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L’età dell’eleganzaun percorso demoetnoantropologico attraverso tessuti,

decorazioni e ricami calabresi nell’Ottocento.

a cura di Pietro Frappi

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Mostra:L’età dell’eleganza, un percorso demoetnoantropologico attraverso tessuti, decorazioni e ricami cala-bresi nell’Ottocento.

IdeazIone e CoordInaMento della rICerCa:Pietro Frappi responsabile dell’ area Demoetnoantropologica della SABAP di CS,CZ; KR

allestIMento:Pietro Frappi, Maria Luisa Albamonte, Anna Francesca La Rosa, Nicla Macrì, Rocco Sola, Domenico Visciglia, Alba Nudo, coadiuvati dalla restauratrice esterna Si-monetta Portalupi

rICerCa arChIvIstICa e sChede dIdasCalIChe:Pietro Frappi, Anna Francesca La Rosa, Nicla Macrì, Maria Luisa Albamon-te.

doCuMentazIone FotograFICa:Vincenzo Facciolla, Pietro Frappi.

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In prima battuta si rende necessario un particolare e sincero ringraziamento al Soprintendente ABAP per le province di CS,CZ e KR dott. Mario Pagano, al Sindaco di Cosenza arch. Mario Oc-chiuto, al Dirigente Settore Cultura del Comune di Cosenza dott. Giampaolo Calabrese, alla dott.ssa Rita Fazio Responsabile della Casa delle Culture di Cosenza, al Direttore Generale Progetto Villa Rendano dott. Walter Pellegrini, patrocinatori e sostenitori della mostra unitamente a tutti coloro che, a vario titolo, hanno contribuito alla realizzazione della manifestazione. Un sentito ringraziamento agli sponsor: la BCC Mediocrati, l’ Associazione Dimore Storiche Italiane – Sez. Calabria, la Provincia di Cosenza, La Biblioteca Nazionale di Cosenza, il Polo Museale della Calabria e tutte le Ditte che a vario titolo si sono prodigate a fornire materiali e mezzi per la realizzazione dell’evento.

Un ricordo particolare per collaborazione ed amicizia al:Ambasciatore dott. Gianludovico De Martino, arch, Francesco Saverio Mollo, dott. Vincenzo Tamburi, Dott. Roberto Bilotti Ruggi d’Aragona, alla N.D. Irene Telesio, dott. Antonio Piscitelli, dott. Salvatore Patamia, dott.ssa Rita Fiordalisi, dott.ssa Angela Acordon, dott. Francesco Samà, sig. Fiorenzo Tundis, sig. Franco Con-forti, sig. Egidio Perna, sig. Daniele Borselli,unitamente alle ditte: A. Bruno, S. Ferrone, Radiosa, Arnieri. Per la competenza mi preme evidenziare, l’opera della restauratrice Simonetta Portalupi titolare della ditta “La trama e l’ordito” che ringrazio per l’impegno e la professionalità dimostrata nella messa in sicurezza dei manufatti e nell’allestimento della mostra.

Ultimo, ma non ultimo, un caloroso ringraziamento a tutti coloro che hanno messo a disposizione i propri manufatti sig.ri: dott.ssa Giuseppina Amarelli, arch. Enrico Reale, dott. Gianluigi Trom-betta, dott. Luigi Filpo, sig.ra Maria Mancini De Napoli, dott.ssa Maria Luisa Albamonte, sig.Demetrio D’Agostino, Sig.ra Lucia Sangineto ed il Centro Culturale “G.L. Pascale” della Tavola Valdese, rendendo così possibile il completamento del percorso documentario. Al personale della So-printendenza ABAP per le prov. di CS,CZ e KR che ha contribuito alla vigilanza ed all’ illustra-zione dei manufatti esposti, ai colleghi della sezione demo-etno-antropologica, ai restauratori ed al fotografo che hanno preso parte al progetto, un caloroso ringraziamento per la loro fattiva e preziosa collaborazione.

PIetro FraPPI

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Introduzione

La recente riforma del MIBACT ha comportato, accanto all’estensione dell’autono-mia di alcuni grandi Musei, Parchi archeologici e monumentali e alla costituzione di Poli Museali regionali, l’istituzione di Soprintendenze uniche, con funzioni prevalenti di tutela, educazione e ricerca. Nelle intenzioni, una rinnovata attenzione è prevista per i beni demoetnoantropologici, così notevoli in Calabria: purtroppo a tale disegno non è finora seguito un supporto economico di sostegno adeguato. Tuttavia la Soprin-tendenza di Cosenza, da me diretta, grazie all’iniziativa del coordinatore del settore demoetnoantropologico, Dr. Pietro Frappi, e del suo gruppo di lavoro, pur tra le diffi-coltà organizzative che possono immaginarsi con la costituzione di un nuovo Ufficio, ha voluto attivare iniziative sinergiche che permettessero la conoscenza, la tutela e la valorizzazione di un vasto patrimonio, pubblico e privato, finora alquanto trascurato. È nata così l’iniziativa della mostra L’età dell’eleganza, della quale ora si pubblica il Cata-logo. Questa mostra ha comportato la ricerca e l’esposizione di abiti prodotti o utiliz-zati in Calabria nel corso dell’Ottocento, sia quelli delle classi nobiliari e borghesi, che quelli popolari, splendida espressione di un orgoglio locale calabrese ancora oggi non del tutto scomparso. Ne è risultato un quadro esaustivo della ricchezza e bellezza della produzione artigianale e proto-industriale calabrese, ancora oggi esistente, in forma piuttosto flebile, ma che andrebbe sostenuta e incoraggiata.

Grazie alla disponibilità della Fondazione Attilio ed Elena Giuliani, è stato possibile attuare l’idea di ospitare la mostra negli splendidi ambienti di villa Rendano a Cosenza, prossimi alla Galleria Nazionale di Palazzo Arnone e alla Grande Filanda di seta che Domenico Rendano acquistò, con i suoi macchinari, nel 1887 dal barone Baldassarre Giannuzzi Savelli. Ambienti nei quali è stato così possibile rivivere il fascino e l’emo-zione dei fasti di quell’epoca.

La mostra non avrebbe potuto essere realizzata senza l’appoggio economico del Co-mune di Cosenza e del Credito Cooperativo Medio Crati, oltre che dell’Associazione Dimore Storiche sez. Calabria: somme utilizzate in gran parte per la messa in sicurezza degli abiti della donazione di Roberto Bilotti, di proprietà Comunale e attualmente de-positata nella Casa delle Culture in Corso Telesio a Cosenza.

Il successo di critica e di pubblico della mostra, accompagnata da altre iniziative col-laterali, ad ingresso gratuito, ci spinge a programmare nuove iniziative, che speriamo trovino l’accoglienza ed il sostegno ancora più ampio, che certamente meritano.

MarIo PaganoSoprintendente Archeologia, Belle Arti e Paesaggio

per le province di Catanzaro, Cosenza e Crotone

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L’età dell’eleganza: il periodo storico

Il declino della sericultura calabrese verificatosi nella seconda metà del XVI sec.,fu dovuto alla scarsa competitività del prodotto rispetto alle nuove correnti commerciali createsi in Europa nel periodo della Rinascenza oltreché alla esosa, crescente pressione fiscale dei viceré spagnoli. Nel corso del XVII-XVIII sec. la richiesta di tessuti quali il lino, la lana ed il cotone, favorirono sempre più i mercati stranieri che di fatto, detene-vano il monopolio tessile sia europeo che americano.

Nel 1783, un catastrofico terremoto, mette definitivamente in ginocchio l’esausta economia calabrese tanto da indurre il viceré ad alleggerire le tasse alla disastrata popo-lazione superstite. La Cassa sacra, istituita in seguito all’evento sismico per risollevare le sorti della popolazione calabrese, cercherà di riprendere quest’industria, ormai gra-vemente malata; infatti, tra le varie disposizioni date, si ricorda l’articolo XXIX delle Generali Istruzioni che recita: “Sarà particolare obbligo di ogni Ispettore di animare la gente del proprio dipartimento ad impiegarli nell’industria della seta; e specialmente l’Ufficiale Ispettore del Dipartimento di Reggio, nel cui luogo vi bisognano degli aiuti in denaro: un tale incoraggiamento è troppo necessario, perché l’industria della suddet-ta si vada ad aumentare e non perdere”.(Antonio Garcea)

Il pagamento delle gabelle, al verificarsi dell’evento sismico, fu sospeso e, per pro-muovere l’economia locale, fu disposto di dare in prestito agli industriali di seta otto-mila ducati che avrebbero dovuto restituire nei mesi di agosto del 1785 e 1786 (v. doc. n. 21, 1792 luglio 10). A distanza di alcuni anni dal terremoto, si rese necessario ripren-dere l’esazione stessa e riordinare tutti i conti, nonostante le difficoltà amministrative e l’avidità degli amministratori e dei vari procuratori, incaricati di gestire i beni dei luoghi pii soppressi o sospesi.(Nicolina Reale)

Nel Regno di Napoli alla fine del’700 il disequilibrio sociale aveva raggiunto livelli non più tollerabili: su cinque milioni di abitanti 3.400.000 erano sottoposti alla giurisdi-zione feudale, i vastissimi feudi con immense ricchezze, appartenevano alla Chiesa ed a poche famiglie che esercitavano soprusi e violenze di ogni genere opponendosi ad ogni tentativo di riforma. La situazione degenerò con la rivoluzione francese aggravando la crisi finanziaria.

Qualche anno più tardi l’arrivo dell’esercito francese a Napoli segnò il definitivo tramonto del vecchio sistema sociale e con i governi di Giuseppe Bonaparte prima, e di Gioacchino Murat dopo, presero l’avvio quelle radicali riforme nel campo sociale, politico ed economico che trasformarono il Regno di Napoli da stato feudale in stato borghese. Il 15 febbraio 1806 Giuseppe Bonaparte entrò a Napoli, la sua politica mirò a demolire il vecchio sistema. I problemi da affrontare erano numerosi e di non facile soluzione, riguardavano la giustizia, le imposte e il nuovo ordinamento amministrativo

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del regno, ma ancor più grave era la situazione finanziaria: la spesa pubblica infatti, ave-va toccato i venti milioni di ducati. Per portare a termine, però, le riforme necessarie era indispensabile procedere, prima di prendere ogni altro provvedimento, all’abolizio-ne della feudalità, avvenuta con la legge del 2 agosto 1806, la quale stabiliva all’art 2 che da allora «tutte le città, terre e castelli saranno governati secondo la legge comune del regno». Era necessario, inoltre, per il funzionamento del nuovo apparato statale e per il mantenimento delle truppe francesi, come esigeva Napoleone, la ristrutturazione dell’amministrazione finanziaria.

Giunto a Napoli, il Bonaparte ritenne come una via di risanamento di questo regno ormai logoro l’incameramento dei beni ecclesiastici. In realtà la soppressione degli or-dini religiosi e la confisca dei loro beni diede a Giuseppe la possibilità di dare inizio alla riforma di tutti i settori della pubblica amministrazione, continuata poi con maggiore convinzione da Murat. Quindi l’urgente bisogno di denaro e di locali lo spinse sempre più in questa direzione. Il denaro ricavato dalla vendita dei beni ecclesiastici gli per-mise di eseguire alcuni lavori pubblici non più rinviabili, di realizzare le riforme a cui teneva maggiormente e di rimpinguare le casse dello Stato; mentre i locali dei conventi soppressi gli servirono a rimediare in parte alla grave carenza di strutture pubbliche e vennero destinati ad accogliere ospedali, scuole, orfanotrofi, caserme, carceri, tribuna-li, giudicati di pace, a ospitare gli stessi municipi e le intendenze di nuova istituzione.

Con la definizione del contezioso dei beni baronali e delle università piuttosto che dei beni ecclesiastici, la breve parentesi napoleonica nel Regno di Napoli, favorì il frazio-namento della proprietà terriera a favore dell’aristocrazia e del ceto medio desiderosi di accaparrarsi beni a buon mercato. In tali frangenti, la vicinanza ideologica di mercanti genovesi, già presenti nel regno fin dal XVI sec., ai Bonaparte, fece si che molte ari-stocratiche famiglie genovesi quali i Saluzzo, Pallavicino, Doria ecc. si aggiudicassero molti latifondi ecclesiastici

È noto che le ricche province napoletane e siciliane furono una delle principali mete di conquista commerciale per i Genovesi sin dal Medioevo. In quei vasti territori i mercanti della Liguria trovarono abbondanza di merci e di prodotti agricoli scarsi in patria, principalmente grano, olio, e seta. Abili come mediatori commerciali di prodotti agricoli del Sud, come investitori di ingenti somme di denaro, come creditori di im-mense fortune alle corti regie, entrarono anche a far parte dell’aristocrazia napoletana, costruendo chiese e acquistando grossi feudi nel Regno.

I mercanti genovesi provvedevano al trasporto di carichi dall’Italia ad Anversa, dove acquistavano manufatti fiamminghi che smerciavano in Francia e in Spagna. Con i loro vascelli dal tipico scafo tondo, i più capienti d’Europa, assunsero il controllo dei commerci anche nelle acque atlantiche dove provvedevano al trasporto di prodotti provenienti dall’America, come lo zucchero e il caffè.

Al loro ritorno, i Borboni, pensarono di puntare alla valorizzazione dei prodotti del Regno attraverso una politica protezionistica. Basti pensare ai decreti del 15 dicembre 1823 e del 30 novembre 1824, che limitavano l’importazione di prodotti industriali concorrenti. Il dazio, non a caso, colpiva i prodotti d’importazione, che erano soggetti

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al 3% se grezzi e al 30 % se lavorati. Questa politica mirò anche a incrementare l’atti-vità serica, che, comunque, non avrà per oltre un ventennio, quella floridezza nell’arte e nel commercio.

Nella metà dell’Ottocento, particolarmente sorprendente appare il picco raggiunto dalla sericultura calabrese, allorché la produzione di bozzoli passò da uno standard di 2.000.000 di chilogrammi annui a 3.800.000 kg. Tale surplus produttivo coincise con una grave diffusione della “pebrina”, malattia del baco da seta che dalla Francia rag-giunse rapidamente i più floridi mercati nord europei, comportando una forte contra-zione dell’offerta mondiale e consentendo al prodotto calabrese un maggior introito oltre che il riconoscimento dei mercati europei.

In tale periodo i ricchi mercati di Genova, Bologna, Sfax e Marsiglia divennero, con il setificio napoletano di San Leucio, i principali clienti degli armatori calabresi; i bozzoli, la seta grezza, i damaschi ed i broccati prodotti nelle filande locali, raggiungevano, con i propri bastimenti, i più lontani porti del Tirreno.

L’industria della seta, non più sottoposta come in passato alla forte pressione tribu-taria dei governi ed esente da contrabbandi e dispute sulla sua commercializzazione, ebbe un forte sviluppo. In quasi tutti i paesi della Calabria Citra c’erano decine e decine di filatoi ad “aspa corta” e “aspa lunga” che portarono la provincia ai primi posti per la produzione di seta greggia nel regno. Nel gennaio 1848 a Cosenza erano attivi sei opi-fici di discrete dimensioni. Ogni fabbrica aveva 16 manganelli e 16 fornelli e impiegava 20 donne e 20 fanciulle che lavoravano da luglio a ottobre. Le operaie percepivano un salario di 30 grana e le fanciulle di 10. Le filande delle famiglie Rendano, Gentili Mi-celi, Pasquale Campagna, Pietro Salfi, Giacinto Rizzo, Vincenzo Mollo e Giu-seppe Terunzo avevano una produzione annua di 1.800 libbre di seta, mentre quella di Giuseppe Campagna di 1.400.

La ripresa economica calabrese contribuì in parte, nella metà dell’Ottocento, al mi-glioramento dello status vivendi della popolazione, alla quale le classi egemoni, sull’on-da delle grandi capitali europee della moda, chiedevano manualità ed artigianalità sar-toriale e accessoriale sempre maggiori.

Gli abiti esposti in mostra, rappresentano dunque, un esempio di tessitura ma anche un gusto ed una attività sartoriale a cui si lega il lavoro delle ricamatrici, delle merlettaie, dei calzolai e di tutti quei rappresentanti delle cosiddette “arti minori”, che concorre-vano alla realizzazione ed al soddisfacimento della committenza. La moda femminile mette in evidenza, attraverso i preziosi abiti esposti, la semplificazione a cui andò in-contro la moda tra la fine del XIX e gli inizi del XX secolo. In questo periodo gli abiti si caratterizzano per l’uso sempre più frequente del merletto, materiale nel quale sono spesso confezionate le parti strategiche delle vesti come mantelline, camicette e le bal-ze delle gonne.

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VANITAS VANITATUM ET OMNIA VANITAS

L’esposizione permette di compiere un originale e suggestivo percorso nella storia, nella moda e nella tradizione cosentina

Attraverso gli abiti, le acconciature, e l’alto livello sartoriale e decorativo, emerge un livello internazionale della classe egemone. Intense divennero le relazioni commerciali con Francia, Inghilterra, Germania e Stati Uniti: seta e liquirizia dalla Calabria Citra, essenze di bergamotto, gelsomino, gaggìa per i profumi dalla Calabria Ultra. Questa proiezione internazionale era tangibile nel gusto di vestirsi a Cosenza, fatture ottocen-tesche di acquisti in negozi parigini e inglesi così come abbonamenti a riviste di moda internazionali, documentano gli acquisti abiti e corredi nelle grandi capitali europee.

Posto di rilievo, accanto all’ “alta moda” occupa il costume “tradizionale” calabre-se, albanese, grecanico ed occitano. La ricchezza di questi manufatti, la preziosità dei decori e dei ricami in oro e argento, sembrano contrastare con gli strumenti del vivere quotidiano, del “faticare”. La ricchezza dell’abito indossato in occasione delle feste rappresentava una sorta di riscatto dalle condizioni della durezza della vita di cam-pagna. Tali manifatture non erano solo prerogativa del mondo contadino, esse erano riconosciute ed usate, per la loro preziosità, anche nei vertici della società.

Sempre più ricca ed esigente la classe egemone calabrese, benchè distante dalla corte di Napoli, si circonda di valenti artigiani a cui affida i propri capricci dettati dalla moda d’oltralpe. Nascono così vari centri di “rifornimento”, tipo le merlettaie al tombolo di Tiriolo, le ricamatrici, spesso trovatelle ospitate nei conventi a cui le suore insegnavano un lavoro ecc.

Elemento fondamentale nella società dell’ Ottocento, il corredo rappresentava nella quasi totalità delle classi sociali, un obbligo per la sposa per presentarsi bene ai nuovi parenti ed a tutta la comunità. Frutto di esperto e paziente lavoro, il corredo nuziale rispondeva alle esigenze della nascente famiglia, la biancheria, finemente ricamata, era considerata bene familiare di massimo valore.

Al corredo della sposa, emblematico della condizione economica, venivano infatti dedicate le migliori energie in termini di creatività e di cura nell’esecuzione, le spese per mettere insieme i diversi capi, acquistati o confezionati in famiglia, erano tali che sin dall’infanzia si provvedeva a mettere da parte, in un’apposita “cascia”, indumenti, telerie, merletti e coperte.

“Il letto, insieme al suo corredo, era un elemento costante e rappresentava la voce più importante dell’intero corredo. La funzione della coperta matrimoniale non era solo dettata dalla praticità ma aveva anche valore simbolico e, con orgoglio, veniva mostrata in occasione di un parto, una morte, o il passaggio di una processione, cioè in occasioni in cui si doveva “comparire”. Balconi e finestre erano lo spazio ideale per esporre il copriletto, in ossequio al Santo, e testimoniava il livello socio-economico della famiglia in base alla bellezza e al valore delle fibre di cui era fatta.

Le donne realizzavano a telaio coperte in seta greggia operate, moltiplicando licci e

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spole per avere fili diversi da intrecciare secondo un modulo che rispecchiava la geo-metria del disegno; questi potevano essere bianchi o a colori diversi e creavano armo-niche fantasie lineari, motivi floreali e zoomorfi che decoravano anche i costumi tradi-zionali, racchiudendo nel loro simbolismo tutte le allegorie della tradizione amorosa, sovrapponendo rettangoli e applicando frange abilmente annodate.

Belle erano le coperte realizzate ad uncinetto. Questo genere di esecuzione prende il nome dall’arnese che serve per la sua creazione. L’uncinetto, inventato nel tardo Impe-ro, comparve nelle nostre zone nella seconda metà dell’Ottocento, prima adottato dalle donne borghesi e poi diffusosi nel ceto subalterno. I primi uncinetti avevano tre punte di spessore diverso, ogni punta si utilizzava secondo lo spessore del filato da lavorare. Il lavoro ad uncinetto è un lavoro facile e distensivo e gli uncinetti utilizzati sono dif-ferenti a seconda dell’uso da destinarsi. Erano di legno quelli donati dallo sposo nel contado di Avigliano ma potevano essere anche in acciaio. Di avorio o di tartaruga erano destinati alle ragazze benestanti, l’importante però, era che gli uncinetti avessero la loro estremità molto levigata e non troppo appuntita e il manico leggero per non stancare la mano. Alcuni capi passavano da corredo a corredo per diverse generazioni sia per la loro qualità, sia per la ridondanza del ricamo che non permetteva l’uso di tutti i capi. La biancheria da letto comprendeva anche lenzuola e federe. Con tre e quattro “sferze” si cucivano lenzuola per il ceto popolare, mentre le lenzuola “nobili” erano ad un solo telo: i teli si univano a sopragitto o a “spicarelle”. Tali punti permettevano una cucitura senza sovrapporre i tessuti.

Tuttavia, a partire dalla fine del XIX secolo, le giovani non realizzavano più personal-mente il proprio corredo, ma preferivano rivolgersi a negozi specializzati, a sarte o ai laboratori conventuali, dove si svolgevano raffinati e lunghi lavori di ricamo Dall’espo-sizione della biancheria si evidenzia come, nonostante l’introduzione del colore nelle lenzuola, avvenuta durante il secondo impero, per il corredo si continuerà a preferire il ricamo e il tessuto bianchi ancora per molto tempo. I motivi decorativi sono prevalen-temente quelli floreali e che simboleggiano la felicità e l’amore eterno come il fiocco o il “nodo d’amore” “. (A. M. Restaino – Il corredo della sposa valore e tradiozione.)

Nelle famiglie benestanti la biancheria da tavola era adeguata all’acquisita posizione matrimoniale in cui assumeva rilievo il comparire e l’essere presenti nella vita sociale, da cui, secondo i galatei, doveva trasparire l’importanza della propria famiglia.

All’inizio del secolo XIX si diffuse l’uso delle tele damascate o di Fiandra con le quali si realizzavano le tovaglie e i tovaglioli di uso quotidiano, che erano semplici con piccoli bordi ricamati a retino con pizzi a fuselli o lavorati a macramè. I mesali e gli stuiabucchi (tovaglie e tovaglioli) nei corredi poveri erano rifiniti con un cordoncino o con l’orlo a giorno. Indispensabili erano le mappine, cioè gli strofinacci, e le “spare” che, nel ceto popolare, erano usate ravvolte a cerchio e adattate sul capo per riporvi, cesti ricolmi, barili di acqua o addirittura una cullina quando si andava nei campi. Nel corredo com-parvero, in seguito, anche centri da tavola, sottopiatti, sottobicchieri e copri vassoi.

Particolare attenzione è riservata ai corredini da neonato e da battesimo fatti realizza-re dalle nuove classi borghesi emergenti, a laboratori specializzati, per ostentare sfarzo

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e ricchezza e competere così in lusso con la vecchia nobiltà.La mostra dunque, nel percorrere uno spaccato di vita “fin de siecle”, grazie all’inar-

restabile eccletticità della moda e dei tessuti, evidenzia altresì l’abilità delle maestranze artigiane e sartoriali locali che, con la loro creatività e tecnica, hanno contribuito ed alimentato il gusto, le scelte e l’eleganza di un secolo spazzato via, da lì a poco, dagli echi dell’incombente, tragico evento bellico.

PIetro FraPPI

BIBLIOGRAFIA:

GARCEA, N. REALE: La seta a Catanzaro nei secoli XVIII-XIX” A.S.C. Settembre 2013; S. STRAFA-CE: La nobile arte della seta, CZ 2017;O. DITO: L’arte della seta in Catanzaro - museo della seta di Mendicino – Calabria; www.museodellaseta.comA. M. RESTAINO – Il corredo della sposa valore e tradizione. Consiglio Regionale Basilicata 2010; www.consiglio.basilicata.itMARCELLI: Luigi Alfonso Casella e la sericoltura calabrese tra Otto e Novecento, ed. Rubbbettino 2005.

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La sericoltura calabrese nel Novecento

Le ricerche e gli studi che hanno trattato il campo della sericoltura italiana, poco si sono interessate delle realtà regionali.

Nel periodo che intercorre tra la fine dell’800 e gli anni trenta del novecento, la seri-coltura in Calabria, fu oggetto di un progetto nazionale di sostegno, atto ad incentivare lo sviluppo del settore. Ciò avvenne attraverso una inchiesta governativa che, sotto la guida di Luigi Luzzati (1909/12) cercò di individuare le cause che frenavano il decollo della produzione serica. Una di esse, era da ricercare nella massiccia importazione di bozzoli dall’Asia Meridionale. Si giunse, quindi alla conclusione di incentivare la pro-duzione internazionale di bozzoli. Per coordinare ed affrontare tutte le problematiche inerenti alla sericoltura Nazionale, nel 1912 fu istituito il Consiglio per gli Interessi Serici. Esso aveva il compito di gestire i fondi stanziati per il settore.Intorno a questo organismo, fu creato un team di studiosi ed esperti nel campo della seta. Il progetto era quello di produrre bozzoli nel Sud Italia, per contrastare l’importazione dall’Asia. Ciò fu possibile grazie alla collaborazione dell’Istituto Bacologico di Cosenza, istituito nel 1873 e diventato operativo nel 1918, con la denominazione di” Istituto Bacologico per la Calabria. In questo contesto, si distinse la figura di Luigi Alfonso Casella che ne assunse la direzione nel 1911. Attento conoscitore delle problematiche rurali calabresi, riuscì brillantemente a gestire i fondi della legge serica, cercando di tutelare, a livello contrattuale, le classi meno abbienti. Riuscì ad influenzare positivamente le alte sfere politiche, approntando un insieme di scelte tecniche che risultarono preziose e costrut-tive per i processi produttivi in seguito adottati.

LUIGI ALFONSO CASELLA.

Nacque a San Donato di Ninea nel 1865 da una famiglia di estrazione piccolo bor-ghese.

Nel 1880, intraprese a Cosenza gli studi agrari ottenendo il diploma nel 1889.Giovane studioso e preparato, fu preso in considerazione dall’allora direttore della

scuola, Bartolomeo Tommasi che lo guidò nelle sue scelte future.Dopo aver consegui-to la qualifica di “fattore e agente di campagna”, fra il1884 ed il 1890, Casella fu assun-to dal principe Pignatelli come agente di campagna a Piana di Cerchiara ed in seguito come segretario contabile.Il giovane dovette però lasciare l’impiego a causa della mala-ria, di cui si ammalò e che in quel periodo era endemica in quel luogo. Considerato dai principi Pignatelli perona onesta, dedita al lavoro e di grande intelligenza, trovava però,

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oltremodo mortificante e degradante svolgere questo specifico lavoro che riteneva non adatto alla sua preparazione culturale. I principi, continuarono comunque e sempre a eguire e “proteggere” il giovane intervenendo spesso negli ambienti governativi per aiutarlo nella sua carriera lavorativa. Dopo aver frequentato a Reggio Emilia la scuola di zootecnia, nel febbraio del 1887, divenne capo coltivatore e lavorò nella scuola pra-tica di agricoltura a Cosenza per due anni. El 1888, entrò a far parte della massoneria e due anni dopo, all’età di 25 anni vinse il concorso come maestro censore di disciplina, nelle scuole agrarie del Regno. Nel 1907 abbandonò la Loggia. L’esperienza come ma-estro censore, durò dal 1890 al 1911 prima a Catania, poi nella scuola pratica di agri-coltura a Cosenza. Ma le ambizioni che coltivava e la voglia di fare, carriera, spinsero Luigi Alfonso, dopo il 1900 ad ottenere, con molte difficoltà, la licenza per l’ insegna-mento di agraria. In questo, ebbe l’incondizionato aiuto della principessa Pignatelli. Designato direttore dell’Osservatorio Bacologico di Cosenza nel 1911, Casella coordi-nò l’attività di propaganda serica in tutto il Mezzogiorno, portando la produzione ad una fattiva crescita. Con poche risorse finanziarie, il nuovo direttore, si dedicò in pri-mis a corsi di bachicoltura ed allevamenti modello. Educò i piccoli allevatori ad adot-tare nuove tecnologie di allevamento che portarono negli allevamenti rurali, apprezza-bili e significativi risultati. Grazie al suo diretto coinvolgimento ed al suo modo di istruire praticamente e con dimostrazioni dirette, ebbe il consenso e l’appoggio degli enti locali e delle classi più abbienti. Rese il Mezzoggiorno, protagonista della propa-ganda serica, ponendolo in stretto contatto con le decisioni governative anche quando si tendeva a favorire le regioni più produttive. Operò sinergicamente si acon le istitu-zioni centrali che con quelle periferiche, apportando interventi a favore della gelsiba-coltura e questo portò ad interessanti contingenze economiche. Introdusse importanti novità tecnologiche come l’ideazione delle covatrici meccaniche che furono subito adottate dai piccoli allevatori e dagli esperti del settore. Attraverso la creazione di alle-vamenti modello e corsi di bachicoltura a fini dimostrativi, riuscì a stabilire un contatto diretto con gli allievi. Seppe amministrare i fondi stanziati con la legge serica, con com-petenza e fu designato responsabile per la propaganda serica in tutta la Calabria. Nel 1919, si avvalse della collaborazione di un comitato di propaganda di cui facevano parte eminenti figure politiche ed economiche. Le innovazioni introdotte da Casella furono accettate molto positivamente dai coloni. La propaganda serica interessò tutte le fasi della filiera produttiva e vennero studiate ed esaminate le diverse tipologie di gelso, la commercializzazione dei bozzoli e la trattura domestica, con particolare atten-zione a nuovi sistemi di potatura e con la creazione di prati- gelso. Dal 1914 l 1918, la produzione di seme- bachi, raddoppiò e la bachicoltura tornò ad essere un importante fonte di reddito.Attraverso un articolo pubblicato sulle pagine dell’Agricoltore Bruzio, sensibilizzò gli allevatori alla necessità di utilizzare il gelso nero, e, nel 1914, il Consiglio per gli Interessi Serici, diede l’ avvio ad una grande campagna di distribuzione gratuita di piantine di gelso. Tutto ciò continuò fino al 1927. La distribuzione di queste pianti-ne, portò a nuove forme di allevamento (ceppaie- prati gelso). Attraverso la pubblica-zione di numerosi opuscoletti, illustrò le tecniche d seguire per meglio gestire impianti

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e vivai, ma soprattutto per incrementare l’interesse alla gelsicoltura. Precedentemente, in uno dei suoi scritti, nel 1895, lo studioso affrontò l’argomento dell’accaparramento del seme-bachi. Mancando una vera e propria produzione interna, egli era convinto che occorresse acquistarli dai venditori specializzati che risiedevano soprattutto in To-scana e nelle Marche. M a per poter conservare le uova acquistate, nei mesi invernali, fino al loro utilizzo in primavera, lanciò la proposta che fosse istituita, in Sila, una casa di ibernazione. Questo però fu possibile solo dopo gli anni venti e con episodiche spe-rimentazioni. Dopo il1918, fece in modo che in tutta la provincia di Cosenza, si adot-tassero le incubatrici creando, nella sede dell’ Osservatorio Bacologico, una camera di incubazione dove era possibile far schiudere seme per conto di privati e pubblicò, un opuscolo dove si illustrava l’uso delle covatrici meccaniche. Esaminò le razze dei bachi da allevare non solo in relazione alla quantità, ma alla qualità, spingendo gli allevatori ad acquistare solo semi accompagnati da certificazione di qualità. Uno dei problemi che Casella dovette affrontare, fu sicuramente quello della scarsa igiene degli alleva-menti poiché, la bachicoltura calabrese, non disponeva di locali idonei. Le dandoliere, erano state, durante l’epidemia di Pebrina, importanti veicolo di contagio. Si pensò di costruire dei capanni di paglia al centro del gelseto, i “tilimbar”. Ma Casella era dell’av-viso di evitare il ricorso continuo di questi capanni, poiché esposti alle intemperie, scegliendone soltando quelli più adatti e solo per la durata dell’allevamento. Pose mol-ta attenzione alla diffusione di castelli, graticci e carte forate, ma curò soprattutto la disinfestazione dei locali attraverso l’uso di formaldeide. Introdusse l’uso degli essica-toi. Il fine era quello di accrescere il potere contrattuale degli allevatori e di aumentare la produzione rendendo i bozzoli una merce non più deperibile e quindi trasportabile anche in altri mercati. Dopo la prima guerra mondiale, la forte concorrenza asiatica, proveniente specialmente dal Giappone, influì negativamente sulla produzione serica in Italia. Il nostro paese, perse il primato nelle esportazioni. Nel 1926, l’Ente Naziona-le Serico, subentrò al Consiglio per gli Interessi Serici., ma la mancanza di finanziamenti,arrestò la propaganda dell’Istituto Bacologico Calabrese. Si tentò di ar-ginare il declino con il potenziamento della lavorazione domestica della seta. Dal 1930, Casella concentrò la propaganda serica sulla trattura, torcitura e tessitura artigianale. Nel 1934 ideò un torcitoio ed un fuso molto più idoneo alle esigenze domestiche. I nuovi sistemi di trattura e torcitura casalinga, ebbero molto successo e molti paesi come Brescia, Venezia, ma addirittura Cuba e l’America Meridionale, si interessarono a queste innovazioni. Dopo il 1934, Casella decise di dimettersi e lasciare l’incarico. La causa ufficiale fu l’avanzamento dell’età, ma i risentimenti dello studioso, cominciaro-no quando, nel 1933, gli fu affiancato come asssistente Roberto Cerchiara. La laurea di cui era in posseso, fu interpretata dal direttore come un avvicendamento ai vertici del-lo Istituto Bacologico, inoltre le politiche adottate all’interno dell’ENTE Nazionale Serico ed i continui cambiamenti nel Consiglio di Amministrazione, ostacolavano il lavoro dell’Istituto e Casella, mal sopportava tutto ciò. Anche dopo le dimissioni, rima-se comunque il principale referente per tutto ciò che riguardava le problematiche della sericoltura calabrese anche a livello internazionale. Sicuramente venne a mancare un

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importante punto di riferimento per la propaganda serica. Dopo gli anni trenta, la produzione serica, in Calabria, cessò e l’Istituto Bacologico perse di importaza anche se sulla carta restò attivo fino al 1967. Alfonso Casella fu il principale attore del tempo. Figura chiave della sericoltura calabrese, ebbe il merito di apportare alla bachicoltura calabrese, la maggior parte dei benefici elevando la nostra regione a protagonista indi-scussa negli anni compresi fra il 1911 ed il 1934.

anna FranCesCa la rosa

BIBLIOGRAFIA

Angelina Marcelli, Luigi Alfonso Casella e la sericoltura calabrese tra otto e novecento, Rubettino, 2005.

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Note Tecniche sul restauro

a cura di sIMonetta PortaluPI

I manufatti tessili selezionati nel percorso espositivo allestito e curato dal dott. Frappi presso i raffinati spazi di Villa Rendano a Cosenza, ci hanno dato l’emozione di immer-gerci in uno spaccato di vita di quell’elegante ‘800 che la borghesia cosentina viveva, nella quotidianità giornaliera come anche negli eventi mondani o celebrativi.

Una buona parte degli abiti esposti provengono da una ben più ampia e ricca colle-zione: la Bilotti-Telesio di pertinenza del comune di Cosenza, posta in una sorta di al-lestimento permanente presso la Casa delle Culture di Corso Telesio. La scelta operata dal curatore della mostra è stata particolarmente complessa non solo per il gran nume-ro di tessili e dunque per la necessaria selezione storico-artistica e demoantropologica effettuata, ma anche per il precario stato di conservazione generale in cui la maggior parte di essi vertono.

Molti infatti, purtroppo, evidenziando una particola fragilità non sono stati ritenuti idonei ad essere trasferiti, mentre per quelli selezionati si è dovuto intervenire con una ‘messa in sicurezzà finalizzata ad una movimentazione e ad un allestimento espositivo adeguati alle loro criticità. L’impegno al quale mi sono dedicata nel periodo precedente alla mostra ‘L’età dell’Eleganza’ è stato quello di porre in sicurezza gli abiti prescelti attraverso la messa in atto di una serie di operazioni tecniche adeguate ed, in ultimo, di esporli con le dovute precauzioni e accorgimenti necessari al fine di coniugare le esigenze conservative a quelle espositive. I fattori che hanno determinato negli anni il decadimento materico di gran parte delle collezioni coeve sono molteplici e non solo dovuti a cause antropiche, ma indotti da condizioni inevitabili quali il degrado delle fi-bre nel tempo, il degrado degli elementi costitutivi presenti nelle opere e inoltre, aspetti di ordine meccanico. Il periodo che si è scelto di indagare attraverso la mostra coincide, per ciò che riguarda gli aspetti tecnici relativi al tessuto, ad un percorso di transizione tecnologica e stilistica i cui risultati negli anni hanno dimostrato elementi di grande fra-gilità. In particolare per i manufatti prodotti in seta. Le innovazioni tecnologiche che più hanno influito sulla qualità serica e dunque di conseguenza sulla produzione tessile compresa fra la fine del settecento e la fine dell’ottocento vedono infatti l’utilizzo di nuovi procedimenti quali: la carica della seta con elementi metallici1, l’introduzione di telai meccanici e i mutamenti intercorsi nell’arte tintoria dopo la sintesi chimica della molecola di Alizarina avvenuta all’inizio del 1856.

A contribuire all’attuale stato di conservazione sono poi intercorsi gli aspetti di ordi-1 per ‘carica della seta’ s’intende quel procedimento atto al recupero del peso originario della seta perso du-rante la fase di sgommatura.Verso la fine del 1700 si sperimenta l’ introduzione di elementi caricanti di tipo metal-lico, fra cui lo stagno, ad oggi ritenuti una delle cause della particolare degradabilità delle sete prodotte nel periodo compreso fra la fine del 1700 e l’inizio dell’ 800.

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ne meccanico dovuti alle particolari fogge proposte dagli stilisti dell’epoca e alle modi-fiche avvenute negli anni, come spesso era in uso.

L’abbondanza di elementi decorativi quali ruches, volant, balze, plissettature, applica-zioni decorative spesso create con seta derivata da cascami e ulteriormente aggravate e appesantite da applicazioni di perle vitree, sono tutti elementi che rendono partico-larmente deperibili le opere e particolarmente complessa la conservazione di queste collezioni.

Oltre all’arricchimento culturale e alla soddisfazione estetica che la mostra ci ha rega-lato, auspico che essa possa essere stata di stimolo per focalizzare non solo l’importan-za culturale della conservazione di queste collezioni ma anche la necessità d’intervenire sulla possibilità di sopravvivenza delle stesse.

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COLLEZIONE BILOTTI-TELESIO prop. COMUNE DI COSENZA

a cura di Pietro FraPPi

Donata al Comune di Cosenza dai mecenati Roberto Bilotti ed Irene Telesio, la ric-chissima collezione Bilotti-Telesio documenta il modus vivendi della città di Cosenza e del suo territorio nel periodo liberty. Essa rappresenta infatti, attraverso la collezione di abiti, accessori femminili, gioielli, ritratti di cosentini illustri, memorabilia, ricami, tessuti, costumi tradizionali ecc. uno spaccato di vita della popolazione calabrese in questo particolare periodo. La mostra in questione si prefigge lo scopo di illustrare e rendere partecipe ai visitatori, un patrimonio demo-etno-culturale che documenta at-traverso i tessuti, gli abiti, decorazioni e ricami, la vita aristocratica, borghese, agricola ed artigianale della Calabria Citra in età post-unitaria. Particolare interesse, nell’eco-nomia dell’intero territorio calabrese del XIX sec., la seticultura, offriva ai calabresi, l’opportunità di sviluppare una economia, praticamente a costo zero, con un prodotto richiestissimo da tutti i mercati europei. Gli abiti esposti rappresentano dunque, un esempio di tessitura ma anche un gusto ed una attività sartoriale a cui si lega il lavoro delle ricamatrici, delle merlettaie, dei calzolai e di tutti quei rappresentanti delle cosid-dette “arti minori”, che concorrevano alla realizzazione ed al soddisfacimento della committenza. Attraverso gli abiti, le acconciature, e l’alto livello sartoriale e decorativo, emerge un livello internazionale della classe egemone. Intense infatti erano le relazio-ni commerciali con Francia, Inghilterra, Germania e Stati Uniti: seta e liquirizia dalla Calabria Citra, essenze di bergamotto, gelsomino, gaggìa, per i profumi dalla Calabria Ultra. Questa proiezione internazionale era tangibile nel gusto di vestirsi a Cosenza, fatture ottocentesche di acquisti in negozi parigini e inglesi così come abbonamenti a riviste di moda internazionali, documentano gli acquisti abiti e corredi nelle gran-di capitali europee. Gli abiti tradizionali non erano però prerogativa del solo mondo contadino, l’abito tradizionale era riconosciuto e usato anche nei vertici della società. Ultimo ma non ultimo è la tradizione del ricamo e del merletto, tratti comuni dell’edu-cazione delle giovani di qualunque condizione fin dalla più tenera età. Merletti ad ago ed a tombolo, differenti dal ricamo per assenza di una base, passavano attraverso un disegno trasportato su tessuto con polvere di carbone e con filo nero.

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Abito da popolana cosentina, in cotone stampato con grandi rouches di pizzo color avorio poste sulla parte anteriore della gonna e sull’intero bordo. L’abbondanza del pizzo applicato, considerato l’alto costo per l’epoca, induce a pensare che si tratta di dono da parte della nobildonna presso la quale svolgeva il suo lavoro.

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La funzione della coperta matrimoniale non era solo dettata dalla praticità ma aveva anche valore simbolico e, con orgoglio, veniva mostrata in occasione di un parto, una morte, o il passaggio di una processione, cioè in occasioni in cui si doveva “comparire”. Balconi e finestre erano lo spazio ideale per esporre il copriletto, in ossequio al Santo, e testimoniava il livello socio-economico della famiglia in base alla bellezza e al valore delle fibre di cui era fatta.

Copriletto della seconda metà del XIX sec. in organza ricamata a punto treccia a motivi floreali, ad imitazione del merletto point de gaze di manifattura belga. Rose, campanelle, foglie e rametti, così come le cornici ricurve, sono bordati da gruppi di rose a festone, secondo la lavorazione a point de gaze. Il manufatto, di color avorio, presenta una base in taffetas di seta a bassa densità color azzurro.

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Tovaglia da tavolo da ingresso in tela di lino ricamata a punto pieno in seta policroma con motivi zoomorfi e fitomorfi, rifinita perimetralmente e ai quattro cantonali interni, da una bordura lavorata a chiacchierino colore avorio

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Confezionato nell’ultimo decennio dell’Ottocento, l’abito da giorno in taffetas di seta marezzata color nocciola, si compone di tre pezzi: corpino, gonna e mantellina in gors de Tours di seta color crema decorata con pizzi e bordature in gros color avorio, girocollo in piume.

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Nella metà dell’Ottocento le maniche abbandonano totalmente il volume precedente e diventano lunghe e aderenti. Il corpino, risulta di linea aderente talvolta di forma allungata mentre spariscono gli scolli a barca a favore di uno scollo rotondo e accollato da cui spesso fa capolino un piccolo colletto bianco.

Le gonne, che ora toccano di nuovo terra, al contrario acquistano volume e rotondità, e per sostenerle in questa loro crescita nasce la crinolina, una sottogonna rigida in crine intessuta con fili di lana o seta.

Le acconciature sono basse con i capelli, idealmente scuri, spartiti sulla fronte e raccolti sulla nuca. I cappelli a capote incorniciano il viso spesso sovrapponendosi alle cuffie di pizzo che non vengono quasi mai tolte.

L’abito presentato si compone di tre pezzi: corpino in pizzo nero applicato su tessuto serico color crema accollato e guarnito da un piccolo colletto bianco, un’ampia gonna in raso di seta nera ad alta densità, sotto la quale era prevista l’uso della crinolina ed un cappellino in seta color crema ricoperto di pizzo nero con bordatura in gros. Anno 1850.

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-1891-

All’inizio degli anni ’90 la figura sottile e slanciata del decennio precedente, pur lasciando il punto fermo della vita sotti-lissima, tende ad allargarsi agli estremi. Le maniche si gonfiano assumendo la tipica forma a prosciutto voluminosa sulle spalle e stretta al polso e gli orli delle gonne, che ora toccano di nuovo terra, si allargano.

A partire dal 1893 le maniche, sempre più voluminose, diventano anche ricaden-ti, e le gonne assumono la tipica forma a campana, favorita dalle pesanti sete di cui sono fatte, spesso foderate per rimanere rigide.

Sotto alla gonna sono spariti tournure e ampi sellini e ora il volume sui fianchi e lasciato alla sua forma naturale. Il collo è fasciato da un colletto alto e montante e, in contrasto con l’ampiezza delle vesti, i capelli sono raccolti in discreti chignon.

A causa dell’ampio volume raggiunto dalle maniche, come soprabito si preferi-scono corte e ampie mantelline o pellegri-ne dagli alti colli che incorniciano il viso.

da: “Abiti Antichi una collezione di moda femminile fra 8 e ‘900”

http://www.abitiantichi.it

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Abito da sera colore nero confezionato in raso di seta ad alta densità e velluto liscio. Decoltè e bande laterali della gonna decorati con applicazioni di perline in pasta di vetro. Un sottocorpetto in cotone color avorio rifinito con pizzo valençienne e a balze in georgette di seta veste il busto e guarnisce il girocollo e le maniche a gigot.

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Nella seconda metà dell’ottocento, in particolare dopo la sconfitta della comu-ne di Parigi del 1870, la borghesia diventa la nuova classe emergente e fa suoi quegli strumenti di affermazione sociale che fino ad allora erano stati esclusivo appannaggio della nobiltà, tra questi anche l’eleganza.

Gli abiti infatti sono in questo secolo una vetrina della propria condizione socia-le che deve rispettare regole ben precise.

Una donna elegante si cambia d’abito almeno quattro volte al giorno e esistono abiti specifici per ogni occasione, dal ballo alla villeggiatura, dal viaggio alla passeg-giata pomeridiana. Alcuni abiti poi sono riservati alla casa. Di foggia più semplice di quelli per uscire e di linea sciolta e più comoda, sono adatti per ricevimenti inti-mi (da cui il nome inglese di tea gown os-sia abiti per il tè) e possono essere portati senza busto.

Sempre riservato alle mura di caso è il matineè, un corto giacchino dalla linea morbida che può essere indossato su ogni tipo di gonna ed èun’alternativa all’abito da casa. Alla fine degli anni ’70 l’abito perde volume, la figura è ora sottile e slanciata.

-1879-

-1882-

Abbandonate le tournure e i sellini, le gonne ora scivolano aderenti al corpo sul-le reni, e i panneggi e le arriciature sono relegati nella parte bassa della gonna.

[email protected]’abito da giorno (1874-1877) si com-

pone di due pezzi giacchino e gonna co-lor nocciola in taffetà di seta.

Il giacchino lungo, aperto sul davan-ti con bottoni ricoperti, e rifinito da una bordatura plissettata.

Notevole la gonna a balze abbellita da fiocchi con balza plissetta ed ampia coda anch’essa decorata da fiocchi e bordature di velluto tono su tono.

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-1907-

Gli anni iniziali del XX secolo sono noti come Belle Epoque. Un periodo di ottimi-smo e spensieratezza in cui i grandi passi avanti della scienza e dell’industria, coronati nella grande Esposizione Universale di Pari-gi del 1900, avevano diffuso nella gente una grande fiducia nel futuro. Automobili, aerei, grattacieli sono ormai una realtà. Il cinema muove i suoi primi passi, l’arte cerca nuo-ve vie espressive. Per le classi agiate sono gli anni dei caffè concerto e del Can Can, un periodo di divertimenti, feste, ricevimenti sfarzosi.

Per quanto riguarda l’abbigliamento fem-minile, all’inizio del secolo si afferma un nuovo modello di busto che spinge in fuori il seno, appiattisce lo stomaco e irrigidisce la schiena, conferendo alla figura alterigia e slancio. Sensazione data anche dai colletti steccati che costringono a mantenere la testa ben eretta.

Tutto questo crea la linea tipica dei primi dieci anni del XX secolo: la così detta linea a S, caratterizzata, appunto, dal petto spinto innaturalmente in avanti e dalla vita minu-scola. Una linea sinuosa che trae spunto da-gli eleganti motivi dell’art nouveau, in voga in questi anni.

Le gonne, fascianti sui fianchi, si allargano sul fondo, talvolta culminando in un corto strascico. I corpini, aderenti sulla schiena, si gonfiano sul petto. Per aumentare ulterior-mente quest’effetto a curve, le cinture asse-condano la forma dei corpini abbassandosi sul davanti.

Di giorno gli abiti hanno alti colletti di mer-letto irrigiditi da stecche, che salgono quasi fino al mento. Di sera, al contrario, profonde scollature. I colori più di voga, dopo le tona-lità scure degli anni precedenti, sono ora tenui tinte pastello, e tessuti morbidi e leggeri sosti-tuiscono le pesanti sete.

[email protected]

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Appartenuto alla nobildonna Irene Telesio, l’abito da cerimonia databile fra il 1901-1908, in tulle e pizzo di seta di Cantù color avorio su raso di seta a media densità color avorio/azzurro chiaro, fa parte della collezione Bilotti-Telesio, e si compone di mantellina, corpino e gonna con corto strascico interamente in pizzo, foderato in seta colore verde-azzurro. L’abito di notevole ricchezza, testimonia l’alto livello sartoriale delle manifatture cosentine.

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L’abito da sera in tulle di seta ricamata a motivi floreali color avorio, su base di raso nero, presenta un’ampia scollatura bordata in tulle di seta nera e banda su girovita anch’essa in raso di seta nera. Maniche angelo con bordure in pizzo Anno 1900-08.

Prop. Comune di Cosenza – Collezione Bilotti – Telesio

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-1883-

-1886-

A partire circa dal 1883 gli abiti ricomin-ciano ad acquistare volume sulle reni. Ab-bandonata la linea naturale della fine degli anni ’70 e dei primissimi anni ’80, sotto gli abiti tornano le ampie tournure che però a differenza di quelle dei primi anni ’70 sono ora limitate alla parte posteriore del corpo.

Le gonne insieme al volume acquistano anche importanza, sono infatti spesso ar-ricciate e elaborate, con complicati pan-neggi e applicazioni.

In contrasto con le ampie e ricche gon-ne, i corpini, spesso di taglio maschile, hanno torace stretto e vita esilissima tanto che questo è considerato il momento del-la storia del costume in cui il busto è più deformante e dannoso per la salute.

È di questo periodo, più precisamen-te del 1885, la nascita di un capo d’abbi-gliamento che grande successo avrà negli anni a venire, fino ad oggi: il tailleur. Una creazione che, a dispetto del nome france-se, è di origine inglese.

Le acconciature sono elaborate e com-plicate come le gonne e sormontate da cappelli minuscoli carichi di decorazioni di fiori e nastri.

Si impone anche l’uso della veletta, so-vrapposta al cappello e fermata con un nodo o uno spillone sul dietro. Una moda che resisterà fino alla seconda guerra mondiale.

Per la sera gli abiti sfoggiano scollatu-re quadrate, a trapezio, bordate di pizzo e corte maniche con lunghi guanti a coprire le braccia nude.

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-1889-

I gioielli più diffusi sono le perle indossate in molteplici file. Celebri quelle della regi-na Margherita che sfoggiava un decolletè ornato da ben quattordici fili ricevuti in dono da re Umberto, uno per ogni Natale.

Questo é anche il periodo della “moda” degli abiti da lutto, “moda” che raggiunse dimensioni considerevoli soprattutto in Inghilterra a causa dell’influenza della regina Vittoria che dopo la morte del suo sposo non smise più l’abito nero fino alla morte. Tipici di questi abiti sono, oltre naturalmente al colore nero, anche alcuni materiali come il crespo e il giaietto.

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Abito nero confezionato in raso di seta ad alta densità con decoltè quadrato in pizzo e colletto coperti da applicazioni di perline in pasta di vetro, con bordature in tulle. Un importante strascico dal bordo tergale del decoltè impreziosisce la lunga gonna. Le maniche lunghe a gigot sono impreziosite da perline di vetro ed importanti copripolsi in tulle.

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Abito in taffetas di seta color lilla costituito da corpetto, gonna e rifinito nella parte superiore da una mantellina in pizzo valançienne di color avorio, che ritroviamo anche nelle parti terminali delle maniche a sbuffo, della veste e del colletto.

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COLLEZIONE GAUDENZIA VINCI DI FRANCIA

A cura di Pietro FraPPi

Elegante abito nero da sera in pizzo di Cantù con rouches in merletto a motivi floreali, girali e greche composto da giacchino e gonna. Epoca 1880-90.

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Ventaglio dell’ultimo quarto del XIX sec. in piume di struzzo nere su stecche e guardie in tartaruga bionda con nastro di seta nera simile al vestito di cui alla scheda precedente.

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Ampia cappa in seta dorata con ricami floreali, frangia e nappe. Ultimi anni del xix sec.

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Trapuntino patchwork su grigliato in velluto in seta ecrue con ricami in filet. Il quadrato centrale, ricamato in filet presenta, al centro, una corona marchionale. Bordatura in filet con fiocchi di raso in seta angolari.

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Fazzoletto con specchiatura in bisso di lino ed importante cornice di merletto ad ago con motivi ve-getali e geometrici fittamente distribuiti risalente alla metà del XIX sec.

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Fazzoletto con specchiatura in bisso di lino contornato da merletto a tombolo probabilmente di Ti-riolo, a nastri e motivi floreali e vegetali. Metà del XIX sec.

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Centrino in pizzo a tombolo a motivi vegetali e floreali probabile manifattura di Tiriolo. Metà del XIX sec.

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Colletto da donna in pizzo a tombolo con motivi floreali e vegetali probabile manifattura di Tiriolo. Metà XIX sec.

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Vestito da bambina costituito da due pezzi: vestito e relativo colletto in pizzo sangallo. Ultimo ventennio del XIX sec.

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Cuffietta da bambino in bisso di lino con ricami ad intaglio ed applicazioni di pizzo a contorno

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Camicina da bambina ricamata a punto pieno ed a intaglio con corta manichina a sbuffo. Fine XIX sec.

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Camicine da bambino in lino con decorazioni in pizzo e ricami a giorno. Ultimo quarto del XIX sec.

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Camicina da bambina in bisso di lino, maniche lunghe, ricamata a punto pieno e punto erba a mo-tivi floreali con applicazioni in tulle. Bavetta a pendant con applicazioni in pizzo e ricami a punto pieno.

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Coroncina da sposa con fiori di zagara artificiali con relativi spilloni fermavelo da acconciatura. Inizio xx sec.

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Livrea da cocchiere dei marchesi Di Francia, in panno verde con galloni, nappe e bottoni in oro. Completa l’abito, la feluca con decorazioni in oro e piume. Metà del XIX sec.

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COLLEZIONE GIUSEPPINA AMARELLI

A cura di Pietro Frappi

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Abito da donna della seconda metà del XIX sec. in crespo in seta colore ecrù con corpetto con ma-niche a gigot e pizzi valençienne. Gonna in crespo in seta decorata nella balsa da pizzi valençienne e nastro di seta.

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Corpetto dei primi anni del XIX sec., in seta ecru con riporti in seta colore glicine e bordature in pizzo.

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Abito da uomo del XVIII-XIX sec. in colore oro, composto da gilè in seta bianca ricamato, pan-talone e marsina in raso di seta.

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Gilè da uomo in velluto in seta nero della seconda metà del XIX sec. con piccoli ricami floreali ri-camati in oro. La parte tergale in raso di seta

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Camicia da notte in lino ricamato con inserti in pizzo ad ago a motivi floreali della seconda metà del XIX sec.

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COLLEZIONE LUCIA SANGINETO

A cura di PIetro FraPPI

Copriletto in damasco di seta verosimilmente della manifattura di San Leucio della prima metà del XIX sec. colore rosso porpora, intessuto con rari motivi decorativi a nastro e floreali, tipici dell’epoca e putti alati. Ricca bordura in passamaneria coeva di colore amaranto.

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Lenzuolo in lino della prima metà del XIX sec. ricamato en suite per copriletto (vedi scheda 1). Il ricamo ad intaglio è costituito da una mandorla centrale con reticelle ad ago ed intaglio raffiguranti Eos ed Hypnos alati (il sonno ed il risveglio). Il manufatto, corredato da due sopracuscini, con il medesimi motivi e decorazioni floreali a reticello ad ago ed intaglio è stato realizzato dalle suore Car-melitane di Cosenza.

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Vestito da battesimo in bisso di lino ricamato a punto pieno con motivi fitomorfi, con pizzo in tulle di cotone ricamato a punto pieno. Prima metà del sec. XIX.

Prop.: Sig.ra Maria Mancini De Napoli

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I COSTUMI ARBRERËSCHE

a cura di MarIa luIsa albaMonte

Tutto ciò che il popolo Albanese, insediatosi nell’ltalia centro-meridionale nel ‘400, ha portato con sè, idioma, usi, costumi, tradizioni, rappresenta un bagaglio culturale che ancora oggi, dopo sei secoli, si tramanda di generazione in generazione.

Il costume femminile rappresenta l’immagine più maestoso e sgargiante dell’identità albanese. Come nel resto della Calabria, che viene considerata una delle regioni d’Ita-lia più ricca per varietà di costumi, anche tra gli Arbёreshe, il costume va lentamente scomparendo: oggi è sempre più raro vedere donne coi vestiti tipici. A salvaguardarlo nelle comunita albanesi e la voglia dei giovani di tenere vivo questo mondo antico di cui cercano di non far perdere le tracce. Il costume femminile è ormai usato sol-tanto nelle varie manifestazioni che si perpetuano annualmente in quasi tutti i paesi Arbёreshe; qualche ragazza lo usa anche il giornoo in cui si sposa. Notevole il patrimo-nio che viene conservato dalle famiglie Arberёshe in Calabria, Sicilia, Puglia, Basilicata, Campania, Abbruzzo e Molise.

Mentre la società dell’industrializzazione cambia velocemente uniformando ed ap-piattendo tutto, pochi sarti superstiti e qualche brava ricamatrice continuano a confe-zionare questi complicati vestiti tradizionali, con sempre rinnovato coinvolgimento e passione, seguitano cosi a far risplendere i sontuosi e ricchi costumi. I colori, i ricami, i disegni, le stoffe, con le quali vengono confezionati, non sono una libera interpretazio-ne del passato, ma questi manufatti riproducono in maniera perfetta ciò che di antico e misterioso è giunto fino a noi.

Unicità, valore ed eleganza degli abiti, sono testimoni della grande considerazione in cui il popolo albanese teneva la donna: lei era il simbolo della famiglia nelle cerimonie ufficiali, percio nonostante la poverta dell’epoca, nel suo corredo non doveva mancare il vestito di gala, quello di mezza festa e il vestito giomaliero.

Il costume di gala arberёshe e ricco di oro, seta e laminato in oro; preziosi ricami e brillanti colori lo caratterizzano. Esso si diversifica, nei vari paesi calabresi di etnia arberёshe, soltanto nella gonna, che puo essere a pieghe o plissettata; questa differenza e dovuta al fatto che durante il grande esodo, in Italia arrivarono gheghi e toski, prove-nienti da due regioni, la Ghegaria e la Toskeria, due regioni dell’Albania diverse, anche se fondamentalmente simili. Lo splendore e la vivacita dei colori sono in piena armo-nia tra loro e testimoniano l’opulenza dell’alto ceto albanese che immigro nelle nostre regioni a meta del ‘400; i documenti riportano dei regali che i Veneziani facevano agli Albanesi e si trattava sempre di stoffe preziose. I costumi albanesi hanno subito l’in-fluenza sia dall’Oriente che dall’Occidente e anche quando sono semplici sono appari-scenti e sontuosi. I colori dominanti sono il blu, il rosso, il verde, il bianco e tanto oro.

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Il costume arbereshe, con le sue raffinate rifiniture, le sue preziose stoffe, le sue morbide pieghe, i suoi vaporosi merletti, i suoi pregiati ori, ha un aspetto regale che rispecchia un apprezzato ed eccellente gusto.

Il costume è costituito da una sottogonna bianca che scende fino ai piedi (sutanё mё rethin); una gonna (kamizolla) di raso in seta rossa che scende fino alle caviglie; una sopragonna azzurra (çoha), che si svrappone alla rossa per le donne sposate.

Le due gonne sono riccamente ricamate in oro con figure che richiamano fiori o uccelli, bordate nella parte inferiore con un largo gallone sempre in oro. Il corpetto (xhipuni), che puo essere rosso, viola o celeste, laminato in oro ricoperto di gallone e le maniche ricamate in oro. La camicia (linja) di cotone bianco, lunga, di lino con una profonda ed ampia scollatura, bordata in tulle ricamato.

La cravatta (skolё) in raso bianco ricamato in oro, e una soha di sciarpa che va ad abbellire la camicia; vanderё, piccolo quadrato che si lega intomo alla vita e può essere in stoffa semplice o gallonato; il velo (sqepi) bianco ricamato o intessuto in fili d’oro che usavano le spose.

Tra gli elementi pili caratteristici e la keza, una sorta di omamento ricamata in oro che orna e abbellisce la pettinata della sposa.

BIBLIOGRAFIA

Italo elMo e evIs Kruta, Ori e Costumi Albanesi, Italo Elmo e Evis Kruta, ediz. 11Coscile;Pasquale de MarCo Italo elMo, Costumi degli Albanesi d’Italia, Pasquale De Marco, Italo Elmo, Casa Edi-trice MIT, Cosenza 1990doMenICo gaudIo, La seta: uno sguardo al passato, Napoli Ediz. Scient. Ital. 2007; autorI varI. La seta in Europa sec. XIII-XX, Ediz. Le Monnier Firenze 1993;salIturo CarMIne, L’allevamento del baco da seta nel Cosentino: aspetti storici e socio-antropologici. Tesi di laurea (S.L. S.N.) A.A. 1990-91gIusePPe abbruzzo, La bachicoltura in Calabria, Acri Ediz. A cura della Coop. Don Milani anno 2003

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IL COSTUME ARBERËSCHE

a cura di PIetro FraPPI

Abito da donna arberëshe nubile della zona di Civita (CS) della seconda metà del XIX sec. in seta formato da gonna, sottogonna, camicia e bolerino. Le gonne, a pieghe presentano piccoli ricami floreali in oro sparsi ed orlature bordate con galloni dorati. Il bolero con decorazioni in filo argentato e paillettes a motivi floreali lungo le maniche, gallone dorato nei bordi anteriori e posteriori.

Prop: Maria Luisa Albamonte De Napoli.

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Abito da donna arberëshe sposata della seconda metà del XIX sec. composto da 5 pezzi: 2 gonne in seta a pieghe con ricami e galloni in oro, una camicia ornata da pizzi, un bolerino con galloni in oro, un velo di pizzo con trama a fili d’oro.

Prop: sig. Demetrio D’Agostino.

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L’ABITO TRADIZIONALE DI GUARDIA PIEMONTESE:

STORIA, CONSERVAZIONE E MEMORIE “NELLA DOLCEZZA DEL TEMPO NOVELLO”

a cura di nICla MaCrì

La rinnovata sensibilità verso il patrimonio culturale ha stimolato una rilanciata at-tenzione per i beni demoetnoantropologici , concretizzata da attività di valorizzazione e promozionali sostenute dal Ministero dei beni e delle attività culturali e del turismo, operatori, enti locali, fondazioni, privati .

In tale contesto s’ inseriscono iniziative, studi, ricerche ed eventi che ci avvicinano ai segni impressi nella storia, che ci aiutano a conoscere ed a capire senso e significati di luoghi e comunità espressi nelle proprie tradizioni ed attività economiche. Tra queste, l’attività tessile , fiorente non solo nella provincia di Cosenza e nel XIX secolo, quali territorio e tempo d’osservazione prescelti dalla nostra analisi, ma estesa all’intero ter-ritorio regionale ed a più ampia cronologia, ci mostra una grande tradizione nella lavo-razione di tessuti e produzione di ricami, passando da iniziale attività pensata ed attuata per soddisfare immediate esigenze familiari, a riguardevole espansione in occupazione lavorativa capace di soddisfare e sostenere parte dell’economia locale , conferendo un ritmo di accrescimento ad un vario indotto economico, con produzioni sorpren-denti per termini quantitativi e di qualità. In tale ampio panorama produttivo, l’abito, elemento di grande interesse storico e tradizionale occupa un posto importante e tra i tanti, costituenti il variegato patrimonio della tradizione calabrese, quello occitano valdese è degno di speciale nota ed attenzione.

Considerare un abito non è solo un esercizio puramente estetico, formale, descrittivo rivolto ad aspetti sartoriali e di moda, avulso da contesti storici, sociali , umani, acco-standosi ai quali, semmai, se ne può percepire l’essenza totale. Nello specifico, l’abito femminile antico di Guardia Piemontese condensa in sé caratteristiche e segni che ci rimandano alle travagliate vicende storiche dei valdesi.

Il Valdismo, movimento di pensiero e religioso, inserito nell’ imponente tensione di movimenti pauperistici di riforma del Cristianesimo sviluppatisi nel corso del secolo XII , prese denominazione, secondo tradizione, da Valdo, ricco mercante di Lione che, intorno al 1176, a seguito di una crisi spirituale rinunciò ai suoi averi e si dedicò alla predicazione del Vangelo. I seguaci , i valdesi,o poveri di Cristo, o poveri di Lione ebbero sorte assai travagliata: in contrasto con la Chiesa Cattolica, e per non essersi attenuti al divieto di predicazione evangelica, furono scacciati da Lione e cercarono riparo tra la Francia Meridionale e l’Italia settentrionale. A seguire, il Sinodo di Vero-

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na del 1184 , sancì la loro condanna, insieme ad altri gruppi eretici, da parte di Papa Lucio III , che con la Bolla “Ad abolendam diversarum haeresium pravitatem” li sco-municò per la presunzione di voler predicare in pubblico ; ed ancora altre condanne , sconfessioni e scomuniche da parte di ecclesiastici e sovrani , quali quella di Narbona del 1190, gli statuti sinodali di Toul del 1192, l’editto di Alfonso d’Aragona del 1194 e quello di Pietro D’Aragona del 1198, confermato dal Concilio di Gerona, che preve-deva per la prima volta, la pena del rogo, costituirono improrogabili motivazioni che li spinsero a cercare riparo in Lombardia, dove era presente l’eredità di pensiero pata-rina ed arnaldiana. I Valdesi si rifugiarono anche nelle valli alpine di Chisona, Pellice e nella Val d’Angrogna , aumentandone di conseguenza, in maniera veloce e cospicua , la quantità di abitanti. Quindi tra il XIII ed il XIV secolo, per ovviare ad un’inevitabile situazione di precarietà ed impoverimento, oltre che in Puglia, si spinsero in Calabria, aiutati da Zanino del Poggio, che ricevette da Carlo D’Angiò, quale ricompensa di guerra, alcune terre libere, in cui, grazie al suo intervento e dietro corresponsione di un minimo tributo, si insediarono, distanti dai calabresi abitanti delle zone. S.Vincenzo La Costa, Rose, Montalto Uffugo, Guardia Piemontese, “La guardia”, che da loro este-se la denominazione in “Piemontese” furono i paesi in cui si stabilirono, dedicandosi ad agricoltura, pastorizia, coltivazione di uliveti, vigneti, allevamenti di bachi da seta e degli ovini per la produzione di lana. In particolare le donne erano molto abili nella lavorazione di seta, lana ,cotone, canapa e ginestra, ancora oggi oggetto di produzione artigianale secondo le tecniche originarie ,come testimoniato e documentato con im-pagabile operato culturale dal Centro di Cultura “Gian Luigi Pascale “ Museo Valdese e dal Museo della Civiltà Contadina di Guardia Piemontese che svolgono meritoria funzione di presidi sociali , storici e di valorizzazione della memoria del territorio. L’in-contro del pensiero valdese con la riforma protestante ed il calvinismo portò i valdesi alla separazione dalla chiesa cattolica e ad un ineluttabile crescendo di eventi violenti e dolorosi scanditi dalle uccisioni dei predicatori Giacomo Bonelli e Gian Luigi Pascale condannati al rogo, dalle torture inflitte al predicatore Marco Usceglio, di cui non è chiara la sorte, dall’inquisizione, i cui metodi , approvati dal Cardinale Michele Ghisleri, divenuto poi Papa Pio V, trovarono puntuale esecuzione nell’opera del domenicano Valerio Malvicino. Apice amaro e doloroso si raggiunse nella notte del 5 giugno 1561 in cui ebbe corso la drammatica nota strage di Guardia Piemontese, non certo la prima cui furono sottoposti i Valdesi, in secoli di persecuzioni feroci a loro danno,

che seminò terrore e procurò cruenta morte di centinaia di persone soppresse in modi efferati e di cui rimane a perenne ricordo la Porta del Sangue. Ai sopravvissuti all’eccidio , dopo forzata conversione al cattolicesimo, fu risparmiata la vita a costo di restrizioni severe, che già emanate dal Sant’Uffizio, prima della strage, furono intensi-ficate: divieto di matrimoni tra valdesi e di riunirsi tra loro, in numero maggiore di sei ; imposizione di ascoltare la messa ogni giorno; divieto di parlare la lingua occitana; obbligo per gli uomini d’indossare il ”sambenito”, l’ ”habitello”, abito giallo con una croce rossa al centro, sia sulla parte anteriore che posteriore, e per le donne d’indossare il “penaglio”, pesante copricapo. Coercizioni, pene, atte a colpire le immediate sponta-

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nee manifestazioni di appartenenza ad una comunità, quali la lingua e l’abbigliamento, costrizioni a mostrarsi “ diversi” da altro e da altri predominanti, non per fierezza delle proprie origini, ma per essere riconosciuti e vessati, condizioni che costantemente la storia, nel suo corso, ha presentato e ripropone.

Da questo contesto discende l’ abito, comprensibilmente denso di significati racchiu-si negli eventi storici generali e locali.

L’abito femminile tradizionale guardiolo, indossato dalle donne anziane al meno fino all’inizio degli anni Novanta del secolo scorso, con consuetudine di accompagnarle du-rate la vita , sia nella quotidianità che nelle occasioni importanti, e anche oltre, dopo la morte, quale abito scelto per la sepoltura, è premurosamente conservato in pochi pre-ziosi esemplari presso alcune famiglie del luogo, per cui poter godere ancora oggi della loro presenza è da considerarsi evento raro che li impreziosisce di ulteriore specialità. Accurato nella fattura , particolare nel taglio, è distinto in due tipi : il “dorn” abito delle occasioni speciali e quello giornaliero “ tramountane”, con la variante “tramountane de lot”, distinti nella scelta di stoffe, colori, particolari e per le esigenze cui dovevano corrispondere e situazioni ed occasioni in cui venivano indossati, ma uguali nella strut-tura . I pezzi che li compongono infatti sono identici: una camicia bianca di cotone (chammize) lunga fino al ginocchio , provvista di maniche lunghe chiuse al polso da un bottone , con colletto rotondo che può essere realizzato all’uncinetto o in stoffa ricamata ed attaccato direttamente alla camicia (coularett), o sovrapposto (gourgiere); sulla camicia segue una sottoveste, di colore rosso(cammezuole) lunga sino al polpac-cio, anche con funzione di abito da lavoro, formata da gonna in tessuto solitamente scuro, con varianti a fiorellini, corpetto in panno lenci rosso, cucito al giro vita della gonna e ornato al giro maniche ed allo scollo con nastro di raso verde o azzurro: per essere utilizzato come abito da lavoro , le donne usavano arrotolare ed annodare in vita l’abito giornaliero, indossato sulla cammezuola, che, finiti i lavori e srotolato, tornava al suo posto. Sulla sottoveste s’ indossa l’abito (gounnell ) di uguale lunghezza, vario nella scelta dei colori, dal marrone al viola ,al verde scuro, al bordeaux, privo di vita , con spalline strette, ricco nella parte posteriore di piccole pieghe che iniziano, assai strette, sotto il seno e scendendo sboccano nelle pieghe molto ampie della gonna realizzata impiegando tra sette e nove metri di stoffa . Sull’abito si pone un grembiule (foddile) di vari colori, con predominanza del rosso, che si annoda al di sopra del seno con legacci passanti sotto le ascelle, e che girano sul dorso e si annodano con un fiocco sul davanti a sinistra, e da un lato del quale scende un fazzoletto di seta(macalor a la banda), che oltre ad essere elemento decorativo di evidente bellezza, ha anche la funzione di in-dicare lo stato della donna . Particolare corredo dell’abito sono delle mezze maniche (meze manu) , comprese dal polso al gomito, spesso di colore rosso, dai risvolti di pari colore dell’abito, collegate alle spalline del sottabito con due nastri che, sapientemen-te raccolti , sfociano in alto nei “galloun” , splendidi deliziosi ornamenti a forma di rosa, tra i quali trova posto lo sbuffo delle maniche della camicia finemente ricamate . Completa l’abbigliamento il “penaglio” , copricapo a forma di cuore , costituito da un intreccio di corde di canapa e fili di ferro, ricoperto da strisce di stoffa (shtacce) e

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da nastri colorati ( chibelerie) , cui si legano ed intrecciano i capelli con un’operazio-ne complessa che richiede molta cura ed attenzione. Il penaglio è completato da un fazzoletto, mouccaloure de la teshte, che copre l’acconciatura, annodato sotto la nuca nell’abito usato quotidianamente. L’abito giornaliero, comprensibilmente, confeziona-to con stoffa meno pregiata, come cotone, panno, realizzato preferibilmente in colori scuri come il viola, il bordeaux ,il marrone ed il verde, era utilizzato durante i lavori svolti nei campi ed in casa. L’abito da indossare di domenica, simile a quello giornaliero , ma di tessuti accurati, è abbinato ad un foddile con prevalenza di blu e bordeaux e con bordi di fettuccia colorata e completato da un lato dallo splendido fazzoletto fine-mente lavorato: in alcuni casi poteva essere lo stesso abito giornaliero cui si abbinava un foddile diverso. L’abito da sposa, il dorn, è di grande effetto: realizzato in tessuto particolarmente pregiato dall’ordito di colore azzurro o verde intersecato con trama color oro, e possibili varianti in colore blu con stelline dorate o solo color oro, comple-tato dal velo (lenoe), sempre retto dal penaglio, realizzato in pizzo bianco ed abbinato a camicia arricchita da sbuffi in pizzo san gallo, polsini ricamati e colletto in pizzo o merletto. La sua funzione nel tempo, dopo le nozze, era quello di “ primo abito” per cerimonie importanti. Il dorn ha anche una versione più economica realizzata con tessuti meno pregiati (damascati, raso, taffetà) in risposta a possibilità finanziarie più modeste. L’abito per eventi luttuosi prevede una fascia , compresa tra abito e sottabito, grembiule , copri maniche e fazzoletto laterale tutti in colore nero e altro fazzoletto di colore marrone scuro che, legato al penaglio, scende lungo la schiena, mentre per la morte di un consanguineo l’abbigliamento è completamente in nero.

L’osservazione attenta dell’abito suggerisce pensieri e suscita sensazioni: la particola-rità del taglio richiama da subito l’attenzione ed un vago senso di austerità emana dalla sua stessa composizione che tramuta il vestirsi in una gestualità da rituale. L’idea di rigore , indotta apparentemente dalla copertura studiata del corpo, sostenuta in parti-colare dalla forma misurata e squadrata del grembiule, fa pensare piuttosto che ad una mortificazione della bellezza femminile, ad un sapiente celarne, proteggerne le forme , avvolgerle non solo con la stoffa, ma con decisa sobrietà e protezione, affinché sguardi curiosi ed intriganti non ne sciupino l’intimità , il porgersi garbato e riservato che deve risultare una crescente scoperta , non un’esposizione. Grazia, armonia, delicatezza, femminilità, senza invadenza, hanno piena espressione , nell’abbondanza delle stoffe impiegate, simile ad una cascata di colore espansa nella flessuosità di pieghe generose e di sbuffi spumosi. Alla lucentezza dei colori profondi, decisi, vividi, fanno naturale riscontro la pregevolezza dei tessuti, dei particolari, la serie di nastri , fettucce, decora-zioni, la ricchezza dei vari ricami, a tema floreale, di piccole stelle.

Gli abiti, sia che condensino retaggi di un sentire religioso ispirato a rigore , purezza , semplicità, o che risentano di passate restrizioni ed imposizioni dettate da eventi storici, come indicato da diverse interpretazioni al riguardo, miscelano mirabilmente memorie di tempi passati. Le forme del penaglio ripropongono vagamente l’arcelet medievale, e risentono di alcuni copricapi femminili in uso tra medioevo e rinascimento, riprodotti anche in affreschi presenti, ad esempio, in Valle Varaita, l’Occitana Val Varacho, dove

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si ritrovano pure nell’abbigliamento, sapienti composizioni e studiati accostamenti di tessuti, ricami, nastri, fettucce che vanno a comporre i vari ”gunelo”, “chamizòlo “ “munchèt” e “fuìdil”, costituenti le parti dell’abito dei luoghi, tra cui quello di Chianale presenta nei colori toni del viola e del blu, fantasie di piccoli fiori ed arricciature sopra il seno fermate da incroci di nastri, e forme ampie, che rimandano spontaneamente a decisi visibili richiami e similitudini con l’abito guardiolo . Somiglianze che si ritrovano anche nell’abito di Pragelato, in Val Chisone, che presenta gonna ampia arricchita da nastri di velluto, sottoveste impreziosita da nastri e passamanerie di vari colori , grem-biule, il “foudiel”, adornato, nei giorni festivi da lungo nastro realizzato in splendide decorazioni floreali e il copricapo a forma di ventaglio aperto, sostenuto da un’anima di cartone per donargli importanza, ampiezza,consistenza e rigidità, abiti delle valli alpine occitane, pervasi da semplicità ed espressione di vita essenziale, misurata, lonta-na da profluvi, con particolare ispirazione ed inclinazione all’essenziale, mutuati dalla silenziosa profonda purezza della montagna. Alcune fonti ritengono addirittura che in passato l’abito valdese sia stato quello tipico delle valli , in particolare della Val Germa-nasca, indossato sia dalle donne cattoliche che valdesi, con qualche differenza nei co-lori, ed in seguito divenuto patrimonio valdese, quando le donne cattoliche iniziarono ad indossarlo sempre più raramente. Le normali comunicazioni tra abitanti delle valli, anche se rallentate da intuibili asperità climatiche e territoriali, si può supporre abbia-no lasciato ricordi, forme, scambi. In proposito è interessante l’abito tradizionale di Fobello, in Valsesia, costituito da camicia in lino fermata al polso, con ampia manica e collo e polsini decorati in puncetto, tipico pizzo della Valsesia realizzato ad ago, scami-ciato ed elaborato grembiule ricamato sempre a puncetto ed ornato da grande nastro multicolore tessuto a mano, lasciato scendere armoniosamente lungo l’abito , fermato sopra il seno , passando al di sotto delle spalline,ed annodato lateralmente con un vi-stoso fiocco, che ci trasferisce immagini non prive di analogie, trasmettendo richiami e rinvii per alcune osservazioni all’abito di Guardia Piemontese . Come pure qualcosa che si percepisce visivamente nella morbida ampiezza della camicia e della gonna del vestito guardiolo riporta alla mente abiti rinascimentali, tutto in una serie di inevitabili ,interessanti, spontanei scambi e trasposizioni di forme, immagini ed idee condivise , circolanti in una stessa vasta area comune di provenienza, ma pur attraversata da varie-tà di istanze e fermenti intellettuali , che hanno generato più che una contaminazione, una superba armoniosa fusione e che comunque non hanno inficiato, ma bensì po-tenziato particolarità, bellezza ed originalità dell’abito di Guardia Piemontese. Imman-cabilmente la storia ci mostra, spirito, materia, memoria che s’incontrano per sfiorarsi e fondersi tra loro, qualcosa di materiale, qualcos’altro di impalpabile, e tutto rimane presente: l’incontro dei Valdesi con la Calabria, incantevole, tenace, prodiga di doni na-turali, apparsa come” terra promessa”, altra possibilità di vita attesa e sognata, eppure luogo di ferite sanate, ma non cancellate. Nell’abito, nel suo stesso nome“tramontana” è conservata l’origine della gente “oltremontana”, che lo ha indossato , sono serbati colori ed atmosfere occitane, orgoglio e senso d’appartenenza ed identificazione delle proprie origini che riportano a musicalità e dolcezza della lingua e memorie fiere della

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terra d’oc, al ricordo del tempo aspro della violenza, ma anche del tempo chiaro, “Ab la dolchor del temps novel”, quello delle stagioni che si ridestano e si rinnovano, cantato dai poeti.

FONTI BIBLIOGRAFICHE E DOCUMENTARIE:

1) Guglielmo IX D’Aquitania (1071- 1126) “Come il ramo del biancospino”2) Le più belle pagine delle letterature d’oc e d’oil , a cura di A. Roncaglia, Milano, Nuova Accademia Edi-trice, 1961 3) Herbert Grundmann, Movimenti religiosi nel Medioevo, Bologna, Il Mulino,19804)Bernard Gonnet, Le Vaudois au moyen age, Torino, Claudiana, 19765)Grado Giovanni Merlo, Eretici ed eresie medievali, Bologna, Il Mulino, 1989 6)Giorgio Tourn, I Valdesi nella storia, Torino, Claudiana, 19967)Pietro De Leo, Minoranze etniche in Calabria e in Basilicata, Cava dei Tirreni, Di Mauro Editore, 19888)Enzo Stancati, Gi ultramontani. Storia dei Valdesi di Calabria, Cosenza, Pellegrini Editore, 20089) Fai Fondo Ambiente Italiano. Il Castello della Manta, Manta ,Cuneo, 2015.Online wwwfondoambiente.it10) Mibact- ICCD- Patrimonio Culturale Immateriale – PCI- Progetto PACI Progetto Integrato per il Pa-trimonio Culturale Immateriale e la Diversità Culturale.Inventario patrimonio culturale immateriale Convenzione Unesco 2003/ Minoranza Linguistica della Ca-labria: Minoranza Occitana.- Responsabile ricerca, contenuti e redazione scheda Dott. Sergio StrafaceOnline paci.icccd.beniculturali.it11) Guardia Piemontese (CS). Itinerario a cura della Dott.ssa Anna Visca Operatrice Culturale e Respon-sabile del “Museo della Civiltà Contadina” di Guardia Piemontese. Online www.occhiettineri.it/guardia-piemontese-cs-itinerario

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IL COSTUME OCCITANO

a cura di Pietro FraPPi

Abito da donna occitano della prima metà del XIX sec. in seta costituito da: vestaglia, vestito, camicia, manicotti, tunica o grembiule e copricapo. La vestaglia di colore rosso, smanicata, presenta bordature dorate sulle spalle e nel decoltè; il vestito in seta bleu anch’esso smanicato, è interamente ricamato a filo d’oro con motivi floreali; in lino la camicia bianca a maniche lunghe è arricchita da applicazioni di pizzo ad ago; i manicotti e la tunica-grembiule, in tessuto damascato floreale in seta con trame a fili d’oro è altresì arricchito da bordature a nastri dorati.

Prop.: Centro Culturale “G.L. Pascale” della Tavola Valdese.

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I COSTUMI CALABRESI

a cura di anna FranCesCa la rosa

Le fonti a nostra disposizione che ci permettono di ammirare le fogge dei costumi calabresi, sono per lo più su base iconografica. Non a caso, la prima testimonianza e attenzione sui costumi calabresi, ci riporta ad un’opera pubblicata in Spagna nel XVI secolo intitolata “TRAGES DE ITALIA”. Una didascalia, commentava il disegno di un costume tipico della nostra regione: “Los Calabreses usan una capa de pano negro j un gorro de pano o’seda segun la estacion.”

Mentre nel secolo XVII, in una stampa una “mulier calabra”veniva raffigurata con il vestito tipico della donna “casalinga”. Sul finire del 1770, il costume calabrese acquista visibilità fuori dalla Calabria nel momento in cui, su commissione dell’Abate di Saint- Non, il francese Desprèez, realizza alcuni disegni raffiguranti figure di contadini e gentiluomini, di campagnole e di cittadine della nostra terra. Ma è durante l’Ottocento che attraverso scritti e pubblicazioni, il vestito tipico calabrese acquista notorietà anche a livello estero.

Rappresentativo della società del tempo, era una sorta di “carta d’identità” del luogo a cui era collegato. La varietà dei nostri costumi era molto ricca e corposa e di diverse fogge in relazione al paese di appartenenza.

Ai modelli d’ispirazione orientale, si contrapponeva ad esempio, quello di stile quasi monastico dei paesi silani come San Giovanni in Fiore, mentre i costumi albanesi, su cui numerosi studiosi, giornalisti e scrittori hanno argomentato, spiccavano per i ricami in oro zecchino sulle varie parti dell’abito. L’abito calabrese era comunque caratterizza-to da tre diverse tipologie: il costume festivo, quello di mezza festa e quello giornaliero, mentre i tessuti impiegati erano la lana per i contadini, il cotone ed il lino per le classi più abbienti. Ma ciò che identificava, nella nostra regione, l’abbigliamento femminile, era il cosiddetto abito della “PACCHIANA”. Il termine, si collega alla parola “Pacchia” che stava ad indicare una grande voglia di divertimento e di allegria. Riferito sia alla figura della contadina, che alla donna di modeste condizioni, l’abito, si differenziava nella foggia a seconda del paese di appartenenza.

Risalente presumibilmente al XVII sec., il vestito era indossato per la prima volta quando la ragazza compiva i 15-16 anni età ritenuta, dalla famiglia, prossima al matri-monio.

Costituito da diversi capi che si sovrapponevano, la pacchiana, era corredata dai gio-ielli che la madre donava alle figlie quando queste si maritavano. Nel periodo del lutto, gli ornamenti venivano tolti.

L’abbigliamento maschile era rappresentato, invece, attaverso l’iconografia del Bri-gante. Esso era composto da una giacca in velluto nero, e calzoni scuri stretti in vita da

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una cintura di cuoio e da una sciarpa dai colori sgargianti o rossa. Copriva le spalle, un mantello nero o marrone mentre, un cappello nero a cono, su cui erano avvolti nastri di velluto, a volte multicolori e ricadenti in fiocchi ai lati dell’orecchio, ne coprivano il capo. L’abbigliamento, era completato da calze scure e ghette nere. Costume pittore-sco, conferiva a chi lo indossava, un’aria leggermente banditesca e malandrina.

I Costumi esposti in occasione della Mostra “L’ETÁ DELL’ELEGANZA”, sono stati significativi e rappresentativi di quello spaccato dell’Ottocento dove la seta è stata la regina indiscussa del tempo. Tra quelli esposti, spiccano, per foggia e colori, quelli di Castrovillari e Morano.

IL COSTUME DI CASTROVILLARI.Esposto al Museo di Bruxelles, si presenta maestoso e ricco di colori sfolgoranti e

accesi.Risalente al XV-XVI sec., era l’abito indossato il giorno in cui ci si sposava e quindi,

faceva parte della dote matrimoniale. Merletti, trine, tessuti come la seta ed il cotone, si intrecciavano finemente in un sa-

piente e delicato lavoro interamente eseguito da mani abili ed esperte.In esso, la foggia orientale, si fonde con l’eleganza e maestosità greca e, per quanto

riguarda i ricami, di quell’arte arberëshe introdotta in Calabria, alla fine del XV secolo dal Principe Skanderberg.

Ricami in oro zecchino adornano l’abito la cui gonna, riccamente plissettata, è ac-compagnata da uno sfarzoso grembiule. Le maniche della camicia, ampie e vaporose ed il velo, realizzato a tombolo, lo diversificano dall’abito indossato quotidianamente per il lavoro nei campi.

L’Abito di gala è costituito da diversi elementi:“A CAMMISA” –Camicia di lino con grandi maniche, rifinita al collo da merletto e

ricamata all’altezza delle spalle e lunga fin sotto al ginocchio. “A CAMMISOTTA”- gonna in panno rossa e rifinita da una fascia di velluto verde

su cui poggia un’elegante corsetto intessuto in oro. Sulla gonna, era annodato un grem-biule di tela celeste.

“A GUNNEDDA” Gonna fittamente plissettata, anch’essa di seta celeste, intera-mente decorata con ricami in oro zecchino e rifinita da un bordo in seta rossa che si alterna ad un ampio gallone d’oro. Impreziosivano il vestito, merletti e trine. Coprima-niche, venivano “legate” al resto del costume attraverso nastri di seta rossa.

Di una bellezza da lasciare senza fiato, “U VANTISINU”, grembiule di raso rosso rifinito in merletto e ricamato finemente in oro, con motivi antropomorfi, mentre “A TUVAGGHIEDDA”, un velo di tulle bianco, scendeva a ricoprire le spalle. Le Calze, finemente ricamate e “A CANNACA”, grossa collana d’oro, davano l’ultimo tocco di preziosità.

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L’ABITO DI MORANO.Il costume di Morano è composto da una camicia lunga fino all’altezza dei piedi in

tela o lino.Su di essa, si frappone un’ulteriore veste di panno rosso detta “cammisola”, anch’essa

di notevole lunghezza e sprovvista di maniche e corredata da una terza veste, chiama-ta coretto e rimboccata sia anteriormente che sui fianchi. Al coretto, sono collegate a parte, le maniche, agganciate sulle scapole.

Un prezioso grembiule in seta e riccamente ricamato in oro, poggia sulla parte ante-riore del vestito e varia, simbologicamente di colore, in relazione agli eventi che con-trassegnano la vita di chi lo indossa: Rosa per le nascite, Nero per il lutto, Bianco per il matrimonio.

Sui capelli, raccolti con nastri di seta, poggiava un velo bianco.Nell’ultimo ventennio del secolo scorso, le donne di Morano non adoperarono più il

corpetto. Il velo bianco fu sostituito da un fazzoletto di seta colorato. Le scarpe, mu-nite di fibbie d’argento..

Numerose sono le immagini ed i disegni che raffigurano la grande varietà dei costu-mi calabresi. Ciò ci riporta ad antiche memorie ed al ricordo di come, un tempo ci si vestiva nella nostra terra..

Purtroppo, col passare del tempo, nulla è rimasto ed oggi, nessuno più veste il costu-me tradizionale, che tuttavia è gelosamente custodito con rispetto e cura.

BIBLIOGRAFIAvalente g., Costumi di Calabria,immagini e luoghi, Laruffa Editore,1993valente g., Il costume Calabrese, Laruffa Editore,1985.PrInCIPe I., Costumi popolari di Calabria nella raccolta Zerbi, Edizioni Mapograf.1990

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I COSTUMI CALABRESI

a cura di Pietro FraPPi

Bellissimo costume tradizionale di Castrovillari (CS) del XIX sec. in seta, costituito da sottogon-na, corpino, gonna, camicia, grembiule e manicotti. La sottogonna di colore rosso, plissettata in vita presenta una bordura in raso azzurro con decorazioni nel corpino, gallonate in oro e ricami a motivi fitomorfi in argento.

La gonna blue, fittamente plissettata è caratterizzata da tre balze colorate in bianco, rosso ed oro con bordature che seguono il plissè della gonna. In lino la camicia bianca a maniche lunghe è arricchita da applicazioni di pizzo su tulle e ricami floreali. I manicotti ed il grembiule in raso di seta rossa presenta ricchissimi ricami con trame a fili d’oro a motivi fitomorfi e zoomorfi arricchiti da floreali bordature dorate.

Prop: Luigi Maria Filpo

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Costume tradizionale di Morano (CS) del XIX-XX sec. in seta, costituito da due gonne, una ca-micia, grembiule e manicotti. La sottogonna di colore rosso, presenta fitte plissettature con decorazioni gallonate in oro. La gonna blue, anch’ essa fittamente plissettata è caratterizzata da bordature dorate sulle spalline, nel decoltè e nell’orlo. In lino la camicia bianca a maniche lunghe è arricchita da appli-cazioni di pizzo ad ago; i manicotti ed il grembiule in raso di seta rosa (poiché trattasi di abito per battesimo) con delicate trame a fili d’oro a motivi fitomorfi e zoomorfi arricchiti da bordature dorate.

Prop.: Gianluigi Trombetti

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Sommario

Introduzione ...................................................................... 5

L’età dell’eleganza: il periodo storico ............................. 6

La sericoltura calabrese nel Novecento ......................... 12

Note Tecniche sul restauro .............................................. 16

Collezione Bilotti-Telesio ................................................ 18

Collezione Gaudenzia Vinci di Francia ......................... 46

Collezione Giuseppina Amarelli ..................................... 65

Collezione Lucia Sangineto ............................................. 77

I costumi Arbrerësche ...................................................... 82

Il costume Arberësche ...................................................... 84

L’abito tradizionale di Guardia Piemontese:

storia, conservazione e memorie

“nella dolcezza del tempo novello” .............................. 89

Il costume Occitano ......................................................... 95

I Costumi Calabresi .......................................................... 98

I Costumi Calabresi .......................................................... 101