L'acqua per la vita dell'uomo

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dalla terra e dal lavoro dell’uomo L’acqua per la vita dell’uomo cambiare paradigma dagli Atti del Convegno di Penna san Giovanni Salviamo l’Acqua14 ottobre 2007 Associazione Culturale “Centro Studi Giuseppe Colucci” di Andrea Antinori

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atti del convegno di Penna san Giovanni del 2007

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dalla terra e dal lavoro dell’uomo

L’acqua per la vita dell’uomo

cambiare paradigma

dagli Atti del Convegno di Penna san Giovanni

“Salviamo l’Acqua”

14 ottobre 2007

Associazione Culturale“Centro Studi Giuseppe Colucci”

di Andrea Antinori

Andrea Antinori “l’acqua per la vita dell’uomo:cambiare paradigma” 2

Dalla Terra e dal Lavoro dell’Uomo - Penna San Giovanni 14 ottobre 2007 -Associazione “Giuseppe Colucci”

L’acqua per la vita dell’uomo: cambiare para-digma“… o miseri seguaciche le cose di Dio, che di bontadedeon esser spose, e voi rapaciper oro e per argento avolterate…”(Inferno XIX,3)

Sollevare il velo di mayaDa alcuni anni, con gli incontri autunnali di Penna San Giovanni, si è cercato di riflet-tere sulla necessità di sviluppare stili di vita che non siano causa di sempre più profonde e vaste alterazioni dell’ambiente naturale e dell’ecosistema terrestre, che inevitabilmente finiscono poi per danneggiare l’uomo stesso pro-ducendo un sensibile peggioramento della sua qualità di vita. Effetti negativi che appaiono sempre più devastanti mano a mano che il mod-ello economico consumistico dai paesi industri-alizzati dell’occidente coinvolge tutto il mondo.Il punto di partenza per tali riflessioni fu la constatazione che, a differenza di quanto gen-eralmente accade oggi, in cui lo sviluppo eco-nomico appare incompatibile con una buona qualità ambientale, la precedente economia di sussistenza, che nelle nostre zone si sviluppò essenzialmente nella forma della mezzadria, produsse un aumento della qualità ambien-tale del territorio, dando vita ad uno dei pae-saggi più preziosi del mondo. L’agricoltura di mezzadria fu primariamente un’economia e un modo di vita distinti da una filosofia del recupero e del riutilizzo, particolarmente at-tenti alla conservazione del suolo agricolo e delle risorse indispensabili per la vita del po-dere. Pur senza negare e senza nascondere le difficoltà e i problemi che la caratterizzarono, sembra indiscutibile che sia riuscita nel tempo a produrre un alto valore territoriale, dando vita progressivamente ad uno spazio abitato migliore, frutto di una crescente umanizzazi-one dell’ambiente naturale, ottenuto con un intenso lavoro contadino a partire almeno dal medioevo. Non casualmente le regioni del “ bel paesaggio”, la Toscana, l’Umbria e le Marche,

tutte caratterizzate dal sapiente equilibrio tra spazio urbano e spazio rurale, sono proprio quelle del sistema mezzadrile. Paesaggio unico ed irripetibile, frutto dell’accorto modellamen-to dello spazio rurale. Il “valore territoriale” in tal modo aggiuntovi ancora oggi da molti frutti, di cui molti di noi godono ampiamente, seppure non sempre consapevolmente. Non solo per i vantaggi che derivano dall’abitare un territorio di armonica bellezza, ma anche per i tornaconti più banalmente economici di chi, ad esempio, può lucrare sull’alto valore immobiliare dei manufatti rurali, derivante esclusivamente dal particolare contesto ter-ritoriale e paesaggistico in cui sono inseriti.Diverse e complesse sono le motivazioni del brusco scomparire dell’agricoltura di mez-zadria. Sicuramente cause decisive furono il crescente squilibrio di una popolazione in costante aumento rispetto alle risorse di-sponibili e il perdente confronto con i mod-elli di produzione industriali e di mercato.Quell’economia, però, nel mentre perseguiva i fini diretti della produzione dei beni atti a soddisfare il fabbisogno primario della popo-lazione, capitalizzava ulteriori beni in termini di aumento della fertilità dei suoli e di ordi-namento della tessitura dello spazio rurale, che hanno consentito alle successive gener-azioni di godere di migliori condizioni di vita .Lo stesso non possiamo dire di ciò che accade oggi, nel momento in cui l’economia capital-istica, basata su industria e mercato, si è de-finitivamente e radicalmente trasformata in un’economia mondiale dissipativa e consum-istica. Abbandonata la ciclica riutilizzazione delle risorse naturali grazie allo sfruttamen-to dell’energia solare, come era tipico delle economie agricole di sussistenza, essa non consiste nemmeno più in un sistema rego-lato dal semplice meccanismo di domanda/offerta, ma in una massiccia e crescente pro-duzione di beni finalizzata esclusivamente a sostenere l’aumento del profitto attraverso il controllo monopolistico dei mercati. Ovvero in un coercitivo processo di crescita esponen-ziale della produzione di oggetti di consumo . Non più la produzione di beni atti a soddisfare i bisogni della popolazione, ma la pura crescita del profitto: processo questo che considerato a vasta scala, si traduce nella necessità di un aumento continuo del PIL (prodotto interno lordo) da parte delle nazioni e delle macrore-

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gioni economiche mondiali. L’economia così strutturata è possibile solo se organizzata come un sistema aperto dissipativo che si reg-ge esclusivamente grazie ad un input costitu-ito dallo sfruttamento crescente delle risorse naturali e al simmetrico output rappresentato dalla reimmissione nell’ambiente naturale dei prodotti di rifiuto derivanti dalla produzione e consumo dei beni. È evidente che tale modello produttivo ed economico non può termodinami-camente sorreggersi se non con un continuo consumo (input) di energia e materie prime. Da qui l’inevitabile massiccio ricorso a fonti min-erali (idrocarburi, uranio ecc.) non rinnovabili. In tale contesto le attività produttive sono in-evitabilmente diventate la causa maggiore del crescente degrado del territorio, sia a causa dell’ intensivo consumo delle risorse (quanti-tativamente finite) da trasformare in beni di mercato, sia per l’alterazione (spesso irreversi-bile) dell’ecosistema per l’immissione in esso di massicci quantitativi di reflui della produzione industriale. Conseguentemente il degrado del territorio, inteso come spazio dell’abitare, sem-pre più si risolve in un deterioramento della qualità della vita degli stessi abitanti e in costi costantemente in aumento, a carico della col-lettività, per il ripristino dei beni danneggiati. Il territorio stesso e le sue risorse sono difatti divenute puri oggetti di consumo da convertire il più possibile in mezzi per accrescere il profit-to economico. La terra, per esempio, non è più il frutto pregiato della mutua fecondazione tra condizioni naturali e cura dell’uomo, la risorsa fondamentale da cui dipende l’abbondanza o no del cibo, ma è ridotta a semplice superfi-cie catastale, da trasformare in rendita eco-nomica attraverso l’investimento immobiliare e infrastrutturale. Il paradosso sta quindi nel fatto che la crescita del PIL sempre più chi-aramente si tramuta non in un aumento della qualità della vita della popolazione locale e mondiale, ma in un progressivo suo impoveri-mento in termini di beni, anche essenziali come l’acqua, la terra, lo stesso paesaggio, non più di-sponibili, né tanto meno liberamente godibili.Degli effetti immediati di tale processo si pos-sono trovare facilmente moltissimi casi; le cronache dei giornali locali e nazionali sono sem-pre più pieni dei danni e dei costi crescenti che un territorio ormai gravemente compromesso induce sul tessuto economico, sulla salute della popolazione, sulla qualità della vita di molti.

Ne voglio qui analizzare qualcuno nel tenta-tivo di far emergere quanto fallace sia la nos-tra percezione di ciò che veramente produce benessere, e di ciò che invece appare tale solo attraverso le lenti deformanti di una ges-tione economicistica dello spazio naturale ed abitato, attenta esclusivamente alla massi-mizzazione dei profitti, ma che nasconde ar-tatamente i costi crescenti delle esternalità negative che ne conseguono. Specialmente quando queste avvengono a discapito di una crescente ed irreversibile perdita del bene ter-ritoriale e ambientale. Il tutto aggravato dal progressivo processo di concentrazione dei beni naturali nelle mani di pochi, sottratti così al godimento comune. Questo appare sempre più evidente sia in ambiti territoriali locali, che come causa fondamentale degli irrisolti squilibri tra paesi cosiddetti sviluppati e non.

Dopo tanti anni spesi nello studio dell’ambiente naturale e nella didattica, meraviglia sempre il constatare come sia difficile per molti di noi col-legare certi eventi, nello specifico quelli che co-involgono l’ambiente e il territorio, alle loro vere cause. Oppure riuscire ad inquadrare l’evento locale in un contesto più generale cogliendone le complesse interazioni. Alcuni semplici esem-pi (le numerose implicazioni saranno ulterior-mente sviluppate nel corso della trattazione):Primo esempio. Se si costruiscono case a ri-dosso di un fiume, magari nel suo letto di es-ondazione ( affidandosi al fatto che per lunghi periodi esso è risultato asciutto), non dovrebbe essere difficile capire che la causa della loro altamente probabile distruzione non è im-putabile al fiume, poiché le piene periodiche appartengono alla normale dinamica di ogni corso d’acqua, ma all’improvvida decisione di costruire lì ciò che invece andava diversamente localizzato. Eppure quando l’evento, immanca-bilmente, accadrà si cercherà di accreditarlo al “disastro naturale” quando invece esso è stato l’inevitabile frutto di una catena di scelte er-ronee, connotate più da una propensione al fatalismo che da una ponderata analisi costi benefici condotta su basi empiriche (esperien-ze) e con metodologie scientifiche. Successiva-mente poi, continuando nella catena di errori decisionali, e sotto l’imperativo dell’urgenza, invece di preoccuparsi di ricostituire la preesi-stente dinamica fluviale, la si inibirà ulterior-mente, imbrigliando il letto fluviale con rigide

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barriere di contenimento. La tanto invocata regimazione idraulica, attraverso argini, barri-ere e incanalamenti, lungi dal risolvere il prob-lema originario, in realtà, modificando sempre più estesamente e in profondità le dinamiche naturali, costituirà la premessa per ulteriori futuri disastri in un inevitabile crescendo di dissesto del territorio e di lievitazione dei costi economici della manutenzione e del ripristino.Secondo esempio. Se anche nelle nostre re-gioni, dove le precipitazioni sono sempre state regolari e sufficienti a produrre l’acqua neces-saria per la popolazione, si assiste da tempo a frequenti fenomeni di crisi idrica, la causa è forse da ricercarsi più nella errata gestione della risorsa idrica disponibile, ad esempio nel suo spreco irresponsabile (proprio perché ab-bondante e, fino ad ora, sempre godibile), più che nelle eventuali variazioni climatiche. Le quali avranno senz’altro un ruolo, ma come uno dei numerosissimi fattori che interagiscono in modo multiforme, come è tipico di tutti i sistemi complessi, siano essi quelli naturali o sociali ed economici. Ogni risposta semplicistica al prob-lema dell’approvvigionamento idropotabile, quali la spasmodica ricerca di nuove risorse id-riche, l’emungimento di falde più profonde e così via, rischia pertanto di aggravare solamente il problema, spostando solo un poco più avanti nel tempo lo spartiacque della crisi irreversibile.Che cosa è mancato allora, quali deficienze culturali hanno dato e danno costantemente luogo a scelte irrazionali nel nostro rapporto con l’ambiente e il territorio? Come mai ancora oggi, malgrado siano state promulgate numer-ose leggi che avrebbero dovuto, almeno in teo-ria, favorire una corretta gestione e armonica integrazione tra spazi dell’uomo (economici e insediativi) e processi naturali, in realtà as-sistiamo ad un’accelerazione del consumo di territorio e delle sue risorse? Molte possono es-sere le cause, ma a mio avviso almeno cinque aspetti significativi interagiscono variamente tra loro e impediscono spesso una corretta per-cezione di quello che dovrebbe essere il nos-tro rapporto con l’ambiente che ci fa vivere: a. mancanza di memoria storica nei riguardi degli eventi naturali e territoriali; la maggior parte di noi ormai vive in un ambi-ente artificioso, separato dalla natura ed è quindi inconsapevole dei suoi ritmi, delle sue forze, dei suoi tempi; b. il magico affidamento alla “tecnica” che

si ritiene infinitamente capace di modificare e addomesticare le forze naturali secondo l’interesse immediato del momento; c. l’erronea percezione che ci porta a rite-nere che la natura operi in modo lineare, at-traverso semplici catene di cause ed effetti e che quindi, grazie alla tecnica, si possa agire immediatamente sulle cause più prossime per produrre gli effetti ritenuti utili;d. la deresponsabilizzazione personale che ci porta ad affidare ai cosiddetti “esperti” qualsiasi decisione che coinvolge la vita e l’ambiente, in termini di salute, gestione del territorio, scelte economiche e politiche che incidono sulla collettività;e. lo spirito d’ingordigia che anima in pro-fondità e motiva spesso l’agire dell’uomo che porta a confondere i beni con il profitto, l’utile personale con il bene collettivo.L’intreccio di tali fattori genera una diffusa falsa percezione della realtà (aggravata in Ita-lia da una scarsa se non inesistente cultura scientifica, appena scalfita da un secolo di sco-larizzazione di massa) che sembra nascondere la realtà fisico naturale dietro un velo illusorio e la fa intendere come manipolabile a piacere. La mancata consapevolezza della dimensione complessa dei processi ambientali e territoriali non favorisce scelte consapevoli e responsabili. Occorre sollevare il velo confuso e affrontare la realtà per quella che effettivamente è, spe-cialmente quando tale velo viene volutamente ispessito per la difesa degli illeggitimi inter-essi di alcuni a discapito del bene comune.

L’acqua 1Che cosa c’è di più importante, vitale e insosti-tuibile dell’acqua? L’equazione acqua = vita è forse la prima conquista razionale e spirituale dell’uomo; i miti legati ad essa affondano le loro radici in epoche ancestrali, probabilmente di molto antecedenti alla vera e propria ominazi-one. Siamo fatti essenzialmente d’acqua e sen-za di essa tutto la nostra apparente grandezza e complessità si ridurrebbe a pochi grammi di polvere minerale. Tutti gli esseri sono strut-ture modellate con l’acqua. Ho ancora davanti agli occhi l’immagine meravigliosa delle de-cine di diafane meduse ospitate nell’acquario di Montecarlo: trine d’acqua che pulsavano ritmiche nell’acqua della vasca trasparente: puro palpitare della vita costituita da “acqua

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vivente” nell’acqua di mare. Se per qualche ora viene meno il flusso d’acqua nelle nostre case siamo presi dal panico. Misuriamo il gra-do di civiltà dei popoli dell’antichità in base alla loro capacità di gestire le acque pubbliche con acquedotti e fognature. Eppure da come ci comportiamo sembra non ci sia niente di più disprezzato, nella nostra “civiltà” industriale, dell’acqua. A parole o per legge l’acqua viene tenuta in grande considerazione, ma in realtà la cura che personalmente rivolgiamo ad essa quotidianamente, è poca. I popoli che vivono nelle zone aride, dove la risorsa è scarsa, han-no imparato a governare l’acqua con un’ atten-zione tale che possono definirsi veri e propri “maestri dell’acqua”, tanto che ai nostri occhi appare impossibile che possano disporne viste le scarse e sporadiche precipitazioni di quei paesi. Noi invece siamo così abituati alla fac-ile disponibilità che di fatto il nostro atteggia-mento nei confronti dell’acqua se non rasenta il disprezzo è però di marcata indifferenza . Forse è una conseguenza anche dell’antica concezione che tutto ciò che non è nostra stretta proprietà costituisce un res nullius che ognuno può liberamente utilizzare per poi altrettanto liberamente disfarsene. Nel pas-sato, prima che la raccolta dei rifiuti venisse organizzata dai comuni in modo sistematico, ogni centro abitato si avvaleva di qualche area marginale fuori dell’abitato. Non è un caso che spesso essa era costituita dalle sponde di un fiume o di un fosso; terra di nessuno. Così an-cora oggi, per inveterata abitudine, le sponde dei nostri fiumi, ma anche i boschi, le rive del mare, tutto ciò che appartiene al comune spazio naturale, viene vissuto come alieno e quindi libero ricettacolo di scarichi abusivi di ogni tipo. Spesso le acque superficiali e sotter-ranee diventano facilmente il naturale serba-toio dei rifiuti, anche industriali, dei quali ci si vorrebbe disfare senza essere gravati dagli oneri del loro coretto smaltimento. In tal modo si è compromessa irreparabilmente la qualità delle acque potabili dei nostri fiumi, a volte in-quinandoli in modo così grave, come è purtrop-po avvenuto anche nella bassa valle del Chi-enti, da pregiudicarne ogni loro uso attuale.Qui l’errore di percezione discende, a mio av-viso, dal fatto che mentre in una società con-tadina i pochi rifiuti prodotti erano di orig-ine organica, animale e vegetale, e quindi l’ecosistema naturale, comprese le acque su-

perficiali, erano sufficientemente in grado di metabolizzarli, degradandoli rapidamente, oggi noi produciamo veleni industriali ter-ribili che diffondendosi in tutto l’ecosistema vi permangono stabilmente, vi si accumulano fino a concentrazioni elevate, con conseguenze nefaste in particolare sull’uomo e le sue attività. Si potrebbe parafrasare il vangelo chiedendo-si chi è così malvagio da dare al proprio figlio che gli chiede, assetato, un bicchiere d’acqua del veleno in cambio? Eppure è quello che noi tutti spesso facciamo, certamente in modo inconsapevole, ma non per questo senza una nostra diretta responsabilità. Per compren-dere come spesso la superficialità e l’imperizia con la quale si prendono decisioni relative all’uso delle risorse naturali, oppure il cieco calcolo dell'interesse personale, possano pro-durre inattesi disastri a costi insostenibili per la collettività, può essere utile analizzare come si è sviluppato il caso dell’inquinamento della falda idrica del fiume Chienti.Attualmente la densa area urbana di Civi-tanova Marche viene in buona parte rifornita di acqua potabile grazie ad una derivazione dell’acquedotto del Tennacola, realizzata nel corso degli anni compresi tra il 1994 e il 1999. Ciò si rese necessario poiché l’acqua che da decenni alimentava l’acquedotto cittadino, emunta dalla falda di subalveo del fiume Chi-enti, alimentata dall’area pozzi della centrale di sollevamento di contrada del Mulino, risultò gravemente inquinata da sostanze organo-alo-genate (composti organici contenenti atomi di cloro nella loro molecola), di origine industri-ale, quali il tricloroetano, il tricloroetilene e il tetracloroetilene. Sono sostanze utilizzate come solventi. In zona, le maggiori utilizza-trici sono le industrie della calzatura, per lo più produttrici di suole e fondi poliuretanici. Fino a quando non fu rilevato il grave inqui-namento della falda, la città era autonoma nell’approvvigionamento idrico, che avveniva utilizzando le risorse locali. Oggi esso va a gravare sulla produttività delle sorgenti dei Sibillini ( sorgenti del Tennacola) non più pi-enamente in grado di soddisfare il crescente fabbisogno. L’impianto di emungimento e soll-evamento, realizzato in contrada Molino, prel-evava l’acqua in profondità (fino a circa 25 me-tri) dall’acquifero alluvionale del fiume Chienti. Il campo pozzi dell’acquedotto fu realizzato in quella che allora era ancora aperta campagna

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lontano dalla città. L’impianto fu successiva-mente potenziato negli anni ’30 e poi di segui-to, mano a mano che crescevano la popolazione e il tasso di utilizzazione dell’acqua. Nel frat-tempo, infatti, la crescita tumultuosa di Porto Civitanova, delle sue industrie e zone produt-tive, agglomerò in un’unica area urbana tutta la bassa valle del Chienti. Oggi, alla fine, la centrale di emungimento e sollevamento si trova stretta tra l’autostrada, la superstrada e la zona commerciale Aurora. Attorno e a monte di essa le zone industriali e gli inse-diamenti abitativi si alternano, integrandosi, e concentrandosi particolarmente in tutta la pianura alluvionale compresa tra Montecosa-ro e la costa. Di per sé l’accerchiamento effet-tuato dagli insediamenti urbani e industriali dell’area in cui ci si approvvigiona dell’acqua, induce inevitabilmente un elevato aumento del rischio potenziale di inquinamento delle falde presenti nel sottosuolo. I terreni alluvionali, per la loro natura granulare, sono completa-mente permeabili e l’interscambio tra suolo, acque sotterranee ed acque superficiali ( sia di ruscellamento meteorico che quelle canaliz-zate nel fiume) è continuo e completo. Per tale motivo tutto ciò che viene abbandonato in su-perficie indurrà facilmente conseguenze nel sottosuolo come effetto dei processi di infil-trazione: diretta se si tratta di sostanze liq-uide; indiretta se si tratta di sostanze solubili che le acque di pioggia dilavando il terreno superficiale e infiltrandosi poi nel sottosuolo vi trasporteranno come carico inquinante . Non è difficile poi immaginare che la peculiare interazione tra acque superficiali e acque sot-terranee produrrà il trasporto degli inquinanti anche a distanze notevoli dal punto di immis-sione, diffondendo il loro effetto su zone vaste fino a tutta la pianura alluvionale e la costa.

Infatti nel 1992 le analisi chimiche di con-trollo sulla qualità dell’acqua utilizzata dai Civitanovesi mettevano in evidenza la pre-senza, oltre ai consueti inquinanti derivanti dall’agricoltura (nitrati per lo più) o dal sistema fognario insufficiente, anche di elevate con-centrazioni di sostanze chimiche di origine in-dustriale, diverse delle quali con valori molto superiore ai limiti stabiliti per legge. Le più dif-fuse e pericolose erano costituite da composti organo-clorurati quali tricloroetano, il tricolo-etilene e il tetracloroetilene, che sono ampia-

mente utilizzati nella produzione calzaturiera, come solventi. Di molti di questi composti è stata da tempo evidenziata la pericolosità come agenti tumorali. Essi entrano comunque in modo complesso nelle catene ecologiche dando vita a processi biologici di accumulo di cui non sono completamente noti gli effetti sulla salute dell’uomo. Ciò che infatti va considerato è che molte sostanze chimiche di sintesi, con le qua-li entriamo frequentemente in contatto, non hanno effetti tossici macroscopici, evidenti ed immediati, ma agiscono nel tempo producendo aumenti dell’incidenza di alcune malattie, come ad esempio i tumori, rilevabili in una popolazi-one solo statisticamente e su lungo periodo. I cittadini civitanovesi hanno quindi con-sumato ed usato acqua ad alto contenuto di sostanze nocive potenzialmente cancero-gene, per un certo periodo di tempo, infil-tratesi nella falda idrica a partire da sversa-menti, perdite accidentali, scarichi abusivi da parte di diverse industrie sorte tra la costa e il comune di Montecosaro. Le indagini ef-fettuate dall’ARPAM e il monitoraggio con-dotto negli anni successivi, hanno evidenziato la presenza di ben 23 siti da cui si è diffuso l’inquinamento, coinvolgendo una superficie di ben 26 chilometri quadrati, nel territorio dei comuni di Montecosaro, Civitanova Marche e Porto S. Elpidio. Una situazione talmente grave da far inserire la bassa valle del Chi-enti tra i siti inquinati di interesse nazionale .Le analisi condotte dall’ARPAM hanno eviden-ziato un’inquinamento del suolo e del sotto-suolo, a partire dalla costa, caratterizzato dal-la presenza di idrocarburi policiclici aromatici, PCB,DDT, di composti clorurati e di metalli pe-santi quali zinco, rame e cadmio. Per le acque di falda si parla di idrocarburi alifatici cloru-rati, tricloroetilene, dicloroetilene, percloroet-ilene, dicloropropano, tetracloroetilene, nitriti, benzene, toluene, ferro e manganese. La stessa ARPAM ha dichiarato che dopo circa 10 anni, malgrado che le industrie che hanno causato l’inquinamento siano state messe in sicurezza, l’inquinamento è tuttora presente ed invariato.Ciò, perlopiù, a causa del fatto che tali compos-ti, più densi dell’acqua, se riversati sul terreno penetrano progressivamente negli strati sot-tostanti e scendendo fino alla base dell’acquifero si stratificano sul fondo. Ne consegue che difficil-mente il normale lento deflusso idrico sotterra-neo può portare ad una loro progressiva dilu-

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izione e quindi essi permangono nell’acquifero per tempi molto lunghi o permanentemente. Dal momento in cui è stata rilevata la pre-senza di tali inquinanti la collettività civitano-vese, rimasta improvvisamente senza acqua, ha dovuto far fronte a tale emergenza con un notevole impegno finanziario. Dapprima at-traverso la depurazione delle acque pompate dalla falda con un sistema di filtraggio a car-boni attivi e poi attraverso la loro sostituzione con l’acqua del Tennacola. Resta completa-mente in piedi la problematica relativa alla bonifica della falda dagli inquinanti presenti.L’inserimento del vasto territorio nei siti nazi-onali caratterizzati da grave inquinamento di origine industriale ha fatto scattare tutta una serie di divieti di utilizzazione delle acque di falda che hanno prodotto e producono tuttora pesanti conseguenze sull’agricoltura (divieto di utilizzazione delle acque di falda per irrigazione) e perfino sull’attività edilizia (divieto di costru-ire senza una caratterizzazione del sito che es-cluda la presenza di inquinanti). Il costo delle operazioni di disinquinamento è stato quan-tificato dai tecnici dell’ARPAM in 3.000.000 di euro, che dovrebbero in gran parte gravare sui conti pubblici di Provincia di Macerata e co-mune di Civitanova; solo per un terzo a carico dei privati che hanno prodotto l’inquinamento.Vediamo allora se un simile evento era preved-ibile o no; se la perdita di valore ambientale e territoriale è una conseguenza ineliminabile dell’aumento del tenore di vita (aut,aut), o solo l’effetto di scelte improvvide e spesso dettate da decisioni miopi orientate dall’ottenimento del massimo profitto immediato.1) Era possibile prevedere che l’urbanizzazione e l’industrializzazione della bassa valle del Chienti avrebbe avuto come conseguenza il grave livello d’inquinamento delle acque di falda? Si. Già nel 1926 gli al-lora lungimiranti amministratori del comune di Civitanova commissionarono ad uno studio di ingegneria di Roma l’indagine idrogeologica necessaria per la migliore ubicazione possibile della futura centrale di emungimento di con-trada del Molino. L’ingegnere che effettuò lo studio, grazie a numerosi sondaggi sviluppati a partire dalla costa fino a Santa Maria Ap-parente, individuò con esattezza la geometria dell’acquifero (cosa ammirevole visti i mezzi di prospezione dell’epoca, consistenti per lo più nella realizzazione di pozzi a canna battuta),

le caratteristiche litologiche delle varie lenti di argilla, sabbia, ghiaia; la quota della piezo-metrica e così via. Aspetto però importante che emerse da tale studio fu l’aver evidenziato che la falda di subalveo del Chienti, benché ospi-tata da un unico acquifero e quindi in continu-ità idrogeologica tra la superficie e il fondo, era difatti quasi completamente suddivisa da due importanti orizzonti argillosi e limosi, imper-meabili, che la ripartivano in una falda super-ficiale, maggiormente soggetta alle interfer-enze dell’infiltrazione superficiale, e una falda profonda, in pressione, maggiormente protetta e meno vulnerabile di quella più superficiale. Negli anni del dopoguerra, quando lo sviluppo economico della zona produsse un’intensiva ur-banizzazione dell’area, tali conoscenze, furono del tutto ignorate. La trivellazione incontrol-lata in tutta la zona di migliaia di pozzi, per l’irrigazione e per l’uso domestico delle nuove abitazioni, realizzati con tecnologie approssi-mative, ha perforato e messo in continuità idro-geologica le falde superiori con quelle inferiori dell’acquifero di subalveo. Si è così facilitato il transito degli inquinanti (di origine industriale ma anche organici di origine domestica per la mancanza di una adeguata rete fognaria fino a tempi recenti) dalla superficie verso le zone profonde dell’acquifero, da dove poi quell’acqua veniva emunta per l’uso potabile della città. La mancanza di ogni controllo sui sistemi uti-lizzati dalle industrie per smaltire le sostanze inquinanti di cui fanno ampiamente uso ha fatto il resto. Ovviamente andava anche disci-plinato lo sviluppo residenziale ed industriale con particolare riguardo alla protezione della risorsa idrica sotterranea. Questo certamente non diminuisce minimamente la responsabil-ità di chi direttamente o per incuria, o per non dotarsi di costosi depuratori e sistemi di riciclo dei solventi usati, ha provocato il grave stato d’inquinamento della falda, ma serve a capire come una lunga serie di scelte (o an-che non scelte) da parte di molti enti diversi, possano interagire tra loro anche a distanza di anni, cumulando gli effetti negativi che si riverberano irreversibilmente sull’ecosistema e, conseguentemente, sulla salute di tutti. In questo caso gli “esperti”, che hanno redatto costosi piani regolatori, chiusi nelle loro sca-tole specialistiche, si sono più preoccupati di quello che appariva importante, l’aspetto eco-nomicistico (indici di fabbricazione, infrastrut-

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ture e via dicendo) che del potenziale impatto delle loro scelte sull’ambiente che si andava profondamente a trasformare, gettando così le premesse per i futuri disastri regolarmente verificatesi. La natura è un sistema chiuso e restituisce puntualmente ciò che l’uomo vi im-mette, spesso amplificandone gli effetti.2) L’illusione che comunque il danno poteva essere facilmente riparato con qual-che mezzo tecnico ha prodotto due effetti: da un lato si sono spesi cifre notevoli per dotarsi di depuratori e provvedere la città di un nuo-vo acquedotto (rete del Tennacola) dall’altro l’allarme presso la cittadinanza si è presto placato appena superata l’emergenza iniz-iale con le autobotti, quando l’acqua è tornata a scorrere nei rubinetti come usuale. Quindi quello che rappresenta una notevole ipoteca, attuale e futura, su una risorsa fondamentale e insostituibile, è stato infine percepito dai cit-tadini come un fatto puramente economico o tecnico che qualcuno in qualche modo saprà risolvere. Pochi hanno maturato la consapev-olezza dell’irreversibilità del danno in termini sia economici che di futura disponibilità della risorsa idrica. Da un punto di vista puramente contabile, i danni sostenuti dal comune di Civ-itanova, difficilmente quantificabili, sembrano ammontare tra depurazione e collegamento al Tennacola in circa 8 miliardi delle vecchie lire. A questi bisogna aggiungere i 3 milioni di euro necessari oggi, dopo più di dieci anni, per avviare le operazioni di disinquinamento . Nessuno però è in grado di quantificare a quanto può ammontare in termini di salute il danno eventualmente patito dagli ignari citta-dini che hanno usato quell’acqua per un certo tempo, né il valore della risorsa idrica non più disponibile ( i giuristi parlerebbero di lucro cessante) e tante altre voci . Tutto questo, però, non ha portato verso nes-suna vera soluzione e cambiamento reale nei confronti dell’ambiente (salvo alcune industrie che hanno saputo cogliere l’occasione per mod-ificare il loro ciclo produttivo in modo da impe-dire ulteriori sversamenti nell’ambiente). Solo quando si è visto che le norme previste per i siti inquinati di interesse nazionale rischiavano di bloccare l’attività edilizia, a causa della neces-sità della caratterizzazione dei siti, o dopo che gli agricoltori hanno cominciato a protestare per i danni e la perdita di profitti conseg-uenti ai divieti di utilizzazione dell’acqua di

falda per irrigazione, i politici hanno comin-ciato a prendere qualche decisione in merito. In conclusione permettendo un uso del territo-rio e delle sue risorse (terra ed acqua) secondo criteri improntati esclusivamente o principal-mente al raggiungimento del profitto, dopo al-cuni decenni di crescita economica a discapito delle risorse ambientali, la collettività si trova a dover far fronte ai pesanti costi connessi con un ambiente divenuto insalubre, rischi per la salute, depauperamento di risorse fondamen-tali come l’acqua. I costi in termini sociali ed economici, altre che ambientali, superano ab-bondantemente i profitti ottenuti dalla produz-ione dei beni industriali . Il tutto aggravato da due fatti: il primo riguarda i profitti realizzati che sono stati prevalentemente dei privati, mentre i costi così prodotti sono stati riversati sulla collettività. Si tratta di un chiarissimo caso di come il procedere senza regole da parte del sistema produttivo si risolva in pesanti es-ternalità negative a carico della società ; il sec-ondo concerne una risorsa, l’acqua dolce, di per sé rinnovabile e quindi teoricamente sempre disponibile, trasformata in una risorsa finita e scarsa, con la conseguenza di ipotecare la qual-ità della vita delle attuali e future generazio-ni. Il bilancio appare ampiamente negativo .

L’acqua 2Quando si discute di acqua e della sua di-sponibilità, di crisi idriche e via dicendo, il pensiero va sempre all’acqua per uso potabile ed igienico o alla mancanza di acqua di pioggia e quindi alle difficoltà per l’agricoltura e le sue produzioni. Così negli anni siccitosi molti si al-larmano per il venir meno di una risorsa che generalmente utilizziamo senza troppi pen-sieri, ma basta qualche giorno di pioggia per-ché l’allarme scemi e si continui come al solito. Non si è molto consapevoli, invece, di come la maggior parte dell’acqua che noi utilizziamo non è quella che arriva nelle nostre case con gli acquedotti, ma quella incorporata nei prodotti che usiamo, siano essi di origine industriale che agricola. Così la mancanza di acqua non è un problema che si evidenzia solo nei periodi di crisi idrica, quando essa viene a mancare nelle nostre case, ma incide profondamente e perico-losamente anche sul nostro sistema produttivo e, insieme all’energia, rappresenta il fattore più critico per il benessere di una popolazione.

Andrea Antinori “l’acqua per la vita dell’uomo:cambiare paradigma” 9

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Il fatto che il sistema economico consumistico usi sempre più acqua sia per produrre derrate alimentari che qualsiasi altro bene industri-ale, è la causa principale del continuo crescere del fabbisogno idrico dei paesi industrializzati. Facendo riferimento agli studi UNESCO che si sono occupati di confrontare come viene utiliz-zata l’acqua nei vari paesi del mondo, appren-diamo che in Italia il consumo medio comples-sivo di acqua si aggira intorno ai 134 milioni di metri cubi per anno , pari ad un consumo pro capite di 2332 m3 all’anno. È uno dei consumi più alti, paragonabile a quello degli Stati Uni-ti che dispongono però di ben altre risorse id-riche. Per comprendere appieno la grandezza di tale quantità, basta pensare che essa corri-sponde al volume di un palazzo con superficie di base pari a 100 m2 ( la superficie di un ap-partamento medio in città) alto ben 23 metri; ognuno di noi ogni anno utilizza direttamente o indirettamente tutta quest’acqua per il pro-prio fabbisogno igienico sanitario o attraverso il cibo e i beni industriali che consuma. Infatti per uso strettamente potabile il consumo è di appena 138 m3 , mentre i restanti 2194 m3 sono costituiti dall’acqua inglobata nei proces-si produttivi dell’agricoltura e dell’industria. L’agricoltura industrializzata dipende sempre più dall’acqua e dall’energia fossile (petrolio). Il cibo prodotto dai nostri antenati, cresceva

grazie al lavoro ani-male e all’energia so-lare incamerata nella biomassa dal processo fotosintetico. Oggi noi per produrre quel cibo bruciamo più energia, in termini di lavoro meccanico, concimi, diserbanti, irrigazione, di quanta poi ne otte-niamo con il raccolto.I dati resi noti dalla re-gione Marche, ci dicono che la produttività de-gli acquedotti attual-mente in esercizio è adeguata a soddisfare il fabbisogno dei cit-tadini anche per il fu-turo, visto che le previ-sioni demografiche per la nostra regione sono di passaggio dalla at-

tuale fase di lenta crescita a quella della de-crescita della popolazione complessiva. Per la nostra regione, pertanto, ai fini idropotabili l’obiettivo è quello di razionalizzare lo sfrut-tamento delle risorse idriche che in gran parte dipendono dai sistemi idrogeologici carbonat-ici del nostro Appennino. Diverso è il quadro complessivo della disponibilità di acqua per usi produttivi che è in costante crescita, in Italia come nel resto d’Europa e del mondo.L’acqua dolce è e sarà sempre di più la risorsa dalla quale dipende il grado di svi-luppo dei paesi del mondo. Ciò è tanto vero che, più che il petrolio, le maggiori imprese transnazionali stanno cercando di appropri-arsi di tutti i principali bacini idrogeologici mondiali, cercando di privatizzare il più pos-sibile questa fondamentale risorsa per la vita dell’uomo e di tutta la Terra, poiché ora è l’acqua il fattore limitante dello svilup-po, ruolo che fino ad ora è stato del petrolio.Lo studio dell’ Institute for Water Educa-tion dell’UNESCO-IHE ci fa sapere che per produrre in Italia una tonnellata di riso oc-corre mediamente dai 1700 ai 2500 m3 di ac-qua; per una tonnellata di frumento occorrono 2400 m3; per una tonnellata di mais ci vogli-ono 530 m3. I maggiori consumatori di acqua sono il caffè (20.700 m3) e la carne di manzo

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(21.167 m3). La quantità di acqua necessaria alla produzione è considerata come incorpora-ta nel prodotto finale e si parla di “acqua vir-tuale” . Una mela prodotta negli USA è come se contenesse i 70 litri d’acqua necessari per essere prodotta. Per produrre un’automobile di media cilindrata ne occorrono 400.000 litri, mentre per costruire una casa anche 6.000.000 di litri d’acqua. Una T-shirt di cotone, che oggi si vende a pochi euro su qualsiasi bancarella, incorpora ben 2000 litri d’acqua; un semplice foglio di carta formato A4, che appallotto-liamo e gettiamo via incuranti, incorpora 10 litri d’acqua. Da ciò discende che industria e agricoltura sono i maggiori consumatori d’acqua e da essa i più dipendenti. I dati di-mostrano come in tutto il mondo, dal dopogu-erra ad oggi c’è stata una notevole impennata nel consumo di acqua per scopi produttivi.La forte dipendenza della produzione dall’acqua (come anche dall’energia) crea così una forte fragilità perché chi controlla l’acqua control-lerà anche agricoltura e industria e quindi sarà l’arbitro del benessere della popolazione mondiale. Inoltre in alcuni paesi per produrre un determinato bene si usano quantitativi d’acqua maggiori che in altri. Così la rete mon-diale del commercio è anche una rete virtuale in cui si scambia acqua attraverso i prodotti importati ed esportati. Per molti prodotti ag-ricoli, ad esempio, si usa molta più acqua per

tonnellata di cibo se coltivato nei paesi caldi piuttosto che in quelli temperati. Quindi, per assurdo, i paesi aridi che dispongono di meno risorse idriche, ma che per vivere devono es-portare le loro derrate agricole, esportano an-che acqua virtuale verso i paesi più piovosi. Si spiega anche in questo modo il grave squi-librio di qualità della vita presente nel mondo. Il problema dell’acqua perciò non si può risol-vere semplicisticamente, come sostenuto da molti nostri politici, sostenuti da tecnici com-piacenti, solo cercando sempre nuove risorse idriche (il quantitativo di acqua dolce è comu-nque finito e limitato), ma modificando la pro-duzione in modo da ottimizzare il suo uso, pro-ducendo beni a bassa intensità sia di acqua, ma anche di energia, e gli stili di vita. Non si può più pensare di avere la botte piena (di ac-qua sempre disponibile) e l’economia ubriaca e sprecona di tipo consumistico. Per esempio in agricoltura per far fronte al fabbisogno ir-riguo la risposta superficiale che viene sempre invocata è quella di sbarrare con dighe masto-dontiche i fiumi in modo da poter disporre di un accumulo d’acqua da usare nel periodo di maggior richiesta, perché altrimenti va spre-cata al mare! Nella nostra regione questa mi-ope soluzione è quella proposta da tempo dai Consorzi di Bonifica, che nel maceratese, ad esempio, hanno recentemente presentato un

mega progetto di sbarramento del fiume Po-tenza, presso il suo tratto s o r g e n t i z i o . Da qui, con un oneroso e mastodontico sistema di con-dotte l’acqua a c c u m u l a t a verrebbe de-viata verso tre bacini idrogra-fici, quello del basso Potenza, del basso Chi-enti, del fi-ume Musone. Tale progetto, bloccato for-

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tunatamente dal Ministero dell’Ambiente a causa dei gravi difetti progettuali (dati obso-leti e scarsa chiarezza nelle destinazioni dei flussi idrici) e a seguito della dura risposta delle popolazioni dell’alta valle del Potenza, che si sono fermamente opposte alla sottrazi-one della “loro” risorsa idrica, dichiarava es-plicitamente che nell’impossibilità di razi-onalizzare i dispersivi sistemi tradizionali di irrigazione usati in agricoltura, per salva-guardare l’agricoltura maceratese bisognava aumentare la disponibilità idrica. Si tratta del ragionamento di chi per non riparare la vasca da bagno bucata, trova più comodo aumentare il flusso del rubinetto per riempirla comunque. Inoltre quell’acqua doveva servire per riparare in parte ai danni fatti dall’inquinamento delle acque del Chienti, dimostrando come una vol-ta messo in moto un meccanismo depauperan-te questo ne produca altri a catena e così via.Questo è certamente uno dei settori dove è necessario riscoprire la saggezza dei nostri agricoltori della mezzadria. Per secoli sep-pero sviluppare un modello di agricoltura in-tensiva proprio nelle nostre colline che sono così avare d’acqua, attraverso la policoltura. Ovvero mediante il sapiente intreccio di pro-duzioni arboree e foraggere, di agricoltura e allevamento. Con i mezzi di allora, ma con una particolare sensibilità alle potenzialità eda-fiche, climatiche ed ecologiche del territorio che ebbero in cura. Durò secoli. Noi abbiamo grossolanamente importato l’agricoltura del modello meccanizzato sviluppato nelle grandi pianure degli USA e dell’Europa occidentale, preoccupandoci di lucrare sui contributi della PAC europea, distruggendo così in poco tempo la fertilità dei suoli che si era accumulata nei secoli, inquinando le acque, i terreni e i pro-dotti agricoli, in modo tale che le nostre terre oggi, senza la chimica e il petrolio non possono produrre più niente. Lo spettacolo più triste che accade di vedere sempre più frequent-emente oggi è l’accentuarsi dei fenomeni ero-sivi che ad ogni pioggia trascinano a valle il fertile limo dei nostri campi, massacrati dalle arature profonde a pieno versante, che forse non sono adatte nemmeno in pianura, ma che diventano una vera e propria operazione crim-inale se fatta in collina o addirittura nell’alta collina pedemontana. Da un lato le superficie agrarie si avviano verso la calanchizzazione, dall’altro i fossi e i fiumi, sovraccarichi di sedi-

menti strappati sui pendii esondano danneg-giando sempre più frequentemente le aree urbane che hanno proliferato nei fondovalle.

L’acqua 3

La visione economicista del mondo ci ha con-vinti che ha valore solo ciò che è “utile” è può essere quantificato nel mercato globale. Ciò si rileva anche dal linguaggio che si usa: le per-sone diventano “operatori”; il lavoratori licen-ziati sono “esuberi”; l’acqua diventa “risorsa idrica” e via di seguito. La tecnica (non la sci-enza) può operare efficacemente solo per sem-plificazioni; la natura, gli ecosistemi, gli esseri viventi, la Terra sono però (fortunatamente) realtà complesse fatte di infinite relazioni a molti livelli. La semplificazione voluta dalla tecnica porta alla distruzione della comples-sità e allo scatenarsi di conseguenze nefaste per l’uomo e la sua vita. Occorre sollevare il velo illusorio con il quale il mercantilismo sta impacchettando il mondo, per recuperare la visione complessa dei processi naturali e delle loro relazioni con i viventi. Bisogna ab-bandonare l’idea dello sfruttamento delle risorse, per recuperare l’atteggiamento di cura verso il creato. Un fiume, ad esempio, non è un canale d’acqua dolce che se non viene uti-lizzata va sprecata; quell’acqua interagisce con centinaia di sistemi diversi ognuno dei quali ha un ruolo fondamentale per la qualità della vita sulla Terra. Permette la vita di pi-ante ed animali; contribuisce al ripascimento delle spiagge; interagisce con il mare favoren-do correnti e scambi indispensabili alla vita di quell’ambiente e quindi al successo della pesca; impedisce alla foce che le acque salate invadano i terreni distruggendo l’agricoltura; diluisce e depura gli inquinanti che l’uomo vi riversa. Potremmo continuare per ore ad elencare le infinite funzioni del fiume. Esso non è quindi un canale, come lo vedono sem-plicisticamente gli ingegneri della bonifica e della regimazione, ma è un organismo stret-tamente intrecciato con tutti gli altri organ-ismi che popolano la Terra. Nessun organismo può essere impunemente distrutto senza che questo ricada alla fine sulla testa dell’uomo.

Andrea Antinori

(www.andreaantinori.altervista.org)