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L’accoglienza,l’ascolto e la presa in carico nei diversi servizi. Figure operative,strategie comunicative,connessioni interne ed esterne ai servizi e nodi critici Roma 7 febbraio 2013 Raffaella Palladino

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L’accoglienza,l’ascolto e la presa in carico nei diversi servizi.

Figure operative,strategie comunicative,connessioni interne ed esterne ai servizi e nodi critici

Roma 7 febbraio 2013Raffaella Palladino

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Perché il mondo dei servizi è ancora così inefficace

124 donne uccise e 46 tentati omicidi (femicidi) nel 2012 : è questo il dato nazionale pubblicato dalla “Casa delle donne per non subire violenza” di Bologna il 27 gennaio 2013.

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L’estrema espressione di un problema che non può più essere sottovalutato e che se negli ultimi mesi ha ottenuto una nuova visibilità, interroga il mondo dei servizi sul proprio operare e lo costringe a fare i conti con un grande senso di impotenza.

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La possibilità di uscita dalla violenza è limitata

• dall’isolamento,• dalla difficoltà a riconoscerla,• dalla mancanza di vere opportunità di sostegno, • dai problemi economici, • dall’assenza di una rete di relazioni e di luoghi

deputati all’accoglienza e al confronto,• dalla scarsa integrazione degli operatori sociali,

sanitari e di giustizia.

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Nell’ambito della complessità della

violenza di genere è importante agire:

• sul problema prioritario del suo riconoscimento;

• sull’individuazione dei costi sociali che determina;

• sull’impatto sulla salute delle donne e dei minori;

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• sulla capacità degli attori locali di programmare azioni e servizi integrati in grado di fornire risposte nel campo della prevenzione e del contrasto oltre che della tutela e protezione delle vittime o dei provvedimenti contro gli aggressori.

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Due macro-obiettivi

Il lavoro nei servizi non può che tener conto di un duplice obiettivo: accompagnare le donne fuori dalla violenza e incidere sul contesto di

riferimento per generare profondi cambiamenti culturali.

Sostenere le donneInterrompere la riproduzione

della violenza

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Obiettivi:

• Contrastare la violenza intrafamiliare e di genere, i maltrattamenti e gli abusi.

• Contrastare la “legittimazione” culturale della violenza alle donne.

• Creare una rete di supporto per le donne in difficoltà e per i loro figli minori puntando al superamento della frammentarietà degli interventi.

• Offrire alle donne luoghi dove sottrarsi alla violenza e riflettere sulle situazioni e sui vissuti.

• Offrire la possibilità concreta di intraprendere un percorso risolutivo di uscita dalla situazione di difficoltà attraverso l’offerta di opportunità, di una rete di supporto per sé ed i propri figli.

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Sostenere le donne• protezione e tutela;• ascolto,accoglienza, ospitalità;• accompagnamento nella ri- acquisizione della fiducia in se stesse e nell’autostima;• attivazione delle risorse interne; • sostegno legale;• sostegno psicologico;• sostegno alla genitorialità (riconnessione dei legami);• sostegno per l’ autonomia economica

(formazione/lavoro /casa).

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Saperi di genere

La possibilità di sostenere autenticamente le donne passa attraverso un buon ascolto nelle prime fasi dell’accoglienza ed è connessa ad una metodologia di lavoro che è frutto dell’elaborazione delle pratiche e dei saperi maturati nell’ambito della politica delle donne. Saperi che trovano fondamento nell’analisi critica che interpreta la violenza di genere come strumento di controllo ed esercizio di potere di un sesso sull’altro.

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Competenza relazionale

Parliamo quindi di una competenza specifica, relazionale che si gioca su 3 elementi fondamentali:

flessibilità,sospensione del giudizio, capacità di leggere e gestire le proprie

reazioni emotive.

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Perché l’ascolto e la prima accoglienza delle donne possano essere efficaci nell’”aggancio” in qualsiasi punto della rete la donna impatti, è importante che tutti gli operatori di front - office nell’approccio con l’utenza siano consapevoli delle dinamiche proprie della violenza di genere, e che prioritariamente siano consapevoli del proprio mondo interno, sappiano tenersi presenti ed utilizzare le proprie emozioni come una risorsa preziosa.

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Sin dal primo colloquio e in tutte le fasi della prima accoglienza è importante che la donna senta finalmente concretizzarsi la possibilità di dar parola all’inespresso. Dare voce alle emozioni nel rispecchiarsi reciproco tra le donne e chi è deputato all’ascolto costringe a sviluppare nuove competenze, ad andare oltre le rigidità cognitive, i protocolli, i freddi linguaggi da cartella clinica,

da logica diagnostico-terapeutica.

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Per lavorare efficacemente con le donne vittime di violenza è necessario legittimare le emozioni, lasciarsi attraversare dall’inquietudine, dal dubbio, tener conto delle ambivalenze e non censurarle, aver cura dei propri sentimenti, mettendo in atto la capacità di elaborarli per fare di essi sguardi intelligenti sull’ esperienza, utilizzare strategicamente il proprio sentire come fonte di conoscenza, come risorsa.

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Lo spazio dell’ascolto, in quanto contesto di lavoro sociale nel quale le distanze sono gioco forza sfumate e in cui lo snodarsi del racconto di una violenza subita da una donna riflette quella vissuta da chi la ascolta e quella di tutte le altre che con modalità e tempi diversi ne avranno consapevolezza, è un momento singolare all’interno del quale è possibile che si compia un travaso tra sentire e sapere.

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Come strutturare l’ascolto

E’ importante garantire un setting riservato e protetto anche se non necessariamente formale e tenendo ben presente che ogni storia è unica nella sua singolarità la donna va incoraggiata a parlare mettendo in relazione il suo vissuto con il suo essere donna, rimandandole la trasversalità della violenza di genere e restituendo la responsabilità degli agiti violenti all’autore.

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Meccanismi della violenza nelle relazioni di intimità

Tensione

Ag

gressio

ne

Negazione

Rem

issi

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Tensione

Tensione;Frustrazione;

Mancanza di soddisfazione;Minaccia

Timore;Paura;

Terrore;

Maltrattante Donna

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Aggressione

Maltrattante

Ricorso alla violenza Collera;

Umiliazione;Tristezza;

Impotenza;Disperazione

Donna

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Negazione, trasferimento delle responsabilità

Negazione della gravità dei fatti;

Deresponsabilizzazione;Trasferimento della

responsabilità sulla vittima

Responsabilizzazione;Colpevolizzazione;

Auto-accusa

Maltrattante Donna

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Remissione, rinvii amorosi

Maltrattante

Cerca di farsi perdonarela condotta e ottenere

il perdono

Speranza di un cambiamento;Cancellazione della violenza vissuta;

Sforzi per minimizzare, scusare, negare i fatti

Donna

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La violenza si sviluppa per cicli, di durata e frequenza variabili. Con il tempo le fasi del ciclo si accorciano e l'intensità della violenza aumenta. In base alla fase del ciclo, la donna esprimerà lamentele e desideri diversi. È importante capire in che fase del ciclo si situa il vostro intervento. In questo schema, è interessante notare la divisione del ciclo in quattro fasi, invece che in tre, ed è la terza fase che importa sottolineare: il trasferimento di responsabilità.

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Come garantire l’accoglienza

E’ importante non enfatizzare gli elementi che emergono nel racconto e non minimizzarli, stemperare i sentimenti di vergogna, frustrazione, rabbia e dolore, astenersi dall’esprimere giudizi e non porre mai le domande “perché non lo ha lasciato prima?” “ perché ha mantenuto il segreto?”

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Perché non lo lascia

Dietro questa domanda a volte si cela solo la curiosità e la voglia di capire, altre volte invece un pregiudizio implicito, e cioè che le donne maltrattate in fondo desiderino, o scelgano un rapporto con un uomo violento, e che sia quindi compito loro far cessare la violenza semplicemente "andandosene".

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Le donne sentono questa pressione ("Lascialo! Denuncialo!") come un richiamo a giustificare il loro comportamento, come ulteriore scacco, una sconfitta della loro a volte già scarsa autostima Nell'esperienza delle tante donne che si rivolgono con sempre maggior frequenza ai centri antiviolenza, invece, emerge chiaramente come le donne scelgano la relazione, non la violenza

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Perché la donna mantiene il segreto

• Senso di colpa e di vergogna per la violenza subita • Paura di non essere creduta • Paura di essere colpevolizzata/accusata dagli altri • Mancanza di fiducia nel sostegno esterno, anche istituzionale, come

risultato di esperienze negative pregresse • Paura delle conseguenze: "Che cosa accade se ne parlo?" (pressione a

mantenere il segreto) • Desiderio di proteggere la famiglia: "Non si lavano i panni sporchi in

pubblico!" • Sentimento di lealtà verso il partner (che è anche l'aggressore) • Paura delle proprie emozioni e della propria aggressività • Minimizzazione delle violenze subite ("È acqua passata, non è accaduto

niente di serio"), anche come conseguenza dei traumi subiti • Pensare di dover risolvere le cose da sola, non aspettarsi alcun aiuto

dall'esterno

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Le donne che accogliamo con o senza figli minori, presentano un problema immediato di protezione e di tutela, esse hanno per anni subito ogni genere di prevaricazione e di abusi, vittime di situazioni familiari e sociali indefinibili prima ancora che di uomini violenti, arrivano da noi in momenti di estrema emergenza ed in condizioni di grande prostrazione fisica e psichica. Si rivolgono a noi direttamente o attraverso l’invio da parte di altri servizi presenti sul territorio, informate dal 1522, non raramente vengono accompagnate dalle forze dell’ordine alle quali hanno fatto ricorso per sporgere denuncia o per chiedere aiuto.

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In caso di maltrattamento la cui durata supera i 7/8 anni (evidenziando dunque elementi di cronicità) le donne sviluppano delle strategie di coping (di fronteggiamento) molto strutturate e radicate. Si tratta di strategie che per quanto dannose le hanno consentito di sopravvivere psicologicamente nella relazione e non solo e sulle quali è complicato intervenire. Dobbiamo prevedere che in queste situazioni la possibilità di aprire strade nuove al proprio percorso personale passa attraverso il disconoscimento di una parte importante di sé che attiene ai bisogni più profondi e che comporta un periodo di “morte individuale” e un conseguente senso di vuoto che crea dolore, paura e, spesso, un ritorno ai vecchi e sicuri stili di vita, salvo poi, rientrate all’inferno, risperimentare, ognuna con i propri tempi e le proprie modalità, nuove vie di fuga.

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Le opportunità evolutive sono legate alla problematizzazione del vincolo che lega saldamente il soggetto alla sua particolare situazione (il suo uomo violento) e alla sua disponibilità ad aprirsi a qualcosa di nuovo. Vincolo emotivo, psicologico, ma sostanzialmente culturale se partiamo dall’assunto che ogni aspetto della nostra identità, del nostro essere nel mondo, del nostro sé, del nostro sentire e desiderare è culturalmente costruito e determinato. Bisogna allora accompagnare la donna nel partire da sé ad andare oltre se stessa, a riconoscere nella trama del suo vissuto quegli elementi sia individuali che di contesto che le consentano di ritrovare un filo identitario che le guidi fuori dal labirinto consueto del proprio sentire e del proprio agire.

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Perché il concorso degli interventi attivati renda possibile la riparazione del trauma è importante contare su personale attento in cui ogni aspetto sia tenuto sotto controllo e sia autenticamente accogliente. Quel che serve è lavorare sul “piccolo”, cioè prendere in considerazione il singolo comportamento ed il pensiero che lo sostiene e lo giustifica. Serve accogliere ogni ambivalenza, vincere qualsiasi tentazione al giudizio, ridimensionare ogni tipo di atteggiamento che possa essere colto come prescrittivo rispetto ad un percorso consono più alle prefigurazioni e ai valori delle operatrici ( degli operatori) piuttosto che ai bisogni più profondi delle donne. Serve anche smontare l’adesione ad un modello ideale di materno rispetto al quale è più facile riscontrare delusione e frustrazione.

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L’intervento di protezione sui bambini deve accompagnarsi ad una serie di misure che gli garantiscano i legami che ancora persistono con la parte non violenta della diade genitoriale, riparando una relazione che la violenza può avere compromesso e riattivando i legami tra gli “spettatori”e il genitore vittima, rinforzando in quest’ultimo competenze protettive indebolite dall’esperienza dolorosa della violenza ripetutamente subita.

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Interventi efficaci

Formazione

Risorse

Competenze specifiche

Affermazionetutela

dei diritti

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Esercitazione in piccoli gruppi

Mandato: come evidenziare i nodi critici e potenziare la rete dei servizi territoriali a partire dalla disarticolazione del mito della diagnosi.

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La crisi sta mettendo in discussione la capacità del nostro paese di prendere in carico i bisogni di cura, il collasso sociale impatta violentemente con il sistema dei servizi, ma proprio la crisi potrebbe essere l’occasione per avviare un radicale ripensamento di come stiamo trattando nei nostri servizi le sofferenze.

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La drastica riduzione di risorse umane ed economiche potrebbe diventare l’occasione di ripensare l’agire professionale e di sostenere la capacità degli operatori di riflettere attivamente sul il proprio campo d’azione. Un campo egemonizzato da discorsi medicalizzanti che estraggono la sofferenza dallo sfondo sociale, economico, politico, storico in cui essa origina. Discorsi che mettono al centro la diagnosi.

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Diagnosi quale semiosi illimitata

La diagnosi in quest’ottica andrebbe concepita nei termini di quelle che sono le proprietà naturali del linguaggio e della parola, ossia la provvisorietà e la fluidità che mai accettano di arrestarsi per non interrompere la continua riformulazione della catena del significante che, altrimenti, ci stritolerebbe. Quindi il continuo rinvio di segni ad altri segni.

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Per un pensiero debole della diagnosi

La parola che produce soggettivazione, che costruisce soggettività è una parola che non si vuole ferma e definitiva, ma incerta e sospesa. Questo vale anche per la diagnosi ed il suo potere di medicalizzare sottraendo la sofferenza al altri possibili significati e narrazioni. Ignorare la matrice sociale e storica della sofferenza attraverso la rapida attribuzione di etichette è non solo un’ingenuità ma comporta l’oggettivare cioè che non è oggettivabile e destoricizzare cioè che non è destoricizzabile.

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L’etica dell’incertezza

Una diagnosi precoce nega il non sapere e più è immediata, protocollare, esaustiva dei significati della sofferenza più ci deve preoccupare e preoccupare. Restare nell’incertezza non esprime un’incapacità ad intervenire e prendere decisioni, bensì la consapevolezza della provvisorietà dei nostri interventi, la possibilità di poter attraversare campi semiotici e di significazione infiniti sapendo che nessuno di quei campi sarà quello definitivo se riusciremo a costruire con il paziente una strategia di cura autentica.

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La nuova sfida

Importante è quindi saper ripristinare il carattere tattico, incerto e a tempo determinato delle diagnosi, è questa la sfida che i servizi sono chiamati a sostenere nella relazione tra essi e con gli utenti. Questo comporta saperli riconoscere come soggetti agenti, che criticano, commentano, riflettono e pretendere che aderiscano in modo passivo ai nostri modelli.

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Il nostro obiettivo comune deve essere quello di rendere le persone capaci di leggere criticamente la propria condizione e di accompagnarle verso l’acquisizione di una consapevolezza profonda. La loro compiuta cura, la loro conquistata agency, che è il potere di guardare e di agire nella storia, si configurano innanzitutto nella possibilità di commentare criticamente le relazioni al cui interno si sentono presi e catturati.

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A tutto ciò si arriva riconoscendo quella storia zittita che spesso si muove nelle loro biografie, agendo perché il silenzio che è frequentemente un silenzio doloroso, frutto di una storia negata, possa trovare uno spazio. Tutte le persone guadagnano agency nel momento in cui considerano storicamente il proprio essere nel mondo, operando in questo mondo con la consapevolezza dei vincoli con i quali sono presi: siano essi di origine culturale, familare o istituzionale.

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