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Sociologia Economica niversità di Torino (sede di Biella) cdl Servizio Sociale (a.a.2007-2008) prof. Domenico Carbon L’impatto sul mercato del lavoro della riorganizzazione produttiva La flessibilità produttiva connessa alla produzione snella ha comportato anche una ri- organizzazione strutturale della forza lavoro e un cambiamento significativo nelle caratteristiche della domanda di lavoro, ovvero dell’insieme delle competenze richieste dalle aziende ai lavoratori Se nell’epoca d’oro del capitalismo occidentale la produzione in serie e la catena di montaggio erano riusciti ad assorbire larghe masse di lavoratori non specializzati oggi è proprio questo tipo di lavoro che sta scomparendo nelle economie avanzate Questa ristrutturazione produttiva minaccia, dunque, i lavoratori a bassa qualificazione e tutti coloro, in prevalenza giovani e donne, che non hanno acquisito le competenze pratiche necessarie in un contesto produttivo tecnologicamente avanzato A differenza del passato gli individui che si trovano in una condizione di marginalità nel mercato del lavoro, sia per le scarse competenze tecniche sia per la scarsa esperienza professionale, non rischiano soltanto di essere impiegati in lavori a basso profilo sociale e retributivo, ma di essere completamente esclusi dal mercato del lavoro

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L’impatto sul mercato del lavoro della riorganizzazione produttiva

La flessibilità produttiva connessa alla produzione snella ha comportato anche una ri-organizzazione strutturale della forza lavoro e un cambiamento significativo nelle caratteristiche della domanda di lavoro, ovvero dell’insieme delle competenze richieste dalle aziende ai lavoratori

Se nell’epoca d’oro del capitalismo occidentale la produzione in serie e la catena di montaggio erano riusciti ad assorbire larghe masse di lavoratori non specializzati oggi è proprio questo tipo di lavoro che sta scomparendo nelle economie avanzate

Questa ristrutturazione produttiva minaccia, dunque, i lavoratori a bassa qualificazione e tutti coloro, in prevalenza giovani e donne, che non hanno acquisito le competenze pratiche necessarie in un contesto produttivo tecnologicamente avanzato

A differenza del passato gli individui che si trovano in una condizione di marginalità nel mercato del lavoro, sia per le scarse competenze tecniche sia per la scarsa esperienza professionale, non rischiano soltanto di essere impiegati in lavori a basso profilo sociale e retributivo, ma di essere completamente esclusi dal mercato del lavoro

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Le caratteristiche della nuova offerta di lavoro

I problemi occupazionali contemporanei vanno considerati, però, anche in riferimento a cambiamenti che hanno riguardato l’offerta di lavoro, vale a dire le caratteristiche, le competenze e le aspettative degli individui che “vendono” la propria forza lavoro sul mercato

Mentre nella fase storica coincidente con i processi di consolidamento dell’industrializzazione, dopo la seconda guerra mondiale, il settore industriale ha assorbito generazioni poco numerose (quelle nate intorno agli anni trenta) dalla fine degli anni settanta il mercato del lavoro si è trovato a dover occupare le coorti del baby-boom dei primi anni sessanta

A questa crescita della popolazione attiva va aggiunta, inoltre, una crescita costante dell’offerta di lavoro femminile. Alla base di questo dato riscontriamo un processo molto complesso caratterizzato da molti fattori. L’aumento dei livelli di scolarizzazione femminili, la crisi della cultura della maschilità come risultato evidente dei movimenti sociali femministi, la diffusione dei servizi pubblici per l’infanzia, le possibilità occupazionali offerti nella pubblica amministrazione, la “professionalizzazione” di molte attività tradizionalmente svolte dalle donne

In tutti i paesi occidentali il mercato del lavoro contemporaneo deve, quindi, confrontarsi con un’offerta di lavoro maggiore rispetto a quella della fase di industrializzazione e, soprattutto, con un offerta di lavoro sempre più diversificata sia in termini di composizione sia in termini di aspettative.

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Le destrutturazione delle biografie lavorative

La diffusione di opportunità occupazionali nel settore dei servizi e la riorganizzazione produttiva in ambito industriale hanno contribuito ad una “destrutturazione delle biografie lavorative”. La flessibilità occupazionale in questi settori ha contribuito alla progressiva perdita di rilevanza dell’’occupazione stabile all’interno della stessa azienda e all’affermazione di una carriera lavorativa frammentata contraddistinta da un complesso intreccio tra momenti di formazione, occupazione e disoccupazione

In tutti i paesi occidentali la situazione del mercato del lavoro è andata caratterizzandosi, nell’ultimo ventennio, quindi, da un’acutizzarsi della segmentazione del mercato del lavoro: la fascia protetta di lavoratori con una occupazione stabile e protetta sindacalmente si è ridotta in maniera significativa, mentre il segmento di lavoratori saltuari e precari senza protezione sindacale è cresciuto considerevolmente

Quando parliamo di problemi occupazionali nella società contemporanea ci riferiamo, dunque, prevalentemente a quelle situazioni di precarietà in assenza di una prospettiva di lavoro stabile. La perdita o mancanza di lavoro, oggi, non è più un evento eccezionale e raro all’interno di una biografia lavorativa, ma diventa una condizione strutturale del mercato del lavoro.

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I “nuovi” rischi sociali nel mercato del lavoro

L’affermazione di uno scenario lavorativo come quello descritto, determina l’emergere di specifici rischi sociali diversi dal passato. C’è in primo luogo un rischio di carattere individuale, che fa riferimento alla difficoltà del singolo di far fronte all’incertezza della propria posizione lavorativa.

In situazioni di benessere diffuso l’incertezza occupazionale può dare luogo, come avviene spesso ad esempio in Italia, al prolungamento della permanenza dei giovani nella famiglia d’origine

In altri casi, invece, l’instabilità occupazionale può condurre a forme croniche di deprivazione socio-economica contraddistinte dall’impossibilità di re-inserimento lavorativo con il conseguente rischio di creare delle vere e proprie trappole di povertà.

Il mutato scenario occupazionale crea problemi, anche al funzionamento del welfare state. Molti dei programmi di protezione sociale si basano sui meccanismi previdenziali che sono stati costruiti e si sono consolidati in riferimento a carriere lavorative stabili e senza interruzioni. Il venir meno di tali requisiti rende necessario, quindi, ri-disegnare l’intero assetto dei programmi di previdenza sociale e il sistema di protezione basato sulle assicurazioni per i lavoratori e le lavoratrici

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L’impatto della Globalizzazione

Un altro elemento che incide sul funzionamento e sulla sostenibilità istituzionale del welfare state deriva dai processi di globalizzazione dell’economia

Tra i tanti effetti prodotti dalla globalizzazione c’è, infatti, anche quello di spostamento del lavoro e del capitale dal luogo di origine dell’impresa ad un nuovo territorio in cui produrre o da cui acquisire forniture

Nelle attuali condizioni del mercato globale le imprese, cioè, possono produrre in un paese, pagare le tasse in un altro e richiedere contributi statali in forma di interventi infrastrutturali in un terzo

Tali mutamenti influiscono negativamente sui sistemi di protezione sociale. In molti casi, infatti, l’ammontare delle risorse derivanti dal mercato del lavoro e dai profitti delle imprese, che lo Stato nazionale potrebbe introiettare tramite il sistema fiscale, rischia di sfuggire alla fiscalità pubblica a causa della frammentazione dei processi produttivi.

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I cambiamenti demografici

I cambiamenti demografici rappresentano un’altra grande sfida allo stato sociale. Nei paesi ad economia di mercato, e nell’Europa occidentale in particolare, i principali fenomeni che contraddistinguono questi cambiamenti sono

a) l’invecchiamento della popolazione

b) il basso livello di natalità

c) l’affermazione di nuovi modelli di convivenza

d) i flussi migratori

Le cause – come le conseguenze cui danno luogo – sono di varia natura. In primo luogo, si tratta di dinamiche culturali legate al diverso ruolo acquisito dalla donna nella società occidentale nel corso del XX secolo. In secondo luogo si tratta anche di dinamiche socio-economiche che hanno avuto un impatto significativo sull’organizzazione della vita quotidiana.

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La popolazione anziana (1)

Quando si parla di invecchiamento della popolazione si fa riferimento ad un fenomeno demografico che è direttamente collegato all’aumento del benessere nelle società ad economia di mercato. Il fenomeno è l’esito sia dell’allungamento della speranza di vita, sia della riduzione del tasso di fertilità al di sotto del cosiddetto “tasso di sostituzione”, che è il livello di riproduzione che consente ai nuovi nati di assicurare il ricambio generazionale

L’insieme di queste due tendenze ha determinato un aumento costante dell’indice di dipendenza della popolazione anziana, vale a dire del rapporto tra popolazione con un età superiore a 65 anni e la popolazione in età lavorativa compresa tra 15 e 64 anni.Esso è, dunque, un indicatore sociale del disequilibrio generazionale tra la popolazione attiva nel mercato del lavoro e coloro che, invece, hanno accesso ad un reddito quasi esclusivamente attraverso i meccanismi redistributivi dei sistemi pensionistici.

Nel corso degli anni novanta tale indice è aumentato di quasi il 3% in Europa, passando dal 21,6% del 1990 al 24,3% del 2000 (in Italia negli stessi anni l’indice di dipendenza della popolazione anziana è passato dal 21,5% al 26,6%, in Germania dal 21,6% al 23,9%)

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La popolazione anziana (2)

Secondo gli attuali tassi di invecchiamento della popolazione è stato calcolato che entro il 2020 l’indice di dipendenza delle persone anziane in Europa aumenterà del 50% a cui corrisponderà un aumento della spesa sociale compresa tra il 5% ed 7% del PIL in ciascun paese

Tendenze demografiche di questo tipo impongono una riflessione sulle conseguenze, e sui diversi (dis-)equilibri, che si creano nel rapporto tra peso numerico delle generazioni e sostenibilità del welfare state secondo il modello redistributivo che si è consolidato nella seconda metà del secolo scorso

L’aumento degli ultrasessantenni ha un impatto significativo, in primo luogo, sui servizi sanitari che sono chiamati a far fronte alle esigenze di una popolazione che è più esposta alle malattie e ai rischi di non autosufficienza

L’ambito più problematico derivante dal processo di invecchiamento della popolazione riguarda, però, il funzionamento dei meccanismi di previdenza sociale e, in primo luogo, dei sistemi pensionistici. Nei paesi europei oggi si registra un rapporto di circa 30 pensionati ogni 100 persone in età lavorativa, ma con gli attuali parametri demografici questo rapporto sarà di 70 a 100 nel 2040 e raggiungerà nello stesso anno un rapporto di 100 a 100 in paesi come l’Italia e la Spagna nei quali il processo di invecchiamento della popolazione è maggiormente accentuato

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L’impatto dell’invecchiamento della popolazione sul welfare state

In una società futura, caratterizzata da una piramide rovesciata della popolazione in cui una piccola base – la popolazione attiva nel mercato del lavoro – è chiamata a reggere il peso di una fascia di popolazione molto più estesa – la popolazione inattiva formata prevalentemente da anziani – i meccanismi di finanziamento della spesa pensionistica dovranno essere necessariamente ripensati

Di certo non sarà più sostenibile a lungo il “sistema a ripartizione” in cui, cioè, i contributi versati dai lavoratori vengono immediatamente utilizzati per finanziare le prestazioni previdenziali. Progressivamente, quindi, tutti i paesi saranno chiamati ad adottare un “sistema a capitalizzazione”della spesa pensionistica, in cui i contributi del singolo lavoratore dovranno essere capitalizzati in un fondo personale in grado di garantirgli un reddito adeguato dopo il ritiro dal mercato del lavoro

Un altro aspetto centrale del problema, su cui sono chiamati ad intervenire tutti i piani di riforma dei sistemi pensionistici, riguarda l’età minima per il pensionamento. L’aumento delle aspettative di vita e l’ingresso ritardato, rispetto al passato, nel mercato del lavoro impongono, infatti, di posticipare l’età del pensionamento per riequilibrare un sistema che altrimenti rischia di dovere redistribuire ai pensionati molto più di quanto hanno effettivamente versato in contributi previdenziali

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Nuovi modelli familiari

Le trasformazioni “al femminile” nel mercato del lavoro avvenute a partire dagli anni ’60 in un clima culturale che ha visto, per la prima volta, le donne divenire un soggetto autonomo portatore di specifici esigenze, diritti e libertà, hanno contribuito a mettere in crisi il modello “tradizionale” di famiglia basata sul capofamiglia maschio e l’assetto di welfare che su di esso si basava

Questi cambiamenti culturali sono stati accompagnati, infatti, da una serie di trasformazioni nei modelli di convivenza che vanno dall’aumento dell’instabilità coniugale alla diffusione delle convivenze more uxorio, dall’aumento delle nascite fuori del matrimonio fino all’emergere di quelle che vengono definite le “nuove famiglie

Monogenitoriali: composte da un solo genitore e da uno o più figli

Unipersonali: composte da un solo individuo in seguito al divorzio o alla vedovanza

Single: composte da un solo individuo mai sposato,

Ricostruite: composte da una nuova coppia in cui almeno uno dei partner ha una precedente esperienza coniugale conclusa con il divorzio o con la vedovanza

Di fatto : composte da coppie conviventi in assenza di un atto amministrativo formale.

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Nuovi modelli familiari ed esigenze di conciliazione

Al pari delle carriere lavorative, anche le storie familiari negli ultimi 30-40 anni sono divenute, quindi, meno durature e sempre più instabili. Nel 2005 nei paesi europei un figlio su quattro (25,9%) nasce al di fuori del matrimonio (il 45% in Danimarca, il 28% in Germania, il 14,5% in Italia ed il 42% nel Regno Unito) e circa quattro matrimoni su 10 (41,7%) si concludono con il divorzio (il 38% in Danimarca, il 44% in Germania, il 13% in Italia ed il 53% nel Regno Unito)

Le conseguenze di questi cambiamenti configurano nuove sfide per i sistemi di welfare che richiedono la predisposizione di politiche e servizi in grado di agevolare la conciliazione degli impegni che gli individui dedicano ad attività diverse.

È il caso, soprattutto, delle madri lavoratrici che in una determinata fase del ciclo di vita si trovano a dover assolvere compiti di cura sia verso i figli in minore età, sia verso i genitori ormai anziani, conciliando questi compiti con l’orario del lavoro per il mercato .

Queste politiche richiedono un assetto nuovo del welfare state poiché presuppongono il coordinamento tra diversi ambiti di intervento: da quelli riguardanti i servizi per l’infanzia a quelli relativi ai tempi ed ai contratti di lavoro dai servizi di assistenza diretta agli anziani agli assegni di cura a sostegno delle famiglie che scelgono la domiciliarità nella cura dei parenti. Le politiche di conciliazione necessitano di risposte complesse e flessibili inconciliabili con il modello organizzativo-burocratico tipico del welfare state

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L’impatto dell’immigrazione (1)

L’immigrazione straniera rappresenta l’altro importante fenomeno che ha profondamente trasformato la struttura demografica di molti paesi ad economia di mercato. In Europa, i fenomeni migratori hanno conosciuto diverse fasi e sono state affrontati con il ricorso a politiche fortemente differenti tra loro.

Nonostante tali differenze le caratteristiche assunte dai fenomeni migratori in questa nuova fase pongono una serie di problemi comuni a tutti i paesi che si trovano ad accogliere le popolazioni straniere

Si tratta, anzitutto, di problemi legati all’immigrazione clandestina che caratterizza fortemente questa fase. Questa caratterizzazione pone un primo importante dilemma per gli istituti di protezione sociale. Gli immigrati clandestini, proprio per la loro condizione di illegalità, sono soggetti fortemente vulnerabili sul mercato del lavoro e, conseguentemente, più esposti a rischi di povertà estrema e di esclusione sociale

Tuttavia, lo stato sociale ha una scarsa capacità di intervento nei loro confronti proprio perché l’impianto di protezione è stato costruito e si è consolidato su specifici criteri di appartenenza (pagamento di contributi, cittadinanza, residenza, ecc.) che, per definizione, queste persone non possono rivendicare

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L’impatto dell’immigrazione (2)

Della protezione sociale degli immigrati irregolari sono chiamate ad occuparsi, in maniera sempre più impegnativa, altre istituzioni operanti nei sistemi di welfare: le associazioni non profit del terzo settore e le comunità etniche a cui gli immigrati appartengono

Anche nel caso di immigrati regolari, però, le sfide poste ai sistemi di welfare non sono meno importanti. Dati comparati dimostrano, infatti, che in tutti i paesi europei, ma non solo, le differenze etniche rappresentano un aspetto centrale nella formazione e nel consolidamento delle disuguaglianze sociali.

Agli immigrati vengono destinate, infatti, le posizioni lavorative meno sicure e meno retribuite ed il loro tasso di disoccupazione è sempre più elevato di quello della popolazione locale

Le questioni poste dai flussi migratori rimandano, quindi, alla possibilità di porre in essere politiche in grado di favorire la convivenza sociale ed il controllo dei conflitti attraverso il riconoscimento e la gestione delle differenze nonché la conciliazione della diversità culturale

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Una nuova questione sociale: la vulnerabilità sociale

I grandi cambiamenti dovuti alla nuova organizzazione del lavoro e ai mutamenti demografici sopra descritti, hanno profondamente mutato la natura dei rischi sociali. Oggi è la destandardizzazione dei percorsi biografici individuali a produrre le nuove forme di vulnerabilità rendendo “il rischio” una condizione strutturale in ciascun ambito della vita sociale (Beck, 2003)

Rispetto al passato, l’individuo è oggi più vulnerabile non solo per un deficit di risorse, ma anche perché è esposto a processi di disgregazione sociale che raggiungono un livello critico, ovvero mettono a repentaglio la stabilità dei modelli di organizzazione della vita quotidiana.

La vulnerabilità sociale si configura, quindi, come una situazione in cui l’autonomia e la capacità di autodeterminazione dei soggetti sono permanentemente minacciate dall’inserimento instabile dentro i principali sistemi di integrazione sociale e di distribuzione delle risorse

Se nella società moderna il centro della questione sociale era rappresentato dalla disuguaglianza, nella società postmoderna la questione sociale si riflette prevalentemente nel problema della vulnerabilità sociale e nella sua multidimensionalità

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L’esclusione sociale come rischio emergente

Secondo Castel l’esclusione sociale inizia sempre da una condizione di vulnerabilità sociale, caratterizzata da un grado variabile di instabilità, che combina precarietà occupazionale e fragilità delle reti sociali di supporto

Quando queste forme di deprivazione sono ormai compiute, si è cioè esclusi dal lavoro e dalle reti di reciprocità, si entra in quella che egli definisce dèsafiliation, una sfera sociale nella quale ci si ritrova impossibilitati a raggiungere i principali canali di accesso alle risorse ed ai rapporti sociali.

Perché possa parlarsi di esclusione sociale è necessario, quindi, che si verifichi un passaggio dalla sfera della vulnerabilità – nella quale la scarsità delle risorse è una caratteristica significativa – alla sfera dell’esclusione – nella quale sono compromesse le possibilità di partecipare ai meccanismi di distribuzione delle ricompense e delle relazioni sociali.

È in questo contesto che, a partire dagli anni ottanta, le politiche contro l’esclusione sociale hanno assunto un’importanza centrale in tutti i paesi, soprattutto quelli europei.

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Le risposte del welfare state

I cambiamenti illustrati sul piano economico-lavorativo e su quello demografico-familiare hanno reso molte delle politiche sociali inadeguate nel riuscire a contenere la spesa sociale e rispondere adeguatamente ai nuovi bisogni della popolazione. In risposta a tale inadeguatezza, da oltre un decennio si assiste, dunque, ad un processo di cambiamento, per molti aspetti ancora in atto, che sta ridisegnando gli schemi di intervento sociale soprattutto in Europa.

Tale cambiamento si muove lungo tre direttrici principali che risultano comuni a tutti i paesi e riguardano:

1) il riassetto territoriale delle politiche e dei servizi sociali

2) l’esternalizzazione di una serie di funzioni e servizi da parte dello Stato

Scopo di questi cambiamenti è la progressiva implementazione di piani di intervento volti a contrastare le condizioni di disagio socio-economico, adottando contemporaneamente misure volte a contrastare il rischio di esclusione sociale.

3) l’introduzione di politiche volte a diminuire la “dipendenza da welfare” per i cittadini

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Una prima risposta: l’affermazione del principio di sussidiarietà

L’aumento nella domanda di protezione sociale e la sua limitata sostenibilità finanziaria hanno intaccato l’equilibrio sul quale si basavano i sistemi di welfare.Questa situazione ha determinato importanti riforme caratterizzate da una riorganizzazione territoriale delle politiche sociali e dall’ingresso di nuovi attori nella programmazione e gestione dei servizi.

Il processo di riorganizzazione è stato realizzato prevalentemente all’insegna del principio di sussidiarietà articolato in due tipi:

La sussidiarietà verticale che definisce i criteri di assegnazione delle funzioni ai diversi livelli territoriali di governo (rescaling)

La sussidiarietà orizzontale che rimanda a una nuova ripartizione delle competenze fra ambiti amministrativi pubblici ed attori privati, attribuendo così un nuovo ruolo anche alla società civile, alle famiglie, alle associazioni, alla comunità (governance)

La retorica sottostante l’affermazione di questo principio è che la società civile, grazie alla prossimità territoriale e le dinamiche relazionali ad essa connesse, abbia un ruolo importante e complementare rispetto alle misure di protezione sociale garantite dallo Stato.

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Il rescaling

Un elemento che ha caratterizzato le politiche di welfare sviluppate tra la fine del secondo dopoguerra e la metà degli anni ottanta, è stato la gestione collettiva dei rischi individuali a livello nazionale.

L’emergere di nuovi profili di rischio e di nuove domande sociali – sempre più frammentate e complesse da gestire anche territorialmente – hanno reso le politiche nazionali, che per loro natura sono standardizzate, inadeguate.

Le riforme degli ultimi quindici anni tendono, per questo motivo, ad affidare al welfare locale non solo le responsabilità di gestione delle politiche contro rischi sociali ma anche la definizione dei contenuti e dei criteri di accesso alle misure di sostegno

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La governance

Il processo di riorganizzazione territoriale delle politiche sociali va letto come complementare ai processi di coinvolgimento degli attori privati nelle funzioni tradizionalmente svolte dallo Stato. Come abbiamo visto precedentemente negli ultimi decenni si sono consolidati specifici modelli di governance che strutturano i rapporti tra i diversi attori coinvolti nella produzione di welfare. Alla base della diffusione di tali modelli c’è una duplice convinzione:

da una parte l’idea che l’efficienza e l’efficacia di una politica o di un servizio sociale aumentino nel momento in cui diverse competenza vengono messe insieme

dall’altra l’idea che il coinvolgimento degli attori privati sia un metodo utile a garantire la partecipazione attiva della cittadinanza ai processi di elaborazione e attuazione delle scelte collettive.

La partecipazione di una pluralità di attori e di interessi dovrebbe garantire, quindi, una legittimazione diversa delle politiche sociali e delle misure atte a soddisfare i bisogni della popolazione. Tuttavia, le potenzialità espresse dai processi di governance vanno ricondotte alle dinamiche regolative presenti in ciascun modello che, come evidenziato in precedenza, possono dare luogo ad esisti significativamente differenziati.

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Le politiche di attivazione

Accanto al rescaling e alla governance, la terza via della riforma del welfare state riguarda la progressiva estensione delle politiche di attivazione. Si tratta, in sintesi, di politiche volte a ridurre il trasferimento passivo di risorse, spesso monetarie, e favorire piani di intervento integrati in cui il trasferimento di risorse è accompagnato anche da servizi di supporto individuali e collettivi con lo scopo esplicito di ridurre la dipendenza degli individui dai servizi di welfare pubblici.

Le politiche di attivazione hanno due obiettivi primari:

a) ridurre i costi economici e sociali della disoccupazione e della povertà, limitando la cronicizzazione delle condizioni di bisogno fino all’esclusione sociale;

b) migliorare le capacità di reinserimento sociale ed occupazionale degli individui attraverso piani di intervento ad hoc volti ad accrescere il capitale umano e sociale dei soggetti “assistiti”

Nell’ambito delle politiche assistenziali tutte le riforme attuate nei paesi europei dagli anni ’90 in poi fanno riferimento all’esperienza del Revenue Minimum d’Insertion (RMI), introdotto in Francia già nel 1988. Tuttavia anche in questo caso emergono delle differenze significative tra i diversi contesti in cui questo nuovo principio è stato applicato

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Una risposta differenziata

L’implementazione di questi cambiamenti avviene all’interno di un contesto regolativo che è diverso da paese a paese e, quindi, gli esiti delle nuove politiche sociali risultano, in molti casi, molto divergenti

Questa divergenza si spiega considerando che i processi di riforma si svolgono all’interno di contesti istituzionali che hanno avuto uno sviluppo storico differenziato dando luogo a diversi sistemi di welfare.

Le caratteristiche istituzionali e regolative di questi sistemi pre-strutturano, quindi, in maniera differenziata gli esiti dei cambiamenti finendo, in molti casi, col riprodurre le stesse logiche redistributive che ne hanno caratterizzato la nascita ed il consolidamento istituzionale

Per questo motivo l’analisi dei cambiamenti in atto nei sistemi di welfare deve tenere conto non soltanto delle trasformazioni sociali, demografiche ed economiche in atto nella società contemporanea, ma anche dei meccanismi di regolazione sociale specifici di ogni sistema.

La traduzione dei principi ispiratori delle riforme del welfare state comporta, quindi, un complesso processo di de-contestualizzazione e ri-contestualizzazione delle politiche in relazione alle specificità istituzionali dei singoli sistemi determinando, di fatto, un impatto differenziato nell’implementazione delle riforme stesse.

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La risposta del sistema di welfare liberale

Nel modello liberale, in particolare nel Regno Unito, il processo di riforma del welfare state ha riguardato in maniera specifica le politiche del lavoro e quelle assistenziali. In tale contesto un forte accento è stato posto – soprattutto da parte dei governi conservatori degli anni ottanta e dei primi anni novanta – sull’istituzionalizzazione di politiche di attivazione fortemente basate sulla contrattualità tra utente e servizi sociali.

Sul piano della governance locale, si osserva la presenza di diversi attori – in particolare del settore privato anche for profit – che garantiscono un’ampia gamma di opportunità formative e occupazionali, contribuendo all’affermazione di un modello ibrido tra il modello corporativo e quello pluralista

In tale modello l’efficienza del sistema continua ad essere ricercata attraverso un accesso ai servizi regolato da criteri di verifica dello stato di bisogno (il means test), e una responsabilizzazione crescente degli utenti per i quali le possibilità di ottenimento di un servizio sono subordinate alla sottoscrizione di un contratto che li obbliga ad impegnarsi attivamente nel superamento della loro condizione di bisogno

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La risposta del sistema di welfare socialdemocratico

Anche in tale contesto l’erogazione di molti servizi è stata subordinata all’obbligo di attivazione da parte della persona in condizione di bisogno. A differenza del sistema liberale tuttavia, l’introduzione di tali misure è stata accompagnata da piani di attivazione più individualizzati in cui è prevista anche la partecipazione degli utenti nella definizione dei programmi di re-inserimento. Tali programmi sono volti, prevalentemente, a migliorare le competenze degli utenti e, quindi, delle risorse individuali da impegnare nella ricerca di una nuova occupazione

L’apertura nei confronti degli attori privati resta, piuttosto limitata e, seppure in crescita negli ultimi anni, permane ancora un forte ruolo di indirizzo e coordinamento da parte delle istituzioni statali

La co-partecipazione ai piani di assistenza sociale si svolge prevalentemente tra attori pubblici attraverso il consolidamento di molte forme di collaborazione e coordinamento tra agenzie di assistenza sociale ed uffici del lavoro, delineando così un modello di governance di tipo manageriale caratterizzato da elementi partecipativi sempre più importanti.

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La risposta del sistema di welfare conservatore/corporativo

Il sistema di welfare corporativo ha seguito, nel processo di riforma dello stato sociale, un percorso molto simile a quello di paesi socialdemocratici anche se il grado di implementazione delle politiche di attivazione risente, rispetto al modello scandinavo, di una minore tradizione nella loro programmazione

Ciò ha provocato in alcuni casi una difficoltà nella gestione finanziaria del nuovo assetto istituzionale, ed un forte impegno programmatico nell’adozione di misure incentivanti l’attivazione e l’arricchimento delle risorse individuali e misure volte a prevenire pratiche opportunistichenell’accesso ai servizi sociali

Particolare attenzione è stata posta, soprattutto in Germania grazie alla forte tradizione federalista, sulla possibilità di garantire alla pratiche di intervento un elevato grado di adattamento alle contingenze ed ai bisogni locali. Si spiega così il coinvolgimento attivo del terzo settore, soprattutto delle associazioni di volontariato, nella programmazione degli interventi di assistenza in ambito locale, prospettando la prevalenza di un modello di governance di tipo corporativo

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La risposta del sistema di welfare familistico (1)

Anche nel modello familistico, caratterizzato da una forte frammentarietà delle politiche sociali, sono stati introdotti recentemente piani di intervento integrati fondati su una logica di attivazione. Le misure introdotte negli anni novanta in Spagna e Portogallo hanno riproposto un assetto funzionale ed organizzativo chiaramente ispirato al disegno istituzionale dell’RMI francese.L’Italia, pur avendo sperimentato tra il 1998 ed il 2002 un proprio Reddito Minimo di Inserimento rimane, infatti, insieme alla Grecia l’unico paese dell’Unione (EU-15) a non aver adottato un sistema assistenziale attivo

L’implementazione di questi programmi, dove è avvenuta, si è giocata su un doppio binario di coordinamento territoriale:Da una parte si è cercato di porre fine alla frammentazione dei piani di intervento che ha sempre rappresentato uno dei principali problemi di equità all’interno degli schemi di welfare state dei paesi appartenenti a questo modello

Dall’altra le agenzie di welfare locale sono state dotate di maggiori poteri decisionali per garantire, comunque, un adattamento degli interventi assistenziali ai bisogni specifici delle comunità locali.

Un esempio di questo cambiamento è la riforma avviata in Italia con la legge 328/00 che avrebbe dovuto garantire, attraverso un processo di riorganizzazione territoriale delle politiche sociali, la piena affermazione di un sistema di integrazione tra le diverse agenzie di welfare. Tuttavia gran parte di questa legge è rimasta, ad oggi, poco applicata

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La risposta del sistema di welfare familistico (2)

Per quanto riguarda i processi di governance il modello familistico denota un’evidente frammentarietà nei processi di partecipazione dei diversi attori. Negli ultimi anni si è assistito ad una forte apertura al privato sociale e, in particolare, alle organizzazioni non profit e alle associazioni di volontariato.

Tuttavia, le relazioni tra questi attori e le agenzie pubbliche variano fortemente a livello locale, spaziando da modelli clientelari e populisti a forme più strutturate di governance corporativa o manageriale a seconda del contesto territoriale sub-nazionale in cui hanno luogo.