L’immagine del nemico nei conflitti internazionali...serba (anche se erano la maggioranza nella...

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L’immagine del nemico nei conflii internazionali “Niente avvicina le persone più velocemente e intimamente – per quanto in maniera precaria e limitata nel tempo – della consapevolezza di condividere un nemico” (Shafak, La bastarda di Istanbul) 11/2001 Peshawar, Pakistan - Manifesto di Osama Bin Laden in una edicola del centro - © L. Senigallesi / Ag. Sintesi Stefano Cera N ell’antica Grecia ci si riferiva alla violenza orga- nizzata e collettiva con due termini diversi: stasis (conflitto fra gruppi in contrapposizione di interes- si, da regolare attraverso una prova di forza) e polemos (guerra totale senza norme né limiti contro il barbaro, lo straniero, “l’altro”) 1 . I due concetti erano ben conosciuti anche nell’antica Roma e nel mondo cristiano. Nel corso dei secoli nella Comunità Internazionale gli strumenti per la ricomposizione dei conflitti si sviluppano con riferimento soprattutto alla prima tipologia (stasis); un esempio è rap- presentato dal conflitto tra Gran Bretagna e Argentina per le Falklands-Malvinas dei primi anni ’80, in cui, nonostan- te il numero di vittime, i due Paesi non volevano il totale schiacciamento dell’avversario. Nell’ultimo periodo invece il quadro è cambiato e il conflitto-stasis non costituisce la regola ma l’eccezione; nel contesto internazionale assi- stiamo infatti a numerosi esempi di conflitti-polemos, in cui, a differenza del passato, il “nemico” da distruggere non è più il “barbaro”, ma le persone vicine, che condividono per es. uno stesso territorio (dal Ruanda all’ex-Jugoslavia, dal Darfur alla Repubblica Democratica del Congo, da Timor Est alla Cecenia, tanto per fare alcuni esempi) e 41 n. 2 - 2009 Informazioni della Difesa Contributo di pensiero 1 “Secondo Platone, mentre nel secondo caso è legittima la distruzione delle case e dei campi del nemico – nonché la sua riduzione in schiavitù – nel primo i contendenti devono condurre il conflitto ‘considerandosi come destinati a riconciliarsi e non a farsi la guerra in perpetuo’” (Platone, Repubblica, l. v, §§ 1135-1205, Rizzoli, Milano, 1992, p. 190 e sgg., in Toscano, Il volto del nemico, Guerini e Associati, Milano, 2000, p. 135).

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L’immagine del nemico nei conflitti internazionali“Niente avvicina le persone più velocemente e intimamente – per quanto in maniera precaria e limitata nel tempo – della consapevolezza di condividere un nemico” (Shafak, La bastarda di Istanbul)

11/2001 Peshawar, Pakistan - Manifesto di Osama Bin Laden in una edicola del centro - © L. Senigallesi / Ag. SintesiStefano Cera

Nell’antica Grecia ci si riferiva alla violenza orga-nizzata e collettiva con due termini diversi: stasis (conflitto fra gruppi in contrapposizione di interes-

si, da regolare attraverso una prova di forza) e polemos (guerra totale senza norme né limiti contro il barbaro, lo straniero, “l’altro”)1. I due concetti erano ben conosciuti anche nell’antica Roma e nel mondo cristiano. Nel corso dei secoli nella Comunità Internazionale gli strumenti per la ricomposizione dei conflitti si sviluppano con riferimento soprattutto alla prima tipologia (stasis); un esempio è rap-presentato dal conflitto tra Gran Bretagna e Argentina per

le Falklands-Malvinas dei primi anni ’80, in cui, nonostan-te il numero di vittime, i due Paesi non volevano il totale schiacciamento dell’avversario. Nell’ultimo periodo invece il quadro è cambiato e il conflitto-stasis non costituisce la regola ma l’eccezione; nel contesto internazionale assi-stiamo infatti a numerosi esempi di conflitti-polemos, in cui, a differenza del passato, il “nemico” da distruggere non è più il “barbaro”, ma le persone vicine, che condividono per es. uno stesso territorio (dal Ruanda all’ex-Jugoslavia, dal Darfur alla Repubblica Democratica del Congo, da Timor Est alla Cecenia, tanto per fare alcuni esempi) e

41n. 2 - 2009Informazioni della Difesa

Contributo di pensiero

1“Secondo Platone, mentre nel secondo caso è legittima la distruzione delle case e dei campi del nemico – nonché la sua riduzione in schiavitù – nel primo i contendenti devono condurre il conflitto ‘considerandosi come destinati a riconciliarsi e non a farsi la guerra in perpetuo’” (Platone, Repubblica, l. v, §§ 1135-1205, Rizzoli, Milano, 1992, p. 190 e sgg., in Toscano, Il volto del nemico, Guerini e Associati, Milano, 2000, p. 135).

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sono identificate come una vera e propria minaccia per la propria sicurezza e identità. Il vicino quindi deve essere cacciato con la forza o eliminato fisicamente, senza compromessi o spazi per la coesistenza reci-proca. Si assiste così a una modifica dell’immagine “dell’altro”, che, nella visione collettiva di un gruppo, da interlocutore nella controversia diventa dapprima “antagonista”, successivamente “avversario” e infine “nemico” in una escalation2 che porta inevitabilmen-te allo scontro. Una sua efficace rappresentazione è mostrata nel film-documentario dell’antropologa nor-vegese Tone Bringa We are all neighbours (1993); il film, ambientato in Bosnia subito dopo la dissoluzione dell’ex-Jugoslavia, mostra l’evoluzione dei rapporti tra gli abitanti di un villaggio (croati e musulmani), da una convivenza pacifica a un conflitto dapprima latente e poi sempre più aperto. Quali sono i meccanismi psicologici che intervengono e che determinano questo passaggio? Quali le logiche emotive e le rappresentazioni collettive del “nemico”, che si sviluppano all’interno dei gruppi nelle situazioni di conflitto? E infine quali, tra gli elementi che carat-terizzano l’escalation contribuiscono ad aumentarne la violenza e l’intensità nelle relazioni tra i gruppi? A queste domande cercheremo di dare una risposta nel-le pagine seguenti, mettendo in evidenza le “soglie” del passaggio, graduale ma inesorabile, che nelle percezioni collettive di un gruppo porta alla creazione

“dell’immagine” del nemico.

La “dinamica” delle percezioniLe percezioni rappresentano il nostro “filtro soggettivo”, sulla base del quale conosciamo il mondo e interpretiamo fatti ed eventi in relazione a un contesto di riferimento. Se-condo un proverbio russo, le persone guardano al mondo come se stessero sul campanile del proprio villaggio; ciò significa che ciascuno di noi tende a interpretare le cose secondo la propria esperienza, il proprio vissuto e quello che “sente” più vicino a sé. In pratica, le impressioni, sen-sazioni e immagini che i singoli individui o gruppi hanno su una determinata realtà “contano” almeno quanto la realtà stessa. Così, prima della fine degli anni ’90, mentre i serbi consideravano il Kosovo come parte integrante della Ser-bia e gli albanesi kosovari solo una minoranza “nazionale” serba (anche se erano la maggioranza nella regione), gli albanesi, al contrario, consideravano una minoranza “na-zionale” i serbi del Kosovo. Diverse percezioni = diverse realtà. Per questo motivo, nelle controversie tra gruppi, l’esistenza di una reciproca percezione di ostilità suscita spesso comportamenti che tendono ad autoalimentarsi secondo le dinamiche dell’escalation, accrescendo il cli-ma di sfiducia tra le parti. La percezione dell’altro diventa, in maniera progressiva, sempre più negativa e determina processi il cui risultato è l’identificazione della specifica persona solo in termini di gruppo di appartenenza, secon-do una generalizzazione che nega la diversità delle perso-ne concrete, sostituendo a questa l’immagine astratta del nemico. Le fasi escalative della dinamica delle percezioni, in cui si concretizza la rappresentazione dell’immagine del nemico, sono:

Figura 1: La dinamica delle percezioni3

Vediamo le fasi in dettaglio:

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Daniel Craig in una scena del film Defiance - © Sintesi

2 “Termine attraverso il quale il conflitto cresce rispetto a due elementi significativi: l’intensità (in termini di risorse materiali ed emozionali investite dalle parti e di durata nel tempo) e la violenza” (Cera, Le sfide della diplomazia internazionale, LED edizioni, Milano, 2006, p. 23).

3 “Adattata da Arielli-Scotto, La guerra del Kosovo, Editori Riuniti, Bologna, 1999, p. 23.

Costruzione dell’identità

(“noi”)

Noi “contro” gli altri

Demonizzazione dell’altro

GeneralizzazioneSpariscono

le posizioni moderate

Il nemico ha progetti precisi

“contro” di noi

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La costruzione del “noi”Nella prima fase all’interno dei diversi schieramenti si assi-ste alla costruzione di una precisa identità; il conflitto non nasce dall’identità in sé, ma da ciò che alcuni hanno definito “identità narcisistica”, la cui affermazione e difesa costitui-sce l’anima del nazionalismo, tribalismo e etnicismo4. Alla radice dell’identità di gruppo c’è spesso una costruzione “artificiale”, di carattere intellettuale, funzionale a una visione politica relativa a uno specifico contesto in un determinato momento storico (es. l’ascesa al potere di Slobodan Milose-vic in Serbia nel quadro della dissoluzione della Jugosla-via). In questo l’elemento religioso, la lingua, la condivisione di un territorio, di costumi e tradizioni sono importanti, ma non sufficienti per costruire l’identità di un gruppo. Infatti, se guardiamo ad alcuni fra i tradizionali elementi di definizione dell’identità, per es. la religione, vediamo che se questa è presente in alcuni conflitti (es. in Kosovo, dove gli albanesi sono musulmani e i serbi ortodossi), per altri invece non c’è (es. in Ruanda, dove hutu e tutsi sono in larga maggioranza cattolici o in Darfur, dove le comunità africane e arabe con-dividono la fede musulmana). Lo stesso si può dire della lingua (il serbo-croato era infatti l’idioma comune nella fe-derazione dell’ex Jugoslavia) o della componente somatica (visto che in Darfur secoli di matrimoni misti hanno reso i gruppi africani e arabi difficilmente distinguibili tra loro). Ecco quindi che laddove le differenze non sono decisive intervengono altri fattori, appunto, di carattere artificiale, ba-sati su una costruzione “intellettuale”. Un esempio è fornito “dall’Alleanza Araba”, che alla fine degli anni ’80 riunisce quanti, nel Darfur, affermano la supremazia araba, definita attraverso un’ideologia di carattere razziale. Questa, il c.d. “arabismo”, è un’etichetta artificiale ma che diventa reale nel momento in cui le comunità arabe iniziano ad armarsi proprio sulla base di tale principio. A proposito del Ruanda invece alcuni hanno parlato di una differenziazione etnica tra hutu e tutsi non effettiva nel con-creto, ma assunta come tale dalla popolazione e quindi, di fatto, politicamente rilevante5. Inoltre, in questa costruzione, la definizione dell’identità passa talvolta anche attraverso la ricerca di nobili e antiche tradizioni, che esaltano un “mito fondatore” del gruppo, il ricordo di una passata impresa mi-litare o, al contrario, di una sconfitta che è rimasta tuttavia nell’immaginario collettivo. Ad es. la sconfitta dei principi cristiani nella battaglia di Kosovo Polje del 1389 contro i tur-chi che è alla base del nazionalismo serbo. Lo stesso vale per il Caucaso, territorio che ha un significato storico fonda-mentale nella costruzione della nazione russa nel corso dei secoli (importanti autori come Tolstoj o Lermontov parlano infatti del dramma di una terra ribelle che si rifiuta di assog-gettarsi al potente vicino); da parte loro i ceceni sono soliti dire che la guerra con Mosca dura da oltre 400 anni! Il mito, elemento di affermazione dell’identità di un gruppo, diventa

una giustificazione per il rifiuto di ogni compatibilità rispetto ai valori di cui il gruppo si fa portatore.

“Noi” contro gli “altri”II passo successivo è che all’interno di ciascuno schieramen-to si forma una precisa distinzione tra “noi” e gli “altri”, in cui gli stereotipi positivi che accompagnano la costruzione della propria identità si accompagnano a quelli negativi sull’altro gruppo. “È da loro che provengono tutti i nostri mali. Non possiamo fidarci di loro. Quella gente non è come noi”6. Un esempio è fornito dai tutsi nel Kivu (Repubblica Democrati-ca del Congo), che, nonostante siano presenti nella regione già dal XIX secolo, sono ancora considerati stranieri da una parte della popolazione locale. Inoltre, sulla base della “per-cezione selettiva”, tenderemo a interpretare le informazioni a nostra disposizione cercando conferme dell’immagine che abbiamo rispetto all’altro gruppo (e laddove l’immagine è negativa, tenderemo a interpretare ogni azione dell’altro solo in termini negativi). In breve, si apre la strada all’idea che gli “altri”, con la loro semplice presenza, siano la causa principale di tutti i nostri problemi. È soprattutto in questa fase che gli strumenti della propa-ganda, talvolta partendo dalle recriminazioni sulle discri-minazioni subite in passato, si muovono per affermare la naturale superiorità del proprio gruppo e la natura inferiore,

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Cecenia Nazran - Donna dopo l’esplosione di una bomba - © A. Svetin/Sintesi

Ritrovamento di un ordigno bellico durante un’attività di sminamento © M. Varra/Sintesi

4 Toscano, cit., p. 21 richiama Lipotevsky (L’ere du vide. Essais sur l’individualisme contemporain, Gallimard, Paris, 1983, p. 93) e il concetto di “narcisismo collettivo”, caratterizzato dal “restringersi del sentimento di appartenenza a un solo gruppo e il parallelo accentuarsi dei fenomeni di esclusione”.

5 Destexhe parla di “tribalismo senza tribù” e di “etnicità senza gruppo etnico” (Rwanda. Essai sur le genocide, Complexe, Bruxelles, 1994, p. 58), in Toscano, cit., p.23.6 Semelin, Purificare e distruggere, Piccola Biblioteca Einaudi, Torino, 2007, p. 90..

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spregevole e infida degli altri. In tale processo il vittimismo gioca un ruolo essenziale: il giornalista olandese Ian Buru-ma (esperto di cultura asiatica) sottolinea che “quasi tutte le comunità, siano esse nazioni minoranze religiose, etniche o sessuali, hanno dei conti in sospeso con la storia. Tutte hanno sofferto torti e […] tutti vogliono che questi torti sia-no riconosciuti pubblicamente […]”7. Sulla vendetta, Daniel Pennac ha invece scritto: “È il territorio infinito delle conse-guenze indesiderate […]. Il Trattato di Versailles ha prodotto dei tedeschi vessati che hanno prodotto degli ebrei erranti che fabbricano dei palestinesi erranti che fabbricano delle vedove erranti incinte dei vendicatori di domani”8.

La “demonizzazione” dell’altroLa fase successiva è la stigmatizzazione dell’altro, a cui si accompagna la creazione dell’immagine del nemico, spes-so rappresentato in termini “diabolici” (si pensi “all’Impero del male” di Reagan o alla retorica che ha accompagnato la definizione degli “Stati-canaglia”). Per fare questo è innanzi-tutto necessario “cancellare il volto” dell’altro, per “prepara-re il terreno” e giustificare ogni successivo comportamento. Un reduce del Vietnam ha affermato che quando uccideva il nemico era consapevole di uccidere “un comunista”. “Forse la prima volta che vidi un nord-vietnamita morto ho tremato un po’, ma poi per me erano come animali morti. Del resto, o io o loro. Non stavo mica sparando a una persona, spa-ravo a un mucchio di ideologia”9. Fondamentale in questa fase è l’attività dei dirigenti politici e degli intellettuali che utilizzano gli stereotipi e lavorano sulla manipolazione del-le percezioni (es. sulle differenze etniche e/o religiose) per creare una situazione di continua tensione che giustifichi successivi comportamenti violenti (se necessario anche ad arte creando, per es., false voci su atrocità commesse dal nemico). Un esempio è rappresentato dal governo locale

del BJP, uno dei principali partiti politici in India, che nel 2002 ha pianificato e attuato il genocidio del Gujarat sof-fiando sul fuoco del nazionalismo indu contro la popo-lazione di religione musulmana. Nella demonizzazione, inoltre, è fondamentale il ruolo dei media; stampa, radio e televisioni giocano infatti un ruolo decisivo per creare un sistema generale che provochi nel gruppo sospetti, paura, risentimento e voglia di vendetta. È purtroppo famoso l’esempio della Radio-Televisione delle mille colline (RTLM) che in Ruanda, nel 1994, dopo mesi di odio nei confronti dei tutsi (definiti inyenzi, scarafaggi, da-gli hutu), inizia a incitare apertamente al loro massacro, giustificando l’uccisione di quanti non abbiano la giusta carta d’identità. Più recentemente (fine 2007), sui giornali indiani sono comparsi titoli come “Eliminare i naxaliti”10. “Finalmente questo governo dimostra un po’ di senso

nell’affrontare il movimento naxalita. […] Il premier Singh ha chiesto ai governi dei vari stati di stroncare le loro infra-strutture e di paralizzare le loro attività attraverso una forza specificamente dedicata a debellare il virus. Segno che si è ormai compreso che il movimento naxalita va schiacciato usando le forze dell’ordine, anziché sprecando soldi in pro-getti di sviluppo”. La scrittrice indiana Arundhati Roy com-menta: “Sì, l’idea dello sterminio è nell’aria”11.

Il nemico ha precisi progetti contro di noiLa demonizzazione del nemico è “globalizzante” e ogni mi-nima divergenza diventa motivo di conferma dell’esistenza di una precisa intenzionalità negativa e giustifica la nostra reazione. Così nell’ex-Jugoslavia i casi di violenza sessuale compiuti da rappresentati delle minoranze (albanesi, bosnia-ci, ecc.), pur rientrando in una normalità statistica dei crimini, sono stati interpretati dai serbi soprattutto come la prova di un complotto ai loro danni. A Davos il presidente israeliano Shimon Peres ha difeso la recente offensiva israeliana a Gaza, sottolineando che “Israele non voleva la guerra ma la pace, sono loro che hanno continuato a lanciare razzi”12. Ha-mas, da parte sua, ha giustificato gli attacchi affermando di essere stato provocato da Israele, che ha imposto l’embargo alla striscia di Gaza, favorendo lo sviluppo economico della Cisgiordania, (dove governa Al-Fatah) e facendo entrare nel territorio solo pochi aiuti umanitari durante la tregua13. La no-stra percezione è che il nemico complotti alle nostre spalle in ogni occasione, anche quando mostra un atteggiamento conciliante e di apertura (che viene interpretato come “sub-dolo” e che accresce ancora di più la paura). La giornalista israeliana Amira Hass, durante la recente offensiva di Gaza, ha raccolto diverse testimonianze su donne e bambini uccisi mentre sventolavano stracci e fazzoletti bianchi. Significati-vo è il commento di uno dei soldati: “Non abbiamo fatto altro che sparare. Per noi sono tutti sospetti, anche chi ci viene

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Kabul - Talebano con lanciagranate © R. Venturi/Sintesi

7 Buruma, The joys and perils of victimhood, The New York Review of Books, Aprile 8, 1999, p. 4 in Toscano, cit., p. 32.8 Pennac, La prosivendola, Feltrinelli, Milano, 1990, p. 191.9 Curi-Escobar-Garzonio-Scaparro-Tanzarella, I conflitti, Paoline, 2003, p.42.

10 Gruppi della guerriglia maoista impegnati in un conflitto con il governo che ha prodotto oltre 6.000 morti in oltre 20 anni.11 Roy, Ascoltare le cavallette, Outlook, India, in Internazionale, n. 758, 22 agosto 2008, p. 55.

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incontro sventolando uno straccio bianco”14.La percezione di ostilità reciproca determina nelle parti com-portamenti che favoriscono ulteriormente il clima di sfiducia, attraverso la c.d. “profezia che si auto-avvera”. Il meccanismo si basa sulla percezione che l’altro stia preparando qualcosa contro di noi e questo determina un nostro comportamento negativo “preventivo”, che finisce per provocare nell’altro proprio il comportamento ipotizzato (e temuto). Durante la Prima Guerra Cecena (1994) un generale russo disse che “un ceceno non può essere che un ladro o un assassino. E se non lo è, allora significa che si sta preparando a compiere qualche altro genere di crimine”15. Il sociologo Robert Mer-ton sottolinea che se gli uomini definiscono le cose come reali, queste diventano reali nelle loro conseguenze.

La generalizzazione: spariscono le posizioni moderateLa dinamica delle percezioni è spesso caratterizzata da quella che Toscano definisce la “patologia della memoria” ossia l’uso della leggenda e del mito per esaltare in termini positivi le glorie del proprio gruppo (“tutti principi”) e in termini negativi le relative sofferenze (“tutti martiri”). La stessa ge-neralizzazione riguarda gli “altri”, che acquistano un senso come appartenenti a un gruppo e non come singoli individui (es. Putin quando etichetta tutti i combattenti ceceni come “terroristi”). La logica del binomio “amico-nemico” semplifica il confronto tra i gruppi e prevale su ogni altro elemento e fattore interpretativo. L’immagine astratta del nemico finisce per prevalere sulla individualità delle persone concrete. Così se un palestinese uccide un israeliano è la “Palestina” nel suo complesso che colpisce “Israele” (e viceversa). Pertan-to, le posizioni si radicalizzano e ciascuno, all’interno dei due gruppi, interpreta il conflitto come inevitabilmente destina-to allo scontro. Nei momenti di forte tensione le posizioni moderate svaniscono a favore di quelle estreme e non è ammessa alcuna voce contraria; anzi, chi non condivide la posizione dominante e/o propone soluzioni alternative vie-ne considerato un anti-patriota e un traditore. La già citata RTLM nel corso del genocidio del Ruanda denuncia gli hutu moderati (molti dei quali saranno vittime del genocidio), i soldati che disertano il fronte e ammonisce chi, all’interno delle milizie, si mostra più propenso al saccheggio che non al massacro dei tutsi. La retorica del “o con noi o con loro” (“la nostra sopravvivenza è possibile solo attraverso la di-struzione dell’altro”) interviene spesso nelle situazioni con-flittuali ed è utilizzata anche dalle democrazie nei momenti di crisi per chiamare a raccolta gli alleati. È divenuto celebre il discorso del presidente Bush, pochi giorni dopo l’attacco alle Torri Gemelle, nel corso del quale ha detto: “Non daremo tregua a tutte le nazioni che proteggono i terroristi. Adesso

ogni paese, in qualsiasi parte del mondo deve prendere una decisione. O siete con noi o siete con i terroristi, e quindi contro di noi”16. Gli stessi toni li ritroviamo nelle dichiarazio-ni pubbliche all’indomani di alcuni tra i più tragici attacchi terroristici degli ultimi anni; a Mosca dopo l’attacco al tea-tro Dubrovka, ottobre 2002 e a Mumbai dopo gli attacchi del novembre scorso in Russia e in India si è parlato di “11 settembre russo” e “11 settembre indiano”. In molti casi alla retorica ha poi fatto seguito una dura politica repressiva nei confronti dei movimenti di opposizione. Come abbiamo visto, la creazione dell’immagine del nemico è una costruzione soprattutto “mentale”, costruita nel corso del tempo e, una volta ottenuta, è difficilmente reversibile; non sono ammesse valutazioni acritiche della controparte, ma solo posizioni nette, di condanna, nella quale ogni azio-ne del nemico è interpretata come conferma dell’immagi-ne negativa creata. Uno dei contesti in cui l’immagine del nemico mostra le sue potenzialità distruttive è il continente africano (genocidio in Ruanda del 1994 = oltre 800.000 mor-ti in pochi mesi; conflitto nella Repubblica Democratica del Congo = 4 milioni di morti in dieci anni; conflitto nel Darfur = oltre 300.000 morti in sei anni). Nel 1998, l’allora segre-tario generale ONU Kofi Annan, scrisse: “Il carattere multi-etnico della maggior parte degli stati africani rende il con-flitto ancora più probabile, producendo una politicizzazione dell’etnicità spesso violenta. In casi estremi, comunità rivali possono ritenere che la loro sicurezza, forse la loro stessa sopravvivenza, possano essere garantite unicamente at-traverso il controllo statale. In questi casi il conflitto diventa praticamente inevitabile”17. Tuttavia, le antipatie etniche e/o culturali non portano in maniera ineluttabile alla violenza; in-fatti la dinamica delle percezioni deve agire in un contesto in cui sono presenti alcuni fattori “oggettivi”: una situazione economica disastrosa, disuguaglianze sociali rilevanti, la tendenza alla sovrappopolazione, l’afflusso di emigranti percepiti dalla popolazione come stranieri, tensioni etniche o religiose, ecc. Ma queste non sono ancora sufficienti a determinare con certezza uno sviluppo violento delle ten-sioni; infatti è necessario che siano presenti anche elementi propulsori “costruttori” dell’opinione pubblica, appartenenti o meno al potere politico, che diano una lettura mirata della situazione e affermino: “Ecco che cosa ci succede, ecco chi è responsabile della nostra disgrazia. Sono ‘loro’ la causa delle nostre sofferenze. Dobbiamo assolutamente sbaraz-zarcene. Vi promettiamo che, dopo, tutto andrà meglio. Non dovete far altro che sostenerci, o meglio unirvi a noi, così che possiamo farla finita con questa peste” (Semelin, cit., 8). In presenza di determinati elementi “oggettivi” è questo tipo di discorso che può davvero scatenare uno sviluppo violen-to del conflitto. n

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12 Internazionale, n. 781, p. 81.13 La guerra a torto o a ragione, The Economist, in Internazionale, n. 777, p. 23.14 Hass, Stracci bianchi, Internazionale, n. 781, 6 febbraio 2009, p. 14.15 Vietti, Cecenia e Russia. Storia e mito del Caucaso ribelle, Massari ed., Bolsena (VT), 2005, p. 29. 16 Patfoort, Difendersi senza aggredire, EGA editore, 2006, p. 50. 17 United Nations, The causes of conflict and the promotion of durable peace and sustainable development in Africa. Report of the Secretary General, 16 aprile 1998 in Toscano, cit., p. 174. .