta di dieci Gendarmi delle Pianure e si prepara con il suo carro a lasciare la reale tenda, per raggiungere ad ovest la terra dei laghi. Laggiù, nel paese dei Fullomini, abita la bellissima principessa Camilla, di cui Tiberio è immensamente innamorato. Quale altro dono più prezíoso avrebbe potuto regalarle se non la magnifica Urna del Sacro Tè?

Capitolo 20

La principessa Gigliola, intanto, sempre più malata e depressa, riceve a corte un illustre filosofo dell’isola di Tembara, nel mare del sud. Questo, vivissimamente interessato all'Urna, assicura di poter recuperare il tesoro perduto se solo gli viene concesso di approfittare della biblioteca dedicata alla leggenda del sacro tè (una serie di scritture in lingua arcaica dove si narra del più e del

Page 193: L'Albero delle Parole

192

meno riguardo alle arti del Tè ed affini). Si patteggia che, nel caso l’Urna venisse recuperata, il brillante filosofo verrà ricompensato con una presa del Sacro Tè.

Capitolo 21

Dall’alto dei colli i tre della principessa Gigliola vedono prepararsi a partire la carovana del principe nomade e subito Mr. Tebaldo scende a valle per cercare importanti informazioni. Tiberio è ormai pronto a partire quando il Pensatore Inventore è di ritorno e rivela ai suoi compagni il progetto del nomade. I tre si preparano così a seguire la carovana.

Capitolo 22

Il guerriero canide sfuggito all’orribile verme gigante raggiunge la parte settentrionale dei Colli del Silenzio, dove incontra due suoi compagni ai quali rivela l’accaduto. Presto così i tre esplorano la valle dei nomadi e scoprono che il principe Tiberio è adesso possessore dell’Urna e che è appena partito alla volta del paese dei Fullomini. Due di foro decidono di inseguire il carro, mentre l'altro riceve il compito di avvertire il resto della banda. Il gruppo così si scioglie.

Capitolo 23

All’interno della sua grotta d’argilla, l’Animale Antico osserva la valle, individuando una preda perfetta; una carovana di nomadi, un pranzo speciale. Con passo leggiadro la Creatura Primordiale discende silenziosamente il pendio.

Capitolo 24

Dopo ore di ingegnoso lavoro, Demetrio lo stregone si libera dalle catene che lo tenevano prigioniero, e veloce si guarda attorno sapendo di non avere tempo da perdere. Con un gesto della mano addormenta le due guardie ed un momento dopo

Page 194: L'Albero delle Parole

193

libera il suo signore, il principe Vertusio, il quale adesso è molto più interessato di vedere Tiberio il nomade soffrire mille pene, che non di mettere di nuovo le mani sull’Urna. In meno di un’ora i due sono di nuovo a cavallo all’inseguimento della carovana del principe.

Capitolo 25

Il sole è alto nel cielo quando Tiberio da ordine di fermarsi per una piccola sosta. In quel mentre la Bestia fuoriesce dalla vegetazione cogliendo di sorpresa i Gendarmi delle Pianure. Due di essi si ritrovano immediatamente a terra, mentre gli altri si dispongono a semicerchio davanti al carro del principe. Per alcuni furiosi scorci di battaglia i guerrieri vendono cara la pelle, ma presto si accorgono che la loro audacia non basterà. L'Animale Antico stermina ogni suo avversario, ma quando penetra all'interno del carro per piombare sull’ultima indifesa preda, si accorge che questa è fuggita (insieme all’Urna ovviamente, ma questo alla Bestia poco importa). E non le importa neanche del fuggiasco, dal momento che la sua cena è già sostanziosa.

Capitolo 26

Sinedio, questo è il nome del filosofo, annuncia alla principessa Gigliola di aver anticipato il destino e di conoscere l’esatto loco dove l’Urna si sarebbe trovata da lì ad una settimana (quella di farsi beffe del fato era la meta più ambita dei filosofi e Sinedrio era convinto di esserci riuscito). Si prepara così una scorta di dodici guerrieri scelti per accompagnare il filosofo verso questo misterioso luogo: lo Strapiombo sulla Foresta Senza Nome.

Capitolo 27

Cleodoteo il guerriero è il primo ad avvistare la carovana nella valle. I tre discendono cauti e si avvicinano al luogo dello scontro, ove il sangue colorava il prato e l’odore di morte impregnava

Page 195: L'Albero delle Parole

194

l’aria. Il dottor Savino riconosce, dalle tracce lasciate dalla battaglia, che una feroce bestia deve essere stata l’artefice di quella carneficina. Il gruppo si convince così che se l’Urna non si trova più nel carro, qualcuno deve essersi allontanato con essa (giacché le bestie, soprattutto quelle feroci, non prendono il tè).

Nel giro di un'ora i tre trovano le tracce lasciate da Tiberio e si prestano a seguirle.

Capitolo 28

Una spia del governatore On-Tai-Ogoko, alla corte della principessa Gigliola, scopre gli intenti della segreta spedizione di Sinedio e subito avverte i cinque restanti guerrieri canidi che si erano ritrovati presso la città di Clarabia in attesa di disposizioni.

Facendo molta attenzione a non farsi scoprire, i cinque del Pugno di Ogoko si adoperano per seguire il gruppo guidato dal filosofo dell’Isola di Tembara.

Capitolo 29

Tiberio intanto segue il fiume verso nord ovest, diretto inesorabilmente verso le montagne, un percorso al quale è costretto se vuole evitare le insidie del bosco. Riflettendo su ciò che gli è capitato, il principe nomade maledice la sacra Urna contenente quell’inutile tè, convinto oramai di essere stato ingannato dalla leggenda stessa. É quasi tentato di gettare il tesoro nel fiume quando ci ripensa senza apparente motivo e si rimette in cammino verso le montagne, nella speranza d’incontrare, ai confini del bosco, una carovana appartenente al suo popolo.

Capitolo 30

Il principe Vertusio e il suo compagno stregone giungono presso la valle dove la carovana dei nomadi era stata attaccata dall’Animale Antico. Qui il mago Demetrio recupera un indumento del principe Tiberio e per mezzo di questo elabora un

Page 196: L'Albero delle Parole

195

complesso incantesimo che gli rivela l’esatta locazione del nomade fuggito insieme all’Urna. Tosto i due si rimettano in viaggio attraverso il bosco, nell’intenzione di anticipare la loro preda.

Capitolo 31

É oramai in vista del confine del bosco quando il principe Tiberio avverte alle sue spalle il sopraggiungere di uomini a cavallo. Subito cerca di nascondersi nella vegetazione, ma appena mette piede nella foresta due figure di sua conoscenza gli si parano davanti con intenzioni tutt’altro che amichevoli. Velocemente il nomade indietreggia, tornando verso la sponda del fiume dove i tre uomini della principessa Gigliola sono intanto sopraggiunti. Demetrio lo stregone è lesto ad evocare un Demone del Bosco ed a scaraventarlo sulla sua preda che, colpita duramente, lascia cadere la preziosa Urna. Si accende così una caotica lotta che si conclude a sorpresa con il sopraggiungimento della coppia dei guerrieri canidi che afferrano il tesoro e veloci spronano i loro destrieri verso le montagne. Il principe Tiberio, spinto nel fiume dall’entità evocata, viene dato per disperso, mentre gli altri, Cleodoteo il guerriero, il dottor Savino, Mr. Tebaldo, il principe Vertusio e Demetrio il mago, inseguono dappresso i due uomini del governatore On-Tai-Ogoko.

Capitolo 32

I dodici guerrieri della principessa insieme a Sinedio il filosofo attendono presso lo Strapiombo sulla Foresta Senza Nome, assolutamente allo scuro riguardo alla presenza dei cinque membri del Pugno di Ogoko nascosti poco distanti e pronti a tutto. Ed ecco arrivare al galoppo un gruppo di prede e predatori, la giusta scorta per la pregiata Urna del Sacro Tè. Un momento dopo si accende una vera e propria battaglia sulla sporgenza dello strapiombo. Il Pugno di Ogoko si riunisce e guerreggia con foga per difendere il prezioso tesoro dagli Uomini della principessa Gigliola, mentre Demetrio lo Stregone evoca contro le

Page 197: L'Albero delle Parole

196

due parti un paio di oscuri demoni. La battaglia sembra priva di un esito fino a quando il guerriero canide con in mano l’Urna viene colpito da un incantesimo del mago e perde la presa. Il prezioso oggetto inevitabilmente rotola verso il bordo dello strapiombo e precipita nella Foresta Senza Nome. Sinedio, davanti a tale evento, si getta nel vuoto seguendo il tesoro sì tanto rincorso, cosciente dell’errata formulazione di ogni sua teoria. Non è possibile in ogni caso precedere il proprio fato.

EPILOGO

E qui si conclude la storia dell’Urna del Sacro Tè. Tutti i personaggi ritornarono ai propri paesi e rifletterono molto sugli eventi trascorsi. Purtroppo, come spesso accade, non impararono niente dai loro sbagli. Perché gli uomini sono così. Corrono, corrono e corrono dietro le loro chimere, senza capire il senso di tutto quel correre. E una volta che hanno raggiunto i loro scopi, non sono mai soddisfatti.

L’anno dopo fu la volta dell’Anfora del Sole, che si diceva contenesse il vino degli dei. Ma questa è un’altra vecchia storia…

Aeribella Lastelle 1996

Page 198: L'Albero delle Parole

197

GIOVANNAdi Giulia Riccó

Andai da Giovanna il 27 maggio. Era in cella. Piangeva. Mi malediceva e mi pregava allo stesso tempo.

“Dove sei? Vieni fuori. Perchè non ti fai più vedere?”“Non sono io che non mi faccio più vedere, sei tu che non vuoi

più vedermi.”“Non è vero. ““Oh si, mia cara. Volevi andare oltre e non hai più sentito cosa

ti stavamo dicendo. Non hai più voluto vedermi e io non sono più apparso.”

“Mi hai abbandonato qui a marcire. Qui in una prigione inglese. Perchè?”

“Vedi piccola. Stai sbagliando anche ora. Non ti ho abbandonato io ma il tuo Re.”

“No, non mi abbandonerà, gli ho dato un trono. Ho combattuto per lui. Per lui e per il mio Dio. Tu me l’hai comandato e io l’ho fatto.”

“ L’hai fatto perché eri destinata a questo e perchè l’hai voluto. Il tuo Re non te l’ha domandato.”

“ Mi hai lasciato sola, e guarda cosa mi hanno fatto… ti prego proteggimi, parlargli digli che è vero, non mi abbandonare.”

“Non posso parlare con chi non vuol sentire. Fidati di me Giovanna. Non temere, sarò al tuo fianco…”

“No, aspetta… non te ne andare.. non lasciarmi qui ancora… per favore portami via… nooo…”

Il suono delle grida disperate della ragazza svegliarono i carcerieri che accorsero alla cella e la trovarono vestita con abiti di foggia maschile.

La portarono davanti agli inquisitori e lì ritrattò l’abiura che aveva firmato, si difese ma era confusa, terrorizzata. Dall’ombra osservavo il processo. Nessuno mi vide, nemmeno Giovanna. Ascoltavo e guardavo il lento evolversi degli eventi e quanto gli uomini possano essere crudeli quando una cosa diventa inutile.

Page 199: L'Albero delle Parole

198

Arrivò il 30 maggio al mercato di Rouen. Una grande pira era stata allestita nel centro della piazza.

Giovanna fu condotta in catene. Pregava e piangeva. Piangeva e pregava.

“Dove sei?”“Accanto a te.”“Perchè lo fanno? Tu sei qui, parlagli, diglielo. Obbligali a

lasciarmi. Ho fatto ciò che hai chiesto. Perchè?”“E’ il libero arbitrio Giovanna. Ognuno decide di rispondere o

meno alle convocazioni di Dio. Tu l’hai fatto. Io non posso fare altro.”

Continuò a pregare anche mentre leggevano la sentenza e le accuse.

Per un attimo avrei voluto prenderle la mano e farle sentire che non aveva sbagliato. Che doveva fidarsi. Ma la fede non lo permette. Doveva trovare la forza da sola. Doveva fidarsi di Dio anche allora che stava per essere condotta sul rogo. Doveva credere soprattutto allora… o sarebbe stato tutto inutile.

“Cosa devo fare? Cosa devo fare dimmelo! Parlami ti prego”“Fidati Giovanna. Sarò qui.”Non potevo fare altro per lei. Piangeva, era terrorizzata.

Cominciò a invocare il nome di Gesù quando accesero la pira. Povera bambina aveva gli occhi gonfi e spiritati. Continuava a domandarmi il perché. Perché Dio lo vuole, perché gli uomini hanno deciso così. Cosa potevo dirle? Alle volte io stesso dubito del nostro operato. Attesi finché la coscienza di Giovanna non fu altro che cenere.

Mi chiedo se alle volte il mio Signore non sia un po sadico. In fondo poteva dargli una fine più indolore.

Tornai al mio posto tra gli angeli, un giorno avrei forse trovato Giovanna al mio fianco. Allora avremmo chiacchierato a lungo di quel giorno e di tanti altri.

Page 200: L'Albero delle Parole

199

SERATA FMProgetto "Passami la Storia"

La radio quella sera sputava pezzi jazz, roba acid tipo Jimmy Smith, oppure il vecchio Coltrane.

Vecchia buona radio, ricordo ancora quando la comprai, ormai saranno passati quasi dieci anni. Era un po’ nascosta dietro agli imponenti stereo di nuova generazione, ma mi chiamò, come fanno le cose quando scelgono un padrone. E lo stesso fu quella sera, la sera di cui vi sto parlando. Lei mi chiamò…

…ed io, sventurato, risposi, e per la prima volta dopo tanto tempo, ma senza pensarci due volte, salii in soffitta e la tirai fuori dalla sua polverosa custodia di plastica nera.

Le radio antiche hanno il loro perché; si sentono oggetti importanti, raccontano storie con stile, e la musica che trasmettono é sempre quella giusta.

Ma quella sera accadde qualcosa di strano…Seduto sul divano a fumarmi l’ennesima camel light,

galleggiavo quieto sopra un assolo di hammond, quando all’improvviso una scarica elettrica interruppe il vecchio Jimmy. Cavolo, pensai. Feci per andare a sistemare l’antenna, quando la voce di una donna mi bloccò.

«Fumi ancora, ricciolo? Quelle schifezze ti uccideranno…»La voce la conoscevo, ma che diavolo ci faceva dentro la mia

vecchia radio?«Samantha, sei tu?»Non pensate male di me adesso. Va bene, lo ammetto, stavo

parlando ad un pezzo di legno e ad un ammasso di transistor. Ma sono più che certo che vi sareste comportati esattamente come me. Dannata radio…

«Certo che sono io, ricciolo. E chi altro dovrebbe essere…»Aveva la cattiva abitudine di chiamarmi “ricciolo”, e un tempo

poteva anche andarmi bene, ma adesso, con la piazza che avevo sulla testa, quel nomignolo aveva il sapore di uno sbeffeggio.

«Che cavolo sta succedendo!» imprecai a quel punto. E mi alzai dal divano, determinato a chiudere quell’assurda conversazione.

Page 201: L'Albero delle Parole

200

Allungai la mano verso la manopola, ma la voce di Samanta mi bloccò di nuovo.»

«Stavo pensando alla veranda di Toby, alle nottate di quell’estate così calda, che anno era? 1997? 87? 77? 67? 57?…»

Già, le chiacchierate insieme ai soliti balordi, la musica in sottofondo, una cassa di birra fredda sugli scalini del porticato. Chi arrivava se ne agguantava una e poi salutava il resto della truppa. Le zanzare all’inizio erano perfide, ma poi si ubriacavano insieme a noi, o forse era la musica che le frastornava per bene. Verso le tre del mattino avevano smesso di tormentarci, e la notte entrava nel suo momento clou. Poi arrivava sempre il Freddy con una tipa nuova. Faceva le sue battute sconce e poi se ne andava. Samantha ballava in veranda, Miki mischiava tabacco e gangia, io andavo a cambiare disco; a quell’ora ci voleva del sano blues, non so se mi spiego. E poi via così, fino alle prime luci dell’alba. Chissà che anno era…

«Samantha, che diavolo ci fai nella mia vecchia radio?»«E tu, che diavolo ti è preso stasera, che te stai da solo a parlare

con una vecchia radio?»Poi udì un’altra scarica elettrica, e finalmente Jimmy Smith poté

finire il suo assolo.

AUTORI: GM Willo, Donatello, Ciccio, Aeribella Lastelle

Page 202: L'Albero delle Parole

201

L'UOMO DEI PUZZLEdi GM Willo

C’era una volta un giocattolaio di nome Omorzo. Era un tipo così pignolo che ogni volta che gli arrivava un nuovo puzzle sentiva l’impellente necessità di controllare che avesse tutti i pezzi. Di giorno infatti lavorava al negozio mentre la notte faceva i suoi puzzle. Non dormiva mai, per questo motivo era infelice e aveva due enormi occhiaie.

Un giorno entrò un cliente per compare uno dei suoi puzzle, che avevano il bollino di controllo: “1000 pezzi sicuri!”

«Mi scusi, ma che significa questo bollino?» domandò.«Che i miei sono puzzle certificati. Li ho controllati uno ad uno

prima di metterli in vendita» rispose Omorzo.«Mi vuol dire che ogni puzzle che ha in vendita è già stato

fatto? Che a nessuno di questi manca un pezzo?»«Esattamente!» concluse soddisfatto il giocattolaio.«Allora mi spiace, ma non m’interessa…» rispose il cliente,

incamminandosi verso l’uscita.Omorzo naturalmente ci rimase male.«Si fermi! È perché sono già stati usati? Mi spiace, ma è una

cosa più forte di me. Non riesco a resistere. Non riesco a dormire. Appena mi arrivano in negozio devo mettermi subito a controllarli. Gli altri clienti sono sempre soddisfatti, perché almeno sono sicuri di avere tutti i pezzi…» Omorzo era molto dispiaciuto.

Il cliente, che era già alla porta, tornò sui suoi passi. Guardò il giocattolaio e sorrise.

«No, non è perché sono usati che non mi interessano.»«E allora che cos’è?»«È perché li ha privati del mistero, e il mistero è tutto nella

vita.»«Quale mistero?»«Che a qualcuno potesse mancare un pezzo. Non è forse questa

la principale ragione per la quale si fanno i puzzle?» Poi il cliente salutò e non si vide più.

Page 203: L'Albero delle Parole

202

Da quel giorno Omorzo ha smesso di controllare i puzzle.Adesso conta i pezzi delle scatole del lego.

Dedicata a Giaime Pieroni

Page 204: L'Albero delle Parole

203

IPOCONDRIAdi Jonathan Macini

Qualcuno mi crederà pazzo, e forse lo sono per davvero. Ma non lo siete forse anche voi?

In questa mia virginale attesa di oltrepassare quel confine da me segnato, io mi rivolgo agli ascoltatori che vedranno di me solamente una carcassa, un guscio vuoto, ovvero ciò che rimarrà di me tra brevi istanti. Dopo avervi rivelato quello che ho da dirvi, la penna mi cadrà da questa mano, la mano di un uomo sul bordo dell’abisso più bello.

È difficile incominciare, quando ti senti come se una pressa stesse sul punto di schiacciarti, e man mano che si abbassa ti toglie l’aria. Qualcosa d’irreale ma tangibile, una forza interna che vuole annientarti, prima che tu possa proferire le tue ultime verità. Ma quale verità avrà mai da rivelare un condannato a morte come me?

Una in particolare, che mi ha accompagnato per tutta la vita, ed è qui anche in questo istante, sempre insieme a me. Se adesso si realizzasse io mi salverei. Ma già lo so che non si avvererà, perché per quanto la possa rincorrere, riuscirà sempre ad eludermi, ingannandomi o più semplicemente respingendomi.

E questa folle rincorsa mi ha infine condotto quaggiù, in questa squallida camera d’albergo, dove il sole mai nasce e mai muore. Ma sarà poi così importante?

No, non me ne frega niente del sole, ma della luna si, che si nasconde alla mia vista, perché l’unica finestra che si apre su questa stanza mi concede solo uno scampolo di cielo. L’astro notturno se ne vede ben dal mostrarsi in quel fazzoletto di firmamento…

La verità, l’unica possibile verità, ha fatto breccia nelle mie paure. Non è possibile continuare a vivere così! Per quale motivo dovrei allungare questa condanna a morte, quando ho l’occasione di farla finita subito?

Ho letto da qualche parte che bastano pochi istanti……e il sangue sgorga già come una fontana dai polsi appena rasi.

Page 205: L'Albero delle Parole

204

IL DIO DEI DINOSAURIdi GM Willo

Attorno al bar Cosmo i mondi ruotano su orbite ben delineate, per dirigersi inevitabilmente verso destini già scritti. Nel locale l’atmosfera è satura di luci soffuse, vortici di fumo dagli aromi pungenti e melanconici assoli blues. Ogni sera è così…

Dietro al bancone Toth il barista asciuga bicchieri e tazzine con gesti automatici, riponendo poi le stoviglie nei loro rispettivi scompartimenti. Alcune divinità si riuniscono attorno al biliardo, mirando le stecche su pianeti deserti, presi in prestito dai loro universi. Gli sferici oggetti, liberi dalle loro orbite-prigioni, girano sul tappeto verde partecipando al gioco. Presto o tardi verranno ingoiati dai buchi neri del biliardo.

Al bar Cosmo gli Dei cercano di distrarsi dai loro affari, ma a fine serata è normale che si ritrovino a parlare di lavoro.

Quella sera, a un’ora un po’ tarda, entrò un Dio piccolo piccolo. Al bar lo conoscevano tutti. Era un tipo un po’ bislacco, con delle idee buffe, e molti lo prendevano anche in giro. Afferrò un bicchiere e un cucchiaio e richiamò l’attenzione dei presenti. Annunciò la sua ultima creazione, una nuova specie vivente per il suo piccolo mondo. Una specie molto, molto più intelligente di tutte le altre, fatta a sua immagine e somiglianza, e capace di comprendere i più grandi segreti del cosmo. Una specie che col tempo avrebbe dominato su tutti gli altri esseri viventi.

I giocatori di biliardo si guardarono in silenzio e a qualcuno scappò una risatina. Poi tornarono a giocare, come se non fosse successo niente.

«Secondo me questa tua nuova invenzione fa la fine di quell’altra. Com’è che li chiamasti quei mostri? Dinosauri?» affermò un Dio, spedendo il pianeta numero otto in un buco nero laterale.

«Già, ricordo che dicesti che quei lucertoloni avrebbero dominato gli altri esseri con la loro forza. Ma ti dimenticasti di qualcosa, se non sbaglio…» ribatté un altro, ammiccando sardonicamente ai compagni di gioco.

Page 206: L'Albero delle Parole

205

«È vero, feci un piccolo errore di calcolo. Ma questa volta non si ripeterà. Ho progettato questi esseri fin nei minimi dettagli. Sarà la mia più grande creazione, vedrete!» E detto ciò l’ambizioso Dio lasciò il bar Cosmo.

Gli altri invece continuarono a giocare a biliardo.«Scommetto dieci galassie che questa nuova specie non dura

più di tre rotazioni» commentò un giocatore, lavorando la punta della sua stecca col gessetto.

Al bar Cosmo Toth il barista continuava ad asciugare i bicchieri.

GM Willo 12-04-1997

Page 207: L'Albero delle Parole

206

LA RICERCAdi Jonathan Macini

Dentro me, alla ricerca di qualcosa che ho perduto molto tempo fa, un’immagine, una verità, oppure solamente una parola. Nelle prigioni del denaro e della voluttà, fino a ieri ero incapace di vedere le cose che succedevano al di là delle sbarre, forse gli schermi di tanti televisori, dispensatori di realtà a basso costo. Ogni sbarra un canale diverso, un programma diverso, una nuova bugia. Ma adesso, dentro queste dannate prigioni, mi tornano alla mente sequenze di vite passate, esistenze diverse di mondi lontani.

Al cospetto di pietre gigantesche, custodi di strani segreti, io udii, io vidi, io sentii. I totem s’innalzavano sulle verdi colline, in luoghi abitati solo dal vento e dalle stelle, nelle lunghe notti. Erano le pietre di un mondo senza più tempo, senza più memorie, oggi rilegato alle favole, all’impossibile. Le pietre insegnavano agli eremiti, ed io fui anche uno di loro. Vagai per anni alla ricerca della conoscenza, spinto da qualcosa di innato, una comica verità alla quale ero legato.

Descrissi cammini già tracciati, presi decisioni già scritte, per giungere infine alla presenza di quei giganti di pietra, sulle colline sempre verdi… E fu così che conobbi la verità, ma alla fine di quell’esistenza mi sfuggì, e la ruota descrisse il suo giro.

Vissi anche nel tempo dei sacri alberi, in un mondo dal cielo purpureo. Possedevo il dono del volo, planavo leggero sulle grigie lande di quel mondo fatto di ferro, alla disperata ricerca dell’unica isola verde del pianeta. Nel mezzo di un oceano di petrolio, scorsi un lago azzurro ed un’isola al centro di esso. Era l’unica bellezza di quel mondo. Era lì che si trovavano i sacri alberi, anch’essi custodi dell’unica verità. La verità alla quale ero stato legato per tutte le mie esistenze, passate, presenti e future.

I sacri alberi mi parlarono colmandomi di conoscenza, saturando il mio essere di vibrazioni cosmiche. Ed infine io seppi, e piansi, e volai via…

Page 208: L'Albero delle Parole

207

Mi tornò il ricordo di un universo d’acqua. Nuotavo da un pianeta all’altro, ignaro delle ragioni che mi spingevano ad andare avanti senza mai fermarmi. Continuai così, per innumerevoli segmenti di quel tempo così diverso da questo, finché non giunsi al pianeta più lontano, una sfera cava che conteneva un altro universo. Furono le stelle di quel nuovo universo a parlarmi della verità che andavo cercando. La loro musica mi rivelò ciò che già avevo saputo e dimenticato più volte. Diventai una stella in mezzo a loro e continuai ad emanare luce e suoni per tutta l’esistenza di quel cosmo. Ma finì anche quel tempo.

Molte altre vite ricordai, e molte altre morti. Fu questa la mia nuova ricerca, in questo assurdo mondo pieno di prigioni dalle sbarre televisive.

Quando riuscirò a ritrovare la mia verità, le porte di queste prigioni si dischiuderanno, permettendomi di oltrepassare la soglia della conoscenza. Mi basterà un solo passo per arrivare laggiù, dove non è importate sapere, possedere, dire o fare, ma quel che conta è essere.

Presto arriverà una nuova fine. Presto incomincerà qualcosa di nuovo. Perché? Beh, è così che cospiriamo insieme all’infinito, sin dall’inizio del tutto.

E la ruota continua a girare…

Jonathan Macini 1997

Page 209: L'Albero delle Parole

208

L'UOMO VESTITO DI MARRONEdi GM Willo

L’uomo vestito di marrone camminava nel giardino delle decisioni, in una spira del tempo, dentro il ritaglio di un sogno. Vi crescevano degli alberi dai rossi pomi; erano i frutti delle scelte, tutti perfettamente rotondi eppure ognuno dal sapore diverso. Ne prese uno e lo assaggiò. Se fosse stato acerbo non riuscì a capirlo. Però a lui piacque.

Ne afferrò un altro ed era dolce, quasi stucchevole. Si sporcò la bocca del suo fluente succo e si allontanò con le mani appiccicose. Ma si fermò di nuovo davanti un albero, un nuovo frutto. Decisioni…

Il pomo aveva lo stesso aspetto degli altri, ma questa volta il sapore era amaro. Lo gettò via, incurante dei semi che conteneva. Avrebbero potuto mettere radici e germogliare. Sarebbero nati altri alberi di frutti amari…

L’uomo vestito di marrone continuò a camminare attraverso il giardino e ad assaggiare i frutti delle sue decisioni. Tutti diversi eppure tutti uguali. Poi si sedette sotto un albero e dolorante si portò le mani al ventre.

Aveva fatto indigestione.

GMW 29-07-1997

Page 210: L'Albero delle Parole

209

GIOCO DI BIMBAdi Giulia Riccó

Piano Maria aprì la porta della grande casa fuori città.Fuori non c’erano luci ad illuminare il giardino, solo la grande

luna piena mostrava e nascondeva le cose.Dal Bosco di querce proveniva una musica allegra e dolcissima.

Maria la seguì con gli occhi ancor chiusi. I piedi scalzi che sfioravano l’erba bagnata dalla nebbia e la lunga vestaglia che le ricadeva addosso come un mantello la facevano sembrare quasi uno spirito. Un bianco spirito inquieto.

Fu in mezzo al bosco che trovò l’altalena di quando era bambina. Vi salì sopra e cominciò a dondolare come sospinta da mani invisibili. Oh quanto tempo era che il suo animo non era così sereno. Di nuovo felice come quando era una bimba piena di sogni, non più la donna in carriera che aveva perduto la speranza di vivere. E fu così che nel gioco di bimba si perse donna Maria.

La grande Luna osservava immota da lassù il suo gioco dabambina e illuminava pallidamente il suo volto e i folti capelli biondi. Dalle profondità del bosco i folletti che da bambina tante volte avevano danzato con lei la osservavano dondolare e continuavano il loro melodioso canto.

E lei continuava a dondolare.Maria era felice, avrebbe voluto restare lì per sempre,

accoccolata nel suo angolino di sogno, senza dover respirare più il dolore dei nostri giorni. Ma come sempre accade nelle favole più tristi, qualcosa tramava nel buio. Un’ombra si stacco dal muro mentre l’alba stava quasi per sopraggiungere.

Maria. Una voce la chiamò. Il canto smise e Maria volò lontano. I

Folletti scapparono piangendo. Una mano corse a sorreggere il volto di latte di Maria. Un uomo con voce smarrita ripeteva all’infinito: “ Io… io non volevo svegliarla così…”

Dedicata al mio babbo che da sempre mi ha cantato questa canzone (e tante altre) come ninnananna.

Page 211: L'Albero delle Parole

210

L'ALTROdi Matteo Cerboneschi

L’ orologio batteva inesorabile una cantilena oramai stonata di una musica ripetuta e prevedibile che oramai da troppi anni sembrava aver perso la sua dignità. Molte le cose da ordinare, ma ancora troppe per poter pensare di trovar posto ad ogni ricordo. Il silenzio assordante che si respirava in quel loculo privo di finestre non era niente al confronto del vuoto che traspariva dagli scaffali impolverati e traballanti che un tempo ospitavano fiori di campo e lettere di pergamena.

( … troppo poco tempo … )

Lui non sapeva il motivo di questa visita inaspettata, non era preparato per ricevere, in quella che un tempo era stata una casa, un ospite tanto sconosciuto quanto terribilmente familiare. Non era sicuro di ricordarsi dove aveva visto quel volto, un viso non comune, con un naso pronunciato e nodoso, una pelle lucida e tirata dalle troppe stagioni; eppure i loro occhi si erano già incontrati, ed il ricordo di quella faccia continuava a tormentarlo.

( … tic … toc … tic … toc … )

Per ogni battito di quel vecchio perditempo, con le lancette appuntite d’ottone ed il quadrante in metallo ingiallito, un nuovo pensiero affiorava alla sua mente trovando spazio fra le memorie appena assettate; per ogni testo che riusciva a sistemare sulla vecchia libreria, un nuovo documento spuntava dagli scatoloni di fianco al suo letto. Erano tutti lì, ammassati come animali sopra un carro, oramai consapevoli, rattristati, che solo a pochi di essi sarebbero state risparmiate le lingue della cenere; solo pochi di loro, come vegliardi mai stanchi, sarebbero sopravvissuti a quel terribile scempio.

( … ogni cosa al suo posto … )

Page 212: L'Albero delle Parole

211

Lui si era svegliato molto presto quella mattina, una notte travagliata aveva rovinato i suoi propositi. Un sussulto, un balzo che aveva fatto uscire il cuore dal petto, la testa che gira, la vista che ritrova adagio

forme conosciute. Un tempo avrebbe ricordato i suoi sogni, li avrebbe visti allo specchio, lametta nella destra, la sinistra che passa dolcemente sotto il mento, gesti in cui si riconosceva. Conosceva bene

quella faccia. Adesso era tutto troppo complicato, quello che un tempo non aveva valore, che scompariva negli occhi di Lei, che si perdeva in un fiume di emozioni orfane di razionalità, quelle cose, quelle piccole

cose insignificanti che oggi lo rendevano schiavo delle sue solitudini.

( … eppure aveva già visto quel volto … )

Un’umida camicia infeltrita dal colletto rigido, bottoni allentati, e maniche troppo corte, brache che un tempo erano state di un nero fiero e luminoso, sostenute da un paio di bretelle dai colori tenui e sbiaditi. Il

cappotto piegato sulla sedia, un tavolo scarno, duro, appena visibile nella luce fioca della lampada ad olio.

Lui aveva preparato un pasto in cui non sarebbero riusciti a mangiare entrambi, non c’era abbastanza

cibo per sfamare due persone, nonostante tutti i suoi sforzi e gli spiccioli racimolati nei vecchi pantaloni, non era riuscito a preparare niente di umanamente accettabile per il suo ospite.

( … avrei bisogno di più tempo … )

Non si chiedeva di cosa avrebbero parlato, non sapeva se sarebbe riuscito a rispondere a tutte le sue domande, forse nonavrebbe neppure trovato il coraggio di parlare di sé. Quanti rimpianti, quanti sogni inevitabilmente naufragati in un mare di aride necessità, di sensi di colpa, di parole mai dette.

Page 213: L'Albero delle Parole

212

( … rumore di passi dietro la porta … )

Fece appena in tempo a rendersi conto della sua presenza quando un colpo secco e deciso annunciò il suo

arrivo. Un odore pungente pervase tutto l’appartamento, L’altro entrò silenzioso ed apparentemente stupito del patetico tentativo che era stato fatto per cercare di dare un senso a tutta quella polvere… poiché l’unica cosa che sembrava in ordine in quel buco tetro era solo la polvere. Non si levò la giacca, non lo salutò, non fece cenno alcuno che potesse far capire di gradire quella situazione. Non si mosse, rimase di fronte a Lui per dei minuti che sembrarono interminabili; la porta aperta, rumori di bambini che giocano per strada.

( … ancora buio … )

“Ci siamo già visti… il suo volto non mi è nuovo” disseLui con ancora in mano il cucchiaio con cui aveva violentato il

loro triste pasto di verdure.“Tu mi conosci, non è la prima volta che ci vediamo, ti sono

stato molto vicino dopo la morte di Lei” confermò L’altro in tono quasi irriverente.

“Forse mi scambia per qualcun altro…” disse Lui alzando le sopracciglia, e raddrizzando una schiena

da troppo tempo piegata.Alcun rumore, solo silenzio.

( … gli occhi di chi ricorda … )

Un brivido rapido e inaspettato che partì dal fondo del suo ventre e risalì tutta la schiena, un bagliore che si accese nei suoi occhi, occhi grandi e tristi che si aprirono di inaspettata incredulità, gli occhi di un uomo spaventato. Silenzio.

“Dove andiamo?” disse Lui.“Lo sai…”“Come devo chiamarti?” sibilò il vecchio padrone di casa.“Chiamami Morte”

Page 214: L'Albero delle Parole

213

LA FORESTA VAMPIRAdi GM Willo

Platani e querce secolari torreggiavano sopra la minuta figura di Mishan, cacciatore delle marche di ponente, ricordandogli le antiche leggende. La foresta era sempre stata lì, prima che l’uomo mettesse piede sul continente, prima che le navi lasciassero le sponde dell’Impero Caduto, e molto prima che le antiche guerre scoppiassero e gli uomini dimenticassero di essere stati tutti fratelli.

Se il tempo era nemico di ogni cosa viva, animali, piante e uomini, la foresta, che il suo popolo aveva sempre chiamato Uaki, il Grande Respiro, non sembrava venire scalfita dal deteriorante rintocco dei secoli. Eppure c’era qualcosa di strano in quel verde così rigoglioso e in quell’abbondanza di foglie, fiori e frutti. Mishan non aveva mai visitato i lidi di Uaki prima di allora, ma subito capì che l’ultima guerra, quella devastante venuta dal nord, era riuscita a trasformare anche quel luogo. Infatti, anche se le piante sembravano esplodere di vitalità, come fossero soggette ad una perenne primavera, nell’aria alitava un odore malsano. A Mishan fece pensare al fetore della decomposizione, il tipico tanfo dei sepolcri e dei luoghi dei morti. Quelle due così distanti sensazioni, vista e olfatto, percepite insieme, mettevano i brividi.

Mishan ricordò perché era giunto fino alla foresta. La mente andava distratta quando le paure più inspiegabili affioravano in superficie. Per due interi mesi aveva viaggiato attraverso le montagne del remoto occidente, terre di lupi e di orsi. Era il rituale ultimo che il suo popolo chiedeva a coloro i quali desideravano diventare Grandi Cacciatori. Mishan aveva affinato le sue tecniche di caccia e di sopravvivenza ed era finalmente pronto a ricevere l’investitura.

Ma la guerra era arrivata d’improvviso, una moltitudine di guerrieri corazzati e assetati di sangue proveniente dal grande nord. Nessuno si era capacitato del perché quei popoli solitamente pacifici, si erano uniti e avevano mosso guerra alle

Page 215: L'Albero delle Parole

214

terre del sud. Qualcuno aveva già intessuto una leggenda al riguardo. Sembrava che una creatura millenaria, imprigionata nei remoti ghiacciai settentrionali, a causa delle alte temperature della passate estate, era stata liberata. In pochi giorni, richiamando un potere oscuro, la creatura aveva soggiogato le menti dei biondi e valorosi uomini del nord, per guidarli in una folle campagna di morte. Per questo motivo era stata chiamata la Guerra della Follia.

Tutto questo Mishan lo aveva saputo al suo ritorno, interrogando i pochi sopravvissuti che aveva incontrato lungo la strada. Il suo popolo era stato costretto ad abbandonare le sue terre e a salpare verso l’arcipelago di Matiki, nei mari del sud. Sconvolto da quelle notizie, Mishan aveva deciso di partire per le marche d’oriente, dove si diceva che la guerra avesse sterminato intere popolazioni.

Giunto ai confini della foresta, si era augurato di incontrare gli elfi, il popolo magico che da sempre abitava quei lidi. Non poteva credere che anche loro fossero stati spazzati via dalla furia dei popoli del nord. Ma inoltrandosi dentro Uaki, avvertì una spaventosa solitudine. Non solo non vi erano tracce degli elfi, ma anche gli animali della foresta parevano scomparsi. E proprio l’inusuale silenzio, rotto solo dal muoversi delle frasche al vento, era la terza strana sensazione che non poteva ignorare. Tutto ciò lo rendeva molto inquieto.

“Ma che fine avranno fatto i folli guerrieri del nord?” si chiese per l’ennesima volta. Nessuno lo sapeva. Sembrava che l’entità che si era liberata dal ghiaccio perenne, non avesse uno scopo di conquista. L’unico suo interesse era quello di distruggere. Mishan si era imbattuto in almeno due grandi campi di battaglia, disseminati da corpi putrefatti e armi incrostate di sangue, e non aveva visto neanche un vessillo. Era come se le armate del nord non fossero state mosse da alcun desiderio di occupazione.

Il sole si stava abbassando. Era una di quei tiepidi pomeriggi di fine estate, e le giornate di stavano rapidamente accorciando. Malgrado tutti i pensieri che gli vorticavano nella testa, Mishan non poté fare a meno di storcere il naso per via di quell’odore. E

Page 216: L'Albero delle Parole

215

più s’inoltrava all’interno della foresta, più diventava insopportabile.

L’iniziazione lo aveva formato definitivamente. Un uomo né alto né robusto, ma in completo controllo di ogni centimetro del suo corpo. Vestiva le pelli dei lupi e degli orsi, ma erano solo ornamenti per i suoi muscoli, che affioravano nudi e lucidi in tutta la loro avvenenza. Portava un arco lungo legato dietro la schiena e un’accetta da battaglia, piccola e fatale, arma rituale del suo popolo. Gli occhi erano allenati a captare i movimenti più sottili e a prevedere gli inganni dei paesaggi uniformi. Sulla neve tutto può succedere…

Mishan si arrestò nel mezzo al sentiero. Nessun rumore, nessun movimento, solo una strana, stranissima sensazione. Qualcuno o qualcosa lo stava osservando. Aguzzò la vista, cercando tra i riverberi della rugiadosa vegetazione. Le piante non avevano occhi, ma potevano nascondere il tuo peggior nemico…

Non era uno solo. Sentiva che erano tanti, che erano troppi. Rimase immobile ascoltando il suo respiro, controllando la paura. Le nocche gli si sbiancarono mentre stringeva il manico dell’accetta. Ma non poteva sperare di farcela da solo. Aveva bisogno di pensare, di capire, di vedere…

Una creatura bianca e glabra dalla forma vagamente umana fuoriuscì dalla foresta e lentamente, con un movimento eretto ma in qualche modo strisciante, si avvicinò a lui. Mishan intuì che ve n’erano decine di simili creature dietro gli alberi dai quali era comparsa quella. Restò fermo ma il braccio era pronto a scattare.

L’essere aveva la corporatura di un bambino con gli arti leggermente più lunghi e sottili, mani anch’esse lunghe e affusolate, ed era completamente nudo, ma privo di un riferimento sessuale. Il volto era senza bocca e aveva due orifizi per naso. Gli occhi si distinguevano appena in quella maschera lattiginosa, mentre gli orecchi erano piccoli e a punta, proprio come si diceva fossero quelli degli elfi.

Silenziosa e cauta, la figura opalescente si mise ad osservare il cacciatore, girandogli intorno, avvicinando la faccia alle sue membra come se volesse annusarlo. Il rituale andò avanti per

Page 217: L'Albero delle Parole

216

qualche minuto, mentre Mishan rimaneva immobile come un cobra davanti alla preda.

Poi l’essere indietreggiò, sempre col suo fare strisciante, tornò da dove era venuto ma non dette mai le spalle al cacciatore. Continuò a fissarlo camminando all’indietro come un gambero, per poi dileguarsi tra la vegetazione. Mishan lasciò passare qualche minuto e poi il suo sesto senso lo avvertì che le creature se n’erano andate, e non vi era più pericolo. Così riprese il cammino.

Il bizzarro incontro lo convinse che non sarebbe stata una buona idea rimanere nella foresta per la notte. Ma ormai le ombre della sera si stavano preparando a fare il loro ingresso sul mondo, e neanche correndo indietro con tutte le sue forze sarebbe mai riuscito ad uscire prima del tramonto. Ricordava però di un fiume, segnato sulle vecchie mappe del capo villaggio. Quando era bambino adorava perdersi tra le righe sottili di quei quadri ingialliti, che indicavano terre misteriose e lontane. Asekor era chiamato nella sua lingua, il grande fiume meridionale, che nascendo dai ghiacci perenni viaggiava per centinaia di miglia verso sud, tagliando in due la foresta, e riversandosi infine nel grande mare. Se fosse riuscito a raggiungere le sue sponde, avrebbe avuto una via di fuga, nel caso le creature fossero ricomparse. Mishan era un abile nuotatore, e aveva la sensazione che quegl’esseri bianchicci non amassero l’acqua.

Allungò il passo, mentre la luce da bianca diventava gialla e poi arancione. Il fetore continuava a tormentarlo, ma ad un certo punto diventò più sopportabile, gli alberi persero quel rigoglio così innaturale e con suo grande sollievo udì il cinguettare di alcuni uccelli. La foresta sembrava nuovamente viva, ma Mishan non riusciva a capire perché. Quando finalmente percepì l’inconfondibile odore del fiume, comprese la ragione di quella trasformazione. Vicino ad Asekor, la foresta era ancora quella di sempre.

Il sole si spense nel remoto occidente, ma nel riverbero vespertino Mishan alzò un riparo per la notte. Si piazzò sulla riva del grande fiume, che a quell’altezza raggiungeva un larghezza di almeno duecento metri. L’immensa massa d’acqua, alimentata

Page 218: L'Albero delle Parole

217

dai recenti temporali estivi, procedeva lentamente trasportando rami e detriti. Il cacciatore consumò una cena fredda e cercò un sonno leggero, quello tipico dei lupi solitari, che non possono permettersi compagni di viaggio che montino la guardia. Al minimo rumore sarebbe scattato in piedi, pronto a colpire.

Ma c’era una cosa che Mishan ignorava. Il fiume era ancora più antico della foresta, e conservava un segreto che trascendeva il tempo stesso, o almeno il tempo nel modo in cui gli uomini lo percepiscono. Il sonno lo rapì come un bambino, e viaggiò nei mondi di lato, osservando il vero ed il falso, la realtà e il sogno. Si svegliò ma stava ancora dormendo, e credendosi desto incontrò il Re del Fiume.

La foresta era giovane e il fiume scorreva lento. Un mattino di sole abbagliante, la rugiada fresca e gli uccelli nel cielo. Mishan guardò la figura avvicinarsi, un vecchio dal volto gentile con lunghi capelli lisci e scuri. Si accomodò di fronte a lui e incominciò a narrare una storia, ma come succede spesso nei sogni, pur volendo domandare o ribattere Mishan non riuscì a farlo. Rimase immobile davanti al vecchio ad ascoltare.

“Hai fatto la cosa giusta a venire da me. Io stanotte potrò proteggerti, ma domani riparti subito e lasciati alle spalle la foresta, perché anche se può sembrarti splendida e rigogliosa, sappi che in realtà è già morta. Esistono cose che si credono vive in eterno, ma che in realtà altro non sono che accanimenti alla vita. Gli elfi hanno abitato questi lidi per millenni e hanno creduto che ci sarebbero rimasti per sempre. È pur vero che la percezione del tempo per il popolo della foresta è oltremodo dilatata, ma anche per loro esiste un inizio e una fine. Kratoa, l’essere che ha mosso guerra a tutte le terre del sud, è stato l’avvento della loro fine. Non esistono spiegazioni che un uomo possa facilmente accettare. La vita è ciclica. Esistono stagioni di nascita, come la primavera, e stagioni di morte, come l’inverno. Gli elfi credevano in un estate imperitura, e si sbagliavano. Ma hanno rifiutato di scegliere di lasciare queste terre per un nuovo mondo, e come conseguenza sono rimasti prigionieri di questo. Né vivi, né morti, in una foresta che si crede viva ma puzza di morte. Fuggi uomo, e racconta questa storia, perché la gente

Page 219: L'Albero delle Parole

218

sappia che la foresta è diventata malvagia, e solo il grande fiume ne ricorda ancora lo splendore. Addio!”

Mishan si svegliò e finalmente comprese che stava sognando, eppure quel sogno era in qualche modo più vero degli altri. Raccolse le sue cose e seguì il consiglio del Re del Fiume. Tornò velocemente sui suoi passi e prima che il sole fosse alto già era in vista delle praterie oltre la cintura di alberi secolari che delimitavano Uaki.

Volse lo sguardo verso la foresta prima di riprendere il cammino e lasciarsela definitivamente alle spalle. Gli sembrò di vedere una figura lattiginosa attraversare il sentiero che aveva appena percorso. Un brivido gli corse lungo la schiena. “La foresta vampira” pensò.

E da allora la gente la chiamò così.

Page 220: L'Albero delle Parole

219

VELDULE MISTE E LISOdi Jonathan Macini

La città é una maschera grigia di nebbia. Copre ogni cosa col suo silenzio. Sembra dormire la città, sotto una soffice coltre. Ma la città non dorme mai, nemmeno alle quattro del mattino, in quelle nottate invernali lunghe e gelide. Neanche i gatti per i vicoli, i semafori lampeggiano d’arancio, un neon rotto e una sirena il lontananza. La città è immobile, ma respira ancora, come un vecchio randagio che chiede l’elemosina alla stazione, una serpe in agguato, un felino pronto a scattare. La città diventa pericolosa quando dorme. La abitano strane creature, animali della notte, girano nascosti nelle ombre, vergognandosi delle proprie deturpazioni, quelle dell’anima s’intende.

Poi ci sono quelli come me, che osservano, che aspettano, che fumano. Un’altra sigaretta, mentre l’orologio segna le quattro e diciannove. Il posacenere dell’auto ne è ricolmo. Guardo oltre la carreggiata, il vicolo buio, quello sul retro del ristorante cinese. Distinguo appena le sagome di Chon e del suo scagnozzo… grembiuli e cappelli da cuochi. Aspettano le provviste.

Il ragazzo è appena stato assunto alla pasticceria all’angolo della strada. Ha solamente diciassette anni e dovrebbe andare a scuola, ma sono tempi difficili, e poi il padre è disoccupato da quasi due anni. Passeggia ad ampie falcate sul marciapiede opposto. Lo vedo approssimarsi al vicolo, quello di Chon. Che sia lui il piatto giorno? Meglio non farsi sorprendere…

Scendo dall’auto e divento un’ombra sgusciante che attraversa la strada, raggiungo il lato opposto e mi fermo dietro una vettura parcheggiata a ridosso del vicolo. Nessuno mi nota, e ringrazio la nebbia, sempre lei, sorella e puttana di questa assurda città. La città dormiente. La città sognate. La città in balia del suo prossimo incubo.

Il ragazzo è risucchiato dentro al vicolo con una rapidità impressionante. Faccio fatica a distinguere i movimenti, ma risaltano all’occhio le lame dei coltelli da cucina. Un urlo strozzato e tutto è finito. A questo punto entro in gioco io.

Page 221: L'Albero delle Parole

220

«Quanti involtini pensi di farci, Chon?»L’automatica è ben in vista e punta direttamente alla faccia

gialla del cuoco.Il chinaman sbraita nella sua lingua, lo scagnozzo mi guarda

con il terrore negli occhi, poi afferra la vittima e la trascina dentro le oscurità del vicolo.

«Quanto vuoi, sbillo meldoso?»«Beh, per te farò un buon prezzo. Tre testoni e tengo la bocca

chiusa.»«Bastaldo!» impreca il cuoco. Poi estrae dalla tasca un mazzetto

di banconote e me ne allunga sei di quelle grandi.«É un piacere fare affari con te, chinaman!»«Non posso dile attlettanto…» sbuffa lui.Sto quasi per andarmene quando mi viene in mente di

chiedergli una cosa.«Com’è che lo cucini?»«Con veldule miste e liso…»«Buono… lasciamene da parte un piatto, mi raccomando!»Ve lo dicevo che erano tempi difficili.

Page 222: L'Albero delle Parole

221

SPARITOdi Giulia Riccó

Sparito.Una mattina mi sono svegliato ed ero sparito. Non nel senso

che ero morto, ero proprio sparito. Come se non fossi mai esistito, mai nato. Non esisteva traccia della mia presenza, del mio passaggio. Così semplicemente sparito.

La sera prima ero andato a letto dopo la meravigliosa cena fatta da mia moglie, prima ho dato la buona notte ai miei figli, ho salutato mia moglie e mi sono sdraiato nel letto e sono rimasto lì con gli occhi aperti nel buio. Ho sentito il respiro di mia moglie farsi regolare e l’ho sentita scivolare nel sonno profondo. Ho ascoltato i rumori della casa, quelli della strada ovattati dalle imposte chiuse e ho pensato.

Sono davvero felice?Domani potrebbe succedere qualcosa e io non so se sono

davvero felice!E se domani sparissi qualcuno serberebbe il mio ricordo oppure

sparirei e basta?E più pensavo più mi accorgevo che desideravo sparire.La mattina mi sono svegliato ed ero sparito. O meglio non mi

sono svegliato. Il letto accanto a mia moglie era freddo e non era stato disfatto come se nessuno fosse mai andato a letto.

Le mie cose nell’armadio non c’erano. Le mie foto non c’erano. Ero sparito da ogni cosa.

Scomparso, cancellato.E ora? Ho pensato.Ma se penso vuol dire che esito.Come dicevano gli antichi? Cogito ergo sum.Allora sono andato da mia moglie e le ho parlato.Guardami esisto sai? Sto pensando.. devo esistere per pensare.Niente, non mi vedeva, mi ha attraversato come se non

esistessi. D’altra parte ero sparito.I miei figli… loro mi vedranno. Corsi da loro.Ragazzi! Fermatevi vi accompagna papà a scuola.

Page 223: L'Albero delle Parole

222

Niente, come se avessi parlato al vento. Sparito… d’altra parte non esito.

Oh! il mio cane, dicono che gli animali siano più sensibili a certe cose.

Sono andato a piazzarmi davanti al muso del mio cane, un bellissimo pastore tedesco di 4 anni.

Mi ringhiò, per un attimo ebbi un sussulto. Mi ringhiava, allora mi percepiva se non proprio mi vedeva… ma fu solo un attimo di illusione. Mi accorsi presto che in realtà era al gatto dei vicini che ringhiava.

E ora?Pensai di nuovo ma il pensiero era sempre più debole. Il postino mi

tirò il giornale che mi attraversò. Anche per quel pezzo di carta non esistevo.

Allora non esisto proprio.Vagai un po’ poi….

E ora? Il pensiero era un sussurro ormai…vabbè allora io sparisco eh?tanto per tutti sono già sparito…io

sparisco….sparisco….sparisco……..sparisco………

Page 224: L'Albero delle Parole

223

MIO PADRE E LA LUNAdi Aeribella Lastelle

Era la notte del solstizio d’estate, e faceva un caldo bestiale. Lo sapete che quelle notti sono un po’ magiche, o almeno così diceva mia nonna. Mi affacciai alla finestra e vidi i pipistrelli girare come matti. Erano quasi le dieci ma c’era ancora un po’ di luce nel cielo. Per un bambino non era certo presto, ma io di sonno non ne avevo, così rimasi a guardare la luna, piena e gialla come un lampione. Anche lei aveva qualcosa di magico…

D’improvviso la vidi venir giù. No, non stava cadendo, sembrava invece che qualcuno la stesse tirando con una corda. Doveva averci un bel po’ di forza, pensai.

«Babbo! Babbo!» gridai io. Mio padre entrò di volata nella mia stanza.

«Che c’è , Amore?»Io lo guardai al chiarore dell’astro, ed è così che me lo ricordo

ancora. Sono passati tanti anni, e lui se n’è andato da un bel po’, ma quando chiudo gli occhi lo rivedo proprio come quel giorno. I capelli arruffati, gli occhiali con la montatura sottile, la camicia a quadretti rigirata alle maniche e due occhi ricolmi d’amore.

«Babbo, stanno rubando la luna!««Cosa?» E guardò fuori dalla finestra. Anche lui la vide che

scendeva, sempre più in basso. Adesso era proprio sopra le cime degli alberi del bosco, quello vicino al villaggio.

«Presto, dobbiamo muoverci!» mi disse, ed io lo seguii, anche se ero in pigiama. Ma la notte era calda, e non c’era bisogno della giacca e delle scarpe.

«Dove andate?» domandò la mamma, vendendoci sfrecciare attraverso il soggiorno.

«Un missione importantissima…» iniziò mio padre.«…dobbiamo salvare la luna!» conclusi io. Ed imboccammo la

porta di casa.Salimmo in auto e prendemmo la strada verso il bosco. Le luci e

i suoni delle televisioni che fuoriuscivano dalle finestre dei vicini mandavano segnali rassicuranti, ma una volta che ci lasciammo il

Page 225: L'Albero delle Parole

224

villaggio alle spalle la notte divenne meno gradevole. E poi il cielo adesso era completamente buio, perché la luna se l´erano portata via.

Mio padre parchéggiò al limitare del bosco, afferrò la torcia elettrica da sotto il sedile e uscì dall’auto. Io lo seguii. Avevo il cuore in gola, ma ero felice.

Percorremmo il sentiero guidati dal fascio di luce. Il bosco era fitto e tenebroso, e c’erano rumori strani, e i pipistrelli continuavano a volare bassi. Mi venne in mente la storia di un ragazzino del villaggio, che era stato attaccato da un pipistrello. Gli si era aggrappato ai capelli e non voleva mollare la presa. Glieli dovettero tagliare con le forbici, poverino.

Più avanti vedemmo una luce distante, tra le ombre degli alberi e dei cespugli.

«Ecco, sono là! Andiamo!»Era la luna. Erano riusciti a tirarla giù, e adesso rischiarava

quella parte del bosco. Corremmo in quella direzione, guidati dalla luce dell’astro. “Che avrebbe fatto mio padre?”, mi chiedevo. Ovvio, avrebbe preso a pugni il ladro e poi liberato in cielo la luna, come ogni eroe. Perché ovviamente lui era il babbo più coraggioso del mondo.

Mi facevo mille film in testa mentre correvo e sentivo il sangue correre nelle vene, sentivo il pericolo, la gioia, l’amore, e quando diventai grande e ripensai a questa storia capii che tutte quelle sensazioni insieme significavano che mi sentivo vivo!

Ero pronto a tutto, ma ancora una volta rimasi sorpreso, perché le notti magiche sono imprevedibili. Quando raggiungemmo la radura in cui l’astro era stato adagiato, venimmo abbagliati dalla sua luce e solo in un secondo momento riuscimmo a distinguere cosa stava succedendo. La luna era fissata a terra con corde ed arpioni. C’erano due uomini, all’apparenza normalissimi, con tute di jeans e casacche fosforescenti. Su retro di queste vi era stampata la scritta “Prontoluna”.

«Che succede?» domandò mio padre.«Buonasera, niente di cui preoccuparsi» rispose uno dei due

uomini. «Solo un controllo di routine. Cambio delle lampadine, verifica dei fusibili, normale amministrazione.»

Page 226: L'Albero delle Parole

225

Mio padre sembrò sollevato. Mi rivolse uno sguardo rassicurante e disse: «Hai visto Amore… nessun problema. I signori sono del Servizio Luna.»

«Prontoluna» precisò l’uomo, e consegnò a mio padre il suo biglietto da visita.

«Se ci sono dei problemi, non avete che da chiamarci.» concluse. Poi si rivolse al compagno.

«Tobia, sei pronto per lasciarla salire?»«Si, possiamo liberarla.»E così assistetti al più straordinario spettacolo della mia vita. I

due uomini recisero le corde che tenevano la luna ferma a terra, queste schizzarono nell’aria per la tensione e in un baleno l’enorme palla gialla incominciò a sollevarsi, sempre più in alto, immensa e fulgida, ma leggera come una farfalla. Riprese posizione nel cielo insieme alle stelle, più splendente che mai.

Mio padre ed io ce ne tornammo a casa, frastornati e felici. Lui mi accompagnò a letto, mi rimboccò le coperte perché nel frattempo la temperatura era calata, e fece per chiudere la persiana.

«Babbo, lasciala aperta stasera. Voglio vedere ancora la luna.»«Va bene Amore. Però poi dormi, va bene?» e mi baciò.Non posso affermare con sicurezza se questa storia sia

realmente accaduta. Forse era solo una delle tante favole che il mio vecchio mi raccontava prima di addormentarmi, quelle in cui amavo perdermi.

In ogni caso, a me piace crederci, perché ogni volta che guardo la luna ripenso a lui.

Page 227: L'Albero delle Parole

226

NETTURBINIdi GM Willo

Mi chiamo Alvin, quarantetreanni, faccio il netturbino, e che cazzo, penserai adesso, ma aspetta che ti racconti di quella sera in cui trovai la ragazza, una morona da urlo, calze bianche e culo all’aria. Eh già, mica sto scherzando. Io le stronzate non le dico. Non sono come quel deficiente di Fester, il mio collega. Quello è capace di convincerti di aver visto tua madre vestita da suora darci dentro nell’ascensore dell’Hilton. Una volta mi disse che si era portato in camera quattro gemelle, appena sedici anni, 64 in totale, e che se le era scopate mentre guardavano insieme un dvd di Harry Potter. Che stronzo!

Erano le cinque meno dieci e il turno era praticamente finito, cioè potevamo anche fottercene di quel vicolo, ma nessuno dei due aveva impegni per quel pomeriggio e allora, che cazzo, gli dissi a Fester, facciamo anche quest’ultimo sforzo.

Entrammo come al solito a marcia indietro, perché quella stradina era il buco del culo della città e finiva proprio a ridosso dei cassonetti. Il puzzo era peggio del solito, ma né io né Fester ci facciamo più caso. Al puzzo ti ci abitui, e dopo una settimana di lavoro già non lo senti più. Perché lo sapete vero che nella vita ci si abitua a fare tutto, anche a spalare la merda!?

Comunque, io scendo e aiuto Fester a fare manovra. Il vicolo èdavvero stretto e i cassonetti sono proprio in fondo, addosso al muro morto. Siamo sul retro di un ristorante cinese, e la puzza della spazzatura si mischia a quella del fritto. Roba da farti rimettere il sandwich di pollo, ma io strizzo con forza il filtro della mia sigaretta e non ci bado. “Vieni, ancora tre metri e ci siamo” urlo al mio collega, facendogli segno di muoversi.

Spegne il motore scaricandomi addosso una zaffata di gasolio, ed è quasi un piacere. “Forza, muoviamoci”, mastica lui con lo stecchino in bocca. Quanto lo odio quel lurido pezzetto di legno bavoso tra le sue labbra. Ce l’ha sempre. Lo conosco da dieci anni e non l’ho mai visto una volta senza. Beh, avrete capito che Fester

Page 228: L'Albero delle Parole

227

mi sta proprio sui coglioni, ma è anche il mio collega e in qualche modo ci sono affezionato. Comunque, dicevamo…

I cassonetti vanno trascinati su quelle rotelle del cazzo fino al braccio meccanico del mezzo, poi premi il pulsante e fa tutto lui. Il problema è che spesso quei cuscinetti sono rotti o incrostati di rifiuti, e si muovono appena. A volte è un proprio una faticaccia, e in quel caso fu anche peggio. Non si volevano muovere quei maledetti. “Dai, forza, dammi una mano…” impreco. Fester è appostato vicino al pulsante del braccio meccanico. Facevamo i turni; la mattina io guidavo e lui muoveva i cassonetti mentre il pomeriggio cambiavamo.

“Che palle…” risponde lui, traslando lo stuzzicadenti da una parte all’altra della sua lurida boccaccia. Mi si avvicina e insieme spostiamo quella ferraglia maledetta. Ma in quell’istante la zampa di metallo che regge un cuscinetto si spezza. Il cassonetto, pieno fino all’orlo di pattume, s’inarca pericolosamente verso di noi, Fester ed io proviamo a reggerlo ma quel bastardo peserà si e no mezza tonnellata. PATAPUMF! L’immondizia si rovescia sulla strada a due metri dal camion. Entrambi siamo sul punto di imprecare contro gli dei del cielo e della terra, quando la sorpresa ci toglie il fiato. Tra i neri sacchi della nettezza rovesciati spuntano le cosce tornite della morona.

Io di pezzi di fica nella vita ne ho visti, specialmente sui vialoni della periferia, ma come quella… peccato fosse morta! “Che diavolo!” impreca Fester. Ma negli occhi gli leggo un luccichio porcino.

Completino intimo bianco con tanto di giarrettiere e sandalini neri. Qualche macchietta di sangue qua e là, ma poca roba. Merce di prima qualità… nel cassonetto dei desideri.

“Pensi a quello che penso io?” mi fa Fester. Vecchio porco, certo che penso alla stessa cosa. Il camion ci nasconde la visuale dell’arteria principale e in quel vicolo non ci passa neanche un cane. Al massimo potrebbe affacciarsi un cinese dalla porta posteriore del ristorante, ma i musi gialli si fanno sempre i cazzi loro, son gente tranquilla, non so se mi spiego.

“Chi incomincia?” domando.

Page 229: L'Albero delle Parole

228

Beh, non vi racconto altro, perché la gente potrebbe pensare male. Sappiate soltanto che quel pomeriggio fu uno spasso. Finimmo il turno un po’ più tardi del solito, ma alle sei meno dieci eravamo già da Todd a farci una budweiser ghiacciata, pronti a guardarci la partita. Fester sorrideva come un scemo e forse anch’io avevo la stessa espressione, chissà.

“Ordiniamo un altro giro, collega?”“Perché no…”Sono quelli i momenti in cui ti convinci che, malgrado tutto, la

vita non è sempre un’inculata.

Page 230: L'Albero delle Parole

229

INCONTRO CON UN GABINETTO GIAPPONESEdi Giulia Riccó

Eccomi. Finalmente sono approdata alla camera del mio albergo.

E’ un albergo in stile occidentale ma nonostante questo ha qualcosa che ti fa capire che non sei in occidente. Sarà il rigore dell’albergo, sarà la semplice perfezione dell’arredamento, non saprei ma ha il sapore dell’oriente.

Improvvisamente mi accorgo di avere un impellente bisogno di andare al bagno. Liquido con un frettoloso “Arigato gozaimasu” il fattorino che mi ha portato le valige e, dopo aver chiuso la porta, guardo la stanza con fare animalesco alla ricerca della porta del bagno. Una volta avvistata mi ci dirigo a piccoli ma veloci passi (farli più lunghi vorrebbe dire lasciare un’indecorosa pozza sulla splendida moquette della stanza).

Una volta aperta vengo inondata dall’abbacinante biancore del bagno che sembra splendere di luce propria tanto è lucido. Mi spiace quasi doverlo sporcare ma la mia minuscola vescica mi ricorda a gran voce che la sua autonomia è davvero arrivata alla fine. Alzo con meraviglia la tavoletta e lì inizia il mio viaggio verso un mondo inesplorato.

Innanzi tutto mentre mi libero dei liquidi in eccesso mi accorgo che non mi sono seduta su uno scomodo water ma su un prodigio di natura aliena. La tavoletta su cui mi poggio è riscaldata e non fredda. Mi vengono in mente le mattine d’inverno in cui non ti vorresti mai alzare da sotto il meraviglioso piumone, che ormai ti si è talmente tanto avvolto attorno da farti sembrare quasi un baco da seta nel bozzolo, più che una persona umana. Eppure le tue impellenze fisiologiche ti costringono a strisciare fuori dal bozzolo.

Arrivi in bagno, che è una ghiacciaia, e mentre ti chini per sederti già tremi al pensiero dell’incontro con quel gelido pezzo di ceramica che ti trasmetterà freddo fin dentro le ossa. Ma qui invece è puro godimento. Tutto caldo al punto giusto. Ti concilia e ti rilassa diventando quasi più comodo di una poltrona.

Page 231: L'Albero delle Parole

230

Accanto a me poi ci sono dei pulsanti e, curiosa come un gatto, comincio a spingerli. Si sente un “bsssssz” e sobbalzo al sentire sotto di me un piccolo getto di acqua fredda che mi sciacqua le parti intime e subito dopo, con un altro emblematico “bssssz” ecco arrivare un getto d’aria calda per asciugare dopo il lavaggio. Rimango sbigottita, e io che da povera blasfema ero rimasta a bidet e asciugamano.

Penso sia finita lì ma vengo smentita da un terzo “bsssssz” e dentro di me mi domando “ e ora?” un altro suono eloquente mi dice che il portento della tecnica aliena sta spruzzando qualcosa e, quello che giunge alle mie narici, altro non è che un delizioso profumo di bouquet di fiori primaverili. Ora mi immagino con la faccia da ebete seduta sul gabinetto di un albergo giapponese mentre le mie intime parti vengono spruzzate di profumo e mi domando “ ma perché?”. Mi ricordo che mia nonna mi diceva sempre da piccola di cambiarmi tutti i giorni mutande e calzini perché non si sa mai cosa possa succedere e se finisci in ospedale è bene andarci puliti (come se in ospedale non avessero niente di meglio da fare se stare a decifrare se ti sei cambiato o meno le mutande) ma qui si va oltre e mi chiedo se per caso i giapponesi non abbiano strane usanze di presentazione simil cani di cui non sono a conoscenza. Mi alzo ancora interdetta e vado a premere il pulsante dello sciacquone. Ed ecco che avviene il fatto più sconcertante. Vengo travolta dalle note dell’inno alla gioia di Beethoven. Non un normale rumore di acqua che scende giù per lo scarico ma le note di un’opera classica a coprire il rumore volgare dello sciacquone. Vengo quasi presa da infarto tanto è improvvisa e inaspettata la cosa e un’immagine si forma nella mia mente. Un obeso guerriero gallico di nome Obelix che, mentre si picchietta la testa con un ditone, dice al suo fido Idefix “SPQR” … “SPQG”…

“Sono Pazzi Questi Giapponesi”.

Page 232: L'Albero delle Parole

231

LO STREGONE RIPUDIATOdi GM Willo

«Volete sapere perché ho abbracciato l’Ombra? Ebbene, voglio raccontarvi una storia…

…la storia di un ragazzo diverso eppure uguale, con un talento particolare per la magia. Mentre i compagni di scuola la imparavano a memoria, quel ragazzo la stravolgeva, e presto capì che era questo il vero senso della via dello Stregone. Distruggere e ricostruire. Stravolgere e trasformare. I maestri non lo capirono, pensarono che non fosse adatto a controllare il potere e a conoscere i segreti. Aveva appena dodici anni quando gli sbatterono in faccia la porta del Grande Istituto della Divinazione. Suo padre era un mago apprezzato negli ambienti aristocratici, e l’onta subita per la cacciata del figlio lo mandò su tutte le furie. “Non puoi rimanere in città, figlio, e ringrazia il cielo che ti chiamo ancora così. Devi partire per l’Isola dei Cristalli.” Questo gli disse, strappandogli di mano il bastone da apprendista stregone.

Quel ragazzo pianse, ma non lo dette a vedere. Viaggiò verso nord insieme a una carovana di mercanti. Era poco più di un bambino, ma già la sua conoscenza magica poteva proteggerlo dai briganti e dalle altre insidie della vita errante. Giunse presso i lidi dei popoli pagani, ai confini dell’Impero. Una barca lo portò sull’Isola dei Cristalli, in cui dimoravano preti e filosofi. Gli aspettava una vita in ritiro, all’ombra di un severo monastero.

Ma laggiù conobbe un uomo di passaggio, una figura imponente e sottile, guizzante e indelebile. Il suo nome era Trakulda. I monaci del monastero non gli rifiutarono la sacra accoglienza, ma molti di loro non nascosero la loro inquietudine durante tutto il tempo in cui quell’uomo rimase ospite. C´era qualcosa nel misterioso Trakulda che affascinava il giovane. Una notte gli si avvicinò mentre leggeva un libro nei pressi del fuoco. Come rapito da un incantesimo, il ragazzo rimase ad ascoltare quell’uomo per tutta la notte, ma ricordò poco o nulla la mattina

Page 233: L'Albero delle Parole

232

dopo. Sapeva solo che, una volta che si fosse rimesso in viaggio, lui lo avrebbe seguito.

E infatti lo seguì per molti anni. Anni di studio, di sacrificio e di evoluzione. Conobbe il Drago e i sette demoni principi, le meraviglie della terra e le insidie degli elfi, la testardaggine dei popoli guerrieri, la codardia dei pirati e la stoltezza dei nani. Vide il mondo cambiare e volgere verso un pensiero unico. Vide trasformare il Grande Istituto della Divinazione in un mero ingranaggio di un meccanismo inutile e corrotto, in cui il profitto di pochi contava più della conoscenza di molti. Dalla scuola uscivano schiere di maghi identici che andavano ad arricchire le file dell’esercito dell’Impero, che intanto allargava i suoi confini, creando nuove colonie e portando nuovi popoli sotto il suo vessillo.

Quel ragazzo nel frattempo crebbe e divenne uno Stregone, ma nessuno nell’Impero lo avrebbe mai chiamato così. Era un respinto, un reietto, un mago di strada, o più volgarmente un Fattucchiere. Doveva nascondersi perché, come sapete bene, chi usa la magia senza un diploma di mago è considerato un criminale. Se ne stava lontano dalle grandi città, insieme a Trakulda che intanto era diventato vecchio. Ma la vecchiaia non lo aveva afflitto, né nella mente né nel corpo. Il maestro stava semplicemente svanendo, e a volte il giovane lo guardava in contro luce, mentre il sole tramontava fulgido sulle praterie del Levante Antico, e poteva vederci attraverso.

“Dove stai andando”, gli chiese un giorno.“Non preoccuparti. Un giorno mi seguirai” rispose lui.Quando la Guerra dei Sigilli scoppiò il ragazzo era un uomo

fatto, e il suo maestro si era ormai dileguato quasi completamente tra i misteri dell’aria. L’Impero cercava gli accessi agli altri mondi. Mandò i suoi cento migliori maghi fino ai confini delle terre conosciute, dove popoli misteriosi conservano i segreti dei molti mondi. Ne tornarono solamente tre, ed ognuno aveva un sigillo.

Ma il ragazzo diventato uomo aveva appena ricevuto una visita in sogno. Era Trixividian, il demone dei ghiacci. Gli disse che se l’Impero avesse avuto accesso agli altri mondi, il grande

Page 234: L'Albero delle Parole

233

equilibrio poteva volgere irreparabilmente verso la Quiete. Ogni mago dovrebbe conoscere l’equazione tra Quiete e Tumulto. È il significato stesso dell’Universo, la sua legge principale. Ma la conoscenza di quell’equazione è stata rimossa dai testi di magia dell’Istituto.

Al suo risveglio lo Stregone seppe cosa fare. Cavalcò per due giorni e due notti incontro a quei tre maghi che stavano facendo ritorno con il loro bottino alla capitale. Al loro passaggio venivano salutati da una folla di uomini e donne in delirio. Erano gli eroi, i salvatori, vanto e abbaglio di ogni cittadino dell’impero.

Mentre cavalcava lo Stregone richiamò gli altri demoni, perché lui era la porta. Gafiquel degli abissi marini, Adkavri delle caverne, Uxod dei cieli, Trixividian dei ghiacci, Matu del fuoco liquido, Irkk dei fulmini, Odasset dei cristalli. I Demoni vennero e spazzarono via il popolo, i soldati e a nulla servirono gli incantesimi dei tre eroi. I Sigilli vennero recuperati e consegnati allo Stregone che aveva evocato i demoni.

Da allora quello Stregone è conosciuto col nome di Jakúda, il servo dell’Ombra. Da allora Jakuda è il peggior nemico dell’Impero.

E adesso che conoscete la storia, ditemi: che motivo avrei di consegnarvi i sigilli?»

Il fuoco esplose, l’ombra calò, le urla si alzarono e si spensero nel tempo di un battito di ciglia. Si erano sentiti eroi, si erano creduti dalla parte della ragione, pensavano che il cielo li avrebbe protetti, invece…

Dall’alto della sua torre Jakúda attende i suoi prossimi nemici. Nessun rancore, solo una missione: tenere al sicuro i Sigilli, anche al costo di rimanere per sempre un reietto.

Forse un giorno il mondo sarebbe cambiato. È successo altre volte in passato, e quando questo accade, il ruolo dei giusti si ribalta e la percezione del popolo si dilata.

Ma il prezzo del cambiamento è sempre molto alto.“Avrei potuto desiderare di più dalla vita?” pensa il solitario

Stregone, perdendosi negli ocra di un tramonto infuocato.

Page 235: L'Albero delle Parole

234

“La solitudine è il prezzo della verità” gli sussurra il maestro, prima di scomparire del tutto in una linea di fumo.

Page 236: L'Albero delle Parole

235

STELLE MARINEProgetto "L'Orfanotrofio delle Storie"

C’era una volta un vecchio uomo che amava scrivere, e per trovare la giusta ispirazione si recava vicino al mare. Prima d’iniziare a comporre usava fare delle lunghe passeggiate sulla spiaggia. Un giorno, mentre camminava da solo lungo il bagnasciuga, vide una figura che nella distanza sembrava stesse danzando. “Un uomo che balla da solo” pensò, e accelerò il passo per vedere più da vicino.

Mentre si avvicinava il vecchio si rese conto che l’uomo non stava affatto danzando. Invece era intento a raccogliere qualcosa nella sabbia, per poi gettarla con gentilezza nel mare. Appena fu abbastanza vicino disse: «Buongiorno! Che sta facendo?»

L’uomo si fermò, guardò verso il vecchio e rispose: «Sto ributtando le stelle marine nell’acqua.»

«Mi scusi, forse avrei dovuto chiederle perché sta ributtando le stelle marine nell’acqua?»

«Il sole è già alto e la marea si sta ritirando. Se non ritornano nell’acqua moriranno tutte!»

«Ma giovane, non si rende conto che ci sono chilometri e chilometri di spiaggia piena di stelle marine. Che differenza potrà mai fare!»

L’uomo ascoltò educatamente, poi si piegò, raccolse un’altra stella marina e la ributtò nel mare. «Ha fatto la differenza per quella lì» disse.

E tu, quante stelle marine hai salvato oggi?

Storia Anonima tradotta e interpretata da GM Willo

Page 237: L'Albero delle Parole

236

IL PITTOREdi Giulia Riccó

C’era una volta un pittore.Era giovane e pieno di idee ma difettava in un punto. Era

troppo impostato.Le regole per lui erano tutto!I suoi quadri erano perfetti, senza il minimo errore. Precisi e

ben calcolati, studiati sin nel minimo dettaglio, ma privi di anima.

Ogni quadro che trasgrediva le regole veniva abolito, cancellato e rifatto da capo. Mai nessun sentimento di rabbia, odio, delusione avrebbe dovuto trapelare da essi.

Non che queste cose non ci fossero nei suoi quadri, ma erano tutte filtrate dalla grande regola della perfezione che il pittore si era imposto.

Il nostro pittore era così ossessionato dal non mostrare il suo vero spirito che lo nascondeva e lo reprimeva persino nella vita di tutti i giorni, tanto che alla fine si convinse che quello fosse il suo vero essere.

Come tutti gli esseri umani però, anche il nostro pittore doveva sfogare questi sentimenti e per questo aveva un confidente. Il confidente del pittore era un grillo, un piccolo grillo che ogni notte ascoltava le sue confessioni e le sue frustrazioni per poi (come fanno tutti i grilli) rispondergli e consigliarlo per il meglio.

Ovviamente, come tutti i grilli parlanti, anche questo piccolo grillo non fece una bella fine. Un giorno venne spiaccicato dalla scarpa del pittore ormai troppo convinto che le regole fossero la sua vera essenza.

Fu così che continuò nel suo lavoro di pittore, apprezzato e ben stimato ( si sa nel mondo le regole ben seguite sono sempre ben accettate e piacciono ai più).

Non infranse mai le regole e non deluse mai le aspettative dei suoi cari e del suo pubblico.

Page 238: L'Albero delle Parole

237

Quando non riuscì più a dipingere con precisione e accuratezza decise di ritirarsi vivendo di rendita e di qualche apparizione qua e là per il mondo.

Quando fu ormai vecchio e canuto, il pittore ritrovò i suoi pennelli, i suoi colori e una vecchia tela bianca nel fondo buio della sua cantina.

Portò il tutto nella sua camera e cominciò a guardare la tela con i suoi occhi lattiginosi. Fu un attimo poi prese il pennello e lo inzuppò di colore cominciando a dipingere con forza. Dipinse così senza nemmeno disegnare prima la tela, lasciandosi trasportare dagli anni e dal sentimento.

Il risultato fu uno spettacolo commovente.Sulla tela aveva preso forma una figura grottesca e allo stesso

tempo bellissima. Era triste e felice, dolce e malvagia. Racchiudeva in se l’essenza stessa della vita.

Il pittore la guardava come rapito, poi si prese il capo stanco tra le mani sporche di colore e pianse, come piangono i bambini che hanno perso la cosa più cara per loro.

Dopo pochi minuti il pittore si ricompose, poggiò la tela da una parte e si preparò per la notte.

Quella notte successe qualcosa di insolito. La tela su cui era dipinta la strana creatura cominciò a pulsare. Avete presente un cuore quando comincia a battere, quando finalmente prende vita qualcosa? ecco la tela pulsava come un cuore appena nato, e più pulsava e maggiore era la vita che appariva nel volto della creatura finché essa non uscì dal quadro.

La creatura si mosse con grazia infinita e si avvicinò al letto del pittore.

Lo accarezzò sulla fronte come una madre fa con il suo bambino, poi cominciò a parlare sommessamente. Aveva in se tutte le voci del mondo e tutti i suoni della terra.

“Padre mio, mio caro padre. Finalmente ti sei liberato di quel giogo che ti ha oppresso per tanti anni. Finalmente mi hai creato. Povero padre mio quante vite non hai incontrato per questa tua paura. Quante occasioni perdute. Ma inutile piangere ormai, ora sei libero e questo è l’importante. Potrai stare sereno e tornare ad abbracciare i tuoi cari. Ora io vivrò per te. In me hai finalmente

Page 239: L'Albero delle Parole

238

infuso la tua anima e tutto il tuo essere, io sono il tuo testamento padre mio. Io ora vivrò in eterno e chiunque mi vedrà non potrà non commuoversi davanti a me. Alcuni si sentiranno pervadere dalla gioia infinita, altri soffriranno, altri ancora avranno paura ma nessuno potrà mai rimanere impassibile.” Baciò dolcemente la fronte del pittore e come un lampo tornò nella tela.

Il mattino chi andò a trovare il pittore trovò un’espressione di pace sul suo volto e accanto al letto un quadro al quale, ancor oggi, nessuno può rimanere indifferente.

Page 240: L'Albero delle Parole

239

UNA SOTTILE LINEA DI FUMOdi GM Willo e Stefano Cisternino

Ci sono momenti in cui la memoria è un luogo da cui bisognerebbe solo scappare, invece io ero lì, piantato come un chiodo arrugginito su uno sgabello appiccicoso di chissà quali umori. Pensavo davvero di aver ripagato il mio debito, di aver cancellato anche tutti quelli che ne erano a conoscenza, e invece mi ritrovai Lui a cinque centimetri dal viso. Sembrava quasi che Dio si fosse dimenticato di finirlo da quanto era spigoloso, e con una voce che ricordava il rumore di un tritarifiuti mi disse ciò che temevo di più: «pensavi proprio che ti avrei permesso di non danzare tra le ombre per me?»

Melvin Kondaurov, era quello il suo nome, un nome cattivo come la sua faccia, precipitato dalla remota Siberia in questa maledetta città, come un seme malato che germoglia nonostante la stagione sia sbagliata, e si sviluppa in escrescenze gibbose, dando alla luce frutti velenosi…

«Cosa bevi?» gli chiesi con le mani in bella mostra. La fondina che nascondeva il ferro era lontana chilometri, nonostante sentissi la fredda canna sulle costole, appena sotto la giacca. Un movimento sbagliato e poteva essere la fine.

«Varechina…» gracchiò lui. Ma non sorrise, perché era più che probabile che non stesse scherzando. Ordinai due scotch doppi ma non staccai lo sguardo dal suo volto. Quasi gli occhi mi facevano male…

«Una brutta storia quella del giapponese, ma credimi, io non c’entro nulla…» la mia voce esitava troppo, la temperatura del locale si era maledettamente alzata, le luci dei neon mi svalvolavano in testa, il brusio in sottofondo sembrava la zampettio di milioni di insetti pronti a divorarmi. In situazioni del genere non riesci a pensare, anzi, pensare diventa una cosa molto pericolosa.

«Stronzate!» sbraitò Melvin. Poi afferrò il suo scotch e lo tirò giù in un unico sorso. Poteva essere la mia occasione per agguantare la pistola, ma me la lasciai sfuggire. Ero paralizzato come una

Page 241: L'Albero delle Parole

240

colonna di granito, molle come il budino al cioccolato che faceva mia zia, in trance come una lepre folgorata dai fari di un auto.

«Adesso vieni con me…» disse, portandosi alla bocca la sua sigaretta. Cercai di aggrapparmi alla sottile linea di fumo che sprigionava, immaginandomi piccolo piccolo, un esserino fatto di ombre e fumo di sigaretta. La mia unica via d’uscita…

«Melvin, ti giuro che non è stata colpa mia…»«Su, non facciamo storie. Vedrai che tra poco sarà tutto finito»

mi assicurò Lui, alzandosi dallo sgabello.Non dissi altro. Bevvi il mio scotch e lo seguì fuori dal bar. Che

altro avrei potuto fare? Piangere? Urlare? Melvin Kondaurov era un tipo quieto, ma non ci avrebbe pensato su due volte a estrarre il cannone davanti alla barista e a ridipingerle le pareti del bar col mio sangue.

«Adiamo sul retro, dove ci sono i cassonetti» ordinò, una volta raggiunto il marciapiede. Il buttafuori nero alla porta del locale ci guardò di sbieco, ma non disse niente. Meglio per lui.

Quella era la fine di una vita troppo breve e troppo schifosamente sbagliata. Mentre muovevo piccoli passi dentro quel lurido vicolo, provai a pensare alle poche cose buone che mi erano capitate, ma l’odore dell’orina mischiato a quello del sudiciume che fuoriusciva dai cassonetti era insopportabile. Mi tornò a mente solo la faccia di mio padre, e quella cicatrice che gli rattoppava la guancia. Figlio di puttana…

Fu la buccia di banana. Si, proprio lei, quella dei cartoni animati, quella delle comiche, la fottuta e meravigliosa buccia di banana.

Melvin aveva estratto il ferro, una S&W calibro 40, e lo spingeva con impazienza tra le mie costole. Ancora qualche passo e avrei sentito il bang, oppure non l’avrei sentito affatto. Ma lo show se lo rubò la buccia di banana.

Melvin Kondaurov, 123 chilogrammi di carne russa compressa, appoggiò tutto il suo peso sulla gamba destra, in un lezzo vicolo della periferia cittadina. La buccia lo fece scartare prepotentemente di lato, ma provò lo stesso a riacquistare l’equilibrio. Fu un gesto istintivo, ma sbagliato. Cadde

Page 242: L'Albero delle Parole

241

pesantemente a faccia in giù, la S&W gli rimase sotto, partì un colpo e insieme al piscio il vicolo si macchiò del suo sangue.

Sangue Made in Russia.

Page 243: L'Albero delle Parole

242

LA RAGAZZA CIECAProgetto "L'Orfanotrofio delle Storie"

C’era una volta una ragazza di rara bellezza che aveva tutto quello che si potesse desiderare; una famiglia che l’amava, una grande casa sul mare, amici affettuosi e un ragazzo dal cuore d’oro che le voleva molto bene e le stava sempre vicino. Purtroppo però la ragazza era cieca, e malgrado tutto il bene che le veniva dato, era molto infelice perché odiava se stessa e la sua cecità.

Un giorno disse al suo ragazzo: “Sei la persona più bella che conosca, e se non fosse per la mia cecità ti sposerei subito. Ma mi odio troppo per concedermi a te. Se un giorno potessi vedere il mondo, sarei orgogliosa di essere la tua sposa.”

Il giorno dopo il dottore di famiglia disse alla ragazza che qualcuno le aveva donato un paio di occhi. Si preparò tutto il necessario per il trapianto e poche ore più tardi era tutto finito, e l’operazione perfettamente riuscita. La ragazza però avrebbe dovuto attendere qualche giorno prima di togliersi le bende.

In trepida attesa, vagava per le ampie stanze della sua casa in compagnia del ragazzo, che le stava sempre vicino. Sentiva il profumo del mare e non vedeva l’ora di poter mirare i suoi mille riflessi azzurri. Insieme al suo amore, iniziò a fare progetti per il matrimonio. Intanto, attraverso le bende, incominciava a percepire le ombre e le luci.

Una splendida mattina di sole il dottore le tolse le bende e per la prima volta la ragazza vide il mondo attorno a se, ed era bellissimo.

Vicino a lei c’era sempre il ragazzo, che le stringeva la mano.“Adesso puoi vedere, mio amore, e insieme vivremo per

sempre felici e contenti” disse lui. Allora la ragazza lo guardò per la prima volta e vide che due lunghe cicatrici gli deturpavano il volto, ed era privo di occhi. Rimase così sconvolta che gli disse di allontanarsi immediatamente e che le nozze erano annullate.

Page 244: L'Albero delle Parole

243

Il ragazzo andò via in lacrime, ma prima di lasciare per sempre la casa della sua amata, riuscì a scrivere un biglietto e a lasciarlo sul tavolo del soggiorno.

Quando la ragazza vide il messaggio e lo lesse, tutta la felicità di cui era ricolma si prosciugò in un solo attimo. Nel biglietto vi era scritto: “Prenditi cura di te e dei tuoi occhi, mio amore, che prima che ti appartenessero erano i miei.”

Adattamento e traduzione dall’inglese di un storia anonima –GM Willo

Page 245: L'Albero delle Parole

244

CAMPO DI GRANO, VITA E MORTEdi Giulia Riccó

Il Campo di grano era piuttosto vasto. Al margine due figure incappucciate discutevano animosamente.

“Non ci posso credere! L'hai rifatto!!! Sei semplicemente terribile, lo sai bene che ad usare i semi modificati geneticamente il grano poi cresce a dismisura e infesta tutto il campo. Ah ma alla signora non importa, tanto poi chi deve falciare anime sono io!” Sbraitava la prima brandendo una falce con la mano scheletrica.

“Ma dai, ti ho detto che non l'ho fatto apposta, e poi se tu non avessi allagato il campo l'altro giorno io non avrei dovuto fare una nuova semina. Insomma non è del tutto colpa mia.” Rispose la seconda figura agitando un dito davanti al teschio incappucciato del suo interlocutore.

“Mi stai forse accusando di essere distratto? Ti ricordo che sei tu che lascia fare tutto il lavoro a me” boffonchiò il primo mentre entrava nel campo di grano con la sua falce.

“Sei tu la signora Vita che tutti adorano no? Dovresti prenderti cura tu del tuo grano, e invece ti limiti a piantarlo qua e là nel campo e poi lasci le incombenze a me.”poi si mise ad imitare la voce di Vita “Morteee me lo potresti innaffiare ceh ho da fare in cucina? Caro non è che potresti concimarlo che devo farmi la manicure?” Morte scimmiottò Vita mentre dava qualche sfalciata nel campo, poi si voltò verso di lei e con le mani sui fianchi continuò a brontolare “ Ti ricordo che io ne ho già abbastanza della falciatura, o credi sia un lavoro facile? Richiede molta attenzione sai? Solo le spine mature possono essere falciate, devo porci la massima attenzione altrimenti potrei fare un danno irreparabile”. Morte continuò il suo soliloquio, mentre con la falce ripuliva il campo dal grano mutante che produceva anime coriacee ed egoiste, che arraffavano tutto il nutrimento dalla terra senza dividerlo con altri.

Vita sembrò sul punto di ribattere, ma fece un profondo respiro e avanzò piano nel campo verso il cupo mietitore suo marito. Gli

Page 246: L'Albero delle Parole

245

abbasso il cappuccio e lo baciò sul teschio bianco. Morte ebbe un sussulto e diede una falciata distratta, si fermò e si girò a guardare la sua bellissima moglie.

“Povero il mio bello scheletrino.” disse lei con voce dolce e sensuale. “ Perchè non lasci un attimo la tua falce e vieni a farti consolare dalla tua mogliettina? Su dai facciamo pace che non mi piace se mi tieni il broncio...”.

Morte guardò Vita trasognante ma disse “ C'è ancora molto da mietere qui...”

“Dai finisci dopo caro, non ti preoccupare ti aiuto io, magari diamo un po di diserbante...” lo interruppe Vita accarezzandogli l'osso occipitale. Gli prese poi la mano e lo condusse in casa. Morte la seguì lasciando cadere nel campo la falce che tagliò via qualche spiga non ancora perfettamente matura.

Quando molte ore dopo Morte tornò al suo lavoro, si era completamente dimenticato del grano infestante, che nel frattempo si era camuffato tra l'altro raccolto, quindi lo lasciò lì a maturare e imperare sul resto delle spighe. E noi, che quel grano siamo, stiamo ancora aspettando che il caro Morte se lo porti via con una bella falciata, e preghiamo vivamente che la bella Vita non si sbagli più a piantare semi infestanti.

Page 247: L'Albero delle Parole

246

LA SINDROME DEL SENSO DI COLPAdi GM Willo

Carey Wolf apre gli occhi alle sette e trentacinque in punto. L’impulso viene da una zona circoscritta del cervelletto, quella destinata alle connessioni. La sveglia interna lo informa dell’ora, del giorno, dell’anno e degli appuntamenti in agenda. In meno di tre secondi Wolf è a conoscenza della temperatura esterna, di quella interna, della probabilità percentualistica di precipitazione e delle ultime news, settate secondo priorità: cronaca, politica, sport, annunci-incontri.

Carey Wolf vive in un penthouse che si affaccia su Londra. L’intero edificio è di sua proprietà, così come l’elicottero posteggiato sulla pista d’atterraggio, che è anche la terrazza del suo appartamento. Alle nove e quindici ha un appuntamento dall’altra parte della città; appena venti minuti di volo.

Sotto la doccia visiona il notiziario, mentre si veste conclude un paio di operazioni bancarie, davanti ad un caffè fumante contatta la sua segretaria, le da disposizioni, chiama Tokio, Parigi e Washington, il tutto senza toccare un solo dispositivo. Interfaccia cerebrale Mitros; trattarsi bene è un dovere.

La giornata sfila via senza intoppi. Appuntamenti di lavoro, lunch insieme agli amici, un salto in ufficio nel pomeriggio, il tennis club fino alle cinque, l’aperitivo con Tania, contattata attraverso l’open-chat Aphrodite, sushi accompagnato da un Krug Vintage, sesso in ascensore, giochi erotici e coca nella suite dell’Hotel Palace, ovviamente di sua proprietà. Il sonno lo rapisce felice.

Roman Baker si sveglia tra le lenzuola di seta dell’Hotel Palace. Accanto a lui c’è sua moglie Penelope, capelli neri, occhi profondi come il mare e un culo da urlo. Sono sposati da sole ventiquattro ore ma qualcosa in Roman gli dice che non sarebbero durati fino a fine anno. Sul momento gli sembrava una buona idea; il matrimonio, la luna di miele a Londra, ma soprattutto il sedere di

Page 248: L'Albero delle Parole

247

lei. Si conoscevano da poco più di un mese e non l’aveva mai vista andare fuori di testa come la sera prima.

Sul tavolino da tè della suite rimanevano un paio di strisce di coca, quelle che lui aveva rifiutato. Il naso di Penelope sembrava un aspirapolvere. Si era avventata su di lui strappandosi la camicetta, cercando disperatamente la lampo dei suoi calzoni, quando improvvisamente la scena dall’erotico si era trasformata in grottesco. Un fiotto di sushi e champagne era sgorgato dalla sua bocca, battezzando le lenzuola della loro prima notte d’amore.

Roman si alza e si accende una sigaretta. L’interfaccia lo ha appena informato dell’ora e delle condizioni meteorologiche, oltre a ricordargli per filo e per segno gli eventi appena trascorsi. Le due del pomeriggio. Con lei fuori gioco c’era d’aspettarsi di passare tutta la giornata tra le mura di quella dannata suite. Tanto valeva riordinare un po’ la stanza.

Più tardi Penelope apre gli occhi, sente il suono del televisore, fa per alzarsi ma un terribile mal di testa la convince a rigirarsi di nuovo tra le lenzuola e a riaddormentarsi.

Alle otto e quindici Ramon ordina la cena; bistecca, insalata ed un bicchiere di vino per lui e un tè per lei. È ancora a letto. È dispiaciuta. Vorrebbe farsi perdonare ma la testa le scoppia.

Alle dieci e cinquantacinque dormono nuovamente entrambi come due angioletti.

Emmilian Lalonde non ama gli hotel, ma oggi è a Londra per lavoro e il Palace è uno dei migliori. L’interfaccia gli dice che sono le sei e cinquantacinque e che tra poco più di mezz’ora lo verranno a prendere. Sua moglie Linda, che dorme profondamente accanto a lui, ha regolato la sveglia alle otto. Non la disturba, ma non può fare a meno di accarezzarle i capelli, velluto nero sulla seta delle lenzuola. Sarà comunque di ritorno all’hotel per pranzo, dopo il sopralluogo al Grand Terminal.

Emmilian Lalonde, ingegnere informatico, trentadue anni, sposato da quattro, impiegato del governo, residente a Northampton, apre i files nella sua testa, come farebbe davanti a uno schermo. Invece è sotto la doccia, usa uno shampoo

Page 249: L'Albero delle Parole

248

antiforfora e si chiede se non rimarrà calvo prima dei quaranta. Abito grigio, senza cravatta perché la odia, sfiora la testa della moglie con le labbra prima d’imboccare la porta ed uscire nel corridoio dell’albergo. Gli rimangono poco più di dieci minuti per la colazione. Nel frattempo si ripassa il programma; aggiornamenti al software Wakeup, controllo ricezioni satellitari, installazione nuovo sistema operativo. Una mezza giornata di lavoro buona. Il caffè è eccellente.

L’auto è una di quelle del governo, nera coi finestrini opachi. Si ferma davanti all’entrata della lobby anche se non potrebbe. Il portiere fa finta di niente. Ne esce un tipo alto, stempiato, abito nero, occhiali rigorosamente scuri, portamento distaccato, movimenti chirurgici. Lalonde, comodamente seduto sul divano davanti alla reception, lo osserva venirgli incontro con passo sicuro.

«Mister Lalonde?» La sua voce è asettica.«Si, sono io.»«Andiamo…»L’abitacolo è diviso da un vetro. L’uomo siede accanto

all’autista, mentre Lalonde è da solo sul sedile posteriore. Le corsie preferenziali di Londra sono semideserte, pochissima la gente sui marciapiedi. Molti negozi sono ancora chiusi; non sono ancora le otto.

Lalonde si rilassa con un po’ di musica. Seleziona la playlist lounge, chiude gli occhi e si lascia trasportare. Pensa ai baci di Linda, al suo profumo, al modo in cui hanno fatto l’amore, tra le lenzuola di seta dell’Hotel Palace. Dio come l’amava!

Lalonde riapre gli occhi su un assolo di sax. C’è qualcosa che non và. La strada non è quella giusta. Bussa al vetro, chiede spiegazioni all’autista e al suo amico ma nessuno gli risponde. Gli sportelli sono ovviamente bloccati. I finestrini anche. Mentre immagini di una periferia sconosciuta scorrono attraverso i vetri, Lalonde si chiede in quale guaio sia finito. Le connessioni nella sua testa sono partite. Non gli è più possibile comunicare con l’esterno.

Page 250: L'Albero delle Parole

249

«Dove mi state portando? Cosa è successo al mio interfaccia?» urla attraverso il vetro, ma i suoi rapitori non si voltano neanche a guardarlo.

Pensa veloce, prova a riaccedere al server madre, ma niente da fare, è tagliato fuori. Usa un programma interno rivelatore di impulsi. C’è qualcosa nella parte posteriore dell’abitacolo che altera la ricezione, se solo riuscisse ad aggirare il problema potrebbe avvertire il Grand Terminal, ma deve fare in fretta. Gocce di sudore gli imperlano la fronte, mentre smuove i pezzi di uno strano puzzle nella sua testa. Ecco, ci siamo quasi…

…ma l’impulso cambia improvvisamente di frequenza, e questa volta è doloroso. Lalonde si accascia sui sedili posteriori dell’auto nera, sprofondando in un oblio digitale.

Quando riapre gli occhi la luce di un neon lo abbaglia. È disteso su un lettino reclinabile di pelle nera, dentro una stanzetta vuota. C’è una porta alla sua destra e un ampio specchio alla sua sinistra. Qualcuno lo sta osservando al di là di quel vetro, ma non è il suo interfaccia a suggerirglielo. Quello è ancora inaccessibile.

Dolorante si mette a sedere. Hanno giocato un po’ con il suo sistema neurale, usando frequenze proibite. Il risultato è come un giro nel portabagagli di un auto senza sospensioni.

La porta si apre. Entra un uomo sulla cinquantina, calvo, con gli occhiali, il camice bianco, una cartelletta in mano. Qualcuno richiude la porta da fuori; è il tipo con gli occhiali scuri.

«Buongiorno signor Lalonde, il mio nome è Valentin Sayer, oppure dottor Sayer se le và…»

«Dove diavolo sono? Chi siete voi?» Lalonde cerca la voce arrabbiata, ma riesce appena a sollevare la testa. Tossisce, si stringe le tempie, ritorna distendersi sul lettino.

«Non si affatichi. Vedrà, le passerà presto.»Questa volta non risponde. Sa già che non ne vale la pena.«Mi spiace per ciò che sta passando, ma presto si renderà conto

che quello che vi abbiamo fatto era necessario…»«Stronzate…» sussurra Lalonde con le mani sul volto. Se solo

potesse riaccedere al suo interfaccia, pensa.

Page 251: L'Albero delle Parole

250

Il dottor Sayer riprende a parlare «…non mi sembra il caso di andare avanti, adesso. Le darò qualcosa per far calmare i dolori. Riprenderemo più tardi.»

Nei minuti susseguenti un’infermiera gli somministra degli antidolorifici per endovena. Mezz’ora dopo i dolori sono scomparsi, ma l’accesso al deck interno è sempre sbarrato.

«Fatemi uscire!» urla, sbattendo i pugni sul vetro. Valentin Sayer rientra nella stanza. Ha una sedia pieghevole. La apre e si accomoda davanti al lettino del prigioniero.

«Adesso mi ascolti bene signor Lalonde, e cerchi di prestarmi attenzione. Tra meno di un’ora sarà di nuovo sull’auto e questa volta in direzione del Grand Terminal.»

«Che cosa vuol dire tutto questo?»«Glielo sto cercando di spiegare, signor Lalonde. Si sieda ed

ascolti.»Riacquistata un minimo di tranquillità, Lalonde prende

posizione sul lettino di pelle. È aggrappato alla promessa del dottore; tra meno di un’ora tornerà tutto normale.

«Quello che sto per rivelarle le sembrerà assurdo, ma non ho nessun altro modo per convincerla se non quello di raccontarle come stanno le cose. Starà a lei crederci oppure no.»

Sayer usa una pausa per assicurarsi che il suo interlocutore lo stia seguendo. Lalonde mette su uno sguardo scettico ma pare concentrato. La storia incomincia.

«Come lei sa il Grand Terminal di Londra gestisce tutti gli impulsi dei maggiori network. Li seleziona, li smista, li traduce e li converge ai ripetitori ai quattro angoli del pianeta. Il 98% della popolazione mondiale utilizza degli implant-deck che quotidianamente vengono aggiornati con nuovi flussi di informazioni; previsioni metereologiche, notizie, annunci e aggiornamenti per la navigazione in rete. Il suo lavoro è proprio quello di monitorare il sistema utilizzato dal Grand Terminal. Le spiace se fumo?»

Valentie Sayer estrae un pacchetto di sigarette al mentolo.«No, si figuri» risponde Lalonde, ma l’odore del tabacco

aromatizzato gli mette subito la nausea.Sayer riprende a parlare.

Page 252: L'Albero delle Parole

251

«Quello che non sa è che in realtà il Grand Terminal è il più grande esperimento di acquietamento mai realizzato. Ciò che trasmette regolarmente ogni giorno a milioni di persone, pochi istanti prima del loro risveglio, non è solamente una manciata di informazioni di comune utilizzo; orario, temperatura, messaggi di segreteria ecc. Come lei certamente saprà gli interfaccia interagiscono direttamente con la zona del cervello riserbata alla memoria, moltiplicando la sue capacità di storage a seconda della potenza del dispositivo in dotazione. L’impulso lanciato dal Grand Terminal ogni giorno al 98% della popolazione mondiale cancella sistematicamente la cartella “memoria” e la riempie con nuove informazioni. Come conseguenza succede che ogni individuo ha una percezione diversa della propria vita ogni singolo giorno.»

Le parole del dottor Sayer rimangono prigioniere della piccola stanza. Lalonde prova ad afferrale, a farle sue, ma queste gli scivolano via.

«Lei è pazzo!» borbotta.«Mi faccia spiegare. Ancora qualche minuto e poi sarà libero di

andarsene.» Spenge la sigaretta schiacciandola sul linoleum e apre la cartellina che ha in mano.

«Lei oggi è il signor Emmilian Lalonde, felicemente sposato con la signora Linda Lalonde, che al momento si trova sotto la doccia nella vostra suite dell’Hotel Palace. Lei crede di essere arrivato ieri sera a Londra con il treno delle diciotto, di aver fatto il check-in, di aver cenato al ristorante dell’albergo, di essere salito in camera e di aver fatto l’amore con sua moglie. In realtà ieri lei era il signor Roman Baker, che a sua volta credeva di essere in viaggio di nozze con sua moglie Penelope. Il giorno prima invece era il signor Carey Wolf, proprietario dell’Hotel Palace, arrivato nella medesima stanza nella quale vi siete svegliato stamattina insieme a Tania, una ragazza di facili costumi. Ovviamente avrà già capito che Tania, Penelope e Linda sono la stessa persona. L’impulso non riesce a cancellare completamente tutti i ricordi. Se lei prova a concentrarsi su questi nomi, Roman Baker e Carey Wolf, forse riuscirà a rammentare qualcosa…»

Page 253: L'Albero delle Parole

252

Lalonde chiude gli occhi, vorrebbe ridere a squarciagola e uscire da quella situazione insensata, ma qualcosa lo trattiene. Si concentra sui due nomi. È tutto così assurdo… Frammenti di una vecchia pellicola gli scorrono davanti agli occhi; un volo in elicottero, una partita a tennis, un pompino in ascensore, due strisce di coca sul tavolino dell’hotel, una bistecca con insalata…

«Che diavolo significa?» urla.«Adesso si calmi, ho quasi finito» lo rassicura il dottor Sayer.

Poi riprende a parlare.«Stiamo monitorando l’esperimento da circa due anni e

crediamo che sia venuto il momento di interromperlo. Per questo motivo lei è qua. Le daremo istruzioni per innescare il programma di disinstallazione, una volta che raggiungerà il Grand Terminal. Ma prima vorrei spiegarle i motivi di quello che stiamo facendo.»

Sayer cerca una posizione più comoda sulla sua sedia e si accende un’altra sigaretta al mentolo.

«L’inaudita escalation di violenze, guerre e calamità accadute nella prima metà di questo secolo hanno convinto alcune persone nelle stanze dei bottoni ad iniziare un piano di selezione demografica estremamente rigido. Le sue percezioni del mondo le fanno credere che siamo più o meno sette miliardi, ma non è così. La popolazione mondiale conta poco più di cinquecento milioni di persone. La selezione ovviamente ha preferito le civiltà più avanzate, e il risultato è stato ottenuto attraverso una sistematica pulizia etnica ai danni delle popolazioni più retrograde. Una volta conclusasi questa prima fase, si è operata un’equa spartizione delle risorse energetiche e delle terre. Per qualche anno il nuovo ridimensionamento geopolitico ha giovato grandemente all’umanità. Sono terminati i conflitti e si sono risolti i problemi relativi alla scarsità delle risorse primarie; gas, petrolio e acqua. Purtroppo dopo un paio di anni si sono avvertiti i primi sintomi di quella che tra noi addetti ai lavori chiamiamo semplicemente la “sindrome del senso di colpa”. La maggior parte della popolazione, malgrado il bel vivere, non riusciva a sopportare l’idea di aver partecipato, attivamente o passivamente, allo sterminio di più di sei miliardi di persone. Le

Page 254: L'Albero delle Parole

253

prime conseguenze furono degli stati depressivi di massa che portarono al suicidio un numero impressionante di persone. Si iniziò subito un primo programma di acquietamento, cercando di rimuovere i ricordi della pulizia etnica ma purtroppo, come ha appena constatato lei di persona, non è facile cancellare completamente il supporto mnemonico del cervello. Fu così che avviammo il secondo programma di acquietamento, cioè quello in corso. I supporti di memoria della popolazione mondiale sono stati cancellati e riprogrammati più di seicento volte ormai, e crediamo che si sia finalmente persa ogni traccia di quelle terribili testimonianze. Per questo è giunto il momento che ognuno si riappropri della sua identità.»

Lalonde ascolta il suo corpo e cerca di convincersi che tutto quello che gli è appena stato detto è un’enorme frottola. Ma qualcosa dentro di lui gli sussurra che non è così.

«Prenda questo supporto e lo inserisca nel deck del Grand Terminal. Penserà a tutto lui.»

Sayer consegna nella mani tremanti di Lalonde un microchip. Poi l’uomo con gli occhiali scuri entra nella stanza, lo prende gentilmente per un braccio e lo accompagna fuori, attraverso uno stretto corridoio, e poi oltre una porta grigia di metallo. L’aria gelida del mattino spazza via la nausea delle sigarette al mentolo. C’è l’auto nera ferma in un enorme parcheggio vuoto. Lalonde viene condotto nell’abitacolo, il motore si accende e meno di cinque minuti più tardi la zona periferica industriale è già alle sue spalle.

L’incubo è finito, pensa. Questa gente è pazza!Poi incominciano i ricordi. I grandi forni crematori, la puzza

nauseabonda dei corpi bruciati, le immagini di devastazione riprese dalle televisioni, la fredda determinazione degli eserciti della coalizione, la propaganda di morte dei governi. Tutto risale in superficie, come un veleno aggrappato alle cellule del corpo, incapace di essere rimosso neanche attraverso le generazioni. La nuova maledizione dell’uomo.

«Fermate la macchina! Vi prego, fermatela, devo vomitare!» ordina Lalonde, battendo sul vetro che lo separa dai due uomini.

Page 255: L'Albero delle Parole

254

Un marciapiede di periferia si macchia dei resti della colazione del Palace.

«Come ha reagito il soggetto numero 543?»«Negativo.»«Tempo di affioramento dei ricordi?»«Diciassette minuti e quarantacinque secondi.»«Meglio di ieri. Molte grazie, dottor Sayer.»«Riproviamo domani?»«Certo.»«Nome del soggetto?»«Wildon Harvie.»

Page 256: L'Albero delle Parole

255

ELIZAVETAdi GM Willo

Le russe sono tipe strane, hanno il sangue delle lucertole, hanno il ghiaccio nelle vene, e magari ci scopi e non esiste niente di più focoso, passionale, bizzarro, ma poi le guardi negli occhi e capisci: sei fregato!

Elizaveta era esattamente così.La conobbi in albergo, quello in cui lavoravo. Chissà come

poteva permettersi una suite di lusso, forse era nei servizi segreti. Beh, a me piace pensarla così…

L’ascensore era il nostro luogo. Lei m’invitava con lo sguardo, io la seguivo nel loculo, partivamo e dopo un po’ premeva l’alt. Poi mi si avvicinava come una pantera, sfiorava con le sue labbra carnose il mio orecchio sussurrandomi: zaychik moy… mio coniglietto.

Volete che vi descrivi il resto? Meglio di no. La vostra immaginazione può bastare…

Boris non era suo fratello. Era solo un puttaniere, e ci beccò nel posto sbagliato al momento sbagliato; l’ascensore appunto!

Il resto sono solo storie di pallottole e vodka.Eppure io l’ho amata. Per quel poco che è durata…«Avanti il prossimo!»«Eccomi, sono io. Giovane lo so, arma da fuoco, regolamento di

conti, storie di donne… C’è posto lassù?»« Vedo, vedo…. Una sola domanda: ma lei la amava quella lì?»«Con tutto il mio cuore!»«Allora vada. L’ascensore è sulla destra.»Ancora l’ascensore, pensai. Si aprirono le porte e c’era lei.«Dove eravamo rimasti?» chiese.Il paradiso piu dolce…

Page 257: L'Albero delle Parole

256

MARIONETTEdi Giulia Riccó

E tu giovane Pinocchio del XXI secolo che fai?Ancora credi di essere senza fili?Non ti accorgi che i grandi Mangiafuoco ti sorreggono con fili

invisibili?Che fai tenti di tagliarli ma non ti accorgi che fai il loro gioco?

Più ti dimeni per liberarti da quell’invisibile e appiccicoso filamento, più ne rimani invischiato. Più cerchi di non essere una loro marionetta più fai il loro sporco gioco. Hanno bisogno di Giovani Pinocchio per i loro scopi. Per soggiogare ancora di più Arlecchino, Pulcinella e tutti gli altri hanno bisogno dei giovani Pinocchio che facciano la parte dei ribelli a cui dare la colpa. Non temere però una soluzione c’è: taglia i fili. Si tagliali con questo coltello. Farà un po’ male ma non preoccuparti è passeggero. Affida a me i tuoi scellini d’oro te li tengo al sicuro nel campo dei miracoli. Non ti fidi della tua vecchia Volpe!? Guarda che io non sono la vera cattiva. Sono solo una povera bestiola costretta a campare di favole. Ma tu, oh si tu giovane Pinocchio puoi librarti libero nel mondo. Taglia i fili e via lontano nel paese della cuccagna senza burattinai a imprigionarti. Ecco vedi è un attimo prima i polsi, poi le caviglie e ora la testa… Libero… senti freddo? È normale liberarsi dai fili è un po’ come liberarsi della coperta di Linus. Come chi è? Te lo spiegherò poi un’altra volta. Ora siediti qui. Sangue? Oh no non preoccuparti è normale, i fili sono come piccole vene. Stai sereno ancora poco e sarai libero. Chiudi gli occhi giovane Pinocchio. Chiudi gli occhi e pensa che sarai l’unico libero. Quei bastardi hanno intrappolato anche la cara Fatina. No no tranquillo io veglierò su di te finché non sarai del tutto libero. Ecco Chiudi gli occhi giovane Pinocchio. Si scivola nel sogno… così bravo. Sogna sogna la tua libertà, perché vedi, in questo mondo l’unico modo per essere liberi è sognare di esserlo.

Page 258: L'Albero delle Parole

257

LA NEBULOSA DEL CANCROdi GM Willo

Che cosa nasconde quel messaggio, quell’assurda accozzaglia di simboli, quel suono ipnotico sparato da una distanza di milioni di anni luce?

Ve lo dico io cosa nasconde… è la voce di Dio, quella. E sapete cosa ci sta dicendo? Che siamo proprio dei coglioni!!

Lasciatemi parlare! Siete voi i pazzi, e ve ne accorgerete presto!Nessun decodificatore è stato in grado di darci delle risposte

sensate. Nessun algoritmo è capace di spezzare l’enigma. Ma provate ad ascoltare e riascoltare quel suono, nell’oscurità della vostra camera da letto, da soli, immergendovi totalmente nel vibrato. Io l’ho fatto, ed è stata una rivelazione.

Quella è la voce di Dio e ci sta dicendo che stiamo sbagliando tutto! Ci sta parlando dalle sue magioni, oltre lo spazio compreso, oltre le luci ed i suoni, oltre i fulcri incandescenti delle galassie, oltre lo zero assoluto nei remoti angoli del cosmo. I nostri maledetti marchingegni non sono in grado di carpire il significato della sua grandezza, il sottile insinuarsi delle note alte, appena percepibili, il lento e cadenzante ritmo delle tonalità grevi.

So già che volete farmi fuori, che probabilmente questo sarà l’ultimo discorso pubblico che sarò in grado di fare, per questo sento il bisogno di appellarmi a quel briciolo di umanità che ci è rimasta; la vostra, la mia, e quella di tutti gli altri, facce spiritate che ci guardano da oltre il vetro magico. Stiamo sbagliando, gente. Dobbiamo tornare indietro. Dobbiamo ritrovare quello che abbiamo perduto.

Ascoltatemi! Domani io sarò solo un altro pazzo confinato alle periferie della civiltà. Avrò un altro nome, un nuovo lavoro, nuovi vicini. Non potrò rivelare la mia posizione né la mia vera identità. Non m’importa. Ma sappiate che tutti voi siete in grado di sentire quel messaggio.

Stanotte spengete le luci della vostra stanza e aprite la finestra. Guardate in alto, verso la Nebulosa del Cancro. Chiudete gli occhi ed ascoltate.

Page 259: L'Albero delle Parole

258

Dio vi parlerà, e vi sentirete come quando vostro padre vi beccava ad averne appena combinata una grossa. Ma, credetemi, questa volta non ve la caverete con una semplice sculacciata…

Page 260: L'Albero delle Parole

259

LA GRANDE OCCASIONEdi GM Willo

Il morto è venuto da me l’altra notte per parlarmi del trapasso. Già dal primo sguardo mi è sembrato sbronzo, ma in quel momento non aveva importanza. Si è seduto accanto a me, su mio letto di morte, e mi ha sorriso. Non sapevo perché, ma ero sicuro che fosse uno spettro. E lo era per davvero, lo giuro!

Il morto aveva gli occhi limpidi di un bambino, o di un ubriaco, oppure di entrambi. Mi si è fatto vicino e mi ha parlato…

«Ehi amico, non aver paura. Vedrai sarà come scendere in cantina. Sarà come farsi un cicchetto o due. Non temere! Lei non viene da te con una falce, ma con una bottiglia di buon vino. Fidati. Chiudi gli occhi adesso. Dormi…»

E così, con un sereno sorriso sulle mie violacee labbra, mi sono addormentato. La morte mi ha concesso un altro giorno, ma ora non ho più paura. Sono pronto ad affrontarla.

È arrivato il tramonto. Intuisco i suoi colori, al di là delle pesanti tende di velluto scuro. Sento che il momento sta per arrivare. Ed io mi tengo stretto nella mano il bicchiere delle grandi occasioni.

GMW 29 Marzo 1997

Page 261: L'Albero delle Parole

260

IL RUMORE DEL TEMPOdi GM Willo

Lui mi disse che era in grado di sentire il rumore del tempo che scorreva. A volte era il sordo frusciare della sabbia che scivola nella clessidra, un suono costante e corrosivo, come quello delle onde che bagnano le rive delle nostre vite. A volte erano i rintocchi di un impietoso pendolo, il cadenzato battere dell’eternità, che congiura insieme alla follia ai danni delle nostre povere menti. A volte era l’indescrivibile musica che accompagna la danza dei pianeti attorno al sole. Più spesso erano i secchi colpi della falce che miete il grano maturo, in una giornata di un’estate crudele…

…e si odono strani canti nei campi.

GMW. 21-3-1997

Page 262: L'Albero delle Parole

261

IL PRETEdi Gano

La gente va a confessarsi dal prete, mentre il prete viene a confessarsi da me. Funziona così nelle periferie della città, nei borghi lungo le statali e nei paesini. Il bar è il luogo ideale per lasciarsi andare, ma c’è sempre una reputazione da proteggere, e allora bisogna scegliere la persona giusta. E chi meglio del Gano, dico io…

Eh già, di segreti ne conosco anche troppi, ma va bene cosí. No, non fraintendetemi, non sono un curioso, e quello che mi dite potete stare tranquilli, rimane al sicuro. Ma so che è importante per certa gente trovare una persona che sappia ascoltare. E poi ci sono quelli che non sanno proprio a chi rivolgersi, come il prete, appunto.

E che avrà fatto di male questo prete!? Già m’immagino cosa state pensando. Ma no, niente schifezze, altrimenti gli avrei ammollato un calcio nella palle e gli avrei fatto passare la voglia.No, il povero cristo si era lasciato solo un po’ andare. Adesso ne posso parlare, perché lui non c’è più, pace all’anima sua. E poi tanto il nome mica ve lo dico…

Comunque, il prete, un omino piccino coi capelli bianchi e con la classica nappa da prete amante del buon vino, m’aveva visto nascere, praticamente. Io la chiesa la sgamavo, catechismo, comunioni… no, quella roba in casa nostra non c’entrava neanche per sbaglio. Mio padre era un comunistaccio convinto e ai preti li avrebbe dato fuoco. Io non mi spiegavo da dove venisse tutto quest’odio. Non mi spiegavo tante cose del vecchio, riposi in pace tra le fiamme dell’inferno!

Eppure, vi dicevo, che anche se in chiesa non ci mettevo piede, c’avevo un sacco di amici che ci andavano a giocare a pallone, e capitava spesso che il prete ci venisse a dire qualcosa se facevamo troppo rumore. La periferia della città è come un paese. Ci si conosce tutti, e tutti sanno tutto di tutti, ma fanno tutti finta di non sapere una cavolo! Ciononostante i segreti esistono, perché

Page 263: L'Albero delle Parole

262

vedete ci sono due tipi di segreti, quelli che tutti sanno e quelli che nessuno conosce.

Il prete veniva al bar, di solito la domenica dopo la messa. Chissà se il vinello gli serviva per la gola secca del dopo sermone, o per convincersi di non aver appena proferito un sacco di stupidaggini. A me piace pensare che il vino abbia molti perché, e non è necessario che il bevitore li conosca tutti quanti!

Quel giorno era agitato e l’ora stava diventando tarda. C’era stato un funerale al mattino, la povera signora Clara, una bella donna sulla cinquantina con due figli grandi e un marito impiegato alle poste. Se l’era portata via quello stramaledetto cancro…

«Padre, tutto a posto?» gli chiesi avvicinandomi al banco. Ordinai un corretto a stravecchio.

«Si, grazie…» ma i suoi occhi erano lucidi, le mani gli tremavano e dalla bocca fuoriuscivano zaffate di vino.

«Perché non viene al tavolo, facciamo due chiacchiere?» Lui non provò neanche a rifiutare per cortesia. Si aggrappò alla mia offerta come un naufrago al salvagente.

«Che le succede Padre? Qualcosa che non va?» Ai tavolini di plastica del bar eravamo solo noi due. Un confessionale non poteva essere più riservato.

«Gano, quant’è che ci conosciamo?»«Non saprei… mi ha visto nascere, Padre.»«Perché non sei mai venuto in chiesa?»«Cos’è, una paternale?»«No, ma che dici… sono solo curioso….»«Beh Padre, Gesù ha il suo stile, non ne dubito, ma il resto sono

solo… come dire…»«Stronzate?»Fa uno strano effetto vedere quella parola in bocca ad un prete!

Ma io annuii, perché aveva centrato il punto.«Non ti stupire Gano, povero diavolo… Anch’io troppo spesso

dubito di quello di cui non dovrei mai dubitare…»«Crisi di fede?»«Sempre Gano! Sempre. È ciò che mi fa andare avanti. Il

dubbio… ma non è questo il motivo dei miei cinque cicchetti…»

Page 264: L'Albero delle Parole

263

« E allora?»«Clara….»«No!»«Eh già…»«Non vorrà dirmi…?»«Io non ho detto niente, figliolo…»Ecco, questi sono i segreti-segreti, quelli che non si possono

neanche raccontare. Bisogna intuirli, bisogna fare finta di averli capiti, per poi riuscire con naturalezza ad ammettere di averli fraintesi. Sono i segreti non detti, mai svelati, verità fantasma che aleggiano sopra i bar di periferia.

«Ne prende un altro, Padre?»«Solo se mi fai compagnia, Gano…»

Page 265: L'Albero delle Parole

264

L’EREMITAdi GM Willo

All’emporio di paese i bambini giocavano a dadi su un tavolino della sala comune. Fuori era una giornata di quelle da rimanere davanti alla stufa, a raccontarsi storie di fantasmi. In montagna, d’inverno, ve n’erano diverse di giornate così. Freddo, ma non abbastanza per nevicare, nebbia fitta da tagliare col temperino e una pioggerella insistente che penetrava le ossa. Meglio starsene insieme all’emporio di Aldo, che tanto la scuola era chiusa. Mancavano due giorni a capodanno.

Al tavolo dirimpetto ai ragazzi sedeva Luigi il macellaio. Chiacchierava con un signore che non si era mai visto prima. Forse era uno venuto dalla città con il bus del mattino. Al paese arrivava solo un autobus, due volte al giorno, alle sette e alle quattro di pomeriggio. Neanche la nebbia lo fermava quello!

I due parlavano del mondo e bevevano china calda. Nella sala dell’emporio, che faceva da bar, edicola, tabacchi, ricevitoria e ufficio postale, la TV era accesa, ma il volume era smorzato. Davanti vi sedeva Pierino, novantottotenne cuor di leone. A lui il volume non serviva. Era sordo come le campane.

I bambini giocavano con tre coppie di dadi, una bianca, una nera e una rossa. Il gioco era semplice, come tutti i giochi di dadi. Si tiravano quelli bianchi e bisognava superare il risultato con i rossi, mentre con quelli neri occorreva fare un totale inferiore. I giochi di dadi, proprio per la loro semplicità, alimentavano interessanti chiacchierate.

«Chissà cosa farà l’eremita?» si chiese un bambino.«Ha acceso la stufa. Ho visto il fumo mentre uscivo di casa»

rispose un altro.«A pensarci mi vengano i brividi…» confessò un terzo.L’eremita viveva sulla montagna, in una casettina di pietra,

accanto a un vecchio monastero abbandonato. Dal paese un sentiero si arrampicava per un chilometro attraverso un bosco di abeti, fino alla sua dimora. Ma nessuno lo aveva mai visto. Alcuni bambini pensavano che fosse solo una leggenda, altri dicevano

Page 266: L'Albero delle Parole

265

che aveva fatto un voto a dio, perciò non poteva uscire di casa. La moglie di Aldo gli portava ogni tanto un sacchetto di provviste. Ma c’erano anche altre storie…

«Mio padre mi ha detto che è un uomo molto pericoloso…» esordì un quarto bambino.

«Anche il mio lo dice» confermò un altro.«Non è pericoloso… è pazzo!» Queste ultime parole furono

pronunciate dal bambino più grande del gruppo. Aveva dieci anni e già pensava di essere un’autorità. Perciò si arrogò il diritto di spiegare agli altri la verità sull’eremita.

«Hai capelli grigi, lunghi ed ispidi, perché non si lava mai, e una barba lanuginosa piena di pidocchi. Si ciba degli animali del bosco e li mangia crudi. Uccelli, scoiattoli, persino i ratti. Se ti avvicini alla sua casa lo puoi sentire parlare da solo. Dice cose incomprensibili, all’apparenza senza senso, ma mio padre mi ha detto che sono preghiere per il diavolo.»

Quando il bambino terminò la sua descrizione, il silenzio era calato sul gruppo, e i dadi avevano smesso di ruzzolare. In quel momento fuori il vento sembrò cantare un nuovo motivo, una canzone che metteva i brividi. L’amico del macellaio non poté fare a meno di sorridere. Aveva sentito tutto, e non perse l’occasione per intervenire, spezzando quel silenzio imbarazzante.

«L’eremita è un buon uomo…»Tutti i bambini si voltarono verso il tavolo accanto. Era un

signore distinto di una certa età, con un maglione rosso e una zazzera striata di grigio. Portava un paio di occhiali dalla montatura delicata, come quella che hanno sempre i grandi professori. Luigi sedeva accanto a lui, sorseggiando la sua china. Sotto i baffi nascondeva un sogghigno.

«Tanto saggio non deve essere se se ne sta tutto solo» dichiarò il ragazzino, cercando l’approvazione dei suoi compagni.

«Ah, ma non è da solo…» rivelò lo straniero. Chi era costui? Come mai sapeva tutte queste cose sull’eremita? I bambini adesso morivano dalla curiosità, così l’uomo riprese a parlare.

«In verità non esiste compagnia migliore della sua, ed è proprio per questa compagnia che se ne sta sulla montagna.»

Page 267: L'Albero delle Parole

266

«Mia nonna mi raccontava di un’arpia che gli faceva da moglie, e di un figlio nano» esordì uno del gruppo. Gli altri si girarono a guardare il compagno, pronti a sostenerlo. Perché i ragazzi, quando fanno gruppo, si azzuffano come dei gatti, ma davanti ad un adulto rimangono più uniti dei denti di una cerniera.

«È vero, lo diceva anche mia zia…» ribadì un altro.L’uomo col maglione rosso fece una risata così grossa che si

girò perfino Aldo, che se ne stava a leggere il giornale dietro al bancone. I bambini rimasero in silenzio, intimoriti più di prima.

«Non ci sono né arpie né nani lassù. C’è solo un uomo insieme a se stesso, e come vi ho già detto, non esiste compagnia migliore.»

Adesso i ragazzi si sentivano davvero confusi. Che cosa voleva dire quello straniero? Che l’eremita era solo con se stesso? Se era solo, era solo, punto e basta. Lo sconosciuto con gli occhiali da professore li stava prendendo in giro, ma nessuno aveva il coraggio di controbattere. Allora lui riprese a parlare.

«L’eremita ha avuto una lunga vita e gli sono capitate cose belle e cose meno belle. Ha avuto una moglie, che non era un’arpia ma una donna bellissima, e tre figli, che non erano nani ma dei ragazzi sani e intelligenti. Ha viaggiato molto, ha avuto tantissimi amici, è stato amato e rispettato. Col passare del tempo ha avuto anche degli insuccessi, ha perso degli amici importanti, è stato costretto a lasciare la sua città natale e a vivere di espedienti. I figli nel frattempo sono cresciuti e la moglie si è ammalata e lo ha lasciato. A quel punto lui si era accorto di essersi perduto, e l’unico modo per ritrovarsi era starsene da solo. Per questo è venuto su questa montagna. Ha comprato la casa più in disparte, quella vicina al vecchio monastero, e ha vissuto in solitudine per molti anni. Ma non è vero che non esce mai di là. Spesso scende giù all’emporio, ed è un signore distinto, al quale piace fare due chiacchiere con Aldo oppure con Luigi. Si beve la sua china calda, prende la borsa con la spesa e risale su. Se non l’avete mai visto, è solo perché pensavate che fosse un vecchio con i capelli arruffati e la barba piena di pidocchi…»

I bambini erano rimasti a bocca aperta. Le loro piccole testoline stavano ricomponendo il puzzle, ma ci sarebbe voluto ancora qualche minuto. Nel frattempo lo straniero si alzò dal tavolo,

Page 268: L'Albero delle Parole

267

salutò prima il macellaio e poi i ragazzi. Da dietro al bancone Aldo gli passò una borsa piena di provviste. Lui pagò e se ne andò.

A Luigi scappò una risata così forte che anche Pierino, assorto davanti al televisore, riuscì a sentirla. Si girò e disse: «Ma statevene un po’ zitti laggiù!»

E così i bambini si rimisero a giocare a dadi.

Tratto dal libro: Storie dall’eremo del nord

Page 269: L'Albero delle Parole

268

LA LIBERTÁ DELL'UOMOProgetto "L'Orfanotrofio delle Storie"

Il monaco, immobile sul grande macigno, osservava le ombre allungarsi, e pensava che niente e nessuno le avrebbe mai potute fermare. Allora sentì l’impulso di chiedere consiglio al suo Maestro. Entrò nel tempio e lo vide in un angolo a pregare. Non dovette disturbarlo, perché sapeva già che sarebbe venuto. L’adepto si accomodò accanto a lui e chiese: «Maestro, quanto è libero un uomo? Lo è totalmente oppure esistono delle limitazioni? È possibile che qualcosa come il destino limiti la nostra libertà?»

Il Maestro rispose alla sua maniera, non con la logica di pensiero ma con un esempio esistenziale. Disse: «Alzati, figliolo.»

Per un momento l’adepto pensò che quella non fosse assolutamente la risposta che cercava, ma frenò l’impulso di credere che il Maestro si stesse prendendo gioco di lui. Così si alzò in piedi ed attese.

Il Maestro disse: «Adesso solleva una gamba.»“Che diamine significa?” pensò l’adepto. “Ha forse perso la

ragione o non sono stato abbastanza chiaro?” ma tutte queste cose il giovane monaco non le condivise col suo Maestro, e per non mancargli di rispetto alzò una gamba e rimase in equilibrio sull’altra.

«Benissimo» dichiarò il Maestro. «Un’ultima cosa adesso. Solleva anche l’altra gamba.»

«Ma è impossibile!» protestò subito l’adepto. «Ciò che mi stai chiedendo è assolutamente irrealizzabile! Ho già la mia gamba destra alzata, e non mi è possibile sollevare anche quella sinistra.»

Allora il Maestro rispose: «Eppure eri libero. Avresti potuto sollevare la gamba sinistra per prima, e nessuno ti avrebbe detto nulla. Eri completamente libero di scegliere la gamba che preferivi. Non ho detto niente a riguardo, e tu hai preso una decisione: hai alzato quella destra, ma facendo questa scelta, ti sei precluso la possibilità di sollevare quella sinistra.»

Page 270: L'Albero delle Parole

269

Il Maestro guardò il giovane con una luce d’amore negli occhi.«Non preoccuparti del destino, figliolo. Pensa sempre con

semplicità.»Fuori dal tempio le ombre erano già padrone.

GM Willo – Adattando una storia anonima.

Page 271: L'Albero delle Parole

270

L'ANELLOdi GM Willo

«Amore, hai visto per caso il mio anello?»«Ce l’hai al dito…»«Ma no, non la fede. L’anello che avevo al mignolo, quello fine

d’argento…»«Avevi un anello al mignolo?»«Ma certo… che fai, mi prendi in giro?»«Ti giuro che non te l’ho mai visto… ma sei sicuro?»«Certo che sono sicuro…»Quinto Bertocchi se ne esce di casa alle otto meno un quarto, in

leggero ritardo e con un evidente malumore. Si guarda il dito mignolo mentre poggia le mani sul volante, e prova a ricordare dove potrebbe essere andato a finire il suo anello. Nonostante il traffico, la radio, il mal tempo e gli appuntamenti di lavoro, non riesce a pensare ad altro. Appena entra in ufficio convoca la sua segretaria.

«Teresa, hai per caso visto il mio anello?»«La fede nuziale?»«No, quella ce l’ho. Sto parlando del piccolo cerchio d’argento

che avevo al mignolo, si ricorda?»La segretaria prende tempo per far finta di ricordare e poi

scuote la testa.«No, sinceramente…»«Ma come no…» la interrompe l’ingegner Bertocchi,

leggermente infastidito.«…aspetti, ora che ci penso, mi sembra di ricordare qualcosa.

Però non l’ho visto» mente lei.«Ecco, lo sapevo! Mia moglie voleva farmi passare per scemo.»«Mi scusi?»«No, niente… »«Ha provato a vedere nel bagno? Magari se lo è tolto ieri per

lavarsi le mani e poi lo ha dimenticato sul lavandino.»«Si, ottima idea. Andrò subito a vedere.»

Page 272: L'Albero delle Parole

271

Teresa se ne torna alla sua scrivania, felice di lasciare il capo alle sue beghe. Lui perlustra da cima a fondo ufficio e bagno ma non trova nulla. Si prova a mettere a lavorare, ma non riesce a concentrarsi. Attende rovellandosi l’ora di pranzo.

«Giorgio, ti ricordi dell’anello che avevo al dito?»Al tavolino del bar sotto gli uffici siedono Matteo Franceschini,

Giorgio Pirani e il nostro Quinto Bertocchi. Insalatina, capaccio di bresaola, prosciutto e melone e tre bicchieri di vino bianco, leggero perché dopo si torna a lavorare.

«Un anello?»«Esattamente! Qui al mignolo, avevo un anello d’argento, come

una piccola fede.»«Ma sai, io sono un po’ distratto con queste cose. Ricordo a

malapena quello che ho mangiato a colazione.»«E tu, Franceschini?»«Cosa?»«Mi hai mai visto un anello a questo dito?»Lui alza la testa dal carpaccio, ci pensa un po’, o come la Teresa

fa finta di pensarci, e poi risponde di no.«Questa storia è davvero strana, sapete? È come se questo

anello me lo fossi inventato. Nessuno lo ricorda, ma sono sicurissimo di averlo avuto al dito, almeno fino a ieri sera.»

«Beh, se sei sicuro allora ce lo avevi.» risponde l’ingegner Pirani.

«La gente è distratta, sai com’é…» aggiunge l’avvocato Franceschini.

«Si, ma neanche mia moglie se lo ricorda…»«Sabato scorso sono passato dall’edicola e ho comprato una

rivista di fotografia» racconta Giorgio, «e mia moglie è rimasta sorpresa. Si era completamente dimenticata che è dai tempi del liceo che sono un fotoamatore. È un mondo troppo veloce, nessuno riesce più a stare dietro a tutto… Non preoccuparti Quinto…»

Ma le parole di conforto dell’ingegner Pirani non riescono a tranquillizzarlo. Alle tre e mezzo decide di tornarsene a casa, che tanto di lavorare non se ne parla nemmeno.

Page 273: L'Albero delle Parole

272

L’ingegner Bertocchi è un tipo preciso. Non perde mai nulla perché ogni cosa ha un suo posto, sia nel mondo materiale che nella sua testa. Per questo motivo la faccenda dell’anello lo turba. È tentato di mettere a soqquadro la casa, ma invece si limita a cercare senza smuovere gli oggetti. Si sforza di ricordare, un’immagine, un’occasione, un rituale della sua vita super programmata. Niente.

Sua moglie torna alle sei e quaranta. Lui ha preparato un risotto che mangiano insieme guardando il telegiornale. Vorrebbe chiederle nuovamente dell’anello ma teme un’altra smentita. Siedono in silenzio, si fumano un paio di sigarette, poi lei lascia il tavolo con la scusa di dover finire del lavoro per il giorno dopo. Sparisce nello studio mentre alla TV passano lo sport.

Quinto si alza, spenge l’apparecchio e si mette il cappotto.«Esco a comprare le sigarette. Ti serve niente?» domanda alla

moglie attraverso la porta chiusa dello studio. Lei risponde di no e un secondo più tardi lui è già fuori.

Gira a vuoto per le strade del centro, nel silenzio ristoratore dell’abitacolo della sua auto. Si chiede se non stia per impazzire. Succede a volte, come a quel vecchio collega che si era imbottito di pasticche. Quand’è che era successo? Un mese prima? Lo ricorda bene quel collega, Marzio Frignani, quarantotto anni, due figli. Quella mattina presero il caffè insieme, lo ricorda benissimo, e mentre alzava la tazzina c’era il suo anello, certo, come poteva dimenticarlo. No, non era pazzo…

Accosta l’auto, slaccia la cintura e incomincia a perquisirla da cima a fondo. Dietro i sedili, sotto i tappetini, dentro gli scomparti laterali. Si aiuta con una torcia elettrica che estrae da dentro al cruscotto. Passano i minuti, fuori piove ma deve tenere gli sportelli aperti se vuole fare un buon lavoro. Quando finalmente si convince che dell’anello non vi è traccia, ha i pantaloni completamente bagnati. Sprofonda sul sedile, tira un sospiro, si accende una sigaretta e guarda fuori attraverso lo sportello spalancato. Un uomo lo osserva dall’altra parte della strada.

«Che c’è?» gli urla. È infastidito, quasi rabbioso, ammazzerebbe una persona solo per darsi un contegno.

Page 274: L'Albero delle Parole

273

L’uomo ha un ombrello e un soprabito grigio. Fuori è troppo buio per distinguere i suoi lineamenti.

«Ha bisogno di una mano?» domanda gentilmente.«Ho perso il mio anello…»«Mi dispiace.»Quella risposta lo scuote. Per la prima volta in tutta la giornata

qualcuno lo aveva fatto sentire meglio.«Gentile da parte sua. Ma vede, il problema è che non sono più

sicuro che ce lo avessi…»«Non ricorda di avere avuto quell’anello?»«No, io lo ricordo benissimo. Sono gli altri che non se lo

ricordano. Persino mia moglie, si figuri…»«Così lei pensa di essere sul punto d’impazzire…»«Si…»La città è deserta, i lampioni si riflettono sull’asfalto bagnato, la

pioggia continua a battere.«Lei non sta cercando l’anello. Lei sta solo cercando di

convincersi che non è mai esistito, ma per quanto si sforzi non riesce a dimenticarlo.»

«E se non fosse davvero mai esistito?»«Beh, adesso esiste, non le pare? E per quanto lo voglia

cancellare dalla sua testa, quell’anello esisterà sempre. Quindi, le do un consiglio; accetti semplicemente il fatto che lo ha perso, e non ci pensi più. Domani passi in gioielleria e ne compri uno nuovo, uguale a quello che crede di aver perduto. Poi lo mostri a sua moglie e suoi conoscenti e dica loro che lo ha ritrovato. Vedrà che non faranno una piega, e penseranno semplicemente di non averlo mai notato.»

Quinto Bertocchi alza la testa verso l’uomo con l’ombrello, immobile sull’altro lato della strada.

«Che significa tutto ciò?»«Che nella vita a volte si rincorre e altre volte si è rincorsi, e non

possiamo permetterci di rimanere ad aspettare chi è rimasto indietro» risponde misteriosamente lo sconosciuto, prima di rimettersi in cammino sulla strada buia.

Il giorno dopo l’ingegner Bertocchi seguì il consiglio dell’uomo con l’ombrello ed accadde esattamente quello che aveva previsto.

Page 275: L'Albero delle Parole

274

Tutti quanti si convinsero di non aver mai notato l’anello ma nessuno se ne preoccupò.

Per Quinto Bertocchi quello fu anche il primo giorno della sua nuova vita. Nei mesi successivi lasciò il lavoro, la moglie e la città, e prese un treno che andava verso nord. Dal finestrino gettò via l’anello, e si augurò che qualcuno lo trovasse, e potesse iniziare a vedere le cose come adesso le vedeva lui.

Perché tutto esiste nel momento in cui lo si pensa.

Page 276: L'Albero delle Parole

275

LA TENZONERaccontami sulle note di...

I suoi occhi sono la paura. Ma la paura si può domare, infrangere, distruggere, o a limite esorcizzare.

Ruota lo spadone davanti al mio volto, bisbiglia parole proibite, invitando al nostro cospetto i signori dei demoni. Io rimango in attesa, impietrito davanti al manifestarsi del potere. Non sono impegnato a decifrare le mie possibilità di successo. Che io rimanga vivo oppure è assolutamente irrilevante. Invece cerco la connessione con l’intimo, stringo con più forza Devonia, la mia spada, cercando di diventarne parte. Faccio uno strano patto con gli atomi.

Mi abbandono al desiderio di diventare tutt’uno…La creatura multiforme che mi sta davanti continua a sorridere,

la sua bocca è un mero strappo sulla faccia, la sua spada rotea in cerchi concentrici, io arretro ma è come se avessi un paio d’occhi sulla nuca. Lentamente percepisco gli atomi che mi circondano, quelli sulla mia epidermide, e quelli che confinano con essa. Non spreco movimenti. Attendo indietreggiando…

Ecco che arriva il primo affondo. Probabile, intuisco e schivo, lui scatta verso l’alto, una mossa astuta, ma riesco ad eluderla, rimango in piedi, l’equilibrio è tutto. Poi ruoto il corpo, provo una timida stoccata, ma lui è abile, dannatamente abile…

Il gioco diventa una danza nel vento, una reverenza all’universo del piccolo, gli atomi saltellano impazziti, noi ci muoviamo attraverso, e a tratti mi sento la marionetta di un dio perverso, ma va bene anche così.

Reclamo l’errore, perché alla fine è sempre lui che decide. Attendo il piede in fallo. Attendo la mossa azzardata. Attendo il bagliore accecante.

Potremo continuare a danzare all’infinito. Ed è proprio quando il tempo sembra perdere significato che l’errore arriva. Ruoto e colpisco. Decapito il mio nemico con un solo colpo. Gli atomi continuano il loro lavoro. L’universo appare compiaciuto.

Page 277: L'Albero delle Parole

276

Ma è solo l’ennesima conseguenza del fattore tempo. L’inizio e la fine.

GM Willo ascoltando “Rosetta Stoned” dei Tool

Page 278: L'Albero delle Parole

277

BOSCO INGANNATORERaccontami sulle note di...

La rugiada sotto i miei piedi.È il nostro bosco, non ci sono dubbi. Le pietre annerite dal

fuoco, un tronco ricoperto di muschio… è qui che è successo, la prima volta.

Nei suoi occhi il riflesso delle fiamme. Le scosto una ciocca dal volto… è come se non se ne fosse mai andata. Come se i suoi occhi non si fossero mai chiusi.

Ma il modo in cui le cime degli alberi vengono scosse dal vento mi riporta alla realtà. Il fruscio delle foglie ha un qualcosa di macabro. Il vento è quello gelido dei primi di novembre.

Devo smetterla d’ingannarmi.Lei non c’è più.

GM Willo sulle note di Burdens degli Opeth

Page 279: L'Albero delle Parole

278

IL DIAMANTE DI PARDISIAdi GM Willo

I

Per alcuni il corpo è un’estensione; per altri una zavorra. Di sicuro andava nutrito, ma a quello ci pensava il Sanoxan, due barrette di cioccolato sintetico ultravitaminico prima di attaccarsi al processore.

Poi c’era la mente; anche lei andava nutrita se si voleva viaggiare veloci e stare dentro a lungo. Vi erano molti modi per farlo. Kelos (questo era ormai il suo nome, sia dentro che fuori) mischiava 400mg di Targan insieme a due cucchiai di sciroppo Dhuran a base di oppiacei. Poi viaggiava fluido per due giorni interi, cavalcando attraverso le foreste di Freesia, penetrando in Pardisia senza farsi fermare dai suoi temibili guardiani.

La guerra andava avanti. La multinazionale proprietaria del server che ospitava Pardisia affermava di essere stata vittima dell’attacco dei ribelli del mondo libero, gli “Illegali”, come li definivano le alte cariche del “mondo ufficiale”. In realtà le cose stavano diversamente.

Già dall’inizio della sua prima apparizione in rete, quando contava solo poche centinaia di Travellers e una decina di piattaforme di memoria, Freesia rimase vittima dell’attacco mediatico della Pardisia Inc. che la definiva una brutta copia illegittima del loro mondo virtuale, rifugio di menti distorte dall’abuso di droga. La campagna pubblicitaria aveva lo scopo di intimorire gli utenti che volevano avvicinarsi al mondo libero (decisamente più entusiasmante ed accessibile gratuitamente), mettendo in circolazione storie terrificanti di esseri subdoli e creature demoniache.

Se queste apparizioni esistevano era solo grazie al lavoro di hacking subito fin dall’inizio da parte dei programmatori della Pardisia Inc., che innestarono nel sistema queste creature per scoraggiare gli utenti e riportarli nel loro mondo.

Page 280: L'Albero delle Parole

279

Ma furono gli stessi utenti ad unirsi ai programmatori per combattere queste infiltrazioni. Da allora la guerra va avanti, ma l’Alleanza di Freesia è stanca di difendersi soltanto e da tempo prepara il colpo del riscatto.

Kelos era una Cometa Rossa, Traveller del quarto livello. Conosceva Pardisia dall’inizio della sua apparizione, ed aveva partecipato alla liberazione dell’Ombra, il Nonluogo in cui venne fondata la comunità libera di Freesia. Sosteneva l’Alleanza ma non ne faceva parte. Preferiva muoversi da solo, tra le spire del mondo binario, montando improbabili cavalcature, incrociando la spada con chi gli ostacolava il cammino e sostenendo la sua idea di creatura libera.

Fece abbassare di quota il gibboso corpo del demone alato. Era un Jungit, un elaborazione grafica del classico drago di Pardisia, con l’aggiunta di alcune micidiali caratteristiche ed un look decisamente più aggressivo. Si trovava proprio sopra la Foresta di Frontiera, il confine che divideva i due mondi. L’acuta vista del guerriero poteva solo intuire il riverbero dorato di quel mondo fittizio che si apriva oltre l’intricata vegetazione.

Scorgeva però i Signori dei Draghi pattugliare il cielo sopra la foresta. Nessuno sarebbe penetrato senza un Pass, e il Pass veniva 10 eurembi l’ora.

Kelos non sarebbe passato di lassù. Vi erano altri modi più sicuri per penetrare in Pardisia senza pagare l’entrata.

Atterrò in un’ampia radura e dopo essersi guardato attorno congedò con un gesto la sua cavalcatura. Si diresse a grandi passi verso il sentiero che si apriva alla sua destra, facendo sferragliare la sua massiccia armatura di piastre sotto il mantello cremisi che ne identificava l’appartenenza. Essere Cometa Rossa, in Freesia come in Pardisia, significava conoscere non solo l’arte della spada ma anche i segreti degli elementi e il modo in cui manipolarli.

La Foresta di Frontiera era insidiosa. Era stata eretta per delimitare le Terre dell’Ombra, prima della sua bonificazione e dell’avvento del mondo libero.

Vi vivevano creature primordie, evoluzioni incontrollate di programmi obsoleti oramai incontrollabili. Vi erano i Lupi

Page 281: L'Albero delle Parole

280

Urlanti, neri come la notte e veloci come fulmini; il loro ululato era un urlo straziante che portava alla pazzia.

Kelos schermò i suoni con un semplice incantesimo e procedette rapido verso Spyra, il grande fiume che divedeva in due la foresta. Era effettivamente il confine ultimo tra i due mondi.

Ad un tratto si fermò, come se avesse notato qualcosa. In realtà niente era cambiato; la vegetazione lo circondava completamente.

Si allontanò di qualche passò dal sentiero in direzione di due alberi alti e flessuosi; avevano foglie accese di verde e di oro. Vi passò nel mezzo e come per incanto il paesaggio cambiò; Kelos si trovò davanti ad un’ampia radura assolata. Vi scorreva un rapido ruscello presso il quale si ergeva una casa con un mulino. Due lupi grigi sedevano sonnecchiando davanti a una porta di legno che era l’entrata della costruzione. Questi alzarono lo sguardo su di lui, due paia di occhi feroci che si non si abbassarono neanche quando riconobbero l’intruso.

«Richiama le tue bestie, Argon!» esclamò il guerriero mentre si avvicinava lentamente alla casa.

Un volto barbuto spuntò fuori da dietro l’edificio. Indossava una lunga veste color cobalto legata in vita da una corda bianca; era l’insegna più alta dei Druidi.

«Felice di vederti Kelos! Qual buon vento?»Il Druido si avvicinò ai due lupi per tranquillizzarli, poi andò

incontro al guerriero vestito di rosso.«Speravo di trovarti…»«Ormai non vengo più molto spesso quaggiù. Ma l’alleanza ha

bisogno del mio avamposto, e dei miei occhi vigili.» dichiarò Argon invitando l’amico ad entrare in casa.

Kelos fece strada fino a un ampio salotto in cui scoppiettava un fuoco.

«I lupi possono dare l’allarme.»«Si, ed io devo dar da mangiare ai lupi… Quindi bisogna che

entri dentro almeno una volta al giorno, altrimenti quei due se ne vanno a giro per la foresta e magari diventano il pranzo di un drago dei guardiani…»

Page 282: L'Albero delle Parole

281

«Già…» Kelos lasciò alcune parole in sospeso. Sembrava volerle soppesare prima di pronunciarle, e si aiutava tamburellando le dita sul tavolo di quercia.

Argon gli aveva servito una tazza di vino caldo ed era come incantato dalla sua superficie fumante.

«Mi devi far passare Argon!» esordì infine il guerriero.«Ci risiamo!»«Ho altri modi, lo sai. Ma questo è il più veloce, e non ti chiedo

un favore da più di un mese.»«E come me lo restituisci?»«Quaggiù non saprei, ma se vuoi ti invito a cena.»«Lascia perdere! Dimmi un po’; sempre il solito motivo?» il

druido ammiccò un sorriso.«Si» ammise Kelos evitando lo sguardo dell’amico.«Un giorno finirai male guerriero. Non ci si può fidare di una

come quella lì!»«Attento a come parli druido!»«Lo sai che ho ragione. Non puoi immischiarti con gente

appartenente a quella famiglia. Farebbero di tutto per Pardisia. Se ti scoprono ti romperanno, ed entreranno in possesso dei codici per penetrarci. Sarebbe la fine del mondo libero!»

«Sabina non mi tradirebbe mai.»«Non dubito di Sabina, ma non mi fido della gente che le sta

attorno. Metti che qualcuno ti chieda il Pass mentre esci dal palazzo…» la voce del druido era seriamente preoccupata.

«Nessuno mi controlla, ormai mi conoscono. E poi sono suoi servitori e fanno quello che li dice lei.»

Kelos finì con un lungo sorso il suo vino, poi si alzò in piedi.«Allora druido, vuoi aiutarmi o no?»Gli occhi dell’uomo si assottigliarono per alcuni istanti, come

volessero scrutare il destino del guerriero. Poi si colorarono di un sorriso.

«Certo! Ma scelgo io il ristorante.»«Ok! Sono giorni che non faccio un pasto normale.»«Guarda che il Sanoxan uccide…»«Bevo molta acqua…» si giustificò il guerriero.

Page 283: L'Albero delle Parole

282

I due uscirono all’aperto e si addentrarono nella foresta; Argon faceva strada.

Dopo un centinaio di passi si ritrovarono davanti al tronco di un enorme quercia rossa. Era un albero imponente, dalle alte fronde ricoperte di scure foglie.

Argon vi si fermò davanti.«Sei pronto a fare un giro sulla giostra di Pardisia?» domandò il

druido con un sorriso nascosto dalla barba.«Non perdiamo altro tempo» rispose il guerriero impaziente .«Ok, va bene. Buon viaggio allora…»E detto ciò Argon posò i palmi delle mani sulla rossa corteccia

dell’albero ed incominciò a sussurrare un complicato incantesimo.

Kelos conosceva bene quella magia; l’aveva sentita proferire più di una volta.

Vide il tronco perdere solidità e diventare liquido, aprirsi come una tenda di velluto strappata, una nera apertura che nascondeva la sua destinazione.

Kelos fece un passò avanti verso l’apertura, e chiuse gli occhi.Quando li riaprì il druido era scomparso, il paesaggio era

cambiato e la foresta era alle sue spalle.Dall’alto di una verde collina Kelos mirava le torri d’avorio di

Mirandha, la grande capitale di Pardisia. Una valle che si perdeva all’occhio, un complesso indescrivibile di palazzi, guglie, giardini ed edifici di ogni genere. E tra le vie, un inarrestabile fiumana di gente.

La Cometa Rossa discese lentamente verso la valle, verso la città della magia (come la definivano alcuni annunci pubblicitari). In verità aveva una sola destinazione; il suo nome era Sabina, e la sua bellezza le aveva fatto conquistare l’appellativo di Diamante di Pardisia.

II

Mirandha era un trip di incantesimi e creature di ogni sorta. Le vie strette, minuziosamente piastrellate, si diramavano attraverso gli alti edifici della città, irrompendo bruscamente in larghe

Page 284: L'Albero delle Parole

283

piazze affollate in cui i mercanti cercavano i loro affari. Difficile riconoscere il vero dal falso, un Traveller da un Software, un edificio reale da un semplice Programma Struttura. Tutto era un melting pot di virtualismo dai chiari intenti commerciali, il fantasy che la gente si aspettava e che credeva di volere.

Locande strutturate in serie, con menestrelli che intonavano le canzoni più in voga, il classico vecchio accanto al fuoco che racconta una storia, l’oste grasso e la cameriera prosperosa. Se entravi in una locanda di Pardisia, o ne uscivi in una rissa o con il pretesto di un avventura.

Ciononostante qualsiasi Traveller che metteva piede per la prima volta nelle terre libere di Freesia, si rendeva immediatamente conto dell’artificiosità e della meccanica commerciale del servizio a pagamento. E di conseguenza lo abbandonava.

Kelos era rallentato dalla frenesia della città, ma non si lasciava certo distrarre dalle sue attrazioni. Camminava sicuro verso la parte centrale, un complesso di grandi edifici e giardini che ospitavano i personaggi più importanti del paese. Tra questi vi erano i due figli del proprietario della multinazionale Pardisia Inc; Etos, Cometa Azzurra del quinto livello e Sabina, Evocatrice del terzo regno.

Kelos e Sabina si erano conosciuti un anno prima durante un avventura sulle Montagne di Cobalto, rinomato scenario di Pardisia per aitanti guerrieri in cerca di gloria. Era stato reclutato nella compagnia dell’evocatrice per la sua fama di abile mago e possente uomo di spada. All’epoca era una buona occasione per insinuarsi nell’alta società di Mirandha a vantaggio dell’alleanza.

Con sua enorme sorpresa scoprì che la proiezione digitale della ricca ragazzina era completamente diversa da come se l’aspettava. Ne era nata una storia impossibile, fatta di incontri fugaci dentro stanze schermate o su spiagge di terre sperdute, in livelli di memoria tralasciati dai Programmi Equilibrio, la polizia ufficiale di Pardisia.

Più volte Kelos le aveva chiesto di seguirlo fino a Freesia, ma lei aveva ogni volta rifiutato. La notizia della sua presenza nelle terre libere avrebbe distrutto la reputazione della sua famiglia e

Page 285: L'Albero delle Parole

284

probabilmente anche quella della Pardisia Inc. E questo, per quanto dissentisse dalle ragioni di suo fratello e di suo padre, non poteva farglielo.

La Cometa Rossa poteva avvertire la presenza di occhi indiscreti. Era come un leggero solletico interno, una lieve vibrazione di una lontana diramazione neurale. Nelle vie di Mirandha vi era sempre più polizia, e questo la diceva lunga sulla salute degli affari della Pardisia Inc. Per quanto infatti sembrasse affollata, era probabile che la metà delle persone che camminavano avanti e indietro fossero semplici comparse, un banale espediente per nascondere il reale calo di entrate della corporazione. La polizia controllava i Pass, e lui non ne aveva disponibili, neanche uno fasullo per prendere un po’ di tempo.

Girò un angolo di un vicolo stretto e tagliò per alcune vie poco frequentate. In breve si trovò nel grande parco centrale, una splendida composizione botanica in cui erano state sperimentate elaborazioni grafiche di nuove piante. Poteva già intravedere nella distanza il palazzo di Sabina, un alta costruzione senza finestre con un ampia terrazza alla sommità. Sulla terrazza cresceva un enorme quercia scura.

Giunto in prossimità del portone d’entrata, una guardia gli si fece incontro con la picca alzata e fare minaccioso. Poi sembrò riconoscerlo e lo fece passare.

Le guardie del Palazzo erano state riprogrammate dalla stessa Sabina in un lavoro di hacking esterno. La ragazza era ovviamente anche un abile programmatrice.

Salì la tortuosa scala che lo avrebbe portato agli appartamenti dell’evocatrice, proprio sotto la terrazza della quercia. Procedeva con estrema attenzione, scrutando ogni angolo per rilevare la presenza di qualcuno che non lo avrebbe fatto passare con la stessa facilità della guardia all’entrata.

La via era libera, ed in breve si trovò davanti alla porta d’accesso alle stanze di Sabina. Bussò piano; una serie precisa di colpi che lo avrebbe fatto riconoscere.

Una giovane donna minuta spalancò la porta. Aveva gli occhi neri come la notte e una bellezza antica.

Page 286: L'Albero delle Parole

285

Kelos conosceva il suo aspetto reale; aveva visto delle foto. Le due donne che in realtà erano una, si somigliavano in maniera sottile. Non nei colori, né nella corporatura (le foto mostravano una donna alta dai lunghi capelli ramati). Erano la loro importanza e la loro determinazione. La proiezione digitale dell’erede della Pardisia Inc. ostentava la stessa regalità.

Appena lo vide i suoi neri occhi si sciolsero in un sorriso; lei le si gettò tra le braccia.

«Hai schermato la stanza?» le domandò lui entrando dentro.«Si…» le sussurrò lei in un orecchio, mentre sentiva la passione

crescere.Il sesso virtuale poteva davvero essere più appagante di quello

reale, specie se avevi il Dhuran in circolo…Esistevano luoghi di luce e luoghi d’ombra, nelle remote regioni

della mente. Appigli che potevano innalzarti oltre nuove frontiere, e farti scivolare fino nel profondo di oscuri abissi di appagamento. Si parlava di bagni di luce, di immersioni nel fuoco, di squassamento interiore. Vi erano orgasmi che facevano vedere Dio, altri che te lo lasciavano toccare. Piaceri che regalavano visioni di isole coperte di neve tiepida, cadute leggere per altezze impossibili, momenti che parevano secoli.

Ma il Dhuran poteva fregarti se non lo sapevi assimilare, e magari ti ritrovavi prigioniero dell’isola, o in caduta libera per il resto dei tuoi giorni.

Sabina alzò la testa da oltre le lenzuola azzurre che la coprivano solo in parte. Kelos la stava guardando, seduto con la schiena poggiata su una montagna di cuscini di seta.

«Ciao…» salutò lei.«Ciao…»«Ti è stato difficile entrare?»«Lo diventa un po’ più ogni volta…»Un ombra le passò sul bel viso, ma fu solo un attimo.«Vieni con me!» le disse lui per la millesima volta.Sabina non rispose; non serviva. Kelos conosceva già la sua

risposta, conosceva le sue ragioni ed il prezzo che non era disposta a pagare. Poteva biasimarla, ma non l’avrebbe fatto. Non

Page 287: L'Albero delle Parole

286

c’era posto per giochini di orgoglio e di onore in una trama virtuale come quella che stavano vivendo.

Per alcuni era semplicemente un gioco; per altri era la vita. Per loro il gioco era la vita e la vita era un gioco. Vi erano regole ma era possibile barare, per quanto lo si fosse disposti.

«Smettila Kelos, e portami di nuovo sull’isola…» rispose lei movendosi nuovamente verso il suo corpo.

In quell’istante una deflagrazione squassò le pareti della stanza. I vetri delle finestre vennero polverizzati e disseminati ovunque. Una luce accecante rimbalzò sulle tende di lino bianche, e una figura intermittente apparve ai piedi del letto, un gioco di luci azzurre e di ombre che ne distorcevano i lineamenti.

Il tuono riverberava ancora nelle suppellettili d’argento e nella mobilia. Kelos e Sabina cercavano di coprirsi con le sete e schermarsi il volto. La figura era sopra di loro, e parlava:

«Questa è l’ultima volta che tocchi mia sorella!»Era la voce di Etos, la Cometa Azzurra, l’uomo più potente di

tutta Pardisia.

III

Kelos aveva una sola opportunità, e non poteva sprecarla.Evocò una fiamma magica sulla punta delle sue dita e la puntò

a pochi centimetri dal volto di Sabina; poi afferrò la ragazza e la trascinò fuori dal letto. La sentì irrigidirsi e percepì la sua paura. Si augurò che capisse il bluff, ed incominciò a muoversi verso la finestra divelta.

«Non ti muovere o questa sarà l’ultima volta che vedi tua sorella viva» disse rivolto alla figura che ormai aveva smesso di tremolare.

Etos non nascose un sorriso.«Il suo corpo è stabilizzato dall’esterno. Non può succederle

niente.»Kelos apparve sconcertato, sul punto di arrendersi, o almeno fu

quello che la Cometa Azzurra percepì dalla sua espressione. E mentre si compiaceva del risultato, un boato assordante, fatto difiamme e fumo, gli esplose vicino al volto. I suoi incantesimi lo

Page 288: L'Albero delle Parole

287

proteggevano da quel tipo di attacchi, ma per un attimo perse il controllo dei suoi movimenti e la sua attenzione verso il nemico. Quando rialzò lo sguardo i due amanti erano scomparsi.

Etos urlò, e immediatamente la stanza fu invasa da un manipolo di guardie. Si avvicinò alla finestra e vide le due figure che correvano verso la fitta vegetazione del parco.

«Prendeteli!» ordinò. Poi scomparve, come risucchiato dalla matrice.

Era pronto a rivoltare Pardisia pur di mettere le mani addosso a quel ribelle.

Si fermarono solo per indossare le vesti che avevano velocemente afferrato prima di gettarsi oltre la finestra della stanza. Sabina aveva evocato un vento magico per attutire la caduta, poi erano corsi via verso il parco in direzione della città.

«Ce li avremo presto addosso» disse lei mentre si allacciava il mantello.

«Lo so. Torna indietro. Io me la caverò…» le rispose il guerriero.

L’evocatrice rimase immobile per alcuni istanti, viaggiando con la mente in luoghi che Kelos non avrebbe mai conosciuto. Poi lo guardò profondamente negli occhi, accennando un sorriso.

«Vengo con te. Mostrami il libero mondo. Portami via da Pardisia!»

Lui le restituì un sguardo carico di passione. Poi le afferrò la mano ed incominciarono a correre verso le strade di Mirandha.

Se Etos avesse scatenato su di loro tutto il suo potere, sia dentro che fuori dal sistema, non avrebbero avuto molte possibilità di raggiungere le terre di Freesia. Kelos lo sapeva, ma sapeva anche che la Cometa Azzurra non avrebbe comunque messo in pericolo la vita di Sabina. Dopotutto era sempre sua sorella.

Poteva scollegarsi, ma avrebbe perduto tutto ciò che era riuscito a costruire durante gli anni di permanenza nei mondi virtuali, ormai l’unica sua vita degna di essere vissuta. E poi avrebbe perduto Sabina, definitivamente.

In fin de conti morire attaccati al processore poteva non essere la peggiore delle morti.

Page 289: L'Albero delle Parole

288

Mentre questi pensieri gli vorticavano in testa, i due raggiunsero le vie gremite della città. Confondersi tra la folla poteva essere una buona idea, se non ci fosse stata così tanta polizia. No, vi era una sola speranza, e si chiamava Luther.

In Mirandha era conosciuto come il Menestrello Fatimer, ma in realtà era una Cometa Gialla, stregone e prestigiatore al servizio dell’alleanza. Se aveva fortuna, lo avrebbe trovato alla solita locanda: il Serpente Dorato.

In mezzo alla gente che sembrava procedere senza meta, i due tennero gli sguardi bassi e avanzarono al lento e costante scalpiccio della folla. Non era facile resistere alla tentazione di correre, ma se lo avessero fatto avrebbero subito dato nell’occhio.

La locanda si trovava dietro la piazza principale di Mirandha, e riuscirono a raggiungerla in pochi minuti. Vi erano ancora pochi avventori, ma a sera si sarebbe sicuramente riempita.

Kelos si avvicinò all’oste, un grasso uomo con lunghi baffi ed un naso rubicondo. Lo conosceva; il suo nome era Uber, e come la maggior parte dei personaggi che fornivano servizi in Pardisia, si trattava di un comune software di prima generazione.

«Felice di rivederti guerriero. Cosa posso servirti?»«Cerco Fatimer. È qui?»L’oste, strofinando il bancone con uno straccio non troppo

pulito, indicò la porta sul retro.«Sta mangiando… Nelle cucine…»Seguito dall’esile figura di Sabina, la Cometa Rossa entrò nel

retro della locanda, e subito i due vennero invasi da voci, fumi e odori. Vi erano almeno cinque inservienti occupati a preparare le vivande per la cena. In un angolo dell’ampia cucina sedeva un uomo smilzo con un cappello verde a tesa larga. Stava inzuppando un grosso pezzo di focaccia in una ciotola di sugo.

Kelos gli andò incontro e quando l’uomo alzò lo sguardo dal piatto accorgendosi del guerriero, per poco non affogò nel suo boccone.

«Pazzo! Che ci fai qui… se ci vedono insieme…» poi si accorse di Sabina, ei suoi occhi strabuzzarono.

«E lei?»

Page 290: L'Albero delle Parole

289

«Non ho tempo per spiegarti Luther. Tu sei la nostra unica possibilità. Dobbiamo tornare a Freesia.»

«E cosa c’entro io?»Il menestrello ruotava lo sguardo di continuo per assicurarsi

che nessuno li osservasse.«Richiama Felipe e andiamocene.»«Cosa? Sei completamente folle!»«Ormai la tua copertura è saltata. Ci stanno osservando

dall’esterno… Sanno che siamo qui, ed abbiamo poco tempo…»Non riuscì a finire la frase che alcuni rumori provenienti dalla

sala comune lo fecero voltare. Erano le guardie mandate da Etos.«Sono qua!»Luther imprecò alzandosi in piedi. Sembrava ancor più

scocciato dal fatto che la sua cena era stata interrotta.«Andiamo… poi mi spiegherai…» mugugnò, facendo strada

attraverso le cucine.La Cometa Gialla li guidò per delle strette scale a chiocciola che

portavano alla cantina della locanda, oltre un umido corridoio fiocamente illuminato e fino ad una porta chiusa da un grosso lucchetto. Dietro già si sentivano le urla delle guardie che erano penetrate nelle cucine.

Luther aprì il lucchetto e i tre scomparvero oltre la porta, dentro una tenebra quasi solida. Procedettero per alcuni metri senza l’aiuto di alcuna luce, poi apparve un globo iridescente nelle mani del menestrello. Erano in uno stretto corridoio scavato nella pietra che procedeva ripidamente verso il basso.

«Dove stiamo andando?» sussurrò Sabina.«Al fiume sotterraneo. Lo costruì l’alleanza all’insaputa dei

programmatori della Pardisia Inc.. Sfocia direttamente nello Spyra, il grande fiume di confine» rispose Kelos sottovoce.

«E’ così che andate e venite dal mondo libero?»«Beh, è uno dei tanti mezzi. Purtroppo lo stiamo perdendo. Tra

breve lo individueranno dall’esterno. Speriamo soltanto di riuscire ad utilizzarlo un’ultima volta…»

Il corridoio si aprì in quella che probabilmente era una grande cavità nella roccia. Un ampio corso d’acqua scura, immobile come olio, occupava gran parte della grotta.

Page 291: L'Albero delle Parole

290

«Come facciamo ad andarcene?» domandò Sabina afferrando la mano del guerriero.

«Luther richiamerà Felipe, la Silfide al suo servizio. È lei che ci trasporterà.»

La Cometa Gialla salmodiava un incantesimo a due passi dal fiume sotterraneo, mentre l’intensità del globo di luce aumentava nella sua mano. La piatta superficie dell’acqua si infranse, un ribollire sotterraneo che gorgogliava e sbuffava. Poi il liquido assunse una forma solida, dei gradini fatti d’acqua che scendevano dentro il fiume, in un luogo di luce azzurra di cui non era possibile vedere il fondo.

I tre si avvicinarono alla scala e con passi lenti entrarono nella luce. Luther continuava l’incantesimo, il volto rilassato e gli occhi chiusi.

Erano dentro un tunnel fatto d’acqua, e procedevano in fila lungo le tremolanti pareti liquide che riflettevano il bagliore azzurro. Dietro di loro il tunnel si chiudeva mano a mano che avanzavano.

Sabina rimase affascinata da quel fenomeno, un piccolo assaggio di quello che i maghi di Freesia erano capaci di fare.

Procedettero in linea retta per circa un’ora, con passo costante e lo sguardo puntato verso la luce azzurra che proveniva dal fondo del tunnel. Era l’anima della Silfide, l’essenza del suo potere che era in grado di manipolare l’acqua e alterarne il significato.

Sabina aveva mille domande ma preferì tacere e godere dello spettacolo.

Ad un tratto la luce cambiò e di striò di verde. Erano dentro il fiume Spyra, e lo stavano attraversando da sotto. L’incantesimo cambiò di tonalità e in fondo al tunnel apparvero dei gradini che salivano verso la superficie.

Luther fece strada verso l’esterno. La luce del giorno che ormai stava finendo li investì, e si ritrovarono sulla riva dell’ampio fiume che divideva i due mondi. Erano giunti in Freesia, ma ancora non erano al sicuro.

Kelos scrutò in cielo alla ricerca dei Signori dei Draghi. In quel preciso istante una scura lucertola alata emise un urlo lacerante e

Page 292: L'Albero delle Parole

291

si gettò in picchiata verso i tre, le fauci aperte in un ghigno di orrore.

Il guerriero aveva una sola opportunità, e non poteva contare sugli altri due. Afferrò la spada con entrambe le mani e se la portò dietro la testa, assumendo col corpo una posizione pronta allo slancio. Il tempismo era la chiave.

Fece scattare le gambe nel momento in cui il drago incominciava la sua frenata a pochi metri dalla sua preda, e proiettò la forza di ogni suo muscolo dentro la lama della sua fedele arma.

La spada squassò le dure scaglie e penetrò dentro le carni. La testa del drago, larga almeno tre braccia, cadde al suolo con un tonfo sordo, mentre il corpo dell’enorme rettile, morto ma ancora in preda agli spasimi, sprofondò nel fiume a pochi passi da Kelos.

La scena era durata meno di mezzo minuto. Nell’aria scompariva il grido della bestia uccisa e il rumore dell’acqua smossa.

«Benvenuta in Freesia!» sogghignò Luther rivolto alla ragazza.Sabina era ancora pietrificata da quello che aveva assistito.«Andiamocene!» ordinò Kelos facendo strada verso l’interno

della Foresta di Frontiera.Camminarono spediti per due ore, nell’intenzione di uscire

dalla fitta vegetazione prima che il buio fosse totalmente calato su di loro. I Lupi Urlanti uscivano a cacciare dopo il tramonto, e quindi conveniva trovarsi fuori dalla loro portata.

Il guerriero li guidò lungo un sentiero che si inerpicava su una collina. Qui la vegetazione era diversa, più bassa e meno intricata. Quando raggiunsero la sommità si accorsero che erano finalmente usciti dalla foresta.

Le ultime pennellate di indaco coloravo ancora l’orizzonte, tracce di un tramonto mozzafiato sopra le terre incontaminate del mondo libero. Kelos abbracciò la donna e le indicò un punto lontano all’orizzonte.

«Laggiù è bellissimo!» le sussurrò.Lei si strinse più vicina a lui.Forse la guerra sarebbe insorta ancora più violentemente, gli

accessi segreti che univano i mondi sarebbero diminuiti e

Page 293: L'Albero delle Parole

292

l’alleanza avrebbe sofferto le conseguenze delle azioni che la Cometa Rossa aveva rischiato quel giorno. Ma Kelos era pronto a combattere, adesso più di prima; per se stesso, per Freesia e per il suo amato Diamante di Pardisia.

Adesso che lei era al suo fianco tutto appariva diverso; stava incominciando qualcosa di nuovo.

Questo racconto compare anche nella raccolta “Racconti del nuovo millennio” di GM Willo

Page 294: L'Albero delle Parole

293

IL PIANETA ABBANDONATORaccontami sulle note di...

Il pianeta é deserto. Non c’è più nessuno.Corro, grido, inciampo nei maledetti sassi di questa

desolazione. Le lune nel cielo ridono di me. Le stelle sono troppo lontane. Cerco di afferrarle, il sangue scorre da una sbucciatura al ginocchio, impreco e mi rialzo. Continuo a correre.

Il pianeta morto è ricoperto di sassi e di povere. Dove sono andati tutti quanti?

«Hei ragazzi! Dove siete?» urlo.Ma solo il vento mi risponde, sputandomi in faccia la polvere.«Perché ve ne siete andati?»Mi fermo. Correre non serve più a niente. Non c’è più nessuno.Sono andati tutti via.Non mi rimane altro che dormire……sognare.

GM Willo sulle note di “Love Hurts” degli Incubus

Page 295: L'Albero delle Parole

294

SEBASTIAN CLAWdi Jonathan Macini

“Lo ribadisco: non ho ucciso Edward Derby. L’ho vendicato, invece, liberando al contempo la terra da qualcosa che avrebbe potuto scatenare

l’orrore fra gli uomini.”

H.P.L.La cosa sulla soglia (1933)

I. LA NASCITA

Gli Antichi furono, gli Antichi sono, e gli Antichi saranno. Dalle stelle Oscure Essi vennero prima che l'Uomo nascesse, invisibili e tremendi. Essi discesero sulla Terra primordiale. Sotto gli oceani Essi attesero per lunghe epoche, fino a che i mari eruttarono la terraferma, ed Essi brulicarono in moltitudini e la tenebra regnò sulla Terra. Ai Poli gelidi Essi eressero possenti città, e in luoghi elevati i templi di Coloro che la natura non conosce e che gli Dei hanno maledetto. E la stirpe degli Antichi ricoprì la Terra, e i Loro figli perdurarono nei secoli. Gli Shantak di Leng sono l'opera delle Loro mani, i Ghast che dimorano nelle cripte primordiali di Zin li riconoscono come loro Signori. Essi generarono i Na-hag e i Magri che cavalcano la Notte; il Grande Cthulhu è Loro fratello, gli Shoggoth Loro schiavi. I Dhole rendono Loro omaggio nella valle tenebrosa di Pnoth e i Gug cantano le Loro lodi sotto le vette dell'antica Throk. Essi hanno camminato tra le stelle ed Essi hanno camminato sulla Terra. La Città di Irem nel grande deserto Li ha conosciuti; Leng nel Deserto Gelato ha visto il Loro passaggio, la cittadella eterna sulle cime velate da nubi di Kadath la sconosciuta porta il Loro segno.

Pervicacemente gli Antichi seguirono le vie della tenebra e le Loro bestemmie erano grandi sulla Terra; tutto il creato s'inchinava sotto la Loro potenza e Li riconosceva per la Loro malvagità. E i Sovrani Primigeni aprirono gli occhi e videro le abominazioni di Coloro che devastavano la Terra. Nella Loro ira Essi levarono la mano contro gli

Page 296: L'Albero delle Parole

295

Antichi, arrestandoLi nella Loro iniquità e scacciandoLi dalla Terra nel Vuoto oltre i piani dove regna il caos e non dimora la forma. E i Sovrani Primigeni posero il Loro sigillo sulla Porta e il potere degli Antichi non prevalse contro la sua potenza. L'orrendo Cthulhu si levò allora dal profondo e si scagliò con immensa furia contro i Guardiani della Terra. Ed Essi legarono i suoi artigli velenosi con potenti incantesimi e lo rinchiusero nella Città di R'lyeh dove, sotto le onde, egli dormirà il sonno della morte sino alla fine dell'Eone. Oltre la Porta dimorano ora gli Antichi; non negli spazi noti agli uomini, bensì negli angoli tra essi. Al di fuori del piano della Terra Essi indugiano e sempre attendono il tempo del Loro ritorno; perché la Terra Li ha conosciuti e Li conoscerà nel tempo a venire. E gli Antichi tengono l'immondo e informe Azathoth in conto di Loro Maestro e dimorano con Lui nella caverna al centro di tutto l'infinito, dove egli morde famelico il caos supremo tra il folle rullo di tamburi nascosti, il pigolio stonato di orrendi flauti e il grido incessante di dèi ciechi e idioti che eternamente vagano e gesticolano. L'anima di Azathoth dimora in Yog-Sothoth ed egli chiamerà gli Antichi quando le stelle segneranno il tempo della Loro venuta; perché Yog-Sothoth è la Porta attraverso la quale Quelli del Vuoto rientreranno. Yog-Sothoth conosce i labirinti del tempo, perché tutto il tempo è per Lui una sola cosa. Egli sa da dove vennero gli Antichi nel tempo passato e da dove verranno ancora quando il cielo sarà completo. Dopo il giorno viene la notte; il giorno dell'uomo passerà, ed Essi regneranno dove regnavano un tempo. Come un'abominazione voi Li conoscerete, e la Loro malvagità contaminerà la Terra.

Pioggia, sempre pioggia. Questo maledetto cielo di febbraio non sa dirmi altro. Il drappo su un orrenda verità è stato calato, e le pesanti nuvole che ricoprono questa assurda città ce lo ricordano. New York non funziona.

La grande mela è come sorda agli stridenti richiami dell’ombra; troppo impegnata ad ingrandirsi e a divorarsi, troppo corrotta ed incurante di tutto ciò che non è fine a se stessa. Ho affittato questo monolocale a Providence, nella speranza di ritrovare il mio vecchio compagno di collage, il prof. Richardson. Le ultime notizie riguardo a lui risalgono a una settimana fa, il giorno in cui mi è stata recapitata la lettera che conteneva il manoscritto qui

Page 297: L'Albero delle Parole

296

sopra riportato. Il professore era impegnato in studi bizzarri di cui mi aveva accennato alcuni dettagli. Poi è arrivata la lettera, e quell’articolo in terza pagina del Washington Post. Il prof. Richardson era scomparso!!!

Non so se questa sia verità o follia, ma da ieri notte non riesco più a credere a niente. Sono andato a casa del professore, una villetta isolata poco fuori Providence, e dopo aver fermato l’auto nel piazzale davanti all’entrata e aver spento i fari, ho visto quella luce. Non era un riflesso, e nessuna sorgente luminosa conosciuta poteva riprodurre quel colore, tra il verde, l’azzurro ed il nero. Usciva dalle imposte sbarrate della villetta, un ritmo pulsante che nella mia mente sembrava accompagnato da tamburi e da flauti. Ho atteso minuti che sembravano ore, ma non sono riuscito ad uscire dall’auto, bloccato al sedile da un terrore alieno. Adesso sono qua, seduto davanti allo scrittoio del monolocale, privato di una notte di sonno, ed osservo il drappo grigio del cielo chiedendomi se la follia non sia davvero il migliore dei rimedi.

Guardo mestamente indietro, eppure non mi vergogno dei miei rimpianti. Sarebbe stato bello conoscere una brava donna, magari avere dei figli. Ho scelto la via più facile, rapito dal miraggio di una brillante carriera lavorativa. Niente di meglio che di fare l’avvocato nella città che ricopre d’oro gli avvocati. Adesso tutto ha molto meno senso. Adesso tutto sfuma tra le ombre tentacolari di una notte imperitura. Niente è più come prima, e non lo sarò neanche io.

Randy Coleman non è più il mio nome, così come New York non è più la mia città. Forse il mio destino è già segnato, ma cercherò con tutte le mie forze di rimandarlo al domani più lontano, insieme all’avvento di questo perverso disegno. Il mio nome è Sebastian Claw. Ho solo un fucile a canne mozze per amico, e per adesso mi basta. Providence è la mia nuova città, l’inizio di una nuova vita. Una vita che ha già un finale, ed appartiene ad abissi aberranti, tane di assurde creature. Ma prima della fine qualcuna di queste assaggerà il mio piombo. Lo devo al professore e lo devo a me stesso.

Page 298: L'Albero delle Parole

297

II. MELVIN

Melvin era una zecca, come si dice in gergo. Tu lo pagavi e lui ti dava le informazioni, succhiate direttamente dalle profondità più recondite ed aberranti della razza umana. Niente di strano, se si stesse parlando di informazioni normali. Ma Melvin non era normale… Chiunque avesse assistito a metà della roba che è passata davanti ai suoi occhi, si sarebbe fatto un tuffo di diversi metri, tanto per non pensarci più. Capite quello che vi voglio dire…

Sono due mesi che viaggio tra Providence ed Arkham. L’aria di Boston mi ha già cambiato. Le cose sono e le cose restano. Chi non ha più il velo davanti agli occhi è bene si cerchi un nuovo pretesto per andare avanti. Io ce l’ho… un bel po’ di piombo da commissionare. Il lavoro è solo all’inizio.

Melvin, vi dicevo. Un vecchio pazzo con la gobba, la bava alla bocca e la cute piena di chiazze glabre. Si aggirava nel parco di Arkham, proprio dietro la Miskatonic, insieme a un vecchio cagnolino cieco, un incrocio poco piacevole che non la smetteva mai di abbaiare. Lui diceva che gli teneva lontane le creature… Idiota!

L’ho conosciuto quasi per caso circa un mese fa. Uscivo dalla biblioteca dell’università e me lo sono ritrovato tra i piedi. Aveva adocchiato i libri che tenevo sottobraccio. “Se hai bisogno di qualche informazione, chiedi pure… Faccio dei buoni prezzi…” mi disse. Poi il cagnolino incominciò ad abbaiare, e lui se ne tornò verso il parco, con uno strano ghigno sul volto. Quella notte tornai a Providence, e continuai a pensare al vecchio. Mi ci volle mezza boccia di bourbon per riuscire a prendere sonno, e non fu facile trovarla. Il giorno dopo, con la testa appesantita dall’alcol ed in bocca un sapore non piacevole, iniziai a consultare i due testi per i quali avevo viaggiato più di cento miglia: la pubblicazione Bridewell di Culti Innominabili e un libro di poesie di Justin Geoffrey intitolato Il Popolo del Monolito. Il professor Richardson ne accennava nei suoi appunti. No, non quelli di casa sua. Non ci sono più ritornato dopo quella notte, ma ho fatto un salto nel suo ufficio, in città. A parte un paio di note sul retro

Page 299: L'Albero delle Parole

298

dell’agenda, non ho trovato nulla che riguardasse il mistero della sua scomparsa. Mi faccio ridere, ancora non riesco a chiamare tutta questa follia per il suo nome… eppure che nome potrei mai dargli? Occultismo? Mitologia? Potrei parlare semplicemente di deliri, ecco cosa… No, non sono curioso. Voglio solo riuscire a dormire la notte, senza l’aiuto del vecchio whisky.

Ho letto i due libri ma non ho approfondito. La maggior parte di quella roba non riesco neanche a capirla. Il resto invece mi attanaglia le budella, e mi fa venire sete. Ma stavo cercando una traccia, un segno. Non l’ho trovato, così li ho riportati ad Arkham. È stato allora che ho rivisto Melvin, ma questa volta sono stato io ad avvicinarmi a lui. Appena uscito dalla Miskatonic ho sentito l’inconfondibile verso di quel brutto meticcio. Mi sono avvicinato agli alti platani che delimitavano l’inizio del parco. L’ho intravisto su una panchina, curvo ed immobile. Sembrava stesse dormendo, così mi sono avvicinato lentamente, e lui si è rivolto a me senza neanche voltarsi. La sua voce era vecchia e gracchiante. “Melvin fa degli ottimi prezzi… se si vogliono conoscere gli abomini della città…”

“Di che diavolo stai parlando?”È iniziato così, ed è andato avanti per più di un mese. La strage

alla baia di Arkham, il mattatoio alla fattoria Renfield, l’omicidio Portman. Prelibati sonniferi per il sottoscritto. Non sto a raccontarvi le nefandezze perpetuate da queste creature (non posso certo chiamarli uomini!). Ne hanno parlato i giornali e hanno parlato anche di me. Ovviamente non sanno chi io sia, né che relazione ci sia tra le tre carneficine e l’efferata morte di un barbone di Arkham, trovato ieri notte appeso ad un cancello del parco. Le sue viscere, unite alle cervella del suo cagnolino, formavano un complicato disegno ai suoi piedi. Nessuno conosce il senso di tutte queste morti. O almeno me lo auguro.

Non ho paura della polizia. Se mi dovessero beccare mi metterei lo shotgun in bocca senza esitare un attimo. Vi posso assicurare che tutta quella gente si meritava molto di più di una morte veloce come quella che ho riserbato loro. No, ho paura di altro, degl’incubi tentacolari che stritolano, privandoti anche del

Page 300: L'Albero delle Parole

299

tempo per toglierti la vita. Una follia eterna, accompagnata da un imponderabile suono di flauti…

Per fortuna Providence sembra ancora abbastanza tranquilla… se ci si tiene lontani dalla casa del professore.

Povero Melvin. I suoi prezzi erano davvero buoni. Ho messo da parte del buon piombo per vendicarlo. Ma ho bisogno di una nuova zecca adesso. Domani parto per Boston. Ho un contatto. Ve ne parlerò…

Addio Melvin. Addio cagnolino. Quasi quasi vi invidio…

III. NESSUNA SPERANZA

Ieri notte sono tornato a casa del professore. Ero ubriaco, e ricordo appena quello che è accaduto. Cercherò di raccontarvelo, prima che l’oblio cali inevitabilmente sui mie ricordi (ancora molto confusi), ed il sogno si mischi con la realtà. Ormai non credo più a nulla, ed anche le vittime di questo shotgun sono diventate una magra consolazione. Ho ucciso di nuovo, ho ucciso qualcosa che solo con molta fantasia potreste considerare vivo, eppure gli incubi sono venuti lo stesso, più orribili che mai.

Ho fermato la macchina nel solito piazzale. Mancava poco al tramonto. Il cielo era grigio e il mondo incolore. La villetta era immersa nel silenzio e nell’ombra. Ricordavo bene quella luce che avevo visto mesi prima, quel suono orripilante di flauti e tamburi. Niente di ciò disturbava adesso quel pacifico panorama rurale. Mi sono acceso una sigaretta. Sapevo che era una scusa per guadagnare tempo. Guardavo la finestra del piano di sopra, le persiane spalancate, le tende tirate. Un occhio su un pianeta alieno. La sigaretta era arrivata alla fine. Che fare? Riaccendere il motore, girare l’auto e tornare a casa. Si, era quello che desideravo più di ogni altra cosa. Eppure sapevo in cuor mio che se non avessi fatto quello che mi ero premesso di fare, non sarei riuscito a dormire un’altra notte.

Sono sceso, ho gettato il mozzicone nella ghiaia del piazzale, due corvi spaventati sono volati via, oltre il tetto della villetta. Ho caricato il fucile e ho coperto lentamente la distanza che mi

Page 301: L'Albero delle Parole

300

separava dall’ingresso, una ventina di passi, non di più. Superato il cartello di vendita affisso dall’agenzia immobiliare mi è sfuggito un sorriso. Chi poteva essere così pazzo da andare ad abitare in un posto del genere? Ma forse erano le mie fantasie, o la mia consapevolezza, a trasfigurare quella graziosa villetta di provincia, che aveva saturato le mie notti, preso possesso dei miei sogni, trasformato la mia vita. Per questo ne provavo orrore. Forse a una persona normale sarebbe piaciuta… Eppure erano passati tre mesi, e quel cartello stava ancora lì.

La porta era chiusa a mandata. Le persiane del piano terra erano tutte sbarrate. Rimaneva solo l’altro ingresso. Con lo shotgun ben puntato davanti a me, mi sono portato sul retro dell’edificio. Il portico posteriore di affacciava su uno sconfinato campo d’erba alta che si perdeva in un declivio verso la città. Le luci di Providence incominciavano ad accendersi. Anche la porta sul retro era chiusa a chiave, ma un proiettile a bruciapelo avrebbe fatto saltare in aria il chiavistello. Esplodere un colpo in collina avrebbe insospettito qualcuno, anche se la casa più vicina era a un quarto di miglio, così ho avvolto la canna del fucile nel cuscino di una sedia a dondolo dimenticata nell’angolo della veranda. Ho fatto fuoco, spargendo piume e schegge di legno un po’ dappertutto. Un attimo dopo ero dentro la cucina, un luogo ordinato ma ricoperto da un denso strato di polvere. Un odore da voltastomaco mi ha investito. Difficile descriverlo. Dolce e avariato, marcio e pungente. Nel silenzio assordante della villetta, una sensazione assurda ma inequivocabile si è impossessata delle mie membra, paralizzandomi dalla testa ai piedi. Nella casa viveva qualcosa.

Dietro infiniti veli di grigio il sole stava per tuffarsi oltre l’orizzonte. Non potevo farmi sorprendere dalle tenebre, non con quella cosa che si aggirava là dentro. Per fortuna mi ero portato dietro la medicina. Ho appoggiato il fucile sul tavolo della cucina ed afferrato la fiaschetta dalla tasca interna della giacca. Il whisky di contrabbando non è un granché ma fa il suo dovere. Un lungo sorso e le membra si sono sciolte, un altro sorso ed ero pronto a salire di sopra.

Page 302: L'Albero delle Parole

301

Non ce n’è stato bisogno. Riafferrato lo shotgun, ho attraversato la porta che dava sul corridoio. A destra si apriva il salotto, a sinistra la libreria, più avanti l’atrio e la rampa di scale. La poca luce esterna filtrava dalle persiane, ma era impotente di fronte all’oscurità che albergava da mesi dentro la casa. I miei occhi facevano fatica ad abituarsi. L’impianto elettrico era staccato. L’unico riverbero che mi aiutava a procedere senza andare a sbattere addosso a qualcosa era quello che proveniva dietro di me dalla cucina. Il bisogno di un altro goccetto mi ha fatto fermare. In quel momento ho avvertito lo strascichio. Veniva da sopra, lento, appiccicoso, grondante, umido. Un rumore di vischiosità viva. In quel momento qualcosa è scattato dentro me. Ricordo solo brandelli dei minuti successivi. I passi lenti ed esitanti verso la rampa di scale, il rumore viscido che avanzava, i contorni vaghi di una creatura deforme che scendeva i gradini, e poi il terrore. Dopo il colpo sparato nel porticato mi ero completamente dimenticato di ricaricare lo shotgun. Freneticamente ho afferrato due proiettili dalla tasca, ma riuscire ad inserirli nel caricatore con le mani che mi tremavano non è stato facile. La creatura stava avanzando verso di me molto più velocemente di quanto pensassi. Non avevo coraggio di guardare. Ho chiuso il caricatore e ho mirato alla cieca, seguendo un istinto tutto mio. Un boato inatteso è esploso nell’ampio ingresso della villetta. Non era finita, non per me. Altri due colpi. Bang! Bang! Ma ho continuato a guardarmi le scarpe mentre sparavo, incapace di soffermarmi su quell’essere che non sarebbe dovuto esistere.

I colpi erano finiti. I bozzoli giacevano sul pavimento. Dieci, dodici. Non so. Il rumore vischioso continuava, ma era diverso. La creatura non si muoveva. Come prova poteva bastarmi. Non volevo assicurarmi di niente. Non volevo guardare. Sono corso fuori, ed è tutto quello che ricordo. Non so come sono riuscito ad arrivare all’auto, ad accendere il motore e fare manovra. Percorrere le strade ormai buie di Providence sembrava un sogno nel sogno. Per un attimo la sensazione di normalità mi ha sedotto. Avrei voluto abbandonarmici, ma come potevo continuare ad ingannarmi.

Page 303: L'Albero delle Parole

302

Nessuna speranza per chi conosce la verità. Nessuna speranza.

IV. DISCESA VERSO L’OBLIO

Dall’unica finestra di questo dannato monolocale, entra la promessa di un’altra notte bastarda. Il cielo rimane grigio, incolore, ma la dilatazione del giorno è fin troppo percepibile. Siamo alle ore che precedono le ombre, ma non accenderò la lampada della scrivania. Rimarrò sul mio letto, immobile, ad osservare il piombo nel cielo scurirsi, diventare antracite, finché le tenebre non m’inghiottiranno. È tutto quello che desidero per stasera…

La bottiglia è già arrivata a metà. Il corpo sprofonda dolcemente nel materasso troppo soffice, ma è una bella sensazione. Mi fa sentire coccolato, protetto, come un arnese nella sua confezione. Lo shotgun giace al mio fianco. È carico. Ormai non riesco neanche ad andare in bagno senza di lui. Ne accarezzo il grilletto. Un colpo e via, tutto finito. Il sipario si chiude. Che se la vedi il mondo contro quelle schifezze. Io ho già dato tutto quello che avevo…

Un lungo sorso con la testa piegata all’indietro, chiudendo gli occhi, il liquido che mi scorre attraverso i denti, lo sento corrodermi, nel fisico e nella mente. Scardina gli incubi che infettano la ragione, addobbandoli di assurdi festoni. Un rituale scaramantico che mi trascina verso il basso. Riapro gli occhi. La stanza è sempre più buia. I rumori che vengono da fuori sono l’inutile canzone di una civiltà senza speranza, il canto funebre dei parassiti di un pianeta sul quale i Grandi Antichi torneranno presto a regnare. Le auto in corsa, il suono dei clacson, il trambusto nei cantieri di periferia, la stazione ferroviaria. Sintomi di vite prive di qualsiasi rilevanza, che arrancano sopra luride fognature nelle quali scorre già il seme della follia.

Afferro la bottiglia con più forza. Il sacchetto di carta che la riveste emette un suono rassicurante tra le mie dita. Mentre bevo guardo il corpo di un uomo che si avvelena lentamente. Fin dove riusciranno a trascinarmi queste povere membra? Sono loro che

Page 304: L'Albero delle Parole

303

fanno il lavoro sporco. È vero, c’è ancora quel fuoco che arde, il motore di questa macchina di morte, il pretesto per non abbandonarsi completamente al delirio. Ecco cosa ne è stato di Randy Coleman. La trasformazione è ormai completa. Una creatura di carne con un fucile a canne mozze come appendice, estensione del suo corpo, organo vitale fatto di ferro e fuoco. Un intento irrazionale, forse più folle delle follie che camminano nell’oscurità, lo muove come un angelo vendicatore. Vorrebbe farla finita ma non può. Qualcosa lo trattiene. C’è ancora molto lavoro da fare…

La bottiglia è quasi a fine. L’oscurità è ormai padrona. No, non accenderò la luce sulla scrivania. Lascerò spengere gli ultimi suoni del giorno, immaginandomi la gente che torna alle proprie case, moglie, figli, progetti, fede… Nessuna differenza tra loro ed i piccoli insetti che infestano le cantine e le soffitte. Ragni, termiti, blatte…

Vieni oscurità. Vienimi a prendere. Fammi dormire, ti prego. Almeno stanotte, fammi dormire…

V. L’EVOCAZIONE

“Iah! SHUB-NIGGURATH!”“Grande Capro Nero dei Boschi, io Ti chiamo!”L’uomo con la veste gialla s’inginocchio davanti alle alte pietre.

Le braci rosse gli illuminavano il volto.“Rispondi al grido del tuo servo che conosce le parole del

Potere!”Con la mano compose un gesto.“Sorgi, io Ti dico, dal Tuo sonno e vieni con altri mille!”Un gesto ancora.“Io faccio i Segni, io pronuncio le Parole che aprono la Porta!”“Vieni, io Ti dico, io giro la Chiave, Ora! Cammina ancora una

volta sulla Terra!”Si avvicinò alle braci…BANG!Ma fu lo shotgun di Claw a chiudere l’evocazione.

Page 305: L'Albero delle Parole

304

VI. LA SACERDOTESSA

Maria Luise Demond, conosciuta anche con il nome di Snake Charmer, alta sacerdotessa del tempio. Non che incantasse per davvero i serpenti, anche se forse per un po’ è riuscita ad incantare me. Solo per un po’…

L’ho conosciuta un mese fa alla casa di riposo Greendale House, nella periferia di Boston. Ricoveri e orfanotrofi sono i posti ideali per rifornirsi di carne sacrificabile a costi limitati. Gli inservienti si lasciano corrompere facilmente, e poi se scompare un vecchio oppure un orfano ormai non importa più a nessuno. Neanche i giornali ci stanno più dietro, con il crimine organizzato che dilaga in tutto il paese. Certo, per i bambini si fanno prezzi diversi, ma i sacrifici di carne immacolata sono rari, rituali riservati alle alte cariche. Per santificare le loro vomitevoli messe basta una vecchia carcassa.

Io ero lì e sapevo bene come andavano quelle cose. Per tre giorni ho bazzicato quell’edificio, un posticino delizioso immerso nel verde, una struttura moderna e ben accessoriata, che prometteva ai suoi inquilini una fine facile e decorosa. Vi abitavano una sessantina di anziani, la maggior parte dei quali ricordava poco o nulla della vita lasciata fuori da quelle mura. Ma c’era anche chi non la smetteva mai di parlare della propria infanzia, come se fosse appena trascorsa. La mente di un uomo è come una macchina difettosa! Se esistesse un dio, dovremo farci risarcire.

Greendale House è un mondo fuori dal mondo, una realtà fatta di brusii insensati, medicine e odori pungenti. Un pascolo di carne umana a basso costo. Mi sono finto il legale della signora Thomson, una simpatica vecchietta che ricordava a malapena il suo nome, Elvira. In realtà non dovevo fingere un bel niente. In un’altra vita e in un altro tempo sono stato uno dei tanti avvocati della Città degli Avvocati; Randy Coleman era il mio nome. Di sicuro non un esempio eccelso, ma durante i dieci anni e passa di attività sono riuscito a togliermi qualche bella soddisfazione. Il caso Newman, ad esempio. Quel bastardo se l’era vista davvero brutta. La sedia elettrica non gliela avrebbe tolta nessuno, se non

Page 306: L'Albero delle Parole

305

avessi portato all’ultimo appello quel testimone chiave. Com’è che si chiamava? John qualcosa. Il figlio di puttana la sapeva lunga, e alla fine ha parlato. Sicuro che ha parlato…

Comunque, ormai è acqua passata. Come ho detto più di una volta, quella era una altra vita. Adesso esiste solo il signor Claw e il suo fedele fucile a canne mozze.

Maria Luise faceva finta come me. L’ho inquadrata subito. Il suo fare gentile, la spigliatezza un po’ troppo ostentata con i medici, lo zelante interesse per miss Rogue, la donnina sulla sedia a rotelle della quale si fingeva la nipote. Niente di tutto ciò mi è sfuggito. Era bella, ma di una bellezza blasfema. Non so in che altro modo descriverla. Occhi profondi, due pozzi che sembravano risucchiare la luce. Capelli neri, pettinati alla moda, e una bocca rossa come i gerani che adornavano le terrazze del ricovero.

Il terzo giorno la invitai a bere un tè in città. Lei accettò, ed incominciò così. Avrei potuto ucciderla quella notte stessa. Non avevo bisogno di prove per sapere chi era e cosa faceva. Mi era bastato uno sguardo per capirla. Nei suoi occhi dimorava l’assurdità del dio idiota. Azathot viene chiamano, il dimoratore del nulla. Per poco non mi ero perduto in quel suo subdolo gioco, fatto di parole dolci, di baci carnosi, un desiderio incontenibile che inghiotte il libero arbitrio.

Ma prendere solo la sua vita sarebbe stata una magra consolazione. Volevo accedere al tempio, eliminare i suoi discepoli, dare alle fiamme i luoghi appestati dalla sua insulsa religione. Così giocai il suo gioco, ma mi tenni da parte l’asso vincente.

Facevamo l’amore in un motel del centro. Ormai Boston era diventata la mia nuova casa. Il caos della grande città aiutava a distrarmi. Per un po’ mi è piaciuta, non lo nego, ma a cosa fatta non vedevo l’ora di tornarmene a Providence.

Il sesso con lei confermò i miei sospetti. Il modo in cui cercava il piacere, il muoversi silenzioso sopra di me, gli occhi spalancati nel momento catartico, colmi di una alienità disarmante, ed un sorriso famelico che metteva i brividi. Il ricordo del suo corpo perfetto nella penombra di quella camera d’albergo, la finestra

Page 307: L'Albero delle Parole

306

aperta ed i suoni della città sotto di noi, lei che camminava sinuosa verso la toilette… immagini che continuano piacevolmente a tormentarmi. Afferrai la borsetta e… bingo! Conteneva una copia del Necronomicon, versione inglese di John Dee, rilegata pregevolmente a mano. La prova che confermava tutte le mie intuizioni. Tra le pagine pergamenate piene di simboli arcani e parole all’apparenza insensate, estrassi un biglietto. Indicava la data ed il luogo dove si sarebbe tenuta la prossima messa. Era l’invito che cercavo.

Le fiamme divorarono completamente quel magazzino del porto. Per la polizia è risultato impossibile identificare le decine di corpi carbonizzati recuperati al suo interno. I giornali hanno parlato di clandestini cinesi, di un paio di casse di tabacco secco andate a fuoco, di un tragico incidente. Gli agenti non hanno mai rivelato alla stampa la storia di Maria Luise, trovata riversa in una pozza di sangue a un centinaio di metri dal magazzino, perforata da due proiettili di shotgun esplosi a distanza ravvicinata.

Mentre la guardavo correre verso di me, allontanandosi dal fuoco che s’innalzava in alte fiamme alle sue spalle, accendendo la notte del porto, sono riuscito a scorgere per un istante il suo vero volto. Nei suoi occhi ho letto disperazione, incredulità, paura. È stato un attimo, ma non mi sono lasciato ingannare. La pietà è un sentimento che non mi appartiene più.

Addio Maria Luise. Aspettami all’inferno. Vedrai, non tarderò!

VII. BOB

Le fronde degli alberi, i rumori della città, una quarantaquattro magnum sulla scrivania accanto a un letto d’ospedale, un vecchio che farnetica sotto le coperte, il fetore della follia che aleggia nella stanza. Immagini di una scenografia ammorbata, l’overture che annuncia l’entrata in scena di creature idiote, dimoranti negli abissi del cosmo.

«Bob, ti ho portato quello che mi hai chiesto…»

Page 308: L'Albero delle Parole

307

Per un istante lo sguardo del vecchio divenne lucido. Guardò prima me, poi la cosa sulla scrivania, un oggetto di freddo metallo che risucchiava la luce.

«Grazie Sebastian. Grazie!»Uscito dalla clinica accesi una sigaretta…… e udii lo sparo.

VIII. LA FINE

Il caffè è più forte del solito. La notte è stata lunga, ma ha dato i suoi frutti. Tornerò alla baia nel pomeriggio, per finire il lavoro.

La Spirale era chiamata. Il più influente ed aberrante agglomerato di individui che abbia mai messo piede a Providence, o per quello che ne so, in tutto lo stato. Provo ancora ribrezzo nel ricordare le cose che si muovevano sopra la spiaggia, mentre quel gruppo di scellerati si riuniva dentro le grotte, a salmodiare le parabole di un libro perverso. Ne succedono di cose strane a soli venti chilometri dalla città.

La notte nascondeva l’orrore. Le creature coprivano le stelle coi loro corpi gibbosi, assurda progenie di insetti e corvi, ed io non potevo continuare ad ingannare la mia sanità mentale. Ho alzato gli occhi quel tanto per non dormire più una sola notte.

Dopo aver rovesciato sulla sabbia i resti di una misera cena a base di tonno in scatola e bourbon, mi sono mosso velocemente oltre gli scogli. Dalla caverna fuoriusciva una luce malata, la stessa che vidi quella notte a casa del professore. Mi sembrano passati secoli.

Sapevo cosa stava succedendo là dentro. Sapevo del tentativo di traduzione di quel testo cinese. La Spirale era piena di musi gialli, ma non erano loro a comandare. C’era Sunshade, l’uomo con la frusta. Lo intravidi alla prima delle adunanze che si tenevano in città. Quasi certamente era lui la mente dietro tutta la combriccola. Poi c’era Amelia, sacerdotessa del senza nome. Si, proprio lui. Cosa credete che ci facessero più di cento illustri personaggi del New England in una grotta a venti chilometri da

Page 309: L'Albero delle Parole

308

Providence, insieme a una mandria di cinesi e a dei corvinsetti giganti? Chiamavano lui, che non si potrebbe nominare. Hastur…

Il fascio di dinamite era avvolto nei giornali. Avevo paura che l’aria salmastra potesse compromettere l’effetto dell’esplosivo. L’entrata della grotta non era molto ampia. Il piano era quello di bloccarli là dentro; sepolti vivi. Neanche i loro amici corvi sarebbero riusciti a tirarli fuori, e senza di loro l’evocazione non sarebbe stata mai completa.

Ho piazzato il pacchetto un paio di metri oltre la soglia. Poi mi sono allontano quel tanto da rimanere incolume. Un colpo, un solo dannatissimo colpo. La mano era ferma, nonostante il whisky che mi girava nelle vene. Il dito sul grilletto. Un bacio di buon augurio alla canna del mio fedele shotgun., e poi… bang!

Devo tornare a finire il lavoro. Ve l’ho già detto. Devo accertarmi che non siano riusciti a scappare. Questo è il mio ultimo lavoro, e voglio che sia fatto bene.

Si, avete capito bene. Queste sono le ultime righe di Randy Coleman, ovvero Sebastian Claw. Non tornerò in questo maledetto monolocale, a passare le notti con gli occhi sbarrati, la boccia di whisky in una mano ed il fucile a canne mozze nell’altra. Basta.

È l’ora di farla finita.Vi lascio alle follie di questo mondo. Ho cercato di ostacolarle,

per quanto potevo. Ho venduto cara la pelle. Ho fatto assaggiare un po’ di sano piombo.

Adesso però voglio dormire.Un ultima cosa……poi la spiaggia, il mare, l’abisso.Addio.

OUTRO

È stato rinvenuto un corpo nella baia. Era il mio… …o almeno così hanno creduto.Che lo credano pure. La polizia, i miei vicini, le creature assurde che

vagano libere per il New England, anche i lettori di questo folle diario. A

Page 310: L'Albero delle Parole

309

me sta bene così. Io non mi lamento. Galleggio nell’acqua sporca nel mio impermeabile grigio, ma tengo lo sguardo puntato verso il fondo… casomai qualcuno o qualcosa decidesse di salire in superficie.

Ho sempre il mio fucile a canne mozze. Lo tengo stretto nella mano destra. Il rigor mortis può fare anche questo. Non ci credete? Allora vi svelerò un piccolo segreto: non è morto ciò che in eterno può attendere, e col passare di strani eoni, anche la morte muore. E questo vale per tutti, anche per i cacciatori di incubi come me.

Il mio nome è Sebastian Claw. Sono un cadavere che galleggia nella baia di Providance, e ho ancora del piombo da commissionare. Lo devo al professore, al povero Melvin, al vecchio Bob, e soprattutto a Randy Coleman.

Tratto dal libro: Sebastian Claw e altri racconti

Page 311: L'Albero delle Parole

310

Page 312: L'Albero delle Parole

311

L’ALBERO DELLE PAROLE

LE POESIE

Page 313: L'Albero delle Parole

312

OCCHIdi Charles Huxley

Che guardano l’alba, feriti dal sole,chiusi dentro una buia caverna,

bagnati da acide lacrime,gonfie di rabbia.

Occhi,feriti da Dio,dalla fede ,

gonfia di divina slealtà.

Traditi,occhi increduli,

ignoranti,bagnati da dolcissimi lacrime,

gonfie di emozioni.

Occhi,che hanno visto demoni,

occhi in lutto,coperta da una benda nera.

Occhi stanchi,occhi violentati,

vecchi,stupidi,

occhi di bambino mai sazio.

Occhi.Indegni,

occhi stanchi.

I miei occhi.

Page 314: L'Albero delle Parole

313

FIAMMA DI CANDELAdi Charles Huxley

Cerco quel barlume di oscenitàche mi strappi

da questo buonismo interessante,stressante.

Ricerco un suono,una nota

che mi riporti alla realtà parallelameno finta,

meno costruita.

Bramo quell’alito di ventoche mi spinge ancora avanti,

senza rimorsi e senza rimpianti,per quelli che inevitabilmente

restano indietro.

Page 315: L'Albero delle Parole

314

CARTA E PENNAdi Charles Huxley

(dedicata a mia nonna)

Ti scrivo una lettera da lontano,sperando che nessuna lacrima

abbia legato il tuo spirito quaggiù.

Ti scrivo per ricordarmi che sono vivo,per ricordarmi cavalli che non esistono

e monete fatte d’aria.

Ti scrivo a ritmo di una vecchia canzoneche parla di giostre,

antichi ricordi emondi che non ho mai visto.

Ti scrivo piangendo,con una pallottola che pende dal collo,

ma,come se fosse infilata nella carne,

ferisce.

Ti scrivo con parole non mia,perchè

“solo nel dolore l’uomo si accorge di essere vivo”.

Ti scrivo con una rosa accanto,che piano piano si secca

e perde l’odore.

Ti scrivo da sopra tre metri di terrae

da sotto chilometri di cielo.

Ho rotto le tue catene,

Page 316: L'Albero delle Parole

315

almeno spero,e scrivo per dirtelo.

Spedirò questa lettera a tutti i mari del mondoaffinché ti cerchino, ovunque tu sia,

per dirti che io sono ancora qua,e non ti ho dimenticata.

Page 317: L'Albero delle Parole

316

ADAM KADMONdi Demiurgus

Son cambiati gli strumentile vostre facce, i sentimenti,

però identici gli inganni,perpetrati lungo gli anni.

Prima c’erano i cavalliora il rombo di un motore,ma sopravvivono i cavilli

per giustificare ogni dolore.

Son cambiati anche i lavori,si disintegrano i valori,

ciò che resta è sempre quello:siamo schiavi di un cervello!

I pensieri che produceli hanno indotti con la forza:

verso il nulla ci conduce,senza rompere la scorza.

Vi trascianate come mortia coltivare i vostri orti,

aderendo a dei valorivissuti ormai come esteriori.

Quello fugge dentro casa,questo fonda una famiglia,

altro che tabula rasa,il cervello è una canaglia!

Non ascolta alcun consiglio,non accetta dissonanze,

ha paura, è un bel coniglio,e continua le sue danze.

Page 318: L'Albero delle Parole

317

Per difendere i suoi erroriaggredisce anche gli amici,

falcidiando i loro cuori,additandoli a nemici.

Triste è il fato che vi aspettabrutta feccia maledetta:

io vi osservo e non ci credoche siete ancora alla nigredo!

Se potesser le parolescuoter gli animi e i pensieri

griderei alla vostra prole:“siete figli di corvi neri!”

Non seguite i lor consigli,non amate come loro:

siate del mondo raggiante i figli,mutate il piombo in fulgido oro!

Ma a loro è impedito:se gli indichi il sole

ti guardano il dito…

Estratto dal progetto "L'Urlo"

Page 319: L'Albero delle Parole

318

IL TEMPO DELLA RACCOLTAdi Aeribella Lastelle

Ho smesso di rispondere alle solite domandeEppure continuo a pormeleChi ha bisogno di risposte?

Io non la sento piùLa deturpante necessità

Di dare un sensoA ciò senso non ha.

Ma non ho chiuso la scatolaNon ho finito di giocare

Scelgo sempre seguendo il cuoreE attendo

Che la campana incominci a suonareE giunga il tempo della raccolta

Prima del grande sonno invernale.

Page 320: L'Albero delle Parole

319

VECCHIO GIOCATOREdi GM Willo

Complice di un giocoIo vivo il sogno

La scoperta e quel pocoDi magia che mi resta

Cercando il segnoLa frase che desta

L’entrata nel regnoDel reale infranto

La storia ed il cantoL’evento e il portento

Meraviglia ed incanto.

Poi il gioco si chiudeLa notte già muoreCammino vie nudeNé gioia o dolore

Sulla via del ritornoLa città dormienteBarlumi del giornoLontana è la menteLeggero è il cuore

Del vecchio giocatore.

Page 321: L'Albero delle Parole

320

PARTO ANARCHICOdi GM Willo

StatoIo non t’appartengo

Io non ti conoscoA te mi oppongo

Anzi, t’ignoroLe tue catene

Di ferro ed oroNon posso levarLe mie caviglieSanno graffiarE soffro le pene

Patisco le doglieDi un parto anarchico

Illuso e pateticoIngenuo guerriero

Io, tuo prigioniero.

Page 322: L'Albero delle Parole

321

IL RE DELLA VAGHEZZAdi GM Willo

Sono il Re della VaghezzaPrendo il mondo in leggerezza

Mi spaventan solamenteLe certezze della gente

Fischio acuto da fringuelloIo mi sento un menestrello

Vola via il mio pensieroChe sia falso oppure vero

Salta sopra questa giostraQuel che hai mettilo in mostra

Sia reale oppure giocoA me certo importa poco

Io non ho punti di vistaScrivo solo quel che ho in testa

Se mi capita una svistaSono matto, punto e basta

Non mi prender seriamenteChe confusa é la mia menteSulla lingua ho una battuta

Se non esce é dispiaciuta

La parola é una fetenteDice tutto e dice nienteSe ti fermi ad ascoltareNon ti devi far fregare

Che l’inganno dell’orecchioÉ un malanno assai vecchio

La spia d’ogni tenzoneÉ una grande incomprensione

Page 323: L'Albero delle Parole

322

Dal verbo si passa ai fattiPer me son tutti matti!Non c’é comparazione

Tra la parola e l’azione

L’offesa resta offesaPer chi l’ha data e chi l’ha presa

Ma l’affondo di un pugnaleTi spedisce all’ospedale

Dai retta a me, sorridiCon le parole non uccidi

Metti da parte la fierezzaSaluta il Re della Vaghezza.

Page 324: L'Albero delle Parole

323

LA FINE DEL GIOCOdi GM Willo

La fine del giocoIl gesto di un bimboRiusciró a ricordare

La giostra ed il cignoI draghi di nuvoleIl caldo giaciglio

La pioggia ed il soleL’odore del fuoco.

Page 325: L'Albero delle Parole

324

EQUAZIONI MALDESTREdi Tapigora

Equazioni maldestreSerrano finestre

Nel gioco di specchiChe chiamiamo reteL’antico tra i vecchi

Ascolta e ripeteL’umano vagito

La storia ed il mitoLa ragione di tuttoIl bello ed il brutto.

La radice di noveÈ tre, son sicuro

Ne ho in tasca le proveControlla, lo giuro!

Mi chiedi di dioTi guardo e sto zittoL’ignoro, l’ammetto

Non son certo io.

Alcune domandeRimangon sospeseNoi anime appese

All’enigma più grandeSu, lasciamo perdereDai, lasciamo stare

Torniamo a sorriderePensiamo ad amare.

Page 326: L'Albero delle Parole

325

TRISTEZZAdi Gano

Mi prende cosìNon so neanch’io

Tristezza, mio dio…La sento qui.

Vicino al cuoreÈ come un sasso

Respirar non possoNon sento calore.

Tutto si offuscaDiventa bigio

Io, Gano mogioAttendo burrasca.

La calma precedeLa stronza tempesta

I tuoni e la frustaLa vita che chiede.

Si paga il prezzoTi avvii alla cassa

Lo sai che poi passaMa fa male, che cazzo!

Rimorsi e rimpiantiTi sputi allo specchioTi senti più vecchioHai gli anni pesanti.

La fine poi è quellaTi scoli un goccettoContinui e sei fattoMaremma budella!

Page 327: L'Albero delle Parole

326

PIACERE, SON GANOdi Gano

Torno ad ascoltareLe parole del cuoreIl gusto e l’odoreDell’arte d’amare

Mi perdo nel soleAbbraccio l’abbaglioDi certo non sbaglio

Tentare non duole

Il vento carezzaSbatte un cancelloCinguetta l’uccello

L’orecchio mio apprezza

Bicchiere di vinoLontano il casinoMi metto supino

Son come un bambino

Poi lei s’avvicinaLa gonna cortinaÈ proprio carina

Si chiama Sabrina

Allungo la manoSi gira e sorride

Mi guarda e mi uccide“Piacere, son Gano”.

Page 328: L'Albero delle Parole

327

PALCOSCENICO VUOTOdi Jonathan Macini

È un silenzio strazianteChe deturpa la menteIl mio grido d’amoreSolitario e cocciuto

È il lamento di un folleUn messaggio d’aiutoLanciato nel niente.

Dove il sogno si perdeGenerando altre storie

La nostalgia mordeDisseminando scorie

Di un lontano passatoDisilluso e immolato

Il palcoscenico è prontoMancan solo gli attori

I clown e i giocatoriLa musica e il canto.

Il sipario si alzaE si accendon le luci

Forse ho ancora la forzaDi chiamarvi Amici

Ma non credo più al fatoNon mi faccio illusioni

Il palco resta vuotoSon finite le canzoni.

Page 329: L'Albero delle Parole

328

VADO PER LA MIA STRADAdi Grazia Longo

Vado per la mia strada...Non è la più facile.E’ tutta in salita.Erta e scoscesa.

A volte da tracciare.Tra dirupi e sterpi e spine.

Andrò sotto il sole cocente.Proseguirò sotto le intemperie.Affronterò uragani di violenza.

Sopporterò la grandine dell’invidia.Patirò il gelo della derisione.

Continuerò a salire senza tregua.Mi riposerò all'ombra della solitudine.

Mi disseterò alla fonte della verità.L'amore che ho dentro mi riscalderà.

Andrò sempre avanti.Fiera, instancabile.In cima al monte.Niente mi fermerà.

Questa è la mia strada.Questa è quella che scelgo.Non mi importa del dolore.

Non mi importa della solitudine.Non mi importa se non capirete.

Vado per la mia strada.Strada non tracciata.

Strada da scoprire.Passo dopo passo.

Guaderò fiumi di dolore.Mi arrampicherò sulle rocce dell’indifferenza.

Abbatterò i muri della menzogna.Cancellerò i sentieri dell’inganno.

Cadrò e mi rialzerò.Soffrirò e mi farò male.

Page 330: L'Albero delle Parole

329

Vado per la mia strada.Senza paura, senza esitazioni .

Vado per la mia strada.E arriverò alla vetta.

Prima o poi.Più vicina al cielo.Toccherò le nuvole.

Vedrò volare l’aquila.Vado per la mia strada.

Solitaria e scoscesa.Tra mille pericoli.

Anche da sola.

Page 331: L'Albero delle Parole

330

VORREI ESSERE L'ESSENZA OLTRE L'APPARENZA...di Grazia Longo

Vorrei essere lanternanelle tue notti buie.Vorrei essere faronella tempesta.

Vorrei esserepioggia di emozioni

nel deserto della tua anima.Vorrei essere pausa di silenzio

nel rumore assordantee dolce musicanella tua vita.Rifugio sicuro

per la tua anima.Unica certezza

tra tutti i tuoi dubbi.Splendido sogno

nella cruda realtà.Seme che germoglia

tra le tue zolle.Acqua di fonteche ti disseti.

Fiore selvaggioche cresce tra le crepe

del tuo muro di indifferenza...Vorrei essere

il tuo orizzonte...Vorrei essere...quel che sono

oltre le tue paure...

Page 332: L'Albero delle Parole

331

GLI AUTORI

GM Willo

Nato a Firenze nel 1973, si dedica da vent’anni alla composizione narrativa, una passione che ha portato avanti in maniera del tutto autodidatta. Amante della fantasy e del gioco di ruolo, le sue opere sentono ovviamente il richiamo a quel genere. Si occupa anche di fotografia, creativitá on-line e altre tematiche. Da qualche anno gestisce svariati giornali on-line, occupandosi di musica, politica ed internet. La sua pagina www.willoworld.net é un portale per accedere a moltissimi progetti di scrittura creativa ed altre intuizioni.

Demiurgus

In passato ha effettivamente collaborato in forma anonima alla individuazione ed all’arresto di utenti indesiderati della rete… Ha messo in circolo patch per sistemi operativi, ha collaborato con il progetto FREENET (follow the white rabbit) ed altri progetti di scambio P2P e comunicazione istantanea tra utenti… nessun lavoro grafico, nessun avatar, nessuna traccia, per sua fortuna… Tra le sue prede: frodi informatiche, spam server, x-bot, pedofili, falsechatter, doppleanger, sistemi informatici specchio, honeypot illegali… Si era ritirato dalla rete alcuni anni fa… alcuni lo avevano dato per spacciato… altri che fosse semplicemente in letargo… altri ancora che era morto… L’ultimo messaggio che lasciò nel canale IRC di FREEGENERATION fu “La grande onda non potrà essere infranta…la rinascita è iniziata…”. Da qualche tempo sembra che sia tornato ad aggirarsi nei meandri della rete… Ma forse é solo un fantasma.

Giulia Riccó

Nasce a Modena nel 1981 in una giornata dei primi d’ottobre. L’autunno e il vivere in mezzo alla nebbia della “sua pianura” la

Page 333: L'Albero delle Parole

332

influenzeranno molto nel suo modo di creare “arte”. Cresce in mezzo ai libri, al teatro e alla fotografia. Sono soprattutto i primi ad attrarla molto,diventeranno per lei compagni inseparabili. “Un libro”dice “prima ti deve chiamare, lo devi annusare per gustarne a fondo l’anima, lo devi poter toccare per sentire il suo corpo e infine ti puoi immergere nella lettura”. Da più grande si cimenterà in qualche illustrazione. Le fotografie sono sperimenti di vario tipo(essendo stata traviata dal padre fotografo in tenera età).Scrive racconti spaziando dal fantasy alla vita di tutti i giorni alle favole per bambini. Dice sempre:” L’arte in generale,che sia essa pittura, fotografia o scrittura serve a creare mondi. Per lo più la uso per espellere quello che di osceno c’è in me. i mostri del nostro animo si riversano su pagine bianche, pellicole vergini o tele immacolate creando mondi che alle volte sono truci, altre volte sono dolci, altre volte sono più reali della realtà stessa.”

Charles Huxley

Per Charles Huxley il significato di una poesia non è paragonabile a quello di un brano di prosa; esso è solo una parte della comunicazione che avviene quando si legge o si ascolta un suo lavoro: l’altra parte non è verbale, ma emotiva, irrazionale… L’Amore che nutre per l’armonia è pari solo al caos che scaturisce dai suoi lati oscuri, nella sua scrittura graffiante e spietata, spesso cinica e fredda, un tuffo nell’inconscio collettivo della sua cultura, un viaggio senza ritorno verso nuovi modi di comunicare.

Fida

Fida, al secolo Franco Giovannelli, non è uno scrittore ma si diverte, da qualche anno a questa parte, a mettere nero su bianco le emozioni proprie e altrui. Segue la regola, che spera ogni giorno di aver fatto sua, per cui “lo scrittore è un guardone, un rapinatore di vite” ma anche “uno scopritore di tesori nascosti o dimenticati”. Ha iniziato, quasi per gioco, scrivendo “Desiderio” per poi dedicarsi a racconti brevi da 101 parole.

Page 334: L'Albero delle Parole

333

Marco Filipazzi

Classe ’85. Un’insana passione per film, libri e fumetti purché siano horror, fantasy o splatter. Scrittore di racconti brevi (per ora) e magari più avanti chissà. Regista di cortometraggi a tempo perso.

…E GLI AUTORI DELLA GIOSTRA DI DANTE

Gano

Gano è creatura da bar, poeta e fannullone, puttaniere e guru metropolitano. I suoi versi hanno un unico scopo ed è quello di afferrare il vero, oltre le regole di metrica e di rima. I racconti, come dice lui stesso, gli vengono dal pancreas.

Gano è un personaggio di GM Willo per La Giostra di Dante, il gioco di ruolo dei poeti e degli scrittori. Per le Edizioni Willoworld ha pubblicato il libro "Un Mondo a Gambe Aperte".

Aeribella Lastelle

Aeribella Lastelle, giovane ragazza amante della fantasy e della musica rock, é un personaggio di GM Willo per La Giostra di Dante. Per la stessa collana ha pubblicato il libro "Storie di Nuvole".

Jonathan Macini

Personaggio della Giostra e alter ego di GM Willo. Amante dell'horror e dei miti di Cthulhu, ha pubblicato i libri: "Le Rivelazioni di Giovanni Meraviglio" e "Sebastian Claw e altri racconti".

Page 335: L'Albero delle Parole

334

Tapigora

Poeta, novelliere e matematico greco vissuto più di 2300 anni fa. Sbriciolò la sua essenza dentro un espressione algebrica, sigillandola in una pergamena indirizzata ai posteri. Recentemente iniettato per sbaglio dentro la matrice, il quesito matematico ha innescato una sequela di processi di deframmentazione, riportando alla vita (ovviamente digitale) il geniale matematico.

Ancora in fase di adattamento, egli appare frequentemente in veste di pop-up, sponsorizzando per errore casinò e altri giochi legati ai numeri.

Lentamente sta prendendo familiarità con l’ambiente. La Giostra di Dante lo aiuterà a rimanere legato alla sua primordiale essenza (almeno fino al giorno in cui verrà risucchiato dal Grande Emulatore del Caso).Tapigora è un personaggio di GM Willo per La Giostra di Dante.

Page 336: L'Albero delle Parole

335

INDICE DELLE OPERE

LE STORIE

1. IL CASO KHORNER di Cainos, Huxley, Willo, Demiurgus2. AL DI LÁ DEL CAMPO di Davide Bandinelli3. VICOLO CIECO Raccontami sulle note di...4. UNA PARTITA A BILIARDO di GM Willo5. L'IMPERATORE DEL MONDO di Hermes6. DESIDERIO DI PROLE di Fida7. LA SOLUZIONE DI JESSIE "Passami la Storia"8. IL CUORE DELLA LUCERTOLA di GM Willo9. OSSESSIONE di Giulia Riccò10. LA PIETRA E LA FANCIULLA di Cainos11. IL CICLO DEL PATHOS di Thomas Kaneirzein – Demiurgus12. LA FATA DEI DENTINI di Marco Filipazzi13. IL REGNO DELLE OMBRE di Aeribella Lastelle14. CHELATNA LAKE di Davide Bandinelli15. CONDIVIDERE É REATO di GM Willo16. THE END di Giulia Riccò17. IL CICLO DI UDRIEN di GM Willo18. SPENGI LA LUCE di Jonathan Macini19. L'ULTIMA CICCA Progetto "Passami la Storia"20. SWEET LITTLE PAIN di Giulia Riccò21. LA LAMA NELLA TELA Raccontami sulle note di...22. L'URNA DEL SACRO TÈ di Aeribella Lastelle23. GIOVANNA di Giulia Riccò24. SERATA FM Progetto "Passami la Storia"25. L'UOMO DEI PUZZLE di GM Willo26. IPOCONDRIA di Jonathan Macini27. IL DIO DEI DINOSAURI di GM Willo28. LA RICERCA di Jonathan Macini29. L'UOMO VESTITO DI MARRONE di GM Willo30. GIOCO DI BIMBA di Giulia Riccò.31. L'ALTRO di Matteo Cerboneschi32. LA FORESTA VAMPIRA di GM Willo

Page 337: L'Albero delle Parole

336

33. VELDULE MISTE E LISO di Jonathan Macini34. SPARITO di Giulia Riccò35. MIO PADRE E LA LUNA di Aeribella Lastelle36. NETTURBINI di GM Willo37. INCONTRO CON UN GABINETTO GIAPPONESE G. Riccò38. LO STREGONE RIPUDIATO di GM Willo39. STELLE MARINE Progetto "L'Orfanotrofio delle Storie"40. IL PITTORE di Giulia Riccò41. UNA SOTTILE LINEA DI FUMO GM Willo e S. Cisternino42. LA RAGAZZA CIECA Progetto "L'Orfanotrofio delle Storie"43. CAMPO DI GRANO, VITA E MORTE di Giulia Riccò44. LA SINDROME DEL SENSO DI COLPA di GM Willo45. ELIZAVETA di GM Willo46. MARIONETTE di Giulia Riccò47. LA NEBULOSA DEL CANCRO di GM Willo48. LA GRANDE OCCASIONE di GM Willo49. IL RUMORE DEL TEMPO di GM Willo50. IL PRETE di Gano51. L’EREMITA di GM Willo52. LA LIBERTÁ DELL'UOMO "L'Orfanotrofio delle Storie"53. L'ANELLO di GM Willo54. LA TENZONE Raccontami sulle note di...55. BOSCO INGANNATORE Raccontami sulle note di...56. IL DIAMANTE DI PARDISIA di GM Willo57. IL PIANETA ABBANDONATO Raccontami sulle note di...58. SEBASTIAN CLAW di Jonathan Macini

LE POESIE

59. OCCHI di Charles Huxley60. FIAMMA DI CANDELA di Charles Huxley61. CARTA E PENNA di Charles Huxley62. ADAM KADMON di Demiurgus63. IL TEMPO DELLA RACCOLTA di Aeribella Lastelle64. VECCHIO GIOCATORE di GM Willo65. PARTO ANARCHICO di GM Willo66. LA FINE DEL GIOCO di GM Willo

Page 338: L'Albero delle Parole

337

67. IL RE DELLA VAGHEZZA di GM Willo68. EQUAZIONI MALDESTRE di Tapigora69. TRISTEZZA di Gano70. PIACERE, SON GANO di Gano71. PALCOSCENICO VUOTO di Jonathan Macini72. VADO PER LA MIA STRADA di Grazia Longo73. VORREI ESSERE L'ESSENZA OLTRE L'APPARENZA di Grazia Longo

Page 339: L'Albero delle Parole

338

Page 340: L'Albero delle Parole

339

RINGRAZIAMENTI

Ringrazio tutti i partecipanti ai progetti di Willoworld, ma soprattutto ringrazio la mia famiglia che, nei ritagli della mia

meravigliosa professione di mammo, continua a darmi l’opportunità di sognare.

Questo libro é stato finito di pubblicare nel maggio 2009

Page 341: L'Albero delle Parole

340