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LABORATORIO DI LETTERATURA ITALIANA SCIENZE DELLA FORMAZIONE PRIMARIA A.A. 2015-2016 POESIE E RACCONTI

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LABORATORIO DI LETTERATURA ITALIANA SCIENZE DELLA FORMAZIONE PRIMARIA

A.A. 2015-2016

POESIE E RACCONTI

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Agli studenti

Calma, per favore!

Sembra di sentirvi. Sembra di sentire il rumore dei vostri pensieri, il ronzio dei vostri dubbi, lo

scrosciare delle vostre obiezioni, nell’atto in cui scorrete i contenuti del pdf.

Ma quanti testi sono? Non dovremo mica leggerli tutti? E se no quali, e quando, e come? Nel

laboratorio cosa faremo? Le poesie … parafrasi e commento? E i racconti … riassunto e verifiche di

comprensione? Esattamente come al liceo? Poi passi per gli autori maggiori, che da lì non si scappa, però

gli altri chi sono, chi li conosce? E neppure una nota, perché? E perché e perché e perché, ma soprattutto

perché questa raccolta, che senso ha o può avere per noi?

Dunque ci proviamo, almeno ci proviamo, a rispondere e a spiegare.

È vero che i testi qui proposti sono tanti, troppi perché possiate leggerli tutti subito, o tutti

insieme. Nel laboratorio, che conta sedici ore e non prevede compiti a casa, ne leggerete infatti solo

alcuni: quelli individuati sotto la guida del conduttore, durante il primo incontro, e quelli che sceglierete,

di seguito, secondo i gusti, gli orientamenti, le esigenze personali o del gruppo. E che si tratti di poesie o di

racconti il lavoro si svolgerà con le medesime procedure, in un’esperienza condivisa di lettura, analisi,

interpretazione del testo. Un’esperienza che dovrebbe favorire, nei nostri auspici, una migliore

comprensione dei dati costitutivi della comunicazione letteraria, dei meccanismi che la governano, del

giusto rapporto fra autore e lettore. E un’esperienza capace di introdurvi, confidiamo, alla strumentazione

di base per leggere bene, secondo cuore e secondo coscienza, in silenzio e a voce alta, e di conseguenza a

uno sguardo nuovo sulla materia, a una percezione più chiara dell’importanza di educare se stessi per

primi, e in prospettiva i bambini, a familiarizzare, a fare amicizia, con le rime e con le storie.

I testi non considerati nello spazio-tempo del laboratorio si intendono rimessi alla vostra

discrezione: li leggerete se e quando vorrete, se e quando ve ne coglierà la curiosità o il desiderio. Perciò

non è da escludere, naturalmente, che mai li leggiate, ma il rischio ci è parso irrilevante a fronte della

possibilità che la piccola raccolta consegnata al pdf vi induca in tentazione, e che, pure o proprio nei molti

limiti di cui patisce, si presti a costituire uno stimolo per leggere oltre, per leggere altro, per leggere

ancora. O a fronte dell’opportunità di usare dell’occasione del laboratorio per dischiudere una finestra

sulla pluralità e la ricchezza della letteratura italiana del Novecento, su opere e autori che non sempre

trovano accoglienza nelle antologie scolastiche, su materiali di qualità adatti anche, non di rado, a un

pubblico infantile.

Da quanto abbiamo detto emerge evidente che i criteri seguiti nella selezione dei testi non

potevano essere, e non sono stati, criteri di “genere”, come non sono stati criteri di genere quelli

osservati nell’organizzazione della raccolta. Semplicemente, abbiamo badato a presentare materiali che

fossero caratterizzati, tutti, da un pieno e sicuro statuto letterario, e che fossero espressivi, ognuno a

proprio modo, di alcune fra le più interessanti linee di sviluppo del racconto e della poesia

contemporanei. Per facilitarne la fruizione, poi, li abbiamo raggruppati in ordine cronologico sotto il nome

dei rispettivi autori, i quali a loro volta sono stati disposti secondo l’epoca e la generazione di

appartenenza, dai nati nella seconda metà dell’Ottocento a quelli più vicini ai giorni nostri. Un

accorgimento ulteriore ci è parso utile nella parte dedicata alla poesia, dove la distinzione fra “I classici” e

“Altri classici” punta a contrastare l’effetto di spaesamento che la varietà dell’offerta potrebbe provocare.

Ma state in guardia, e non date mai nulla per scontato: perché in letteratura non esistono compartimenti

stagni, e perché non c’è accorgimento, nostro e altrui, che metta al riparo dalle infinite sorprese che una

lettura può regalare. Leggere per credere.

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L’assenza di un apparato di note, introduttive o esplicative, è puramente intenzionale, finalizzata a

che la voce del testo vi arrivi forte, vi arrivi pulita, senza filtri o mediazioni preliminari. Il contributo dei

conduttori, unitamente a quello delle lezioni del modulo istituzionale o della bibliografia collegata,

sopperiranno comunque ai bisogni avvertiti.

Grazie per la pazienza con cui ci avete seguito. Buona lettura e buon laboratorio!

Giovanna Benvenuti e Francesca Caputo

con i docenti dei laboratori

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INDICE POESIE

I CLASSICI

Giovanni Pascoli 9

Dall’argine

Il tuono

La mia sera

Il naufrago

Gabriele D’Annunzio 12

La pioggia nel pineto

Guido Gozzano 15

La differenza

Invernale

Salvezza

Umberto Saba 17

Città vecchia

Ritratto della mia bambina

[Mio padre è stato per me «l’assassino»]

Aldo Palazzeschi 19

Chi sono?

Rio Bo

Giuseppe Ungaretti 20 Veglia

Sono una creatura

San Martino del Carso

Natale

[Agglutinati all’oggi]

Eugenio Montale 23

I limoni

[Meriggiare pallido e assorto]

[Felicità raggiunta, si cammina]

[Non recidere, forbice, quel volto]

[Ho sceso, dandoti il braccio, almeno un milione di scale]

Salvatore Quasimodo 26

Ed è subito sera

Alle fronde dei salici

Quasi un epigramma

Sandro Penna 27

Nuotatore

[Io vivere vorrei addormentato]

[Il mare è tutto azzurro]

[Era fermo per me. Ma senza stile]

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Leonardo Sinisgalli 28

San Babila

[I fanciulli battono le monete rosse]

Alfonso Gatto 29

Consiglio spassionato

Il 4 è rosso

Per i martiri di Piazzale Loreto

Attilio Bertolucci 31

La rosa bianca

Pagina di diario

Giorgio Caproni 32

Il mare brucia le maschere

Per lei

La gente se l’additava

Sassate

Antonia Pozzi 34

Sera d’aprile

Rifugio

Vittorio Sereni 35

[Non sa più nulla, è alto sulle ali]

[Ahimè come ritorna]

Dall’Olanda

Sarà la noia

Pier Paolo Pasolini 38

Profezia

Elio Pagliarani 40 Da La ragazza Carla

Alda Merini 43

Sono nata il 21 a primavera

Le osterie

Corpo d’amore

Giovanni Raboni 45

Il compleanno di mia figlia

Un gatto più un gatto fa due gatti

[Invecchiando il corpo vorrebbe un’anima]

Vivian Lamarque 47

Fate piano

Poesia illegittima

Il signore mai

Il signore della buonanotte

Il signore sognato

Testamento

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Mariangela Gualtieri 49

[Gli altri sono troppi, per me]

[Amore mio]

[La bambina è rimasta con me]

Valerio Magrelli 51

[Essere matita è segreta ambizione]

Natale, credo, scada il bollino blu

Aldo Nove 52

Madre di Dio

Il tempo

Addio mio novecento

Ogni donna

ALTRI CLASSICI

Ernesto Regazzoni 54

Elegia del verme solitario

Fosco Maraini 57

Il giorno a urlapicchio

Ballo

Toti Scialoja 58

[Una zanzara di Zanzibàr]

[L’ippopota disse «Mo]

[La zanzara, per decenza]

[Un esercito di pulci]

[Oh, formica!]

[La rosa non è rossa]

Gianni Rodari 59

I mari della luna

Alla formica

Il giorno più bello della storia

Nico Orengo 60

Un uccellino

Giuseppe Pontremoli 61

Rabbia Birabbia

Canzonetta d’amore per il vento

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INDICE RACCONTI Federigo Tozzi Senza titolo 65

Eugenio Montale Ti cambieresti con...? 66

Dino Buzzati Il colombre 68

Elsa Morante La giornata 73

Il pranzo di Natale 75

Primo Levi Titanio 77

La grande mutazione 79

Beppe Fenoglio La sposa bambina 83

Leonardo Sciascia Il lungo viaggio 87

Italo Calvino L’avventura di due sposi 92

Le città e la memoria. 5 95

Il seno nudo 98

Luigi Malerba La erre 101

Il vermetto nero nero 101

Storia del mondo dalle origini ai giorni nostri 102

Il gioco dello scippo 103

Giuseppe Pontiggia Viaggio alle sorgenti del Nilo 107

Stefano Benni

I quattro veli di Kulala 112

Giuseppe Pontremoli Autopresentazione 115

Barbara Garlaschelli Adelaide Breme e figlia 116

Un colpo ben assestato 117

Ipocondria 118

Aldo Nove

Marta Russo 119

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POESIE

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I CLASSICI GIOVANNI PASCOLI (1855-1912) Edizione di riferimento G. Pascoli, Poesie, vol. I, Oscar Mondadori 1997. Dall’argine (Originariamente in Myricae, Giusti 1891, sezione In campagna) Posa il meriggio su la prateria. Non ala orma ombra nell’azzurro e verde, un fumo al sole biancica: via via fila e si perde. Ho nell’orecchio un turbinio di squilli, forse campani di lontana mandra: e, tra l’azzurro penduli, gli strilli della calandra. Il tuono (Originariamente in Myricae, Giusti 1891, sezione Tristezze)

E nella notte nera come il nulla, a un tratto, col fragor d’arduo dirupo che frana, il tuono rimbombò di schianto: rimbombò, rimbalzò, rotolò cupo, e tacque, e poi rimareggiò rinfranto, e poi vanì. Soave allora un canto s’udì di madre, e il moto d’una culla. La mia sera (Originariamente in Canti di Castelvecchio, Zanichelli 1903) Il giorno fu pieno di lampi; ma ora verranno le stelle, le tacite stelle. Nei campi c'è un breve gre gre di ranelle. Le tremule foglie dei pioppi trascorre una gioia leggiera. Nel giorno, che lampi! che scoppi! Che pace, la sera! Si devono aprire le stelle nel cielo sì tenero e vivo. Là, presso le allegre ranelle, singhiozza monotono un rivo. Di tutto quel cupo tumulto, di tutta quell'aspra bufera, non resta che un dolce singulto nell'umida sera.

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È, quella infinita tempesta, finita in un rivo canoro. Dei fulmini fragili restano cirri di porpora e d'oro. O stanco dolore, riposa! La nube nel giorno più nera fu quella che vedo più rosa nell'ultima sera. Che voli di rondini intorno! Che gridi nell'aria serena! La fame del povero giorno prolunga la garrula cena. La parte, sì piccola, i nidi nel giorno non l'ebbero intera. Né io ... che voli, che gridi, mia limpida sera! Don ... Don ... E mi dicono, Dormi! mi cantano, Dormi! Sussurrano, Dormi! bisbigliano, Dormi! là, voci di tenebra azzurra ... Mi sembrano canti di culla, che fanno ch'io torni com'era ... sentivo mia madre ... poi nulla ... sul far della sera. Il naufrago (Originariamente in Nuovi poemetti, Zanichelli 1904, sezione Il naufrago – Il prigioniero) I Il mare, al buio, fu cattivo. Urlava sotto gli schiocchi della folgore! Ora qua e là brilla in rosa la sua bava. Intorno a mucchi d'alga ora si dora la bava sua lungi da lui. S'effonde l'alito salso alla novella aurora. Vengono e vanno in un sussurro l'onde. Sembra che l'una dopo l'altra salga per veder meglio. E chiede una, risponde l'altra, spiando tra quei mucchi d'alga... II - Chi è? Non so. Chi sei? Che fai? Più nulla. Dorme? Non so. Sì: non si muove. E il mare perennemente avanti lui si culla.

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Noi gli occhi aperti ti baciamo ignare. Che guardi? Il vento ti spezzò la nave? Il vento vano che, sì, è, né pare? E tu chi sei? Noi, quasi miti schiave, moviamo insieme, noi moriamo insieme costì con un rammarichìo soave... Siamo onde, onda che canta, onda che geme... III Tu guardi triste. E dunque tua forse era la voce che parea maledicesse nell'alta notte in mezzo alla bufera! Noi siamo onde superbe, onde sommesse. Onde, e non più. L'acqua del mare è tanta! Siamo in un attimo, e non mai le stesse. Ora io son quella che già là s'è franta. E io già quella ch'ora là si frange. L'onda che geme ora è lassù, che canta; l'onda che ride, ai piedi tuoi già piange. IV Noi siamo quello che sei tu: non siamo. L'ombre del moto siamo. E ci son onde anche tra voi, figli del rosso Adamo? Non sono. È il vento ch'agita, confonde, mesce, alza, abbassa; è il vento che ci schiaccia contro gli scogli e rotola alle sponde. Pace! Pace! È tornata la bonaccia. Pace! È tornata la serenità. Tu dormi, e par che in sogno apra le braccia. Onde! Onde! Onda che viene, onda che va...

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GABRIELE D’ANNUNZIO (1863-1938) Edizione di riferimento G. D’Annunzio, Versi d’amore e di gloria, Mondadori 1982. La pioggia nel pineto (Originariamente in Alcyone, Libro terzo delle Laudi, pubblicato in unico volume con il Libro secondo, Elettra, per Treves 1903 ma in data editoriale 1904) Taci. Su le soglie del bosco non odo parole che dici umane; ma odo parole più nuove che parlano gocciole e foglie lontane. Ascolta. Piove dalle nuvole sparse. Piove su le tamerici salmastre ed arse, piove su i pini scagliosi ed irti, piove su i mirti divini, su le ginestre fulgenti di fiori accolti, su i ginepri folti di coccole aulenti, piove su i nostri vólti silvani, piove su le nostre mani ignude, su i nostri vestimenti leggieri, su i freschi pensieri che l’anima schiude novella, su la favola bella che ieri t’illuse, che oggi m’illude, o Ermione. Odi? La pioggia cade su la solitaria verdura con un crepitìo che dura e varia nell’aria secondo le fronde più rade, men rade.

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Ascolta. Risponde al pianto il canto delle cicale che il pianto australe non impaura, né il ciel cinerino. E il pino ha un suono, e il mirto altro suono, e il ginepro altro ancóra, stromenti diversi sotto innumerevoli dita. E immersi noi siam nello spirto silvestre, d’arborea vita viventi; e il tuo volto ebro è molle di pioggia come una foglia, e le tue chiome auliscono come le chiare ginestre, o creatura terrestre che hai nome Ermione. Ascolta, ascolta. L’accordo delle aeree cicale a poco a poco più sordo si fa sotto il pianto che cresce; ma un canto vi si mesce più roco che di laggiù sale, dall’umida ombra remota. Più sordo e più fioco s’allenta, si spegne. Sola una nota ancor trema, si spegne, risorge, trema, si spegne. Non s’ode voce del mare. Or s’ode su tutta la fronda crosciare l’argentea pioggia che monda,

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il croscio che varia secondo la fronda più folta, men folta. Ascolta. La figlia dell’aria è muta; ma la figlia del limo lontana, la rana, canta nell’ombra più fonda, chi sa dove, chi sa dove! E piove su le tue ciglia, Ermione. Piove su le tue ciglia nere sì che par tu pianga ma di piacere; non bianca ma quasi fatta virente, par da scorza tu esca. E tutta la vita è in noi fresca aulente, il cuor nel petto è come pèsca intatta, tra le pàlpebre gli occhi son come polle tra l’erbe, i denti negli alvèoli son come mandorle acerbe. E andiam di fratta in fratta, or congiunti or disciolti (e il verde vigor rude ci allaccia i mallèoli c’intrica i ginocchi) chi sa dove, chi sa dove! E piove su i nostri vólti silvani, piove su le nostre mani ignude, su i nostri vestimenti leggieri, su i freschi pensieri che l’anima schiude novella, su la favola bella che ieri m’illuse, che oggi t’illude, o Ermione.

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GUIDO GOZZANO (1883-1916) Edizione di riferimento G. Gozzano, Le poesie, a cura di E. Sanguineti, Einaudi 1990. La differenza (Originariamente in La via del rifugio, Streglio 1907) Penso e ripenso: - Che mai pensa l’oca gracidante alla riva del canale? Pare felice! Al vespero invernale protende il collo, giubilando roca. Salta starnazza si rituffa gioca: né certo sogna d’essere mortale né certo sogna il prossimo Natale né l’armi corruscanti della cuoca. - O pàpera, mia candida sorella, tu insegni che la Morte non esiste: solo si muore da che s’è pensato. Ma tu non pensi. La tua sorte è bella! Ché l’esser cucinato non è triste, triste è il pensare d’esser cucinato. Invernale (Originariamente in I colloqui, Treves 1911, nella prima sezione, intitolata Il giovenile errore) «... cri... i... i... i... i... icch»…

l’incrinatura il ghiaccio rabescò, stridula e viva. «A riva!» Ognuno guadagnò la riva disertando la crosta malsicura. «A riva! A riva!...» Un soffio di paura disperse la brigata fuggitiva.

«Resta!» Ella chiuse il mio braccio conserto, le sue dita intrecciò, vivi legami, alle mie dita. «Resta, se tu m’ami!» E sullo specchio subdolo e deserto soli restammo, in largo volo aperto, ebbri d’immensità, sordi ai richiami.

Fatto lieve così come uno spetro, senza passato più, senza ricordo, m’abbandonai con lei, nel folle accordo, di larghe rote disegnando il vetro. Dall’orlo il ghiaccio fece cricch, più tetro...

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dall’orlo il ghiaccio fece cricch, più sordo...

Rabbrividii così, come chi ascolti lo stridulo sogghigno della Morte, e mi chinai, con le pupille assorte, e trasparire vidi i nostri volti già risupini lividi sepolti... Dall’orlo il ghiaccio fece cricch, più forte...

Oh! Come, come, a quelle dita avvinto, rimpiansi il mondo e la mia dolce vita! O voce imperïosa dell’istinto! O voluttà di vivere infinita! Le dita liberai da quelle dita, e guadagnai la ripa, ansante, vinto...

Ella sola restò, sorda al suo nome, rotando a lungo nel suo regno solo. Le piacque, alfine, ritoccare il suolo; e ridendo approdò, sfatta le chiome, e bella ardita palpitante come la procellaria che raccoglie il volo.

Non curante l’affanno e le riprese dello stuolo gaietto femminile, mi cercò, mi raggiunse tra le file degli amici con ridere cortese: «Signor mio caro, grazie!» E mi protese ůĂ�ŵĂŶŽ�ďƌĞǀĞ͕�ƐŝďŝůĂŶĚŽ͗�о�sŝůĞ͊�о� Salvezza (Originariamente in I colloqui, Treves 1911, sezione Alle soglie)

Vivere cinque ore? Vivere cinque età?... Benedetto il sopore che mi addormenterà…

Ho goduto il risveglio dell’anima leggera: meglio dormire, meglio prima della mia sera. Poi che non ha ritorno il riso mattutino. La bellezza del giorno è tutta nel mattino.

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UMBERTO SABA (1883-1957) Edizione di riferimento U. Saba, Il Canzoniere, Einaudi 1961.

Città vecchia [1910-1912] (Originariamente in Coi miei occhi, Edizioni della «Voce» 1912; nel Canzoniere nella sezione Trieste e una donna)

Spesso, per ritornare alla mia casa Prendo un’oscura via di città vecchia. Giallo in qualche pozzanghera si specchia Qualche fanale, e affollata è la strada.

Qui tra la gente che viene che va Dall’osteria alla casa o al lupanare, dove son merci ed uomini il detrito di un gran porto di mare, io ritrovo, passando, l’infinito nell’umiltà. Qui prostituta e marinaio, il vecchio che bestemmia, la femmina che bega, il dragone che siede alla bottega del friggitore, la tumultuante giovane impazzita d’amore, sono tutte creature della vita e del dolore; s’agita in esse, come in me, il Signore.

Qui degli umili sento in compagnia il mio pensiero farsi più puro dove più turpe è la via. Ritratto della mia bambina (Originariamente in Cose leggere e vaganti, Libreria antica e moderna 1920, nel Canzoniere nella sezione omonima) La mia bambina con la palla in mano, con gli occhi grandi colore del cielo e dell’estiva vesticciola: "Babbo - mi disse - voglio uscire oggi con te" Ed io pensavo: di tante parvenze che s’ammirano al mondo, io ben so a quali posso la mia bambina assomigliare. Certo alla schiuma, alla marina schiuma che sull'onde biancheggia, a quella scia ch’esce azzurra dai tetti e il vento sperde; anche alle nubi, insensibili nubi che si fanno e disfanno in chiaro cielo; e ad altre cose leggere e vaganti.

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[Mio padre è stato per me «l’assassino»] (Originariamente in Autobiografia, sulla rivista “Primo Tempo” 1923, nel Canzoniere nella sezione omonima) Mio padre è stato per me «l'assassino»; fino ai vent'anni che l'ho conosciuto. Allora ho visto ch'egli era un bambino, e che il dono ch'io ho da lui l'ho avuto. Aveva in volto il mio sguardo azzurrino, un sorriso, in miseria, dolce e astuto. Andò sempre pel mondo pellegrino; più d'una donna l'ha amato e pasciuto. Egli era gaio e leggero; mia madre tutti sentiva della vita i pesi. Di mano ei gli sfuggì come un pallone. «Non somigliare - ammoniva - a tuo padre»: ed io più tardi in me stesso lo intesi: Eran due razze in antica tenzone.

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ALDO PALAZZESCHI (1885-1974) Edizione di riferimento A. Palazzeschi, Tutte le poesie, Mondadori 2002. Chi sono? (Originariamente come poesia d’apertura, a sé stante, in Poemi, pubblicato a spese dell’autore nel 1909) Sono forse un poeta? No, certo. Non scrive che una parola, ben strana, la penna dell’anima mia: «follìa». Son dunque un pittore? Neanche. Non ha che un colore la tavolozza dell’anima mia: «malinconìa». Un musico, allora? Nemmeno. Non c’è che una nota nella tastiera dell’anima mia: «nostalgìa». Son dunque … che cosa? Io metto una lente davanti al mio cuore per farlo vedere alla gente. Chi sono? Il saltimbanco dell’anima mia. Rio Bo (Originariamente in Poemi 1909, sezione Piccoli paesi e paesi in grande) Tre casettine dai tetti aguzzi, un verde praticello, un esiguo ruscello: Rio Bo, un vigile cipresso. Microscopico paese, è vero, paese da nulla, ma però... c'è sempre di sopra una stella, una grande, magnifica stella, che a un dipresso... occhieggia con la punta del cipresso di Rio Bo. Una stella innamorata? Chi sa se nemmeno ce l'ha una grande città.

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GIUSEPPE UNGARETTI (1888-1970) Edizione di riferimento G. Ungaretti, Vita d’un uomo, Mondadori 1969. Veglia (Originariamente in Il porto sepolto, Stabilimento Tipografico Friulano, 1916)

Un’intera nottata buttato vicino a un compagno massacrato con la sua bocca digrignata volta al plenilunio con la congestione delle sue mani penetrata nel mio silenzio ho scritto lettere piene d’amore. Non sono mai stato tanto attaccato alla vita. Cima Quattro il 23 dicembre 1915 Sono una creatura (Originariamente in Il porto sepolto, Stabilimento Tipografico Friulano, 1916) Come questa pietra del San Michele così fredda così dura così prosciugata così refrattaria così totalmente disanimata Come questa pietra è il mio pianto che non si vede La morte si sconta vivendo. Valloncello di Cima Quattro il 5 agosto 1916

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San Martino del Carso (Originariamente in Il porto sepolto, Stabilimento Tipografico Friulano, 1916)

Di queste case non c’è rimasto che qualche brandello di muro esposto all’aria

Di tanti che mi corrispondevano non è rimasto neppure tanto nei cimiteri

Ma nel cuore nessuna croce manca

Innalzata di sentinella e che?

Sono morti cuore malato

Perché io guardi al mio cuore come a uno straziato paese qualche volta

San Martino del Carso (Originariamente in Allegria di naufragi, Vallecchi 1919, sezione Il porto sepolto)

Di queste case non è rimasto che qualche brandello di muro Di tanti che mi corrispondevano non m’è rimasto neppure tanto Ma nel mio cuore nessuna croce manca È il mio cuore il paese più straziato Valloncello dell’Albero Isolato il 27 agosto 1916

Valloncello dell’Albero Isolato il 27 agosto 1916 Natale (Originariamente in Allegria di naufragi, Vallecchi 1919, sezione Naufragi)

Non ho voglia di tuffarmi in un gomitolo di strade Ho tanta stanchezza sulle spalle Lasciatemi così come una cosa posata in un

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angolo e dimenticata Qui non si sente altro che il caldo buono Sto con le quattro capriole di fumo del focolare Napoli il 26 dicembre 1916 [Agglutinati all'oggi] (frammento di Ultimi cori per la terra promessa, Originariamente in Il taccuino del vecchio, Mondadori 1960) Agglutinati all'oggi I giorni del passato E gli altri che verranno. Per anni e lungo secoli Ogni mattino sorpresa Nel sapere che ancora siamo in vita, Che scorre sempre come sempre il vivere, Dono e pena inattesi Nel turbinio continuo Dei vani mutamenti. Tale per nostra sorte Il viaggio che proseguo, In un battibaleno Esumando, inventando Da capo a fondo il tempo, Profugo come gli altri Che furono, che sono, che saranno.

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EUGENIO MONTALE (1896-1981) Edizione di riferimento E. Montale, L’opera in versi, Einaudi 1980. I limoni (Originariamente in Ossi di seppia, Gobetti 1925, sezione Movimenti) Ascoltami, i poeti laureati si muovono soltanto fra le piante dai nomi poco usati: bossi ligustri o acanti. Io, per me, amo le strade che riescono agli erbosi fossi dove in pozzanghere mezzo seccate agguantano i ragazzi qualche sparuta anguilla: le viuzze che seguono i ciglioni, discendono tra i ciuffi delle canne e mettono negli orti, tra gli alberi dei limoni. Meglio se le gazzarre degli uccelli si spengono inghiottite dall’azzurro: più chiaro si ascolta il susurro dei rami amici nell’aria che quasi non si muove, e i sensi di quest’odore che non sa staccarsi da terra e piove in petto una dolcezza inquieta. Qui delle divertite passioni per miracolo tace la guerra, qui tocca anche a noi poveri la nostra parte di ricchezza ed è l’odore dei limoni. Vedi, in questi silenzi in cui le cose s’abbandonano e sembrano vicine a tradire il loro ultimo segreto, talora ci si aspetta di scoprire uno sbaglio di Natura, il punto morto del mondo, l’anello che non tiene, il filo da disbrogliare che finalmente ci metta nel mezzo di una verità. Lo sguardo fruga d’intorno, la mente indaga accorda disunisce nel profumo che dilaga quando il giorno più languisce. Sono i silenzi in cui si vede in ogni ombra umana che si allontana qualche disturbata Divinità.

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Ma l’illusione manca e ci riporta il tempo nelle città rumorose dove l’azzurro si mostra soltanto a pezzi, in alto, tra le cimase. La pioggia stanca la terra, di poi; s’affolta il tedio dell’inverno sulle case, la luce si fa avara - amara l’anima. Quando un giorno da un malchiuso portone tra gli alberi di una corte ci si mostrano i gialli dei limoni; e il gelo dei cuore si sfa, e in petto ci scrosciano le loro canzoni le trombe d’oro della solarità. [Meriggiare pallido e assorto] (Originariamente in Ossi di seppia, Gobetti 1925, sezione Ossi di seppia) Meriggiare pallido e assorto presso un rovente muro d'orto, ascoltare tra i pruni e gli sterpi schiocchi di merli, frusci di serpi. Nelle crepe del suolo o su la veccia spiar le file di rosse formiche ch'ora si rompono ed ora s'intrecciano a sommo di minuscole biche. Osservare tra frondi il palpitare lontano di scaglie di mare mentre si levano tremuli scricchi di cicale dai calvi picchi. E andando nel sole che abbaglia sentire con triste meraviglia com'è tutta la vita e il suo travaglio in questo seguitare una muraglia che ha in cima cocci aguzzi di bottiglia.

[Felicità raggiunta, si cammina] (Originariamente in Ossi di seppia, Gobetti 1925, sezione Ossi di seppia) Felicità raggiunta, si cammina per te su fil di lama. Agli occhi sei barlume che vacilla, al piede, teso ghiaccio che s'incrina;

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e dunque non ti tocchi chi più t'ama. Se giungi sulle anime invase di tristezza e le schiari, il tuo mattino è dolce e turbatore come i nidi delle cimase. Ma nulla paga il pianto del bambino a cui fugge il pallone tra le case. [Non recidere, forbice, quel volto] (Originariamente in Le Occasioni, Einaudi 1939, sezione Mottetti) Non recidere, forbice, quel volto, solo nella memoria che si sfolla, non far del grande suo viso in ascolto la mia nebbia di sempre. Un freddo cala... Duro il colpo svetta. E l'acacia ferita da sé scrolla il guscio di cicala nella prima belletta di Novembre. [Ho sceso, dandoti il braccio, almeno un milione di scale] (Originariamente in Satura, Mondadori 1971, sezione Xenia II)

Ho sceso, dandoti il braccio, almeno un milione di scale e ora che non ci sei è il vuoto ad ogni gradino. Anche così è stato breve il nostro lungo viaggio. Il mio dura tuttora, né più mi occorrono le coincidenze, le prenotazioni, le trappole, gli scorni di chi crede che la realtà sia quella che si vede. Ho sceso milioni di scale dandoti il braccio non già perché con quattr’occhi forse si vede di più. Con te le ho scese perché sapevo che di noi due le sole vere pupille, sebbene tanto offuscate, erano le tue.

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SALVATORE QUASIMODO (1901-1968) Edizione di riferimento S. Quasimodo, Tutte le poesie, Mondadori 1966. Ed è subito sera (Originariamente in Acque e terre (1920-1929), Edizioni di Solaria 1930)

Ognuno sta solo sul cuor della terra trafitto da un raggio di sole: ed è subito sera. Alle fronde dei salici (Originariamente in Giorno dopo giorno, Mondadori 1947) E come potevamo noi cantare con il piede straniero sopra il cuore, fra i morti abbandonati nelle piazze sull’erba dura di ghiaccio, al lamento d’agnello dei fanciulli, all’urlo nero della madre che andava incontro al figlio crocifisso sul palo del telegrafo? Alle fronde dei salici, per voto, anche le nostre cetre erano appese, oscillavano lievi al triste vento. Quasi un epigramma (Originariamente in La terra impareggiabile, Mondadori 1958) Il contorsionista nel bar, melanconico e zingaro, si alza di colpo da un angolo e invita a un rapido spettacolo. Si toglie la giacca e nel maglione rosso curva la schiena a rovescio e afferra come un cane un fazzoletto sporco con la bocca. Ripete per due volte il ponte scamiciato e poi s’inchina col suo piatto di plastica. Augura con gli occhi di furetto un bel colpo alla Sisal e scompare. La civiltà dell’atomo è al suo vertice.

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SANDRO PENNA (1906-1977) Edizione di riferimento S. Penna, Poesie, Garzanti 19971.

Nuotatore [1927-1938] Dormiva…? Poi si tolse e si stirò. Guardò con occhi lenti l’acqua. Un guizzo il suo corpo. Così lasciò la terra. [Io vivere vorrei addormentato] 1927-1938] Io vivere vorrei addormentato entro il dolce rumore della vita. [Il mare è tutto azzurro] [1927-1938] Il mare è tutto azzurro. il mare è tutto calmo. nel cuore è quasi un urlo di gioia. E tutto è calmo. [Era fermo per me. Ma senza stile] [1938-1955] Era fermo per me. Ma senza stile. Forse baciai quelle sue labbra rosse. Improvviso e leggero egli si mosse come si muove il vento entro l’aprile.

1 Una prima raccolta delle Poesie di Penna ebbe edizione per Parenti nel 1939, una seconda accresciuta per Garzanti nel 1957, una terza, con il titolo Tutte le poesie, riassuntiva dei testi editi e inediti allora conosciuti, per Garzanti 1970. L’edizione Garzanti 1997 si ritiene comprensiva dell’intera produzione in versi dell’autore.

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LEONARDO SINISGALLI (1908-1981) Edizione di riferimento L. Sinisgalli, Ellisse. Poesie 1932-1972, Mondadori 1974. San Babila (Originariamente in Vidi le muse, Mondadori 1943) Trascina il vento della sera attaccate agli ombrelli a colore le piccole fioraie che strillano gaie nelle maglie. Come rondini alle grondaie resteranno sospese nell’aria le venditrici di dalie ora che il vento della sera gonfia gli ombrelli a mongolfiera. [I fanciulli battono le monete rosse] (Originariamente in Vidi le muse, Mondadori 1943) I fanciulli battono le monete rosse contro il muro. (Cadono distanti per terra con dolce rumore.) Gridano a squarciagola in un fuoco di guerra. Si scambiano motti superbi e dolcissime ingiurie. La sera incendia le fronti, infuria i capelli. Sulle selci calda è come sangue. Il piazzale torna calmo. Una moneta battuta si posa Vicino all'altra alla misura di un palmo. Il fanciullo preme sulla terra la sua mano vittoriosa.

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ALFONSO GATTO (1909-1976) Edizione di riferimento A. Gatto, Tutte le poesie, Mondadori 2005. Consiglio spassionato (Originariamente in Il sigaro di fuoco. Poesie per bambini, Bompiani 1945, volume poi ripubblicato, accresciuto e corredato da illustrazioni e da un disco con la voce recitante dell’autore, con il titolo Il vaporetto, La Nuova Accademia 1963. L’ultima edizione del Vaporetto, con CD audio, è Mondadori 2001) Non date retta al re, non date retta a me. Chi v'inganna si fa sempre più alto d'una spanna, mette sempre un berretto, incede eretto con tante medaglie sul petto. Non date retta al saggio al maestro del villaggio al maestro della città a chi vi dice che sa. Sbagliate soltanto da voi come i cavalli, come i buoi, come gli uccelli, i pesci, i serpenti che non hanno monumenti e non sanno mai la storia. Chi vive è senza gloria. Il 4 è rosso (originariamente in Poesie d’amore (1941-1949), prima sezione di Poesie d’amore, Mondadori 1973) Dentro la bocca ha tutte le vocali il bambino che canta. La sua gioia come la giacca azzurra, come i pali netti del cielo, s’apre all’aria, è il fresco della faccia che porta. Il 4 è rosso come i numeri grandi delle navi.

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Per i martiri di Piazzale Loreto (Originariamente in Il capo sulla neve (1943-1947), raccolta di liriche sulla Resistenza comparse in un quaderno venduto in allegato al quotidiano “Milano Sera”)2 Ed era l’alba, poi tutto fu fermo la città, il cielo, il fiato del giorno. rimasero i carnefici soltanto vivi davanti ai morti.

Era silenzio l’urlo del mattino, silenzio il cielo ferito: un silenzio di case, di Milano. Restarono bruttati anche di sole, sporchi di luce e l’uno all’altro odiosi, gli assassini venduti alla paura.

Era l’alba e dove fu lavoro, ove il piazzale era la gioia accesa della città migrante alle sue luci da sera a sera, ove lo stesso strido dei tram era saluto al giorno, al fresco viso dei vivi, vollero il massacro perché Milano avesse alla sua soglia confusi tutti in uno stesso cuore i suoi figli promessi e il vecchio cuore forte e ridesto, stretto come un pugno.

Ebbi il mio cuore, ed anche il vostro cuore, il cuore di mia madre e dei miei figli di tutti i vivi uccisi in un istante, per quei morti mostrati lungo il giorno alla luce d’estate, a un temporale di nuvole roventi. Attesi il male come un fuoco fulmineo, come l’acqua scrosciante di vittoria, udii il tuono d’un popolo ridesto dalle tombe.

Io vidi il nuovo giorno che a Loreto sopra la rossa barricata i morti saliranno per primi, ancora in tuta e col petto discinto, ancora vivi di sangue e di ragioni. Ed ogni giorno, ogni ora eterna brucia a questo fuoco, ogni alba ha il petto offeso da quel piombo degli innocenti fulminati al muro.

2 La poesia fa riferimento all’eccidio di Piazzale Loreto del 10 agosto 1944: quindici tra partigiani e antifascisti, prelevati dal carcere di San Vittore, furono fucilati per ordine dei tedeschi dai militi della legione “Ettore Muti”, che per rinforzare l’azione dimostrativa lasciarono esposti al pubblico i loro cadaveri.

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ATTILIO BERTOLUCCI (1911-2000) Edizione di riferimento A. Bertolucci, Le poesie, Garzanti 2009. La rosa bianca (Originariamente in Fuochi in novembre, Minardi, 1934) Coglierò per te L’ultima rosa del giardino, la rosa bianca che fiorisce nelle prime nebbie. Le avide api l’hanno visitata sino a ieri, ma è ancora così dolce che fa tremare. È un ritratto di te a trent’anni, un po’ smemorata, come tu sarai allora. Pagina di diario (Originariamente in Fuochi in novembre, Minardi, 1934) A Bologna, alla Fontanina, un cameriere furbo e liso senza parlare, con un sorriso, aprì per noi una porticina. La stanza vuota e assolata dava su un canale per cui silenziosa, uguale, una flotta d’anatre navigava. Un vino d’oro splendeva nei bicchieri Che ci inebbriò; l’amore, nei tuoi occhi neri, fuoco in una radura, s’incendiò.

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GIORGIO CAPRONI (1912-1990) Edizione di riferimento G. Caproni, L’opera in versi, Meridiani Mondadori 2009. Il mare brucia le maschere ( Originariamente in Cronistoria, Vallecchi 1943, sezione E lo spazio era un fuoco) Il mare brucia le maschere, le incendia il fuoco del sale. Uomini pieni di maschere avvampano sul litorale. Tu sola potrai resistere nel rogo del Carnevale. Tu sola che senza maschere nascondi l’arte di esistere. Per lei (Originariamente in Il seme del piangere, Garzanti 1959, sezione Versi livornesi) Per lei voglio rime chiare, usuali: in –are. Rime magari vietate, ma aperte: ventilate. Rime coi suoni fini (di mare) dei suoi orecchini. O che abbiano, coralline, le tinte delle sue collanine. Rime che a distanza (Annina era così schietta) conservino l’eleganza povera, ma altrettanto netta. Rime che non siano labili, anche se orecchiabili. Rime non crepuscolari, ma verdi, elementari. La gente se l’additava (Originariamente in Il seme del piangere, Garzanti 1959, sezione Versi livornesi) Non c’era in tutta Livorno un’altra di lei più brava in bianco, o in orlo a giorno. La gente se l’additava vedendola, e se si voltava anche lei a salutare, il petto le si gonfiava

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timido, e le si riabbassava, quieto nel suo tumultuare come il sospiro del mare. Era una personcina schietta e un poco fiera (un poco magra), ma dolce e viva nei suoi slanci; e priva com’era di vanagloria ma non di puntiglio, andava per la maggiore a Livorno come vorrei che intorno andassi tu, canzonetta: che sembri scritta per gioco e lo sei piangendo: e con fuoco. Sassate (Originariamente in Il muro della terra, Garzanti 1975, sezione Lilliput e Andantino) Ho provato a parlare. Forse, ignoro la lingua. Tutte frasi sbagliate. Le risposte: sassate.

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ANTONIA POZZI (1912-1938) Edizione di riferimento A. Pozzi, Parole, Garzanti 2004. Sera d’aprile (Originariamente in Parole, Mondadori 1939) Batte la luna soavemente di là dai vetri sul mio vaso di primule: senza vederla la penso come una grande primula anch’essa stupita sola nel prato azzurro del cielo. Milano, 1° aprile 1931 Rifugio (Originariamente in Parole, Mondadori 1939) Nebbie. E il tonfo dei sassi dentro i canali. Voci d’acqua giù dai nevai di notte. Tu stendi una coperta per me sul pagliericcio: con le tue mani dure me l’avvolgi alle spalle, lievemente, che non mi prenda il freddo. Io penso al grande mistero che vive in te, oltre il tuo piano gesto; al senso di questa nostra fratellanza umana senza parole, tra le immense rocce dei monti. E forse ci sono più stelle e segreti e insondabili vie tra noi, nel silenzio, che in tutto il cielo disteso al di là della nebbia. Breil, 9 agosto 1934.

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VITTORIO SERENI (1913-1983) Edizione di riferimento V. Sereni, Poesie, Einaudi 2002. [Non sa più nulla, è alto sulle ali] (Originariamente in Diario d’Algeria, Vallecchi 1947, sezione Diario d’Algeria) Non sa più nulla, è alto sulle ali il primo caduto bocconi sulla spiaggia normanna. Per questo qualcuno stanotte mi toccava la spalla mormorando di pregar per l’Europa mentre la Nuova Armada si presentava alla costa di Francia. Ho risposto nel sonno: - È il vento, il vento che fa musiche bizzarre. Ma se tu fossi davvero il primo caduto bocconi sulla spiaggia normanna prega tu se lo puoi, io sono morto alla guerra e alla pace. Questa è la musica ora: delle tende che sbattono sui pali. Non è musica d’angeli , è la mia Sola musica e mi basta. - Campo Ospedale 127, giugno 1944 [Ahimè come ritorna] (Originariamente in Diario d’Algeria, Vallecchi 1947, sezione Diario d’Algeria) Ahimè come ritorna sulla frondosa a mezzo luglio collina d’Algeria di te nell’alta erba riversa non ingenua la voce e nemmeno perversa che l’afa lamenta e la bocca feroce ma rauca un poco e tenera soltanto. Saint Cloud, luglio 1944

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Dall’Olanda (Originariamente in Gli strumenti umani, Einaudi 1965, sezione Apparizioni o incontri)

Amsterdam A portarmi fu il caso tra le nove e le dieci d’una domenica mattina svoltando a un ponte, uno dei tanti, a destra lungo il semigelo d’un canale. E non questa è la casa, ma soltanto -mille volte già vista – sul cartello dimesso «Casa di Anna Frank». Disse più tardi il mio compagno: quella di Anna Frank non dev’ essere, non è, privilegiata memoria. Ce ne furono tanti che crollarono per sola fame senza il tempo di scriverlo. Lei, è vero, lo scrisse. Ma a ogni svolta a ogni ponte lungo ogni canale continuavo a cercarla senza trovarla più ritrovandola sempre. Per questo è una e insondabile Amsterdam nei suoi tre quattro variabili elementi che fonde in tante unità ricorrenti, nei suoi tre quattro fradici o acerbi colori che quanto è grande il suo spazio perpetua, anima che s’irraggia ferma e limpida in migliaia d’altri volti, germe dovunque e germoglio di Anna Frank. Per questo è sui suoi canali vertiginosa Amsterdam.

Sarà la noia (Originariamente in Stella variabile, Amici del libro 1979 - Garzanti 1981) dei giorni lunghi e torridi ma oggi la piccola Laura è fastidiosa proprio. Smettila - dico – se no… con repressa ferocia torcendole piano il braccino. Non mi fai male non mi fai male, mi sfida in cantilena guardandomi da sotto in su petulante ma già in punta di lagrime, non piango nemmeno vedi.

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Vedo. Ma è l’angelo nero dello sterminio quello che adesso vedo lucente nelle sue bardature di morte e a lui rivolto in estasi il bambinetto ebreo invitandolo al gioco del massacro.

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PIERPAOLO PASOLINI (1922-1975) Edizione di riferimento: P. P. Pasolini, Tutte le poesie, Einaudi 2003. Profezia (Originariamente in Il libro delle croci, Garzanti 1964)

A Jean Paul Sartre, che mi ha raccontato

la storia di Alì dagli Occhi Azzurri

Alì dagli Occhi Azzurri uno dei tanti figli di figli, scenderà da Algeri, su navi a vela e a remi. Saranno con lui migliaia di uomini coi corpicini e gli occhi di poveri cani dei padri sulle barche varate nei Regni della Fame. Porteranno con sé i bambini, e il pane e il formaggio, nelle carte gialle del Lunedì di Pasqua. Porteranno le nonne e gli asini, sulle triremi rubate ai porti coloniali. Sbarcheranno a Crotone o a Palmi, a milioni, vestiti di stracci, asiatici, e di camicie americane. Subito i Calabresi diranno, come malandrini a malandrini: "Ecco i vecchi fratelli, coi figli e il pane e formaggio!" Da Crotone o Palmi saliranno a Napoli, e da lì a Barcellona, a Salonicco e a Marsiglia, nelle Città della Malavita. Anime e angeli, topi e pidocchi, col germe della Storia Antica, voleranno davanti alle willaye.

Essi sempre umili Essi sempre deboli essi sempre timidi essi sempre infimi essi sempre colpevoli essi sempre sudditi essi sempre piccoli, essi che non vollero mai sapere, essi che ebbero occhi solo per implorare, essi che vissero come assassini sotto terra, essi che vissero come banditi in fondo al mare, essi che vissero come pazzi in mezzo al cielo, essi che si costruirono

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leggi fuori dalla legge, essi che si adattarono a un mondo sotto il mondo essi che credettero in un Dio servo di Dio, essi che cantavano ai massacri dei re, essi che ballavano alle guerre borghesi, essi che pregavano alle lotte operaie... ... deponendo l'onestà delle religioni contadine, dimenticando l'onore della malavita, tradendo il candore dei popoli barbari, dietro ai loro Alì dagli occhi azzurri - usciranno da sotto la terra per uccidere — usciranno dal fondo del mare per aggredire — scenderanno dall'alto del cielo per derubare — e prima di giungere a Parigi per insegnare la gioia di vivere, prima di giungere a Londra per insegnare ad essere liberi, prima di giungere a New York, per insegnare come si è fratelli — distruggeranno Roma e sulle sue rovine deporranno il germe della Storia Antica. Poi col Papa e ogni sacramento andranno su come zingari verso nord-ovest con le bandiere rosse di Trotzky al vento…

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ELIO PAGLIARANI (1927-2012) La ragazza Carla (Originariamente sulla rivista “Il menabò”, n. 2 1960; qui da E. Pagliarani, La ragazza Carla e altre poesie, Mondadori 1962) 1 Carla Dondi fu Ambrogio di anni diciassette primo impiego stenodattilo all'ombra del Duomo Sollecitudine e amore, amore ci vuole al lavoro sia svelta, sorrida e impari le lingue le lingue qui dentro le lingue oggigiorno capisce dove si trova? TRANSOCEAN LIMITED qui tutto il mondo... è certo che sarà orgogliosa. Signorina, noi siamo abbonati alle Pulizie Generali, due volte la settimana, ma il Signor Praték è molto esigente - amore al lavoro è amore all'ambiente - così nello sgabuzzino lei trova la scopa e il piumino sarà sua prima cura la mattina. UFFICIO A UFFICIO B UFFICIO C Perché non mangi? Adesso che lavori ne hai bisogno adesso che lavori ne hai diritto molto di più. S'è lavata nel bagno e poi nel letto s'è accarezzata tutta quella sera. Non le mancava niente, c'era tutta come la sera prima - pure con le mani e la bocca si cerca si tocca si strofina, ha una voglia di piangere di compatirsi ma senza fantasia come può immaginare di commuoversi? Tira il collo all'indietro ed ecco tutto.

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2 All'ombra del Duomo, di un fianco del Duomo i segni colorati dei semafori le polveri idriz elettriche mobili sulle facciate del vecchio casermone d'angolo fra l'infelice corso Vittorio Emanuele e Camposanto, Santa Radegonda, Odeon bar cinema e teatro un casermone sinistrato e cadente che sarà la Rinascente cento targhe d'ottone come quella TRANSOCEAN LIMITED IMPORT EXPORT COMPANY le nove di mattina al 3 febbraio. La civiltà si è trasferita al nord come è nata nel sud, per via del clima, quante energie distilla alla mattina il tempo di febbraio, qui in città? Carla spiuma i mobili Aldo Lavagnino coi codici traduce telegrammi night letters una signora bianca ha cominciato i calcoli sulla calcolatrice svedese. Sono momenti belli: c'è silenzio e il ritmo d'un polmone, se guardi dai cristalli quella gente che marcia al suo lavoro diritta interessata necessaria che ha tanto fiato caldo nella bocca quando dice buongiorno è questa che decide e son dei loro non c'è altro da dire. E questo cielo contemporaneo in alto, tira su la schiena, in alto ma non tanto questo cielo colore di lamiera sulla piazza a Sesto a Cinisello alla Bovisa sopra tutti i tranvieri ai capolinea non prolunga all'infinito i fianchi le guglie i grattacieli i capannoni Pirelli coperti di lamiera? È nostro questo cielo d'acciaio che non finge Eden e non concede smarrimenti, è nostro ed è morale il cielo

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che non promette scampo dalla terra, proprio perché sulla terra non c'è scampo da noi nella vita. 3 Negli uffici s'imparan molte cose ecco la vera scuola della vita alcune s'hanno da imparare in fretta perché vogliono dire saper vivere la prima entrare nella manica a Praték che ce l'ha stretta A Praték gli vanno bene i soldi e un impiegato mai, perché la fine del mese i soldi l'impiegato pochi o tanti li porta via, e lui li guarda coi suoi occhi acquosi, i soldi, e non gli pare giusto. A Praték gli van bene anche le donne e Lidia che era furba lo sapeva e l'ha passato mica male, il tempo, sullo sgabello della macchina con le sue cosce grasse. Ma la moglie coi soldi che è gelosa vigila sulla serenità delle fanciulle, Monsieur Praték - in fondo, io sono un filosofo - non per niente è stato anche in galera rispetta gli istituti: Lidia parte entra Carla: può servire che si sappia: col dottor Pozzi basta un po' di striscio, fargli mettere la firma in molti posti.

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ALDA MERINI (1931-2009) Sono nata il 21 a primavera (in Vuoto d’amore, Einaudi, 1991) Sono nata il ventuno a primavera ma non sapevo che nascere folle, aprire le zolle potesse scatenare tempesta. Così Proserpina lieve vede piovere sulle erbe, sui grossi frumenti gentili e piange sempre la sera. Forse è la sua preghiera. Le osterie (in Vuoto d’amore, Einaudi 1991) A me piacciono gli anfratti bui delle osterie dormienti, dove la gente culmina nell’eccesso del canto, a me piacciono le cose bestemmiate e leggere, e i calici di vino profondi, dove la gente esulta, livello di magico pensiero. Troppo sciocco è piangere sopra un amore perduto malvissuto e scostante, meglio l’acre vapore del vino indenne, meglio l’ubriacatura del genio, meglio sì meglio l’indagine sorda delle scorrevolezze di vite; io amo le osterie che parlano il linguaggio sottile della lingua di Bacco, e poi nelle osterie ci sta il nome di Charles scritto a caratteri d’oro. Corpo d’amore (in Corpo d’amore. Incontro con Gesù, Frassinelli 2001) Gesù, forse è per paura delle tue immonde spine ch’io non ti credo, per quel dorso chino sotto la croce ch’io non voglio imitarti. Forse, come fece San Pietro,

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io ti rinnego per paura del pianto. Perciò ti percorro ad ogni ora E sono lì in un angolo di strada E aspetto che tu passi. E ho un fazzoletto, amore, che nessuno ha mai toccato, per tergerti la faccia.

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GIOVANNI RABONI (1932–2004) Il compleanno di mia figlia (Originariamente in Economia della paura, Scheiwiller 1970, poi in Cadenza d’inganno, Mondadori 1975; qui da G. Raboni, Tutte le poesie, Garzanti 2000) Siano con selvaggia compunzione accese le tre candele. Saltino sui coperchi con fragore i due compari di spada compiuti uno sei anni e mezzo, l’altro cinque e io trentaquattro e la mamma trentadue e la nonna, se non sbaglio, sessantotto. Questa scena non verrà ripetuta. La scena non viene diversamente effigiata. E chi si sentisse esule o in qualche percentuale risulta ingrugnato parli prima o domani. Accogli, streghina di marzapane, la nostra sospettosa tenerezza. Seguano come a caso stridi di vagoni piombati, raffiche di mitragliatrice…

(1966) Un gatto più un gatto fa due gatti (Originariamente in Pin Pidin. Poeti d’oggi per i bambini, a cura di G. Raboni e A. Porta, Feltrinelli 1978, qui da G. Raboni, Un gatto più un gatto, Mondadori 1991) Un gatto più un gatto fa due gatti un gatto meno un gatto fa un gatto andato via speriamo che torni presto che non si perda che non si faccia male che per strada stia attento a non attraversare che trovi sui tetti la strada per tornare che torni a casa prima di sera con la sua bella coda dritta come una coda disegnata Un gatto meno un gatto fa tre topi che ballano nella dispensa e se la spassano e mangiano il formaggio ma quando il gatto torna

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con la sua coda dritta e i suoi baffi lucenti i tre topi spariscono in quattro e quattr’otto. [Invecchiando il corpo vorrebbe un’anima] (Originariamente in Ogni terzo pensiero, Mondadori 1993; qui da G. Raboni, Tutte le poesie, Garzanti 2000) Invecchiando il corpo vorrebbe un’anima diversa, ma come si fa? non serve prendere calmanti, stordire i nervi e la mente, il problema è proprio l’anima, l’anima che non vuole pace, l’anima insaziabile, ostinata che ferve per sempre più comicamente impervi labirinti o abissi e si sa che l’anima non solo è immortale ma immortalmente immatura. Così, temo, non resta che rassegnarsi, finché non s’arresta la fontanella del respiro niente può cambiare, non è di questo fuoco spegnersi come gli altri a poco a poco.

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VIVIAN LAMARQUE (1946) Edizione di riferimento V. Lamarque, Poesie 1972-2002, Mondadori 2002. Fate piano (Originariamente in Teresino, Guanda, 1981) Fate piano si è addormentata la televisione se l’è cullata fate piano non sia svegliata sta sognando di essere amata Poesia illegittima (Originariamente in Teresino, Guanda, 1981)

Stellina, ma perché piangi? ORAZIO Quella sera che ho fatto l’amore mentale con te non sono stata prudente dopo un po’ mi si è gonfiata la mente sappi che due notti fa con dolorose doglie mi è nata una poesia illegittimamente porterà solo il mio nome ma ha la tua aria straniera ti somiglia mentre non sospetti niente di niente sappi che ti è nata una figlia Il signore mai (Originariamente in Il signore d’oro, Crocetti 1986) Era un signore bello e meraviglioso. Vicino a lui non si poteva stare, bensì mai. Lui, il Lontano, viveva dispettoso con la sua famiglia, in un altro luogo. Il signore della buonanotte (Originariamente in Il signore d’oro, Crocetti 1986) Da un letto lontano con tutta la migliore sestessa buonanotte gli augurava. C'era la luna? Oh sì la luna e anche le mille stelle, più le fronde degli alberi e le addormentate acque, con tutto tutto buonanotte gli augurava. E il signore sentiva? Sì, il signore piano piano sentiva, mentre si addormentava.

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Il signore sognato (Originariamente in Il signore d’oro, Crocetti 1986) Splendidissima era la vita accanto a lui sognata. Nel sogno tra tutte prediletta la chiamava. E nella realtà? La realtà non c'era, era abdicata. Splendidissima regnava la vita immaginata. Testamento (Originariamente in Una quieta polvere, Mondadori, 1996)

ai nuovi milanesi di colore A certi che so io Lascio tutto e agli altri niente. E le poesie belle agli amici e ai nemici le brutte. E le cose di valore? Le cose di valore ai nuovi milanesi di colore che per due lire ci fanno i vetri luccicanti (oh nostri innocentissimi emigranti per due lire venuti da lontano con i vostri negozietti in una mano). E lascio i miei fiori al mio giardino e alla terra gentile che mi starà vicino ci faremo senza voce compagnia e buongiorno morte e così sia.

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MARIANGELA GUALTIERI (1951) [Gli altri sono troppi, per me] (in Senza polvere senza peso, Einaudi 2006) Gli altri sono troppi, per me. Ho un cuore eremita. Sono impastata di silenzio e di vento. Sono antica. Mi pento ogni volta che vado lontano dal mio stare lento nelle velocità della sera, nelle auto schizzate di pianto. Col loro buio abitacolo. E se sfreccio a volte sulla modesta moto, è per cantare a gola stesa l'ultimo del paradiso fare il mio guizzo pericoloso con tutto quel vento nel petto seminare parole beate nel panorama nervoso. [Amore mio] (in Paesaggio con fratello rotto. Trilogia, Luca Sossella editore, Roma, 2007) Amore mio, è difficile da questo fondo, da questo finale, dire come mi manchi, come immenso tu sei nel mancare, adesso che mi sono persa fra masse dure, fra cinghie di buio pesto, senza divinità, senza la tua mano che tutto sorregge. Tu mi credi più forte, mi pensi in oro e argento, ma guarda l’orma che lascio, come di cagna, di passero stanco, di bruco, di mosca. Non vedi? Non senti come mi spengo se non mi ami? Mi secco come una pianta. Amami ancora un poco, con cura, con tempo, con attesa. Amami come amano i forti spiriti, senza pretesa, con fuoco generoso, con festa, senza ragionamento. E scusa, scusa, scusa, questo mio domandare ciò che si deve dare, questo avere bisogno, scusalo. Non è degno del patto che lega la rondine al suo volo, la rosa al suo profumo, il vino al suo colore, il tuo cuore al mio cuore.

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[La bambina è rimasta con me] (in Bestia di gioia, Einaudi, 2010) La bambina è rimasta con me. Non è mai nata. Si sbilancia fra i miei precipizi ride forte e lenta dorme e forte resta resta sempre. Col suo cuore che fa cuore col mio. La bambina di sole azzurrina.

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VALERIO MAGRELLI (1957) [Essere matita è segreta ambizione] (Originariamente in Ora serrata retinae, Feltrinelli 1980, qui da V. Magrelli, Poesie 1980-1992 e altre poesie, Einaudi 1996) Essere matita è segreta ambizione. Bruciare sulla carta lentamente e nella carta restare in altra nuova forma suscitato. Diventare così da carne segno, da strumento ossatura esile del pensiero. Ma questa dolce eclissi della materia non sempre è concessa. C’è chi tramonta solo col suo corpo: allora più doloroso ne è distacco. Natale, credo, scada il bollino blu (Originariamente in Natività, Edizioni L’Obliquo 2007, qui da V. Magrelli, Il sangue amaro, Einaudi 2014) Natale, credo, scada il bollino blu del motorino, il canone URAR TV, poi l’ICI e in più il secondo acconto IRPEF – o era INRI ? La password, il codice utente, PIN e PUK sono le nostre dolcissime metastasi. Ciò è bene, perché io amo i contributi, l’anestesia, l’anagrafe telematica, ma sento che qualcosa è andato perso e insieme che il dolore mi è rimasto mentre mi prende acuta nostalgia per una forma di vita estinta: la mia.

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ALDO NOVE (1967) Madre di Dio (Originariamente in Antonello Satta Centanin, Fuoco su Babilonia! Poesie 1984-1996, Crocetti, 2003) Madre di Clivio e di Gerusalemme, Madre di Betsabea e Baranzate, Madre delle Bustecche e di Betlemme, Madre del Monte Nero e di Tradate;

Madre del Crocifisso e della strada che va dal tabaccaio a Primaticcio, dove alle sei la sera si dirada al primato di nuvole rossiccio, al primato del sole che si slaccia dal cielo tra le nuvole di mille colori ombreggiando della Tua faccia. Tra i gas dei camion gli occhi, la scintilla degli occhi tuoi, Madre, prima che taccia la sera madre abbracciami...

Il tempo (Originariamente in Addio mio Novecento, Einaudi, 2014) Un’altra ora e ce ne sono state, ce ne saranno ancora, forse meno di prima, contenute nelle case, costrette nelle cose, e forse troppe ne restano, di ore da riempire,

di ore già passate,

non aggregate, pezzi di giornate a farne uno, un giorno per intero, almeno uno, un giorno che sia vero: ci basterebbe, credo, nel frastuono iniquo d’ore, un giorno solamente.

È questo il nostro tempo?

È questo e non è nostro, se scorre in acquitrini e noi scorriamo a tratti insieme a lui da soli e se ci ritroviamo è troppo, davvero troppo poco, morti e vivi,

- Ma tu non farci caso, ma tu scrivi

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Addio Mio Novecento (Originariamente in Addio mio Novecento, Einaudi, 2014) C’era, prima di prima, un giardino pieno di luce pieno di muri da scavalcare e noi li scavalcavamo e tutto questo aveva un senso e il giardino era immenso e i muri erano veri. Non, soltanto, pensieri. Ogni donna (Originariamente in Forma/Luce, Drago, 2014) Ogni donna custodisce il tempo che rimane per fare un’altra volta il mondo. Ogni donna è una stella, riempie lo spazio delle parole di luce, le mette nel futuro. Ogni donna ha il sapore universale del mare, lo rende reale.

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ALTRI CLASSICI ERNESTO REGAZZONI (1870-1920) Edizione di riferimento E. Ragazzoni, Buchi nella sabbia e pagine invisibili, Einaudi 2000. Elegia del verme solitario Solo è Allah nel Paradiso del Profeta Makometto solo è il naso in mezzo al viso solo è il celibe nel letto, ma nessun, da Polo a Polo, come me sul globo è solo, né mai fu, per quanto germe ebbe lune del lunario, perch’io solo sono il verme lungo verme cupo verme cieco verme bieco verme triste verme solitario. Solitario sulla vetta della torre antica è il passero solitario. È la vedetta solitaria in cima al cassero, solitario è il soldo, o duolo, del tapin ch’à un soldo solo, solo andava il cieco inerme e ben noto Belisario, ma il più sol di tutti è il verme lungo verme cupo verme cieco verme bieco verme triste verme solitario. Tutte l’altre creature hanno moglie od hanno figli: i canguri han le cangure i conigli han le coniglie,

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l’api accoppiansi nell’aria e persin la dromedaria tra le sabbie nude ed erme ha il fedele dromedario. Il più sol di tutti è il verme lungo verme cupo verme cieco verme bieco verme triste verme solitario. Una vaga fantasia alle volte pur mi coglie, la mia mente vola via e m’immagino aver moglie, mi par d’essere, o cuccagna, un bel nastro, una lasagna... non più fitto in membra inferme nel mio vil penitenziario e non più essere un verme lungo verme cupo verme cieco verme bieco verme triste verme solitario. Nastro a volte mi figuro di annodarmi intorno a un collo di fanciulla esile e puro. In intingoli di pollo altre volte invece parmi da lasagna intingolarmi. Il mio cor si tuffa in terme di speranza... ed al contrario resto sempre il verme, il verme lungo verme cupo verme cieco verme bieco verme triste verme solitario. Pure il giorno verrà, il giorno che uscirò fuori a vedere

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come è fatto il mondo intorno miserere, miserere, finirò la vita trista nel boccal di un farmacista pieno d’alcool ed erme- ticamente funerario, perché io non son che il verme lungo... cupo... cieco... bieco... triste verme SOLITARIO.

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FOSCO MARAINI (1912-2004) Edizione di riferimento F. Maraini, Gnosi delle Fànfole, Baldini & Castoldi 2007. Il giorno a urlapicchio (Originariamente in Le Fànfole, De Donato, 1966)

Ci son dei giorni smègi e lombidiosi col cielo dagro e un fònzero gongruto ci son meriggi gnàlidi e budriosi che plògidan sul mondo infrangelluto, ma oggi è un giorno a zìmpagi e zirlecchi un giorno tutto gnacchi e timparlini, le nuvole buzzìllano, i bernecchi ludèrchiano coi fèrnagi tra i pini; è un giorno per le vànvere, un festicchio un giorno carmidioso e prodigiero, è il giorno a cantilegi, ad urlapicchio in cui m’hai detto «t’amo per davvero».

Ballo (Originariamente in Le Fànfole, De Donato, 1966) Vortègida e festuglia o dulcibana e sdrìllera che sdràllero! Sul fizio la musica ci zùnfrega e ci sdrana con tròdige buriagico e rubizio. Lo sai che gli occhi gneschi e turchidiosi son come abissi vèlvoli e maligi? Lo sai che nei bluàgnoli miriosi tracàcero con lèfane deligi? Ah sdrìllera che sdràllero, mumurra parole lampigiane ed umbralìe, t’ascolto lucifuso nell’azzurra voragine d’un’alba di bugie.

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TOTI SCIALOJA (1914-1998) Edizione di principale riferimento T. Scialoja, Versi del senso perso, Einaudi 2009; per La rosa non è rossa si veda invece T. Scialoja, Poesie (1979-1998), Garzanti 2002. Una zanzara di Zanzibàr (Originariamente in Amato topino caro, Bompiani 1971) andava a zonzo, entrò in un bar, ‘Zuzzerellona!’ le disse un tal ‘mastica zenzero se hai mal di mar’”.

____ L’ippopota disse «Mo (Originariamente in Amato topino caro, Bompiani 1971)

nella mota ho il mio popò!» ____

La zanzara, per decenza, (Originariamente in Una vespa! Che spavento, Einaudi 1975)

ha una tunica d’organza, quando è sbronza vola senza a zig zag per la Brianza.

____ (Originariamente in La stanza la stizza l’astuzia,

Cooperativa Scrittori 1976) Un esercito di pulci sta passando in treno merci, quando grido: “ Arrivederci! “ fanno tutte gli occhi dolci.

____

Oh, formica! (Originariamente in Ghiro ghiro tonto, Stampatori 1979)

Quanto è antica e nemica la fatica nell’ortica. Ma tu vuoi che non si dica.

____

La rosa non è rossa (Originariamente in Violini del diluvio, Mondadori, 1991) è appena rosa - è senza tinta se a tratti è scossa dal sussulto della tua assenza che non chiede colore non misura distanza - è soltanto dolore in qualche angolo della stanza.

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GIANNI RODARI (1920-1980) Edizione di riferimento G. Rodari, Filastrocche in cielo e in terra, Einaudi 1996. I mari della luna (Originariamente in Filastrocche in cielo e in terra, Einaudi 1960) Nei mari della luna tuffi non se ne fanno; non c’è una goccia d’acqua, pesci non ce ne stanno. Che magnifico mare per chi non sa nuotare. Alla formica (Originariamente in Filastrocche in cielo e in terra, Einaudi 1960) Chiedo scusa alla favola antica se non mi piace l’avara formica. Io sto dalla parte della cicala Che il più bel canto non vende: regala. Il giorno più bello della storia (Originariamente in Filastrocche in cielo e in terra, Einaudi 1960) S’io fossi un fornaio vorrei cuocere un pane così grande da sfamare tutta, tutta la gente che non ha da mangiare. Un pane più grande del sole dorato profumato come le viole. Un pane così verrebbero a mangiarlo dall’India e dal Chilì i poveri, i bambini i vecchietti e gli uccellini. Sarà una data da studiare a memoria: un giorno senza fame! Il più bel giorno di tutta la storia.

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NICO ORENGO (1944-2009) Edizione di riferimento N. Orengo, A-Ulì-Ulé. Filastrocche, Conte, Ninnenanne, Einaudi 1998. Un uccellino (originariamente in A-Ulì-Ulé, Einaudi, 1972) Nella grande città, c’è una strada; nella strada, c’è una casa, nella casa una scala, in cima alla scala, una stanza; in mezzo alla stanza, una tavola; sulla tavola, un tappeto; sul tappeto, una gabbia; nella gabbia, un nido; nel nido, un uovo; nell’uovo, un uccellino. L’uccellino uscì fuori dell’uovo e lo rovesciò; l’uovo rovesciò il nido; il nido rovesciò la gabbia; la gabbia rovesciò il tappeto; il tappeto rovesciò la tavola; la tavola rovesciò la stanza; la stanza rovesciò la scala; la scala rovesciò la casa; la casa rovesciò la strada; la strada rovesciò la grande città. Così un uccellino rovesciò un’intera città.

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GIUSEPPE PONTREMOLI (1955-2004) Rabbia Birabbia (in Rabbia Birabbia, Nuove Edizioni Romane 1991). Ho conosciuto un tale ch'era sempre arrabbiato per il caldo del fuoco il freddo del gelato perché c'era silenzio perché c'era rumore per il troppo profumo per il cattivo odore in inverno in estate d'autunno a primavera pomeriggio e mattino a notte fonda a sera. Un giorno s'arrabbiò anche con la sua rabbia e senza alcun rimorso la chiuse in una gabbia però ne tenne un mucchio che mise in certe buste per fame largo uso contro le cose ingiuste. Canzonetta d’amore per il vento (in Ballata per tutto l’anno e altri canti, Nuove Edizioni Romane 2004) E' beffardo e curioso va sui monti e sul mare è svelto e generoso nulla lo può fermare. S'insinua dappertutto vola insieme agli uccelli riesce a sapere tutto e scompiglia i capelli. E' libero e sorride entra in ogni avventura compie mille magie non ha alcuna paura.

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Fa parlare le foglie porta voci e canzoni non si cura del tempo ed è senza padroni.

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RACCONTI

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FEDERIGO TOZZI (1883 – 1920) SENZA TITOLO [Il lettore e l’orso] In Bestie, Treves 1917 (qui Le Lettere 2011).

Da ragazzo, mi compravo pochi libri. Mio padre voleva ch’io non leggessi; e, con la

scusa che mi sarei sciupato gli occhi, non cavava mai un soldo in tasca. Quei cinque o

sei che avevo, li tenevo insieme con la biancheria; e m’avveniva che, quando tiravo il

cassetto per prendere una camicia o altro, ne aprivo uno e leggevo senza muoverlo dal

suo posto.

Ma, un capodanno, la mia donna si decise a comprarmi per regalo, avendo io

insistito fin da un mese prima, quel libro del Verne che si chiama Nel paese delle

pellicce. Io cominciai a leggerlo, ma non andavo mai in fondo; perché tornavo sempre

alla pagine a dietro. Finalmente, dopo un tre mesi, giunsi all’ultima pagina come se

quelle avventure fossero toccate a me.

E più d’ogni altra cosa, forse, mi rimase a mente una figura dov’era un orso che

voleva entrare dentro una capanna. Tutte le volte che ho visto orsi veri, ho sempre

pensato a quello; e come, guardandolo, per un bel pezzo mi scuotevo e mi smuovevo

tutto.

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EUGENIO MONTALE (1896 – 1981) TI CAMBIERESTI CON ...? (1952) In La Farfalla di Dinard, Neri Pozza 1956 (qui Mondadori 1995).

Fin dalle prime ore del mattino (le prime ore dei bagnanti, le dieci, le undici) sono in

giro per le pinetine e la spiaggia. Osservano, scrutano, ascoltano e ogni tanto mettono un

segno in un libriccino tascabile. Ma le ore più fruttuose sono quelle del tardo pomeriggio, in

cui la gente fa capannello, parla, si confida e insomma si lascia scappare il suo segreto (se

c’è).

«Ti cambieresti con lui?» chiede Frika ad Alberico indicando un avvocato peloso, in

shorts, che sta curvo sulle carte. L’ha attratta la sua voce sicura e forte che la brezza non

riesce a soffocare (“Canasta sporca”… “Sacrificare il Jolly”…).

«Io? Subito» dice Alberico e fa un segno sul taccuino.

Passa una donna in mutandine cortissime, reggipetto e sandali d’ora. È una bella

statua tinta di biondo e di rosso; viene ogni anno da Busto con una grande macchina, un

bambino e un’istitutrice.

«Ti cambieresti con lei?» chiede Alberico. E Frika:

«Che domande! Anche su due piedi.» E fa un segnetto sul taccuino.

Scende sulla rena una vecchia ossigenata che si tira dietro un barboncino bianco tutto

pelo dalla pancia in su e tutto raso dalla pancia in giù: un batuffolo mezzo calvo e mezzo

ispido, che lascia trasparire macchie di un rosa pulcioso e guarda con piccoli occhi neri e

arruffati. «Vieni Cheap, vieni tesoro mio» dice la vecchia; e ripete che il suo Cheap è come

un figlio, che ora non lo prenderebbe più tante sono le noie che le dà; ma come si fa? Ora

che c’è non gli lascia mancar nulla, senza di lei piange e si dispera, povero Cheap. È meglio

di un cristiano, soffre di mal di fegato ma può vivere ancora dieci anni, povero Cheap «vieni

cipollino, vieni dalla tua mammina.»

«Ti cambieresti con…» dice Frika.

«Con lei?» dice Alberico inorridito.

«No, con Cheap.»

«Subito» dice Alberico, e fa un segno sul libriccino.

«Ed io anche con lei» dice Frika. «Anche con lei che almeno ha il suo Cheap.» E mette

giù il suo bravo segno. Anzi due.

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Sono giunti dal ciabattino che lavora all’angolo della strada all’ombra di un folto di

lecci polverosi. Lei gli porge un sandalo e lui curvo sul banco lavora di spago e trincetto.

Dall’alto piove un canto lungo, soave, pungente, mesto e lietissimo. Un ghirigoro di luce nel

buio.

«È una cinciallegra» dice il calzolaio. «Canta da anni ma non l’ho mai potuta vedere. È

l’ultima cosa bella che sia rimasta al mondo.»

Ascoltano estasiati. Alberico fa un segno sul libriccino.

«Col calzolaio?» chiede lei con un soffio.

«No, con la cinciallegra» dice lui «ma ora che ci penso, perché no?» e aggiunge un

altro segno.

L’altra annuisce e per conto suo mette giù un segno solo: per la cinciallegra.

Sono passati tanti anni dal loro matrimonio, forse solo i nomi wagneriani li hanno uniti

ma ormai non c’è più nulla da fare. E così per ore e ore, in acqua e all’asciutto, a tavola e

per la strada, a letto o allungati sulle sedie a sdraio; e a sera tarda tirano le somme per

vedere chi ha totalizzato più punti, chi è il più infelice dei due, chi è quello che si

cambierebbe di più con un altro…

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DINO BUZZATI (1906–1972) IL COLOMBRE (su rivista 1961) In Il Colombre, Mondadori 1966 (qui Mondadori 1991).

Quando Stefano Roi compí i dodici anni, chiese in regalo a suo padre, capitano di mare

e padrone di un bel veliero, che lo portasse con sé a bordo.

«Quando sarò grande» disse «voglio andar per mare come te. E comanderò delle navi

ancora più belle e grandi della tua.»

«Che Dio ti benedica, figliolo» rispose il padre. E siccome proprio quel giorno il suo

bastimento doveva partire, portò il ragazzo con sé.

Era una giornata splendida di sole; e il mare tranquillo. Stefano, che non era mai stato

sulla nave, girava felice in coperta, ammirando le complicate manovre delle vele. E chiedeva

di questo e di quello ai marinai che, sorridendo, gli davano tutte le spiegazioni.

Come fu giunto a poppa, il ragazzo si fermò, incuriosito, a osservare una cosa che

spuntava a intermittenza in superficie, a distanza di due-trecento metri, in corrispondenza

della scia della nave. Benché il bastimento già volasse, portato da un magnifico vento al

giardinetto, quella cosa manteneva sempre la distanza. E, sebbene egli non ne

comprendesse la natura, aveva qualcosa di indefinibile, che lo attraeva intensamente. Il

padre, non vedendo Stefano più in giro, dopo averlo chiamato a gran voce invano, scese

dalla plancia e andò a cercarlo.

«Stefano, che cosa fai lì impalato?» gli chiese scorgendolo infine a poppa, in piedi, che

fissava le onde.

«Papà, vieni qui a vedere.»

Il padre venne e guardò anche lui, nella direzione indicata dal ragazzo, ma non riuscì a

vedere niente.

«C’è una cosa scura che spunta ogni tanto dalla scia» disse «e che ci viene dietro.»

«Nonostante i miei quarant’anni» disse il padre «credo di avere ancora una vista

buona. Ma non vedo assolutamente niente.»

Poiché il figlio insisteva, andò a prendere il cannocchiale e scrutò la superficie del

mare, in corrispondenza della scia. Stefano lo vide impallidire.

«Cos’è? Perché fai quella faccia?»

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«Oh, non ti avessi ascoltato» esclamò il capitano. «Io adesso temo per te. Quella cosa

che tu vedi spuntare dalle acque e che ci segue, non è una cosa. Quello è un colombre. È il

pesce che i marinai sopra tutti temono, in ogni mare del mondo. È uno squalo tremendo e

misterioso, più astuto dell’uomo. Per motivi che forse nessuno saprà mai, sceglie la sua

vittima, e quando l’ha scelta la insegue per anni e anni, per una intera vita, finché è riuscito

a divorarla. E lo strano è questo: che nessuno riesce a scorgerlo se non la vittima stessa e le

persone del suo stesso sangue.» «Non è una favola?»

«No. Io non l’avevo mai visto. Ma dalle descrizioni che ho sentito fare tante volte, l’ho

subito riconosciuto. Quel muso da bisonte, quella bocca che continuamente si apre e

chiude, quei denti terribili. Stefano, non c’è dubbio, purtroppo, il colombre ha scelto te e

finché tu andrai per mare non ti darà pace. Ascoltami: ora noi torniamo subito a terra, tu

sbarcherai e non ti staccherai mai più dalla riva, per nessuna ragione al mondo. Me lo devi

promettere. Il mestiere del mare non è per te, figliolo. Devi rassegnarti. Del resto, anche a

terra potrai fare fortuna.» Ciò detto, fece immediatamente invertire la rotta, rientrò in

porto e, col pretesto di un improvviso malessere, sbarcò il figliolo.

Quindi ripartì senza di lui.

Profondamente turbato, il ragazzo restò sulla riva finché l’ultimo picco dell’alberatura

sprofondò dietro l’orizzonte. Di là dal molo che chiudeva il porto, il mare restò

completamente deserto. Ma, aguzzando gli sguardi, Stefano riuscì a scorgere un puntino

nero che affiorava a intermittenza dalle acque: il "suo" colombre, che incrociava

lentamente su e giù, ostinato ad aspettarlo.

Da allora il ragazzo con ogni espediente fu distolto dal desiderio del mare. Il padre lo

mandò a studiare in una città dell’interno, lontana centinaia di chilometri. E per qualche

tempo, distratto dal nuovo ambiente, Stefano non pensò più al mostro marino. Tuttavia,

per le vacanze estive, tornò a casa e per prima cosa appena ebbe un minuto libero, si

affrettò a raggiungere l’estremità del molo, per una specie di controllo, benché in fondo lo

ritenesse superfluo. Dopo tanto tempo, il colombre, ammesso anche che tutta la storia

narratagli dal padre fosse vera, aveva certo rinunciato all’assedio.

Ma Stefano rimase là, attonito, col cuore che gli batteva. A distanza di due-trecento

metri dal molo, nell’aperto mare, il sinistro pesce andava su e giù, lentamente, ogni tanto

sollevando il muso dall’acqua e volgendolo a terra, quasi con ansia guardasse se Stefano Roi

finalmente veniva. Così, l’idea di quella creatura nemica che lo aspettava giorno e notte

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divenne per Stefano una segreta ossessione. E anche nella lontana città gli capitava di

svegliarsi in piena notte con inquietudine. Egli era al sicuro, sì, centinaia di chilometri lo

separavano dal colombre. Eppure egli sapeva che, di là dalle montagne, di là dai boschi, di

là dalle pianure, lo squalo era ad aspettarlo. E, si fosse egli trasferito pure nel più remoto

continente, ancora il colombre si sarebbe appostato nello specchio di mare più vicino, con

l’inesorabile ostinazione che hanno gli strumenti del fato.

Stefano, ch’era un ragazzo serio e volonteroso, continuò con profitto gli studi e,

appena fu uomo, trovò un impiego dignitoso e rimunerativo in un emporio di quella città.

Intanto il padre venne a morire per malattia, il suo magnifico veliero fu dalla vedova

venduto e il figlio si trovò ad essere erede di una discreta fortuna. Il lavoro, le amicizie, gli

svaghi, i primi amori: Stefano si era ormai fatto la sua vita, ciononostante il pensiero del

colombre lo assillava come un funesto e insieme affascinante miraggio; e, passando i giorni,

anziché svanire, sembrava farsi più insistente.

Grandi sono le soddisfazioni di una vita laboriosa, agiata e tranquilla, ma ancora più

grande è l’attrazione dell’abisso. Aveva appena ventidue anni Stefano, quando, salutati gli

amici della città e licenziatosi dall’impiego, tornò alla città natale e comunicò alla mamma la

ferma intenzione di seguire il mestiere paterno. La donna, a cui Stefano non aveva mai fatto

parola del misterioso squalo, accolse con gioia la sua decisione.

L’avere il figlio abbandonato il mare per la città le era sempre sembrato, in cuor suo,

un tradimento alle tradizioni di famiglia.

E Stefano cominciò a navigare, dando prova di qualità marinare, di resistenza alle

fatiche, di animo intrepido. Navigava, navigava, e sulla scia del suo bastimento, di giorno e

di notte, con la bonaccia e con la tempesta, arrancava il colombre. Egli sapeva che quella

era la sua maledizione e la sua condanna, ma proprio per questo, forse, non trovava la forza

di staccarsene. E nessuno a bordo scorgeva il mostro, tranne lui.

«Non vedete niente da quella parte?» chiedeva di quando in quando ai compagni,

indicando la scia. «No, noi non vediamo proprio niente. Perché?» «Non so. Mi pareva...»

«Non avrai mica visto per caso un colombre» facevano quelli, ridendo e toccando

ferro.

«Perché ridete? Perché toccate ferro?» «Perché il colombre è una bestia che non

perdona. E se si mettesse a seguire questa nave, vorrebbe dire che uno di noi è perduto.»

Ma Stefano non mollava. La ininterrotta minaccia che lo incalzava pareva anzi

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moltiplicare la sua volontà, la sua passione per il mare, il suo ardimento nelle ore di lotta e

di pericolo.

Con la piccola sostanza lasciatagli dal padre, come egli si sentì padrone del mestiere,

acquistò con un socio un piccolo piroscafo da carico, quindi ne divenne il solo proprietario

e, grazie a una serie di fortunate spedizioni, poté in seguito acquistare un mercantile sul

serio, avviandosi a traguardi sempre più ambiziosi. Ma i successi, e i milioni, non servivano a

togliergli dall’animo quel continuo assillo; né mai, d’altra parte, egli fu tentato di vendere la

nave e di ritirarsi a terra per intraprendere diverse imprese.

Navigare, navigare, era il suo unico pensiero. Non appena, dopo lunghi tragitti,

metteva piede a terra in qualche porto, subito lo pungeva l’impazienza di ripartire. Sapeva

che fuori c’era il colombre ad aspettarlo, e che il colombre era sinonimo di rovina. Niente.

Un indomabile impulso lo traeva senza requie, da un oceano all’altro. Finché,

all’improvviso, Stefano un giorno si accorse di essere diventato vecchio, vecchissimo; e

nessuno intorno a lui sapeva spiegarsi perché, ricco com’era, non lasciasse finalmente la

dannata vita del mare. Vecchio, e amaramente infelice, perché l’intera esistenza sua era

stata spesa in quella specie di pazzesca fuga attraverso i mari, per sfuggire al nemico. Ma

più grande che le gioie di una vita agiata e tranquilla era stata per lui sempre la tentazione

dell’abisso.

E una sera, mentre la sua magnifica nave era ancorata al largo dei porto dove era nato,

si sentì prossimo a morire. Allora chiamò il secondo ufficiale, di cui aveva grande fiducia, e

gli ingiunse di non opporsi a ciò che egli stava per fare. L’altro, sull’onore, promise.

Avuta questa assicurazione, Stefano, al secondo ufficiale che lo ascoltava sgomento,

rivelò la storia del colombre, che aveva continuato a inseguirlo per quasi cinquant’anni,

inutilmente.

«Mi ha scortato da un capo all’altro del mondo» disse «con una fedeltà che neppure il

più nobile amico avrebbe potuto dimostrare. Adesso io sto per morire. Anche lui, ormai,

sarà terribilmente vecchio e stanco. Non posso tradirlo.»

Ciò detto, prese commiato, fece calare in mare un barchino e vi salì, dopo essersi fatto

dare un arpione. «Ora gli vado incontro» annunciò. «È giusto che non lo deluda. Ma lotterò,

con le mie ultime forze.» A stanchi colpi di remi, si allontanò da bordo. Ufficiali e marinai lo

videro scomparire laggiù, sul placido mare, avvolto dalle ombre della notte.

C’era in cielo una falce di luna.

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Non dovette faticare molto. All’improvviso il muso orribile del colombre emerse di

fianco alla barca.

«Eccomi a te, finalmente» disse Stefano. «Adesso, a noi due!» E, raccogliendo le

superstiti energie, alzò l’arpione per colpire.

«Uh» mugolò con voce supplichevole il colombre «che lunga strada per trovarti.

Anch’io sono distrutto dalla fatica. Quanto mi hai fatto nuotare. E tu fuggivi, fuggivi. E non

hai mai capito niente.» «Perché?» fece Stefano, punto sul vivo. «Perché non ti ho inseguito

attraverso il mondo per divorarti, come pensavi. Dal re del mare avevo avuto soltanto

l’incarico di consegnarti questo.» E lo squalo trasse fuori la lingua, porgendo al vecchio

capitano una piccola sfera fosforescente.

Stefano la prese fra le dita e guardò. Era una perla di grandezza spropositata. E lui

riconobbe la famosa Perla del Mare che dà, a chi la possiede, fortuna, potenza, amore, e

pace dell’animo. Ma era ormai troppo tardi.

«Ahimè!» disse scuotendo tristemente il capo.

«Come è tutto sbagliato. Io sono riuscito a dannare la mia esistenza: e ho rovinato la

tua.»

«Addio, pover’uomo» rispose il colombre. E sprofondò nelle acque nere per sempre.

Due mesi dopo, spinto dalla risacca, un barchino approdò a una dirupata scogliera. Fu

avvistato da alcuni pescatori che, incuriositi, si avvicinarono. Sul barchino, ancora seduto,

stava un bianco scheletro: e fra le ossicine delle dita stringeva un piccolo sasso rotondo.

Il colombre è un pesce di grandi dimensioni, spaventoso a vedersi, estremamente raro.

A seconda dei mari, e delle genti che ne abitano le rive, viene anche chiamato kolomber,

kahloubrha, kalonga, kalu–balu, chalung–gra. I naturalisti stranamente lo ignorano.

Qualcuno perfino sostiene che non esiste.

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ELSA MORANTE (1912–1985) LA GIORNATA In Lo scialle andaluso, Einaudi 1963.

Il vecchio Andurro, che non conosceva la propria età, si svegliò nella notte alta, come

sempre gli accadeva. Malgrado fosse già sveglio, non poteva però alzarsi fino alla mattina,

quando sua nipote Elena veniva per aiutarlo. Da solo, era incapace di alzarsi.

Le ore d'immobilità e di silenzio, fino all'alba, scorrevano per lui senza fastidio né

dolore, facili come acqua. Dalla sua camera stretta e quasi sotterranea lui non vedeva di

fuori; pure avvertiva il pullulare delle stelle nell'arco celeste e il loro trascolorarsi finché

pensava: “Ci siamo”. E, si può dire, nello stesso istante, per le fessure trapelava la prima

luce, simile nel colore ad un viso pallido e ancora sbattuto dai sogni.

Il vecchio Andurro pensò: “Fra poco verrà mia nipote Elena mentre prima veniva

mia moglie Maria. Era una vecchia ancora così vispa, sempre a chiacchierare e arruffarsi

come una gallina, quando io già non potevo fare due passi in fila. Le dicevo: 'Con chi

borbotterai, Gallinella, quando sarò sotterrato?' Invece, guarda, lei è morta, e io son qua”.

Egli rise un poco e scosse la testa. In quel punto arrivò, alta, a piedi nudi, la nipote

Elena. Chinando su di lui gli occhi neri, che le raggiavano nella fronte come due astri, seria

ed esperta lo vestì e lo aiutò a sedersi sul gradino della soglia. Non dimenticò di lasciargli la

scodella della zuppa che doveva bastargli per tutto il giorno: una pappa di pane molle e

d'erbe tritate, quanto esiste di meglio per un vecchio buono solo a biascicare. E senza

rumore, movendo con nobilissima grazia il fianco, la nipote Elena se ne andò.

Seduto sullo scalino della soglia, il vecchio sapeva che il sole si era levato ma,

nascosto dalla montagna, non si vedeva. Dai fianchi della montagna ne trapelava l'ardore,

finché apparvero i raggi e il vecchio pensò per la millesima volta: “Pare lo Spirito Santo

dietro la nuvola”. Questo pensiero lo tenne occupato parecchio tempo; alla fine, libera, di

sulla montagna si versò la meravigliosa corrente d'oro, e i vetturini uscirono per addobbare

i loro cavalli e partirono fra gli schiocchi delle fruste. A tutti, Andurro gridava: - Buon

viaggio! - ma essendo la sua voce impastata e roca, simile ad un brontolio di tuono, essi non

lo capivano.

Alle dieci cominciava il passaggio dei signori che scendevano al mare:

- Accomodatevi, signorini, - supplicava il vecchio, - salite sulla mia terrazza, che c'è il bel

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panorama -. Credendo che il suo scopo fosse il guadagno, i più rifiutavano. Invece Andurro

non voleva compenso, anzi offriva alle signore i garofani della sua terrazza. Non potendo lui

stesso salire fin lassù, da dove appariva fino il vulcano e le isole, voleva che almeno qualcun

altro godesse al suo posto. - Bello! - gridavano tutti dall'alto. E il vecchio rideva contento

per l'onore.

A mezzogiorno, biascicò metà della zuppa, lasciando il resto per la cena. Per alcune

ore nessuno passò, fuori dei marmocchi seminudi che si rotolavano nella polvere e di

qualche asino portato alla cavezza da una bambina. Buona parte di questo tempo, il vecchio

la trascorse con la testa chinata sulle ginocchia o appoggiata allo stipite. Udendo le

campane pensò alla canzone “Din don, campanon, fra Simon”. Anche simile canzone ebbe il

potere di occupare la sua mente per lunghe ore; al modo di un suono che nasce da un

punto, e attraverso una rupe, e un'altra, e un'altra, si ripercuote per amplissimo spazio.

A intervalli, la nipote Elena appariva per offrirgli i suoi servigi. Salutandola con gesto

indulgente egli le gridò:

- Ce l'hai il damo? -

Il sole scese dalla parte del mare, ma il vecchio solo vagamente ne distingueva

l'ardente cerchio. Prima che l'umidità vespertina potesse entrargli nelle ossa, venne la

solerte nipote Elena, alta e a piedi nudi; e chinando su di lui gli occhi neri, che le facevano

ombra nella fronte come due rose di velluto, lo spogliò e lo mise a letto. Poi, fattogli sul viso

il segno della croce, andò via.

Dalla sua camera stretta e quasi sotterranea, di nuovo il vecchio non vedeva fuori;

ma avvertiva la prima animazione delle stelle nel crepuscolo del cielo, e il loro accendersi in

un punto fisso. “A quest'ora, - pensò, - mia moglie Maria quand'era viva recitava il Rosario,

e cip cip, cip cip, non la finiva più. Se Dio vuole, quella sua canzonetta sarà servita anche a

me. Così non dovrò preoccuparmi troppo dell'anima mia. Già”.

Grazie a questo pensiero che gli girava nella mente, la sera camminò facile e

benigna sulla veglia del vecchio. Battevano le ore della notte, e la luna, sottile quasi quanto

un filo, via via procedeva con quel suono. Quand'essa fu molto alta e quasi al declino, il

vecchio Andurro si addormentò.

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ELSA MORANTE (1912–1985) IL PRANZO DI NATALE (inviato in corrispondenza privata a Goffredo Fofi per il Natale 1971, poi in volumetto allegato alla rivista “Linea d’ombra”, n.3 dicembre 1988, qui da E. Morante, Pranzo di Natale, Henry Beyle 2014).

Roma 21 dicembre 1971

Caro Goffredo

con questa mia lettera ti mando i miei auguri di Natale e Anno Nuovo, e ti racconto,

per l’occasione, un fatto vero (vero almeno in parte, e fino a un certo punto).

Avvenne più di 50 anni fa, nel periodo delle feste (credo che fossero proprio le feste

natalizie). In un collegio di preti (o frati) una diecina di ragazzetti erano costretti, per motivi

di famiglia, a passare le feste dentro. Il pranzo della festa principale (giorno di Natale) fu –

relativamente – lauto. La lista era: Fettuccine – Abbacchio con patate – 1 pera. Alla fine

viene però portata in tavola una magnifica torta (zuppa inglese) del diametro di almeno 45

cm. Si alza il Priore e dice:

“Figlioli, in questo santo giorno vi invito a pensare a tanti poveri bambini che non

hanno nemmeno il pane: e nel pensiero di questi poverelli vi invito a offrire un fioretto a

Gesù. A ciascuno dei presenti qui raccolti a questa tavola tocca, o toccherebbe, una fetta

della torta che qui vedete. Ebbene, ecco la mia proposta: rinunciare alla propria fetta di

torta, offrendola come fioretto a Gesù. Tutti i bambini buoni che sono d’accordo su questo

fioretto, adesso si alzeranno da tavola. Va bene?”.

Tutti rispondono compunti: “Sì, padre”. E si alzano. Tutti meno uno, un certo Egidio

che non risponde e non si alza. A trattenerlo sulla sedia è una sensazione strana: gli sembra

che quel fioretto puzzi.

“Egidio! Non hai sentito? E perché tu non ti alzi? Tutti i bambini buoni si sono alzati. E

tu?”.

Egidio si fa rosso, e non trova altra risposta: “Io sono cattivo”.

“Ah”, fa il Priore amareggiato. E sia pure controvoglia, è costretto a tagliare una fetta

di torta e metterla nel piatto di Egidio. Il quale rimane solo a tavola con la sua fetta di zuppa

inglese. Il peggio è che, tra tutti i dolci, proprio la zuppa inglese non gli piace. Ne mangia un

pezzetto, ma non gli va. In quel momento vede, dietro la vetrata del refettorio, un

cagnaccio di nessuno che fissa il suo piatto con ingordigia. Tanto per finirla, gli dà il resto

della sua torta. Il cane l’ha divorata in un lampo.

Exit Egidio. Rientra il Priore. E guarda quella torta non più intera, cioè mancante di una

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fetta, che gli urta doppiamente i nervi. Primo motivo: perché è simbolo materiale che nel

suo gregge c’è una pecorella smarrita, un individualista anzi un aristocratico e, diciamolo

pure, un reazionario: EGIDIO! E secondo motivo: per ragioni politiche, giacché, come spesso

succede, dietro a quel fioretto collettivo si nascondeva anche una politica; cioè il Priore si

riprometteva di offrire quella torta, rinunciata dai ragazzi, alla potentissima, grassissima e

ghiottissima badessa di un convento del circondario, la quale giustamente gliene avrebbe

reso merito…

Ma adesso che la torta non è più intera, mancando di uno spicchio, decentemente non

si può offrirgliela più. E quanto a lui stesso, per colmo di rabbia, lui soffre di diabete… anzi,

alle altre sue rabbie, si aggiungeva un po’ di invidia per Egidio che col suo stomacuccio

fresco, ha gustato il sapore dello zucchero… In poche parole: quella torta gli è divenuta

odiosa al punto che quasi quasi la butterebbe nel cesso!

In quel momento il caso vuole che passi di là il piccolo spazzacamino del convento (1),

che viene in questo giorno a riscuotere i propri crediti (il Priore è di solito un tardo

pagatore) i quali ammontano in tutto (lavoro di tutto l’inverno) a L.2,45 (si tratta di 50 anni

fa). Seccato, il Priore gli molla, all’uso solito, un acconto di L.0,50 dicendo: “Ripassa

quest’altr’anno per il resto”. In quel momento gli ricasca sotto gli occhi la maledetta torta, e

per liberarsene, la mette tra le braccia del piccolo spazzacamino: “To’, portatela via e togliti

subito dai piedi”. Lo spazzacamino scappa via, e se la va a mangiare con i suoi compagnucci

spazzacamini. Fine.

MORALE:

Le vie del signore sono infinite

oppure

Tutte le strade portano a Roma.

Non so. La storia, a ogni modo è (fino ad un certo punto) vera. Non ti ho raccontato una

balla. Avvenne più di 50 anni fa (esattamente, se non mi sbaglio, 53 o 54 anni fa).

1. N.B. Al posto dello spazzacamino, forse c’era il garzone del lattaio -o altro sotto-

proletario minorenne.

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PRIMO LEVI (1919–1987) TITANIO (1948) In Il sistema periodico, Einaudi 1975 (qui Einaudi 2005).

In cucina c’era un uomo molto alto, vestito in un modo che Maria non aveva mai visto

prima. Aveva in testa una barchetta fatta con un giornale, fumava la pipa e dipingeva

l’armadio di bianco.

Era incomprensibile come tutto quel bianco potesse stare in una scatoletta così

piccola, e Maria moriva dal desiderio di andare a guardarci dentro. L’uomo ogni tanto

posava la pipa sull’armadio stesso, e fischiava; poi smetteva di fischiare e cominciava a

cantare; ogni tanto faceva due passi indietro e chiudeva un occhio, e andava anche qualche

volta a sputare nella pattumiera e poi si strofinava la bocca col rovescio della mano. Faceva

insomma tante cose così strane e nuove che era interessantissimo starlo a guardare: e

quando l’armadio fu bianco, raccolse la scatola e molti giornali che erano per terra e portò

tutto accanto alla credenza e incominciò a dipingere anche quella.

L’armadio era così lucido, pulito e bianco che era quasi indispensabile toccarlo. Maria

si avvicinò all’armadio, ma l’uomo se ne accorse e disse: – Non toccare. Non devi toccare. –

Maria si arrestò interdetta e chiese: – Perché? – al che l’uomo rispose: – Perché non

bisogna. – Maria ci pensò sopra, poi chiese ancora: – Perché è così bianco? – Anche l’uomo

pensò un poco, come se la domanda gli sembrasse difficile, e poi disse con voce profonda: –

Perché è titanio. –

Maria si sentì percorrere da un delizioso brivido di paura, come quando nelle fiabe

arriva l’orco, guardò con attenzione, e constatò che l’uomo non aveva coltelli, né in mano

né intorno a sé: poteva però averne uno nascosto. Allora domandò: – Mi tagli che cosa? – e

a questo punto avrebbe dovuto rispondere: “Ti taglio la lingua”. Invece disse soltanto: –

Non ti taglio, titanio. –

In conclusione, doveva essere un uomo molto potente: tuttavia non pareva in collera,

anzi piuttosto buono e amichevole, Maria gli chiese: – Signore, come ti chiami? – Lui

rispose: – Mi chiamo Felice – non si era tolto la pipa di bocca, e quando parlava la pipa

ballava su e giù eppure non cadeva. Maria stette un po’ di tempo in silenzio, guardando

alternativamente l’uomo e l’armadio. Non era per nulla soddisfatta di quella risposta ed

avrebbe voluto domandare perché si chiamava Felice, ma poi non osò, perché si ricordava

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che i bambini non devono mai chiedere perché. La sua amica Alice si chiamava Alice ed era

una bambina, ed era veramente strano che si potesse chiamare Felice un uomo grande

come quello. Ma a poco a poco incominciò invece a sembrarle naturale che quell’uomo si

chiamasse Felice, e le parve anzi che non avrebbe potuto chiamarsi in nessun altro modo.

L’armadio dipinto era talmente bianco che in confronto tutto il resto della cucina

sembrava giallo e sporco. Maria giudicò che non ci fosse nulla di male nell’andarlo a vedere

da vicino: solo vedere senza toccare. Ma mentre si avvicinava in punta di piedi avvenne un

fatto imprevisto e terribile: l’uomo si voltò, con due passi le fu vicino; trasse di tasca un

gesso bianco, e disegnò sul pavimento un cerchio intorno a Maria.

Poi disse: – Non devi uscire di lì dentro. – Dopo di che strofinò un fiammifero, accese la

pipa facendo colla bocca molte smorfie strane, e si rimise a verniciare la credenza.

Maria sedette sui calcagni e considerò a lungo il cerchio con attenzione: ma dovette

convincersi che non c’era nessuna uscita. Provò a fregarlo in un punto con un dito, e

constatò che realmente la traccia di gesso spariva; ma si rendeva benissimo conto che

l’uomo non avrebbe ritenuto valido quel sistema.

Il cerchio era palesemente magico. Maria sedette per terra zitta e tranquilla; ogni

tanto provava a spingersi fino a toccare il cerchio con la punta dei piedi e si sporgeva in

avanti fino quasi a perdere l’equilibrio, ma vide ben presto che mancava ancora un buon

palmo a che potesse raggiungere l’armadio o la parete con le dita. Allora stette a

contemplare come a poco a poco anche la credenza, le sedie e il tavolo diventavano belli e

bianchi.

Dopo moltissimo tempo l’uomo ripose il pennello e lo scatolino e si tolse la barchetta

di giornale dal capo, ed allora si vide che aveva i capelli come tutti gli altri uomini. Poi uscì

dalla parte del balcone, e Maria lo udì tramestare e camminare su e giù nella stanza

accanto. Maria cominciò a chiamare: – Signore! – dapprima sottovoce, poi più forte, ma

non troppo, perché in fondo aveva paura che l’uomo sentisse.

Finalmente l’uomo ritornò in cucina. Maria chiese: – Signore, adesso posso uscire? –

– L’uomo guardò in giù a Maria e al cerchio, rise forte e disse molte cose che non si

capivano, ma non pareva che fosse arrabbiato. Infine disse: – Sì, si capisce, adesso puoi

uscire –. Maria lo guardava perplessa e non si muoveva: allora l’uomo prese uno straccio e

cancellò il cerchio ben bene, per disfare l’incantesimo. Quando il cerchio fu sparito Maria si

alzò e se ne andò saltellando, e si sentiva molto contenta e soddisfatta.

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PRIMO LEVI (1919–1987) LA GRANDE MUTAZIONE (1983) In L’ultimo Natale di guerra, Einaudi 2000 (qui Einaudi 2005).

Da parecchi giorni Isabella era inquieta: mangiava poco, aveva qualche linea di febbre,

e si lamentava di un prurito alla schiena. I suoi dovevano mandare avanti la bottega e non

avevano molto tempo da dedicare a lei: – Si starà sviluppando, – disse la madre; la tenne a

dieta e le fece frizioni con una pomata, ma il prurito aumentò. La bambina non riuscì più a

dormire; applicandole la pomata, la madre si accorse che la pelle era ruvida: si stava

coprendo di peli, fitti, rigidi, corti e biancastri. Allora si spaventò, si consultò col padre,

mandarono a chiamare il medico.

Il medico la visitò. Era giovane e simpatico, e Isabella notò con stupore che all’inizio

della visita appariva preoccupato e perplesso, poi sempre più attento e interessato, e alla

fine sembrava contento come se avesse vinto un premio alla lotteria. Annunciò che non era

niente di grave, ma che doveva rivedere certi suoi libri e che sarebbe tornato l’indomani.

L’indomani tornò, aveva una lente, e fece vedere al padre e alla madre che quei peli

erano ramificati e piatti: non erano peli, anzi, ma penne che stavano crescendo. Era ancora

più allegro del giorno avanti.

– In gamba, Isabella, – disse, – non c’è niente da spaventarsi, tra quattro mesi volerai –

. Poi, rivolto ai genitori, aggiunse una spiegazione abbastanza confusa: possibile che loro

non sapessero nulla? Non leggevano i giornali? Non vedevano la televisione? – È un caso di

Grande Mutazione, il primo in Italia, e proprio qui da noi, in questa valle dimenticata! – Le

ali si sarebbero formate a poco a poco, senza danni per l’organismo, e poi altri casi ci

sarebbero stati nel vicinato, forse tra i compagni di scuola della bambina, perché la

faccenda era contagiosa.

– Ma se è contagiosa è una malattia! – disse il padre.

– È contagiosa, pare che sia un virus, ma non è una malattia: Perché tutte le infezioni

virali devono essere nocive? Volare è una bellissima cosa, piacerebbe anche a me: se non

altro, per visitare i clienti delle frazioni. È il primo caso in Italia, ve l’ho detto, e dovrò fare

rapporto al medico provinciale, ma il fenomeno è già stato descritto, diversi focolai sono

stati osservati in Canada, in Svezia e in Giappone. Ma pensate che fortuna, per voi e per

me!

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Che proprio fosse una fortuna, Isabella non era tanto convinta. Le penne crescevano

rapidamente, le davano noia quando era a letto e si vedevano attraverso la camicetta.

Verso marzo la nuova ossatura era già ben visibile, e alla fine di maggio il distacco delle ali

dal dorso era quasi completo.

Vennero fotografi, giornalisti, commissioni mediche italiane e forestiere: Isabella si

divertiva e si sentiva importante, ma rispondeva alle domande con serietà e dignità, e del

resto le domande erano stupide e sempre le stesse. Non osava parlare con i genitori per

non spaventarli, ma era in allarme: va bene, avrebbe avuto le ali, ma chi le avrebbe

insegnato a volare? Alla scuola guida del capoluogo? O all’aeroporto di Poggio Merli? A lei

sarebbe piaciuto imparare dal dottorino della mutua: o che magari le ali fossero spuntate

anche a lui, non aveva detto che erano contagiose? Così dai clienti delle frazioni ci

sarebbero andati insieme; e forse avrebbero anche superato le montagne insieme sul mare,

fianco a fianco, battendo le ali con la stessa cadenza.

A giugno, alla fine dell’anno scolastico, le ali di Isabella erano ben formate e molto

belle da vedere. Erano intonate con il colore dei capelli (Isabella era bionda): in alto, verso

le spalle, macchiettate di bruno dorato, ma le remiganti erano candide, lucide, robuste.

Venne una commissione del CNR, venne un sussidio considerevole dell’UNICEF, e venne

anche dalla Svezia una fisioterapista; si era sistemata nell’unica locanda del paese, capiva

male l’italiano, niente le andava bene, e faceva fare a Isabella una serie di esercizi

noiosissimi.

Noiosi e inutili: Isabella sentiva i muscoli fremere e tendersi, seguiva il volo sicuro delle

rondini nel cielo estivo, non aveva più dubbi e provava la sensazione precisa che a volare

avrebbe imparato da sé, anzi, di saper già volare: di notte ormai non sognava altro. La

svedese era severa, le aveva fatto capire che doveva ancora attendere, che non doveva

esporsi a pericoli, ma Isabella aspettava solo che le si presentasse l’occasione. Quando

riusciva a isolarsi, nei prati in pendio, o qualche volta persino nel chiuso della sua camera,

aveva provato a battere le ali; ne sentiva il fruscio aspro nell’aria, e nelle spalle minute di

adolescente una forza che quasi la spaventava. La gravezza del suo corpo le era venuta in

odio; sventolando le ali la sentiva ridursi, quasi annullarsi: quasi. Il richiamo della terra era

ancora troppo forte, una cavezza, una catena.

L’occasione venne verso Ferragosto. La svedese era tornata in ferie al suo paese, e i

genitori di Isabella erano in bottega, indaffarati con i villeggianti. Isabella prese la

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mulattiera per Costalunga, superò il crinale e si trovò sui prati ripidi dell’altro versante: non

c’era nessuno. Si fece il segno della croce, come quando ci si butta in acqua, aprì le ali e

prese la corsa verso il basso. A ogni passo, l’urto contro il suolo si faceva più lieve, finché la

terra le mancò; sentì una gran pace, e l’aria fischiarle alle orecchie. Distese le gambe

all’indietro: rimpianse di non aver messo i jeans, la gonna sbandierava nel vento e le dava

impaccio.

Anche le gambe e le mani la impacciavano, provò a incrociarle sul petto, poi le tenne

distese lungo i fianchi. Chi aveva detto che volare era difficile? Non c’era nulla di più facile

al mondo, aveva voglia di ridere e cantare. Se aumentava l’inclinazione delle ali, il volo

rallentava e puntava verso l’alto, ma solo per poco, poi la velocità si riduceva troppo e

Isabella si sentiva in pericolo. Provò a sbattere le ali, e si sentì sostentata, a ogni colpo

guadagnava quota, agevolmente, senza sforzo.

Anche mutar direzione era facile come un gioco, si imparava subito, bastava torcere

leggermente l’ala destra e subito voltavi a destra: non c’era neppure bisogno di pensarci, ci

pensavano le ali stesse, come pensano i piedi a farti deviare a destra o a sinistra quando

cammini. A un tratto provò una sensazione di gonfiore, di tensione al basso ventre; si sentì

umida, toccò, e ritrasse la mano sporca di sangue. Ma sapeva di che cosa si trattava, sapeva

che un giorno o l’altro sarebbe successo, e non si spaventò.

Rimase in aria per un’ora buona, e imparò che dai roccioni del Gavio saliva una

corrente d’aria calda che le faceva acquistare quota gratis. Seguì la provinciale e si portò a

picco sopra il paese, alta forse duecento metri: vide un passante fermarsi, poi indicare il

cielo a un altro passante; il secondo guardò in su poi scappò alla bottega, ne uscirono sua

madre e suo padre con tre o quattro clienti. In breve le vie brulicarono di gente. Le sarebbe

piaciuto atterrare sulla piazza, ma appunto, la gente era troppa, e aveva paura di prendere

terra malamente e di farsi ridere dietro.

Si lasciò trasportare dal vento al di là del torrente, sui prati dietro il mulino. Scese,

scese ancora finché poté distinguere i fiori rosa del trifoglio. Anche per atterrare, sembrava

che le ali la sapessero più lunga di lei: le sembrò naturale disporle verticalmente, e

mulinarle con violenza come per volare all’indietro; abbassò le gambe e si trovò in piedi

sull’erba, appena un poco trafelata. Ripiegò le ali e si avviò verso casa.

In autunno spuntarono le ali a quattro compagni di scuola di Isabella, tre ragazzi e una

bambina; alla domenica mattina era divertente vederli rincorrersi a mezz’aria intorno al

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campanile. A dicembre ebbe le ali il figlio del portalettere, e subentrò immediatamente al

padre con vantaggio di tutti. Il dottore mise le ali l’anno dopo, ma non si curò di Isabella e

sposò in gran fretta una signorina senz’ali che veniva dalla città.

Al padre di Isabella le ali spuntarono quando aveva già passato i cinquant’anni. Non ne

trasse molto profitto: prese qualche lezione dalla figlia, con paura e vertigine, e si lussò una

caviglia atterrando. Le ali non lo lasciavano dormire, riempivano il letto di penne e di piume,

e gli riusciva fastidioso infilarsi la camicia, la giacca e il soprabito. Gli davano ingombro

anche quando stava dietro il bancone della bottega, così se le fece amputare.

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BEPPE FENOGLIO (1922–1963) LA SPOSA BAMBINA (1953) In Un giorno di fuoco, Garzanti 1963 (qui Einaudi 1988).

Catinina del Freddo era di quella razza che da noi si marchia col nome di mezzi

zingari perché mezza la loro vita la passano sotto l’ala del mercato.

Proprio sotto l’ala si trovava, a tredici anni giusti, a giocare coi maschi a tocco e

spanna, quando sua madre le fece una chiamata straordinaria.

Lasciami solo più giocare queste due bilie! – le gridò Catinina, ma sua madre fece la

mossa di avventarsi e Catinina andò, con ben più di due bilie nella tasca del grembiale.

A casa c’era suo padre e sua sorella maggiore, tra i quali vennero a mettersi lei e sua

madre, e così tutt’insieme fronteggiavano un vecchio che Catinina conosceva solo di

vista, con baffi che gli coprivano la bocca e nei panni un cattivo odore un po’ come

quello dell’acciugaio. I suoi di Catinina stavano come sospesi davanti al vecchio, e

Catinina cominciò a dubitare che fosse venuto per farsi rendere ad ogni costo del denaro

imprestato e i suoi l’avessero chiamata perché il vecchio la vedesse e li compatisse.

Invece il vecchio era venuto per chiedere la mano di Catinina per il suo nipote che

aveva diciotto anni e già un commercio suo proprio.

Sua madre si piegò e disse a Catinina: – Neh che sei contenta di sposare il nipote di

questo signore?

Catinina scrollò le spalle e torse la testa. Sua madre la rimise in posizione: – Neh che

sei contenta, Catinina? Ti faremo una bella veste nuova, se lo sposi.

Allora Catinina disse subito che lo sposava e vide il vecchio calar pesantemente le

palpebre sugli occhi. – Però la veste me la fate rossa, – aggiunse Catinina.

– Ma rossa non può andare in chiesa e per sposalizio. Perché ti faremo una gran

festa in chiesa. Avrai una veste bianca, oppure celeste.

A Catinina la gran festa in chiesa diceva poco o niente, quella veste non rossa già le

cambiava l’idea, per lo scoramento si lasciò piombare una mano in tasca e fece suonare

le bilie.

Allora la sorella maggiore disse che le avrebbero portato tanti confetti; a sentir

questo Catinina passò sopra alla veste non rossa e disse di sì su tutto. Anche se quei

confetti non finivano in bocca a lei.

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Si sposarono alla vicaria di Murazzano, neanche un mese dopo. Lo sposo dava alla

vista meno anni dei suoi diciotto dichiarati, aveva una corona di pustole sulla fronte, più

schiena che petto, e certi occhi grigi duretti.

Fecero al Leon d’Oro il pranzo di nozze, pagato dal vecchio e dopo vespro partirono.

C’era tutto il paese a salutar Catinina, e perfino i signori ai loro davanzali.

Lo sposo, che era padrone di mula e carretto, aveva giusto da andare fino a Savona

a caricar stracci, che era il suo commercio, e ne approfittava per fare il viaggio di nozze

con Catinina.

Alla sposa venne da piangere quando, salita sul carretto, dominò di lassù tutta

quella gente che rideva, ma le levò quel groppo un cartoccio di mentini che le offrì una

donna anche lei della razza dei mezzi zingari.

Alla fine partirono, ma ancora a San Bernardo avevano il tormento di quei

bastardini che fino a ieri giocavano alle bilie con la sposa. Quantunque lo sposo non

tardasse a girare la frusta.

Viaggiavano sulla pedaggera e ne avevano già ben macinata di ghiaia, e Catinina

non aveva ancora aperto la bocca se non per infilarci quei mentini uno dopo succhiato

l’altro, e lo sposo le sue quattro parole le aveva dette alla mula.

Ma passato Montezemolo lo sposo si voltò e le disse: – Voi adesso la smettete di

mangiare quei gommini verdi –, e Catinina smise, ma principalmente per lo stupore che

lo sposo le aveva dato del voi.

Veniva su la luna, e dopo un po’ fu un mostro di vicinanza, di rotondità e giallore,

navigava nel cielo caldo a filo del greppo della langa, come li volesse accompagnare fino

in Liguria.

Catinina toccò il suo sposo e gli disse: – Guarda solo un momento che luna.

Ma quello le si rivoltò e quasi le urlò: – Voi avete a darmi del voi, come io lo do a

voi!

Catinina non rifiatò, molto più avanti disse semplicemente che il listello di legno

l’aveva tutta indolorita dietro, dopo ore che ci stava seduta. E allora lui parlò con una

voce buona, le disse che al ritorno sarebbe stata più comoda, lui l’avrebbe aggiustata

sugli stracci.

Arrivarono a Savona verso mezzogiorno.

Lo sposo disse: – Quello lì davanti è il mare, – che Catinina già ci aveva affogati gli

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occhi.

Che bestione, – diceva Catinina del mare, – che bestione!

Tutte le volte che pascolava le pecore degli altri in qualche prato sotto la strada del

mare e sentiva d’un tratto sonagliere, si arrampicava sempre sull’orlo della strada e da lì

guardava venire, passare e lontanarsi i carrettieri e le loro bestie in cammino verso il

mare con grandi carichi di vino e di farine. Qualche volta li vedeva anche al ritorno, coi

carri adesso pieni di vetri di Carcare e di Altare e di stoviglie d’Albisola, e si appostava

per fissare i carrettieri negli occhi, se ritenevano l’immagine del mare.

Ora se lo stava godendo da due passi il mare, ma lo sposo le calò una mano sulla

spalla e si fece accompagnare a stallare la bestia. Ma poi le fece vedere un po’ di porto e

poi prendere un caffellatte con le paste di meliga. Dopodiché andarono a trovare un

parente di lui.

Questo parente stava dalla parte di Savona verso il monte e a Catinina rincresceva il

sangue del cuore distanziarsi dal mare fino a non avercene nemmeno più una goccia

sotto gli occhi.

Ce ne volle, ma alla fine trovarono quel parente. Era un uomo vecchiotto ma ancora

galante, e quando si vide alla porta i due ragazzi sposati fece subito venire vino bianco e

paste alla crema ed anche dei vicini, ridicoli come lui.

Mangiarono, bevettero e cantarono. Catinina in quel buonumore prese a snodarsi e

a rider di gola e ad ammiccare come una donna fatta, e teneva bene testa al parente

galante ed ai suoi soci; lo sposo le era uscito di mente ed anche dagli occhi, non lo

vedeva, seduto immobile, che pativa a bocca stretta e col bicchiere sempre pieno

posato in terra fra i due piedi.

Quando si ritirarono per la notte in una stanza trovata dal parente, allora riempì di

schiaffi la faccia a Catinina. E nient’altro, tanto Catinina non era ancora sviluppata.

Al mattino Catinina aveva per tutto il viso delle macchie gialle con un’ombra di

nero, lo sposo venne a sfiorargliele con le dita e poi scoppiò a piangere. Proprio niente

disse o fece Catinina per sollevarlo, gli disse solo che voleva tornare a Murazzano. E sì

che si sarebbe fermata un altro giorno tanto volentieri per via di quel parente così

ridicolo, ma ora sapeva cosa le costava il buonumore, e poi il mare le diceva molto

meno.

Lo sposo caricò in fretta i suoi stracci, la fece sedere sul molle e tornarono.

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La mattina dopo, il panettiere di Murazzano, che si levava sempre il primo di tutto il

paese, uscito in strada a veder com’era il cielo di quel nuovo giorno, trovò Catinina

seduta sul selciato e con le spalle contro il muro tiepido del suo forno.

Ma sei Catinina? Sei proprio Catinina. E cosa fai lì, a quest’ora della mattina?

Lei gli scrollò le spalle.

Cosa fai lì, Catinina? E non scrollarmi le spalle. Perché non sei col tuo uomo? – Me

no di sicuro!

– Perché te no?

Allora Catinina alzò la voce. – Io non ci voglio più stare con quello là che mi dà del

voi!

– Ma come non ci vuoi più stare? Invece devi stargli insieme, e per sempre. È

la legge.

– Che legge?

– O Madonna bella e buona, la legge del matrimonio!

Catinina scrollò un’altra volta le spalle, ma capiva anche lei che scrollar le spalle non

bastava più, e allora disse: – Io non ci voglio più stare con quello là che mi dà sempre del

voi. E poi che casa mi ha preparata che io c’entrassi da sposa? Una casa senza lume a

petrolio e senza il poggiolo!

L’uomo sospirò, la fece entrare nel suo forno, disse piano al suo garzone: – Attento

che non scappi, ma non beneficiartene altrimenti il mestiere vai a impararlo da un’altra

parte, – e uscì. Quando tornò, c’era con lui l’uomo di Catilina. Col panettiere testimone,

le promise il lume a petrolio per subito e di farle il poggiolo, tempo sei mesi.

Catinina il lume a petrolio l’ebbe subito, e poi anche il poggiolo, ma dopo un anno

buono, che lei aveva già un bambino sulle braccia. Perché Catinina non era la donna che

per aver la grazie dei figli deve andarsi a sedere sulla santa pietra alla Madonna del

Deserto e pregare tanto. Questo primo figlio, dei nove che ne comprò nella sua stagione,

l’addormentava alla meglio in una cesta e poi subito correva sotto l’ala a giocare a tocco

e spanna con quei maschi di prima. Dopo un po’ il bambino si svegliava e strillava da farsi

saltare tutte le vene, finché una vicina si faceva sull’uscio e urlava a Catinina:

– O disgraziata, non senti la tua creatura che piange? Vieni a cunarlo, o mezza

zingara!

Lasciatemi solo più giocare questa bilia!

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LEONARDO SCIASCIA (1921-1989) IL LUNGO VIAGGIO In Il mare colore del vino, Einaudi 1973.

Era una notte che pareva fatta apposta, un’oscurità cagliata che a muoversi quasi

se ne sentiva il peso. E faceva spavento, respiro di quella belva che era il mondo, il

suono del mare: un respiro che veniva a spegnersi ai loro piedi.

Stavano, con le loro valige di cartone e i loro fagotti, su un tratto di spiaggia

pietrosa, riparata da colline, tra Gela e Licata; vi erano arrivati all’imbrunire, ed erano

partiti all’alba dai loro paesi; paesi interni, lontani dal mare, aggrumati nell’arida plaga

del feudo. Qualcuno di loro, era la prima volta che vedeva il mare: e sgomentava il

pensiero di dover attraversarlo tutto, da quella deserta spiaggia della Sicilia, di notte,

ad un’altra deserta spiaggia dell’America, pure di notte. Perché i patti erano questi - Io

di notte vi imbarco - aveva detto l’uomo: una specie di commesso viaggiatore per la

parlantina, ma serio e onesto nel volto - e di notte vi sbarco: sulla spiaggia del Nugioirsi,

vi sbarco; a due passi da Nuovaiorche... E chi ha parenti in America, può scrivergli che

aspettino alla stazione di Trenton, dodici giorni dopo l’imbarco... Fatevi il conto da voi...

Certo, il giorno preciso non posso assicurarvelo: mettiamo che c’è mare grosso,

mettiamo che la guardia costiera stia a vigilare... Un giorno più o un giorno meno, non

vi fa niente: l’importante è sbarcare in America.

L’importante era davvero sbarcare in America: come e quando non aveva poi

importanza. Se ai loro parenti arrivavano le lettere, con quegli indirizzi confusi e sgorbi

che riuscivano a tracciare sulle buste, sarebbero arrivati anche loro; “chi ha lingua

passa il mare”, giustamente diceva il proverbio. E avrebbero passato il mare, quel

grande mare oscuro; e sarebbero approdati agli stori alle farme dell’America, all’affetto

dei loro fratelli zii nipoti cugini, alle calde ricche abbondanti case, alle automobili grandi

come case.

Duecentocinquantamila lire: metà alla partenza, metà all’arrivo. Le tenevano, a

modo di scapolari, tra la pelle e la camicia. Avevano venduto tutto quello che avevano

da vendere, per racimolarle: la casa terragna il mulo l’asino le provviste dell’annata il

canterano le coltri. I più furbi avevano fatto ricorso agli usurai, con la segreta

intenzione di fregarli; una volta almeno, dopo anni che ne subivano angaria: e ne aveva

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soddisfazione, al pensiero della faccia che avrebbero fatta nell’apprendere la notizia.

“Vieni a cercarmi in America, sanguisuga: magari ti ridò i tuoi soldi, ma senza interesse,

se ti riesce di trovarmi”. Il sogno dell’America traboccava di dollari: non più, il denaro,

custodito nel logoro portafogli o nascosto tra la camicia e la pelle, ma cacciato con

noncuranza nelle tasche dei pantaloni, tirato fuori a manciate: come avevano visto fare

ai loro parenti, che erano partiti morti di fame, magri e cotti dal sole; e dopo venti o

trent’anni tornavano, ma per una breve vacanza, con la faccia piena e rosea che faceva

bel contrasto coi capelli candidi.

Erano già le undici. Uno di loro accese la lampadina tascabile: il segnale che

potevano venire a prenderli per portarli sul piroscafo. Quando la spense, l’oscurità

sembrò più spessa e paurosa. Ma qualche minuto dopo, dal respiro ossessivo del mare

affiorò un più umano, domestico suono d’acqua: quasi che vi si riempissero e

vuotassero, con ritmo, dei secchi. Poi venne un brusìo, un parlottare sommesso. Si

trovarono davanti il signor Melfa, che con questo nome conoscevano l’impresario della

loro avventura, prima ancora di aver capito che la barca aveva toccato terra.

- Ci siamo tutti? - domandò il signor Melfa. Accese la lampadina, fece la conta. Ne

mancavano due. - Forse ci hanno ripensato, forse arriveranno più tardi... Peggio per

loro, in ogni caso. E che ci mettiamo ad aspettarli, col rischio che corriamo?

Tutti dissero che non era il caso di aspettarli.

- Se qualcuno di voi non ha il contante pronto - ammonì il signor Melfa - è meglio

si metta la strada tra le gambe e se ne torni a casa: che se pensa di farmi a bordo la

sorpresa, sbaglia di grosso: io vi riporto a terra com’è vero dio, tutti quanti siete. E che

per uno debbano pagare tutti, non è cosa giusta: e dunque chi ne avrà colpa la pagherà

per mano mia e per mano dei compagni, una pestata che se ne ricorderà mentre

campa; se gli va bene...

Tutti assicurarono e giurarono che il contante c’era, fino all’ultimo soldo.

- In barca - disse il signor Melfa. E di colpo ciascuno dei partenti diventò una

informe massa, un confuso grappolo di bagagli.

- Cristo! E che vi siete portata la casa appresso? – cominciò a sgranare bestemmie,

e finì quando tutto il carico, uomini e bagagli, si ammucchiò nella barca: col rischio che

un uomo o un fagotto ne traboccasse fuori. E la differenza tra un uomo e un fagotto

era per il signor Melfa nel fatto che l’uomo si portava appresso le

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duecentocinquatamila lire; addosso, cucite nella giacca o tra la camicia e la pelle. Li

conosceva, lui, li conosceva bene: questi contadini zoticoni, questi villani.

Il viaggio durò meno del previsto: undici notti, quella della partenza compresa. E

contavano le notti invece che i giorni, poiché le notti erano di atroce promiscuità,

soffocanti. Si sentivano immersi nell’odore di pesce di nafta e di vomito come in un

liquido caldo nero bitume. Ne grondavano all’alba, stremati, quando salivano ad

abbeverarsi di luce e di vento. Ma come l’idea del mare era per loro il piano

verdeggiante di messe quando il vento lo sommuove, il mare vero li atterriva: e le

viscere gli si strizzavano, gli occhi dolorosamente verminavano di luce se appena

indugiavano a guardare.

Ma all’undicesima notte il signor Melfa li chiamò in coperta: e credettero

dapprima che fìtte costellazioni fossero scese al mare come greggi; ed erano invece

paesi, paesi della ricca America che come gioielli brillavano nella notte. E la notte stessa

era un incanto: serena e dolce, una mezza luna che trascorreva tra una trasparente

fauna di nuvole, una brezza che allargava i polmoni.

- Ecco l’America - disse il signor Melfa.

- Non c’è pericolo che sia un altro posto? - domandò uno: poiché per tutto il

viaggio aveva pensato che nel mare non ci sono né strade né trazzere, ed era da dio

fare la via giusta, senza sgarrare, conducendo una nave tra cielo ed acqua.

Il signor Melfa lo guardò con compassione, domandò a tutti - E lo avete mai visto,

dalle vostre parti, un orizzonte come questo? E non lo sentite che l’aria è diversa? Non

vedete come splendono questi paesi?

Tutti convennero, con compassione e risentimento guardarono quel loro

compagno che aveva osato una così stupida domanda.

- Liquidiamo il conto - disse il signor Melfa.

Si frugarono sotto la camicia, tirarono fuori i soldi.

- Preparate le vostre cose - disse il signor Melfa dopo avere incassato.

Gli ci vollero pochi minuti: avendo quasi consumato le provviste di viaggio, che per

patto avevano dovuto portarsi, non restava loro che un po’ di biancheria e i regali per i

parenti d’America: qualche forma di pecorino qualche bottiglia di vino vecchio qualche

ricamo da mettere in centro alla tavola o alle spalliere dei sofà. Scesero nella barca

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leggeri leggeri, ridendo e canticchiando; e uno si mise a cantare a gola aperta, appena

la barca si mosse.

- E dunque non avete capito niente? - si arrabbiò il signor Melfa. - E dunque mi

volete fare passare il guaio? ... Appena vi avrò lasciati a terra potete correre dal primo

sbirro che incontrate, e farvi rimpatriare con la prima corsa: io me ne fotto, ognuno è

libero di ammazzarsi come vuole... E poi, sono stato ai patti: qui c’è l’America, il dovere

mio di buttarvici l’ho assolto... Ma datemi il tempo di tornare a bordo, Cristo di Dio!

Gli diedero più del tempo di tornare a bordo: che rimasero seduti sulla fresca

sabbia, indecisi, senza saper che fare, benedicendo e maledicendo la notte: la cui

protezione, mentre stavano fermi sulla spiaggia, si sarebbe mutata in terribile agguato

se avessero osato allontanarsene.

Il signor Melfa aveva raccomandato - sparpagliatevi - ma nessuno se la sentiva di

dividersi dagli altri. E Trenton chi sa quant’era lontana, chi sa quanto ci voleva per

arrivarci.

Sentirono, lontano e irreale, un canto. “Sembra un carrettiere nostro”, pensarono:

e che il mondo è ovunque lo stesso, ovunque l’uomo spreme in canto la stessa

malinconia, la stessa pena. Ma erano in America, le città che baluginavano dietro

l’orizzonte di sabbia e d’alberi erano città dell’America.

Due di loro decisero di andare in avanscoperta. Camminarono in direzione della

luce che il paese più vicino riverberava nel cielo. Trovarono quasi subito la strada:

“asfaltata, ben tenuta; qui è diverso che da noi”, ma per la verità se l’aspettavano più

ampia, più dritta. Se ne tennero fuori, ad evitare incontri: la seguivano camminando tra

gli alberi.

Passò un’automobile: “pare una seicento”; e poi un’altra che pareva una

millecento, e un’altra ancora: “le nostre macchine loro le tengono per capriccio, le

comprano ai ragazzi come da noi le biciclette”. Poi passarono, assordanti, due

motociclette, una dietro l’altra. Era la polizia, non c’era da sbagliare: meno male che si

erano tenuti fuori della strada.

Ed ecco che finalmente c’erano le frecce. Guardarono avanti e indietro, entrarono

nella strada, si avvicinarono a leggere: Santa Croce Camerina - Scoglitti.

- Santa Croce Camerina: non mi è nuovo, questo nome.

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- Pare anche a me; e nemmeno Scoglitti mi è nuovo.

- Forse qualcuno dei nostri parenti ci abitava, forse mio zio prima di trasferirsi a

Filadelfìa: che io ricordo stava in un’altra città, prima di passare a Filadelfìa.

- Anche mio fratello: stava in un altro posto, prima di andarsene a Brucchilin... Ma

come si chiamasse, proprio non lo ricordo: e poi, noi leggiamo Santa Croce Camerina,

leggiamo Scoglitti; ma come leggono loro non lo sappiamo, l’americano non si legge

come è scritto.

- Già, il bello dell’italiano è questo: che tu come è scritto lo leggi... Ma non è che

possiamo passare qui la nottata, bisogna farsi coraggio... Io la prima macchina che

passa, la fermo: domanderò solo “Trenton?”... Qui la gente è più educata. Anche a non

capire quello che dice, gli scapperà un gesto, un segnale: e almeno capiremo da che

parte è, questa maledetta Trenton.

Dalla curva, a venti metri, sbucò una cinquecento: l’automobilista se li vide

guizzare davanti, le mani alzate a fermarlo. Frenò bestemmiando: non pensò a una

rapina, che la zona era tra le più calme; credette volessero un passaggio, aprì lo

sportello.

- Trenton? - domandò uno dei due.

- Che? - fece l’automobilista.

- Trenton?

- Che Trenton della madonna - imprecò l’uomo dell’automobile.

- Parla italiano - si dissero i due, guardandosi per consultarsi: se non era il caso di

rivelare a un compatriota la loro condizione.

L’automobilista chiuse lo sportello, rimise in moto. L’automobile balzò in avanti: e

solo allora gridò ai due che rimanevano sulla strada come statue - ubriaconi, cornuti

ubriaconi, cornuti e figli di... - il resto si perse nella corsa.

Il silenzio dilagò.

- Mi sto ricordando - disse dopo un momento quello cui il nome di Santa Croce

non suonava nuovo - a Santa Croce Camerina, un’annata che dalle nostre parti andò

male, mio padre ci venne per la mietitura.

Si buttarono come schiantati sull’orlo della cunetta perché non c’era fretta di

portare agli altri la notizia che erano sbarcati in Sicilia.

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ITALO CALVINO (1923–1985) L’AVVENTURA DI DUE SPOSI In I racconti, Einaudi, 1958 (qui Mondadori 1991).

L’operaio Arturo Massolari faceva il turno della notte, quello che finisce alle sei. Per

rincasare aveva un lungo tragitto, che compiva in bicicletta nella bella stagione, in tram nei

mesi piovosi e invernali. Arrivava a casa tra le sei e tre quarti e le sette, cioè alle volte un po’

prima alle volte un po’ dopo che suonasse la sveglia della moglie, Elide.

Spesso i due rumori: il suono della sveglia e il passo di lui che entrava si

sovrapponevano nella mente di Elide, raggiungendola in fondo al sonno, il sonno compatto

della mattina presto che lei cercava di spremere ancora per qualche secondo col viso

affondato nel guanciale. Poi si tirava su dal letto di strappo e già infilava le braccia alla cieca

nella vestaglia, coi capelli sugli occhi. Gli appariva così, in cucina, dove Arturo stava tirando

fuori i recipienti vuoti dalla borsa che si portava con sé sul lavoro: il portavivande, il termos,

e li posava sull’acquaio. Aveva già acceso il fornello e aveva messo su il caffè. Appena lui la

guardava, a Elide veniva da passarsi una mano sui capelli, da spalancare a forza gli occhi,

come se ogni volta si vergognasse un po’ di questa prima immagine che il marito aveva di

lei entrando in casa, sempre così in disordine, con la faccia mezz’addormentata. Quando

due hanno dormito insieme è un’altra cosa, ci si ritrova al mattino a riaffiorare entrambi

dallo stesso sonno, si è pari.

Alle volte invece era lui che entrava in camera a destarla, con la tazzina del caffè, un

minuto prima che la sveglia suonasse; allora tutto era più naturale, la smorfia per uscire dal

sonno prendeva una specie di dolcezza pigra, le braccia che s’alzavano per stirarsi, nude,

finivano per cingere il collo di lui. S’abbracciavano. Arturo aveva indosso il giaccone

impermeabile; a sentirselo vicino lei capiva il tempo che faceva: se pioveva o faceva nebbia

o c’era neve, a secondo di com’era umido e freddo. Ma gli diceva lo stesso: – Che tempo fa?

– e lui attaccava il suo solito brontolamento mezzo ironico, passando in rassegna gli

inconvenienti che gli erano occorsi, cominciando dalla fine: il percorso in bici, il tempo

trovato uscendo di fabbrica, diverso da quello di quando c’era entrato la sera prima, e le

grane sul lavoro, le voci che correvano nel reparto, e così via.

A quell’ora, la casa era sempre poco scaldata, ma Elide s’era tutta spogliata, un po’

rabbrividendo, e si lavava, nello stanzino da bagno. Dietro veniva lui, più con calma, si

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spogliava e si lavava anche lui, lentamente, si toglieva di dosso la polvere e l’unto

dell’officina. Così stando tutti e due intorno allo stesso lavabo, mezzo nudi, un po’ intirizziti,

ogni tanto dandosi delle spinte, togliendosi di mano il sapone, il dentifricio, e continuando a

dire le cose che avevano da dirsi, veniva il momento della confidenza, e alle volte, magari

aiutandosi a vicenda a strofinarsi la schiena, s’insinuava una carezza, e si trovavano

abbracciati.

Ma tutt’a un tratto Elide: – Dio! Che ora è già! – e correva a infilarsi il reggicalze, la

gonna, tutto in fretta, in piedi, e con la spazzola già andava su e giù per i capelli, e sporgeva

il viso allo specchio del comò, con le mollette strette tra le labbra. Arturo le veniva dietro,

aveva acceso una sigaretta, e la guardava stando in piedi, fumando, e ogni volta pareva un

po’ impacciato, di dover stare lì senza poter fare nulla. Elide era pronta, infilava il cappotto

nel corridoio, si davano un bacio, apriva la porta e già la si sentiva correre giù per le scale.

Arturo restava solo. Seguiva il rumore dei tacchi di Elide giù per i gradini, e quando non

la sentiva più continuava a seguirla col pensiero, quel trotterellare veloce per il cortile, il

portone, il marciapiede, fino alla fermata del tram. Il tram lo sentiva bene, invece: stridere,

fermarsi, e lo sbattere della pedana a ogni persona che saliva. “Ecco, l’ha preso”, pensava, e

vedeva sua moglie aggrappata in mezzo alla folla d’operai e operaie sull’“undici”, che la

portava in fabbrica come tutti i giorni. Spegneva la cicca, chiudeva gli sportelli alla finestra,

faceva buio, entrava in letto.

Il letto era come l’aveva lasciato Elide alzandosi, ma dalla parte sua, di Arturo, era

quasi intatto, come fosse stato rifatto allora. Lui si coricava dalla propria parte, per bene,

ma dopo allungava una gamba in là, dov’era rimasto il calore di sua moglie, poi ci allungava

anche l’altra gamba, e così a poco a poco si spostava tutto dalla parte di Elide, in quella

nicchia di tepore che conservava ancora la forma del corpo di lei, e affondava il viso nel suo

guanciale, nel suo profumo, e s’addormentava.

Quando Elide tornava, alla sera, Arturo già da un po’ girava per le stanze: aveva acceso

la stufa, messo qualcosa a cuocere. Certi lavori li faceva lui, in quelle ore prima di cena,

come rifare il letto, spazzare un po’, anche mettere a bagno la roba da lavare. Elide poi

trovava tutto malfatto, ma lui a dir la verità non ci metteva nessun impegno in più: quello

che lui faceva era solo una specie di rituale per aspettare lei, quasi un venirle incontro pur

restando tra le pareti di casa, mentre fuori s’accendevano le luci e lei passava per le

botteghe in mezzo a quell’animazione fuori tempo dei quartieri dove ci sono tante donne

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che fanno la spesa alla sera.

Alla fine sentiva il passo per la scala, tutto diverso da quello della mattina, adesso

appesantito, perché Elide saliva stanca dalla giornata di lavoro e carica della spesa. Arturo

usciva sul pianerottolo, le prendeva di mano la sporta, entravano parlando. Lei si buttava su

una sedia in cucina, senza togliersi il cappotto, intanto che lui levava la roba dalla sporta.

Poi: – Su, diamoci un addrizzo, – lei diceva, e s’alzava, si toglieva il cappotto, si metteva in

veste da casa. Cominciavano a preparare da mangiare: cena per tutt’e due, poi la merenda

che si portava lui in fabbrica per l’intervallo dell’una di notte, la colazione che doveva

portarsi in fabbrica lei l’indomani, e quella da lasciare pronta per quando lui l’indomani si

sarebbe svegliato.

Lei un po’ sfaccendava un po’ si sedeva sulla seggiola di paglia e diceva a lui cosa

doveva fare. Lui invece era l’ora in cui era riposato, si dava attorno, anzi voleva far tutto lui,

ma sempre un po’ distratto, con la testa già ad altro. In quei momenti lì, alle volte

arrivavano sul punto di urtarsi, di dirsi qualche parola brutta, perché lei lo avrebbe voluto

più attento a quello che faceva, che ci mettesse più impegno, oppure che fosse più

attaccato a lei, le stesse più vicino, le desse più consolazione. Invece lui, dopo il primo

entusiasmo perché lei era tornata, stava già con la testa fuori di casa, fissato nel pensiero di

far presto perché doveva andare.

Apparecchiata tavola, messa tutta la roba pronta a portata di mano per non doversi

più alzare, allora c’era il momento dello struggimento che li pigliava tutti e due d’avere così

poco tempo per stare insieme, e quasi non riuscivano a portarsi il cucchiaio alla bocca, dalla

voglia che avevano di star lì a tenersi per mano. Ma non era ancora passato tutto il caffè e

già lui era dietro la bicicletta a vedere se ogni cosa era in ordine. S’abbracciavano. Arturo

sembrava che solo allora capisse com’era morbida e tiepida la sua sposa. Ma si caricava

sulla spalla la canna della bici e scendeva attento le scale.

Elide lavava i piatti, riguardava la casa da cima a fondo, le cose che aveva fatto il

marito, scuotendo il capo. Ora lui correva le strade buie, tra i radi fanali, forse era già dopo

il gasometro. Elide andava a letto, spegneva la luce. Dalla propria parte, coricata, strisciava

un piede verso il posto di suo marito, per cercare il calore di lui, ma ogni volta s’accorgeva

che dove dormiva lei era più caldo, segno che anche Arturo aveva dormito lì, e ne provava

una grande tenerezza.

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ITALO CALVINO (1923–1985) LA CITTÀ E LA MEMORIA. 5 In Le città invisibili, Einaudi 1972.

II

- Gli altri ambasciatori mi avvertono di carestie, di concussioni, di congiure,

oppure mi segnalano miniere di turchesi nuovamente scoperte, prezzi vantaggiosi nelle

pelli di martora, proposta di forniture di lane damascate. E tu? - chiese a Polo il Gran

Kan. – Torni da paesi altrettanto lontani e tutto quello che sai dirmi sono i pensieri che

vengono a chi prende il fresco la sera seduto sulla soglia di casa. A che ti serve allora

tanto viaggiare?

- È sera, siamo seduti sulla scalinata del tuo palazzo, spira un po’ di vento, -

rispose Marco Polo – qualsiasi paese le mie parole evochino intorno a te, lo vedrai da un

osservatorio situato come il tuo, anche se al posto della reggia c’è un villaggio di

palafitte e se la brezza porta l’odore d’un estuario fangoso.

- Il mio sguardo è quello di chi sta assorto e medita, lo ammetto. Ma il tuo? Tu

attraversi arcipelaghi, tundre, catene di montagne. Tanto varrebbe che non ti muovessi

da qui.

Il veneziano sapeva che quando Kublai se la prendeva con lui era per seguire

meglio il filo d’un suo ragionamento; e che le sue risposte e obiezioni trovavano il loro

posto in un discorso che già si svolgeva per conto suo, nella testa del Gran Kan. Ossia,

tra loro era indifferente che quesiti e soluzioni fossero enunciati ad alta voce o che

ognuno dei due continuasse a rimuginarli in silenzio. Difatti stavano muti, a occhi

socchiusi, adagiati su cuscini, dondolanti su amache, fumando lunghe pipe d’ambra.

Marco Polo immaginava di rispondere (o Kublai immaginava la sua risposta) che

più si perdeva in quartieri sconosciuti di città lontane, più capiva le altre città che aveva

attraversato per giungere fin là, e ripercorreva le tappe dei suoi viaggi, e imparava a

conoscere il porto da cui era salpato, e i luoghi familiari della sua giovinezza, e i dintorni

di casa, e un campiello di Venezia dove correva da bambino.

A questo punto Kublai Kan l’interrompeva o immaginava d’interromperlo, o Marco

Polo immaginava di essere interrotto, con una domanda come: - Avanzi col capo voltato

sempre all’indietro? – oppure: - Ciò che vedi è sempre alle tue spalle? – o meglio: - Il tuo

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viaggio si svolge solo nel passato?

Tutto perché Marco Polo potesse spiegare o immaginare di spiegare o essere

immaginato spiegare o riuscire finalmente a spiegare a se stesso che quello che lui

cercava era sempre qualcosa davanti a sé, e anche se si trattava del passato era un

passato che cambiava man mano egli avanzava nel suo viaggio, perché il passato del

viaggiatore cambia a seconda dell’itinerario compiuto, non diciamo il passato prossimo

cui ogni giorno che passa aggiunge un giorno, ma il passato più remoto. Arrivando a

ogni nuova città il viaggiatore ritrova un passato che non sapeva più d’avere:

l’estraneità di ciò che non sei più o non possiedi più t’aspetta al varco nei luoghi

estranei e non posseduti.

Marco entra in una città; vede qualcuno in una piazza vivere una vita o un istante

che potevano essere suoi; al posto di quell’uomo ora avrebbe potuto esserci lui se si

fosse fermato nel tempo tanto tempo prima, oppure se tanto tempo prima a un

crocevia invece di prendere una strada avesse preso quella opposta e dopo un lungo

giro fosse venuto a trovarsi al posto di quell’uomo in quella piazza. Ormai, dal suo

passato vero o ipotetico, lui è escluso; non può fermarsi; deve proseguire fino a un’altra

città dove lo aspetta un altro suo passato, o qualcosa che forse era stato un suo

possibile futuro e ora è il presente di qualcun altro. I futuri non realizzati sono solo rami

del passato: rami secchi.

- Viaggi per rivivere il tuo passato? – era a questo punto la domanda del kan, che

poteva anche essere riformulata così: - Viaggi per ritrovare il tuo futuro?

E la risposta di Marco: - L’altrove è uno specchio in negativo. Il viaggiatore

riconosce il poco che è suo, scoprendo il molto che non ha avuto e non avrà.

II

Le città e la memoria. 5

A Maurilia, il viaggiatore è invitato a visitare la città e nello stesso tempo a

osservare certe vecchie cartoline illustrate che la rappresentano com’era prima: la

stessa identica piazza con una gallina al posto della stazione degli autobus, il chiosco

della musica al posto del cavalcavia, due signorine col parasole bianco al posto della

fabbrica di esplosivi. Per non deludere gli abitanti occorre che il viaggiatore lodi la città

nelle cartoline e la preferisca a quella presente, avendo però cura di contenere il suo

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rammarico per i cambiamenti entro regole precise: riconoscendo che la magnificenza e

prosperità di Maurilia diventata metropoli, se confrontate con la vecchia Maurilia

provinciale, non ripagano d’una certa grazia perduta, la quale può tuttavia essere

goduta soltanto adesso nella vecchie cartoline, mentre prima, con la Maurilia

provinciale sotto gli occhi, di grazioso non ci si vedeva proprio nulla, e men che meno

ce lo si vedrebbe oggi, se Maurilia fosse rimasta tale e quale, e che comunque la

metropoli ha questa attrattiva in più, che attraverso ciò che è diventata si può

ripensare con nostalgia a quella che era.

Guardatevi dal dir loro che talvolta città diverse si succedono sopra lo stesso suolo

e sotto lo stesso nome, nascono e muoiono senza essersi conosciute, incomunicabili tra

loro. Alle volte anche i nomi degli abitanti restano uguali, e l’accento delle voci, e

perfino i lineamenti delle facce; ma gli dèi che abitano sotto i nomi e sopra i luoghi se

ne sono andati senza dir nulla e al loro posto si sono annidati dèi estranei. È vano

chiedersi se essi sono migliori o peggiori degli antichi, dato che non esiste tra loro alcun

rapporto, così come le vecchie cartoline non rappresentano Maurilia com’era, ma

un’altra città che per caso si chiamava Maurilia come questa.

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ITALO CALVINO (1923–1985) IL SENO NUDO In Palomar, Einaudi 1983 (qui MondadorI 2011).

Il signor Palomar cammina lungo una spiaggia solitaria. Incontra rari bagnanti. Una

giovane donna è distesa sull'arena prendendo il sole a seno nudo. Palomar, uomo

discreto, volge lo sguardo all'orizzonte marino. Sa che in simili circostanze,

all'avvicinarsi d'uno sconosciuto, spesso le donne s'affrettano a coprirsi, e questo gli

pare non bello: perché è molesto per la bagnante che prendeva il sole tranquilla;

perché l'uomo che passa si sente un disturbatore; perché il tabù della nudità viene

implicitamente confermato; perché le convenzioni rispettate a metà propagano

insicurezza e incoerenza nel comportamento anziché libertà e franchezza.

Perciò egli, appena vede profilarsi da lontano la nuvola bronzeo-rosea d'un torso

nudo femminile, s'affretta ad atteggiare il capo in modo che la traiettoria dello sguardo

resti sospesa nel vuoto e garantisca del suo civile rispetto per la frontiera invisibile che

circonda le persone.

Però, - pensa andando avanti e, non appena l'orizzonte è sgombro, riprendendo il

libero movimento del bulbo oculare - io, così facendo, ostento un rifiuto a vedere, cioè

anch'io finisco per rafforzare la convenzione che ritiene illecita la vista del seno, ossia

istituisco una specie di reggipetto mentale sospeso tra i miei occhi e quel petto che, dal

barbaglio che me ne è giunto sui confini del mio campo visivo, m'è parso fresco e

piacevole alla vista. Insomma, il mio non guardare presuppone che io sto pensando a

quella nudità, me ne preoccupo, e questo è in fondo ancora un atteggiamento

indiscreto e retrivo.

Ritornando dalla sua passeggiata, Palomar ripassa davanti a quella bagnante, e

questa volta tiene lo sguardo fisso davanti a sé, in modo che esso sfiori con equanime

uniformità la schiuma delle onde che si ritraggono, gli scafi delle barche tirate in secco,

il lenzuolo di spugna steso sull'arena, la ricolma luna di pelle più chiara con l'alone

bruno del capezzolo, il profilo della costa nella foschia, grigia contro il cielo.

Ecco, - riflette, soddisfatto di se stesso, proseguendo il cammino, - sono riuscito a

far sì che il seno fosse assorbito completamente dal paesaggio, e che anche il mio

sguardo non pesasse più che lo sguardo d'un gabbiano o d'un nasello.

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Ma sarà proprio giusto, fare così? - riflette ancora, - o non è un appiattire la

persona umana al livello delle cose, considerarla un oggetto, e quel che è peggio,

considerare oggetto ciò che nella persona è specifico del sesso femminile? Non sto

forse perpetuando la vecchia abitudine della supremazia maschile, incallita con gli anni

in un'insolenza abitudinaria?

Si volta e ritorna sui suoi passi. Ora, nel far scorrere il suo sguardo sulla spiaggia

con oggettività imparziale, fa in modo che, appena il petto della donna entra nel suo

campo visivo, si noti una discontinuità, uno scarto, quasi un guizzo. Lo sguardo avanza

fino a sfiorare la pelle tesa, si ritrae, come apprezzando con un lieve trasalimento la

diversa consistenza della visione e lo speciale valore che essa acquista, e per un

momento si tiene a mezz'aria, descrivendo una curva che accompagna il rilievo del

seno da una certa distanza, elusivamente ma anche protettivamente, per poi

riprendere il suo corso come niente fosse stato.

Così credo che la mia posizione risulti ben chiara, - pensa Palomar, - senza

malintesi possibili. Però questo sorvolare dello sguardo non potrebbe in fin dei conti

essere inteso come un atteggiamento di superiorità, una sottovalutazione di ciò che un

seno è e significa, un tenerlo in qualche modo in disparte, in margine o tra parentesi?

Ecco che ancora sto tornando a relegare il seno nella penombra in cui l'hanno tenuto

secoli di pudibonderia sessuomaniaca e di concupiscenza come peccato...

Una tale interpretazione va contro alle migliori intenzioni di Palomar, che pur

appartenendo a una generazione matura, per cui la nudità del petto femminile

s'associava all'idea d'un'intimità amorosa, tuttavia saluta con favore questo

cambiamento nei costumi, sia per ciò che esso significa come riflesso d'una mentalità

più aperta nella società, sia in quanto una tale vista in particolare gli riesce gradita. E'

quest'incoraggiamento disinteressato che egli vorrebbe riuscire a esprimere nel suo

sguardo.

Fa dietro-front. A passi decisi muove ancora verso la donna sdraiata al sole. Ora il

suo sguardo, lambendo volubilmente il paesaggio, si soffermerà sul seno con uno

speciale riguardo, ma s'affretterà a coinvolgerlo in uno slancio di benevolenza e

gratitudine per il tutto, per il sole e il cielo, per i pini ricurvi e la duna e l'arena e gli

scogli e le nuvole e le alghe, per il cosmo che ruota intorno a quelle cuspidi aureolate.

Questo dovrebbe bastare a tranquillizzare definitivamente la bagnante solitaria e

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a sgombrare il campo da illazioni fuorvianti. Ma appena lui torna ad avvicinarsi, ecco

che lei s'alza di scatto, si ricopre, sbuffa, s'allontana con scrollate infastidite delle spalle

come sfuggisse alle insistenze moleste d'un satiro.

Il peso morto d'una tradizione di malcostume impedisce d'apprezzare nel loro

giusto merito le intenzioni più illuminate, conclude amaramente Palomar.

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LUIGI MALERBA (1927–2008) LA ERRE In Storiette, 1978 (qui Einaudi 1994).

Un giorno mentre Ugone stava parlando con un amico arrivò una ventata e gli portò

via la erre. Stava dicendo: – Ti voglio vedere presto – e gli uscì dalla bocca –Ti voglio vedere

pesto. L’amico si offese moltissimo e andò via, senza salutarlo. Un altro giorno Ugone andò

dal macellaio per comprare un – chilo di carne – e disse invece – Un chilo di cane. Ugone

era disperato perché, quando parlava, voleva dire una cosa e gliene usciva un’altra. Diceva

«gratto» e gli usciva «gatto», diceva «bruco» e gli usciva «buco», diceva «corto» e gli usciva

«cotto» e così via. I suoi amici cominciarono a pensare che Ugone si ubriacasse e qualcuno

disse invece che era diventato matto.

Ugone andò in giro per la città a cercare la sua erre e fece mettere anche un’inserzione

sul giornale, promettendo una mancia, ma nessuno si fece vivo. Allora decise di rubare una

erre da una iscrizione di marmo che diceva «Via del Corso». Rubò la erre e la scritta diventò

«Via del Coso». Quelli che la leggono non capiscono e, se capiscono, si mettono a ridere.

LUIGI MALERBA (1927–2008) IL VERMETTO NERO NERO In Storiette, 1978 (qui Einaudi 1994).

Un vermetto di campagna lungo lungo e nero nero decise che avrebbe fatto uno

scherzo al contadino del podere dove viveva. Sapeva che i vermi fanno schifo agli uomini e

aveva deciso di vendicarsi.

Durante la notte il vermetto si arrampicò a fatica su per le scale della casa e arrivò

nella camera da letto del contadino. Sotto il letto c’erano le sue scarpe. Il vermetto sfilò il

legaccio nero di una scarpa e si mise al suo posto infilandosi dentro ai buchi, e già si fregava

le mani immaginando le smorfie di disgusto del contadino la mattina dopo quando si

sarebbe accorto della cosa.

Il contadino si svegliò molto presto e, con gli occhi ancora chiusi per il sonno si infilò le

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scarpe fece un nodo doppio al vermetto nero nero che sembrava proprio un legaccio. Poi

uscì di casa e andò nei campi a lavorare. Il vermetto così annodato non riuscì più a liberarsi

per tutta la giornata.

La sera, quando il contadino sciolse il nodo per levarsi la scarpa, il vermetto aveva un

terribile mal di schiena. Riuscì con molta fatica a uscire dai buchi, rotolò malamente giù per

le scale e a fatica raggiunse il prato dove rimase disteso al sole per tre giorni di seguito

prima di riuscire a camminare e cioè a strisciare per terra come fanno i vermi.

LUIGI MALERBA (1927–2008) STORIA DEL MONDO DALLE ORIGINI AI GIORNI NOSTRI In Storiette, 1978 (qui Einaudi 1994).

Andate tutti lontano che il mondo incomincia a scoppiare. Tutti si trovarono un

posticino ben riparato e il mondo fu sconvolto da una grande esplosione dove si formarono

le stelle come il sole e i pianeti come la terra.

Da principio l’uomo viveva nell’acqua, aveva le pinne e la coda come un merluzzo, era

amico dei pesci. Poi uscì dall’acqua e si mise a strisciare sulla terra come un serpente. Poi

imparò a stare in piedi e il serpente invidioso gli fece mangiare la mela e lo fece cacciare dal

Paradiso Terrestre. L’uomo si offese e diventò suo nemico. Fece amicizia con la scimmia e

da lei imparò tante cose come arrampicarsi sugli alberi, mangiare le noci e mettersi i diti nel

naso.

L’uomo, con il passare dei secoli imparò a leggere e a scrivere e a andare in bicicletta.

Scrisse molti libri di storia vera e di storia inventata, ma tutti volevano essere la storia del

mondo dalle origini ai nostri giorni, cioè dalle origini alla fine. Dopo la bicicletta e i libri

vennero l’automobile e l’aeroplano e la bomba. Il mondo diventò insopportabile e l’uomo si

preparò a ridiventare un merluzzo. Tutti incominciarono a cercarsi un posticino ben riparato

in vista della prossima esplosione.

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LUIGI MALERBA (1927–2008) IL GIOCO DELLO SCIPPO In Dopo il pescecane, Bompiani, 1979.

I quindici anni sono una età molto incerta e confusa, lo vedo da mio figlio. Sempre

agitato, e sempre distratto come se vivesse in mezzo alle nuvole. Certi giorni si mette

davanti al televisore spento e resta lì per delle ore, chissà che cosa pensa, dico, e chissà che

cosa immagina di vedere su quello schermo nero senza immagini. Sono preoccupato per lui

e mi sembra di avere tutte le ragioni. Non so mai per quale verso prenderlo perché ogni

volta che provo a parlargli mi risponde a vanvera, oppure, se l’argomento non gli piace, si

innervosisce e va a chiudersi nella sua camera e non lo vedo più fino alla mattina dopo

quando esce per andare a scuola.

Ho parlato con i genitori di alcuni suoi compagni e mi è parso che più o meno con i loro

figli si trovino nelle mie condizioni, c’è la stessa incomprensione, lo stesso distacco e

indifferenza che ci sono tra me e mio figlio. Non capisco che cosa hanno in testa questi

ragazzi. Ho perfino provato a spiarli quando stanno insieme e ho scoperto che si dicono

delle gran parolacce, ma un vero discorso filato non l’ho sentito. Insomma non sanno

parlare nemmeno tra di loro.

Mi preoccupa soprattutto il vuoto in cui vivono. Mi preoccupa che mio figlio guardi la

televisione spenta, mi preoccupa che non abbia un dialogo con nessuno, la sua mancanza di

interessi e di entusiasmo, i suoi silenzi. Non legge i giornali, non va al cinema, non va a

ballare. Io ero molto diverso, ma si sa che oggi è tutto cambiato. Qualcuno mi dice prova

con le sberle, ma io sono contrario alla maniera forte, sono un genitore moderno e non me

la sento di prendere a sberle mio figlio solo perché guarda il televisore spento o perché fra

noi non c’è dialogo. Senza contare che, a quindici anni, è già alto un metro e settantacinque

e non vorrei che gli venisse in mente di mettermi le mani addosso, non si sa mai.

È un po’ di tempo che gli dico tròvati un hobby tanto per distrarti, oppure un gioco

come il tennis o il calcio o il salto con l’asta, insomma uno sport divertente e che faccia

bene alla salute. Mi andrebbe bene anche il biliardo piuttosto che niente, ma lui si è messo

a ridere come se avessi detto una cosa molto strana e ridicola. Se non ti piace il biliardo

perché non provi con il bowling, lo skateboard, il frisbee? E così gli ho fatto vedere che sono

più aggiornato di quanto lui creda e che non c’è mica tanto da ridere. Io so che quando un

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ragazzo prende passione a un gioco, anche se trascura la scuola almeno ha la testa

occupata da qualcosa e non corre rischi peggiori. Sto pensando alla droga naturalmente. La

droga è l’incubo di tutti i genitori come un tempo le malattie veneree. Oggi si cura anche la

sifilide ma pare che con la droga, quella pesante, non c’è niente da fare.

Sarà passato un mese da quando mio figlio mi ha chiesto di comprargli la lambretta. A

tutta prima sono rimasto sorpreso, ma mi sono detto meglio la lambretta che la droga. Con

una certa cautela per non irritarlo, gli ho fatto qualche domanda. Mi ero ricordato di una

mia cugina che qualche anno fa aveva comprato la motocicletta a suo figlio e quello era

partito e non si era visto più. Ogni tanto manda una cartolina da Baden Baden, da Amburgo,

da Marsiglia, da Amsterdam e tutto finisce lì. Tanti baci e basta. Un mese fa è arrivata una

cartolina da Helsinki. Che cosa farà a Helsinki? Non vorrei che succedesse qualcosa di simile

anche a me con mio figlio, mi sono detto, e così gli ho comprato una lambretta usata,

piuttosto malridotta come motore anche se di fuori era stata rimessa a nuovo. Con questa

può andare poco lontano, ho pensato.

Non aveva nessuna intenzione di scappare da casa. Anzi, da quando gli ho comprato la

lambretta si direbbe che ha superato lo schifo di parlare con me, ogni tanto mi rivolge la

parola. Mi ha anche spiegato a che cosa gli serve la lambretta, mi ha raccontato che fa il

gioco dello scippo insieme a un suo amico. Meno male, mi sono detto, se gli prende la

passione per un gioco finalmente potrò stare tranquillo, forse gli passa questo

atteggiamento negativo, forse sarà più sereno, forse forse finirà per farmi le sue confidenze

come usava un tempo fra padri e figli.

Una sera è arrivato a casa tutto sudato e con uno strappo nella giacca. Si è seduto di

fronte a me e mi ha raccontato che si era divertito come un pazzo. Così sono venuto a

sapere in che cosa consiste il gioco dello scippo. Mi ha spiegato che si fa in due: uno si

mette alla guida della lambretta e l’altro dirige il gioco. Vanno in giro per le stradine intorno

a Campo dei Fiori dove non c’è mai la polizia e strappano la borsetta alle donne che

passano da quelle parti. Da principio per esercitarsi hanno incominciato a portare via la

borsa alle vecchiette che non possono correre e quindi il rischio è ridotto al minimo. Dopo

un mese di esercizio si sono buttati sulle turiste, di preferenza le turiste straniere.

Ho domandato che cosa ne fanno delle borsette e lui mi ha spiegato che le

restituiscono per posta quando nei documenti trovano l’indirizzo, altrimenti le vanno a

gettare nel Tevere. Dice che ne hanno spedita una a Minneapolis negli Stati Uniti e ne

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hanno spedite altre nel Canada, nel Brasile e perfino in Australia e in Giappone. E i soldi,

che cosa ne fate dei soldi? Quelli ce li teniamo noi, mi ha risposto, altrimenti il gioco perde

ogni senso e non ci divertiamo più. E poi i soldi servono anche per le spese, la miscela per la

Lambretta, le riparazioni, la spedizione delle borsette alle legittime proprietarie e via

dicendo. Tieni conto, mi ha detto, che spesso troviamo soldi esteri e ci perdiamo molto con

il cambio clandestino.

Spesso le donne scippate si mettono a strillare e a inseguire e questo è molto

emozionante, ha detto mio figlio. Quando finalmente arriviamo in un posto sicuro e lontano

ci facciamo delle gran risate e poi andiamo in pizzeria o al cinema. I soldi ce li dividiamo

sempre a metà io e il mio compagno, anche le spese le dividiamo a metà. Alla guida ci

stanno una volta per uno e la vittima viene scelta da quello che sta dietro e deve strapparle

via la borsetta, questa è la regola del gioco. Insomma pare che si divertono moltissimo,

beati loro.

Da quando gioca allo scippo mio figlio è molto migliorato. La mattina va a scuola,

ritorna a casa dopo l’una a mezzo, fa i compiti e poi esce con la Lambretta. Qualche volta

porta a casa anche il suo amico e fanno i compiti insieme prima di uscire. Altre volte è mio

figlio che va a casa sua, soprattutto quando hanno i compiti di matematica perché il padre è

ingegnere e li aiuta a fare le equivalenze, le equazioni e a risolvere i problemi. Io di

matematica non me ne intendo, ma gli ascolto volentieri le poesie che devono imparare a

memoria, Valentino del Pascoli, "Oh! Valentino vestito di nuovo, come le brocche dei

biancospini!", Pastori d’Abruzzo di D’Annunzio, "Settembre, andiamo. È tempo di migrare",

L’infinito di Leopardi, "Sempre caro mi fu quest’ermo colle", bellissimo. A me sono sempre

piaciute le poesie e molte le ricordo ancora dal tempo della scuola, così posso aiutarli nel

ripasso senza nemmeno guardare il libro.

Spesso mio figlio ritorna a casa molto tardi la sera, quando io sono già a letto, ma se

torna presto ci mettiamo davanti al televisore e guardiamo insieme uno spettacolo e alla

fine ci scambiamo le nostre impressioni. Sono lontani i tempi che restava per ore davanti

allo schermo spento. Se alla televisione non c’è niente di interessante mi parla del gioco

dello scippo, sempre con molto entusiasmo. Una sera mi ha detto che erano riusciti a

scippare cinque borsette, lui e il suo amico. Ogni tanto gli faccio qualche raccomandazione

perché ho sempre paura che durante le fughe in quei vicoletti pieni di traffico possano

cadere o investire qualcuno. Mi sono fatto promettere che con i soldi del prossimo scippo si

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pagano l’assicurazione. Mi hanno detto che la faranno senz’altro, sono due bravi ragazzi e,

da un po’ di tempo, anche allegri e spensierati come devono essere alla loro età.

L’altra sera sono arrivati a casa più allegri del solito e mi hanno annunciato che hanno

comprato una Kawasaki. Ho dovuto scendere nel cortile per vederla. Mi hanno detto di

stare tranquillo che avevano già sistemato tutto sia per l’assicurazione che per la patente.

Io su una Kawasaki non ci salirò mai, però devo ammettere che è proprio un bell’oggetto.

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GIUSEPPE PONTIGGIA (1934 – 2003) VIAGGIO ALLE SORGENTI DEL NILO In Vite di uomini non illustri, Mondadori 1993 (qui da G. Pontiggia, Opere, Mondadori 2004).

... il quale Nilo nasce dal fiume Giordano,

che esce dal Paradiso terrestre... L. Frescobaldi e S. Sigoli,

Viaggi in Terra Santa

VITALI ANTONIO

Nasce per parto podalico il 2 luglio 1932 nella clinica Regina Elena di Trento. Sua

madre gli ricorderà spesso, nel corso degli anni, i dolori che le ha provocato una nascita

simile. Ma solo a cinquantun anni capirà quanto quella anomalia abbia influito sulla sua

crescita. Glielo ripete, mentre lo tiene immerso nell‘acqua calda della vasca, il 2 luglio

1983, la sua amica di Merano, che gli ha chiesto di rivivere l‘evento.

La sua mano, artigliandogli la nuca, gli affonda la testa. Picchiando con il mento

contro la maiolica, lui riesce a riaffiorare. Ma di nuovo lei nuda, le mammelle enormi,

incombendo con il corpo ridondante sugli spruzzi, preme le mani sopra le sue spalle e

lo sospinge contro il fondo. Bolle d‘aria gorgogliano vicino agli occhi dilatati. Sente che

la presa si allenta e, sollevando la testa, emerge per respirare, mentre lei gli grida:

«Stai nascendo! Devi vivere!»

Le onde escono dalla vasca, lei perde improvvisamente l‘equilibrio e precipita sulla

schiena. Allora, issandosi su di lui, gli rituffa la testa che si dibatte. Questa volta l‘acqua

gli è entrata nella bocca spalancata, il respiro gli rantola in gola, le vene si gonfiano.

Puntando le mani e i piedi si rovescia su un fianco, trascinandola a sua volta sott’acqua,

ma con un colpo potente delle anche lei lo scaglia contro la parete liscia e cerca di

riaffondarlo mentre si afferra, ansimante, al bordo della vasca.

«Non sei ancora nato!» gli grida.

«Sì!» geme lui. «Lasciami respirare!»

«No, tu non riesci a respirare, perché i piedi sono usciti, ma la testa è ancora

dentro, capisci?»

«Sì» mormora lui, mentre pensa:

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“Che cosa sto facendo?”

«Ti senti strozzare proprio quando stai per uscire» continua lei, ripiombandogli

sulla schiena con la sua massa carnosa. «Senti che ti sto uccidendo. E che cosa vorresti

fare?»

«Ucciderti!» grida lui.

«Ecco, tesoro, è questo che volevo farti dire!»

Si aggrappa alle sue spalle, ma lui non lascia la presa del bordo. «Tu volevi

uccidermi solo per salvarti. Non hai colpa.»

«No!» esclama, chiudendo gli occhi. «Non ho nessuna colpa.»

«E neanche lei ha colpa, lei voleva solo farti vivere e tu non l‘hai uccisa. Avete

vinto tutti e due.»

«Sì.»

«Ripetilo con me» insiste lei. «Abbiamo vinto tutti e due.»

«Sì.» Cerca piano di divincolarsi da quella carne molle e calda. «Abbiamo vinto

tutti e due.»

Lascia penzolare la testa sul tappeto di gomma. Alle sue spalle un tonfo

accompagnato dagli spruzzi, si è girata sulla schiena, slitta sul fondo. Ne approfitta per

scavalcare l‘orlo della vasca e rotolare sul pavimento.

«Ma che cosa fai?»

«Non abbiamo finito?» le chiede rialzandosi a fatica e allargando le palme sulle

piastrelle.

«Sì, se sei nato senza colpa. Dillo.»

«Sì, sono nato senza colpa» le dice, sdrucciolando lungo la parete e scivolando

adagio sul pavimento.

Quando esce dal condominio, due ore dopo, si sente più leggero. In treno,

premendo la fronte contro il finestrino, nella luce dorata che rischiara montagne, fiumi

e campi, prova una commozione inesplicabile.

La mattina del 12 luglio 1983, salendo con l‘ascensore esterno lungo il grattacielo

di vetro e di alluminio fino al piano della sua ditta, per la prima volta non avverte

sintomi di vertigine, ma una ebbrezza euforica.

«Non c‘è bisogno di una causa» gli spiega la sua amica al telefono, la sera tardi,

mentre lui vede sua moglie, nel salotto in fondo, seguire alla televisione una partita di

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tennis. «Ti stai liberando di un delitto che non hai commesso. Tu non hai ucciso tua

madre.»

«Sta vincendo Lendl!» gli grida sua moglie, senza voltarsi, le mani aggrappate ai

braccioli. «Non sai che cosa ti perdi.»

«Un momento, sono al telefono!» esclama lui, coprendo la cornetta con la mano

sinistra. Poi la stacca e dice alla sua amica con voce più bassa:

«Questo l‘ho sempre saputo.»

«Lo dici ora, da adulto, ma allora non lo sapevi. Allora c‘era lei che voleva ucciderti

e tu che, per impedirglielo, volevi fare altrettanto. Questo il tuo nemico non te l‘ha mai

perdonato.»

«Quale nemico?» le chiede.

«Ma che cosa stai facendo?» gli grida ancora sua moglie dal salotto.

«Sono al telefono, hai capito?» le risponde. Poi stacca la mano sinistra dalla

cornetta e mormora:

«Scusami. Ti ho chiesto quale nemico.»

«Tu» gli risponde lei. «Cioè il bambino che è in te e che cerca di punirti.»

Lui vede un bambino minuscolo dentro di sé.

«E mia madre che cosa c‘entra?»

«Tua madre si è sempre alleata con il bambino per impedirti di amare un‘altra

donna.»

Dal salotto arriva una esclamazione delusa:

«Hai perso il meglio!»

Lui socchiude gli occhi:

«E chi avrei dovuto amare?»

«Me, per esempio» gli risponde lei.

Lui è invaso da uno sfinimento in tutto il corpo.

«Ho capito» dice.

Nove mesi dopo, durante un temporale, mentre osserva dalla finestra un uomo

che attraversa l‘asfalto di corsa, riparandosi goffamente con una cartella, decide di

dare le dimissioni a sette anni dalla pensione. Dice a sua moglie stupefatta, che sta

stirando in cucina, davanti alla finestra:

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«Vorrei vivere.»

«Ma perché, finora che cosa hai fatto?» trova la forza di chiedergli.

«Sopravvivere» risponde.

Sua moglie posa il ferro da stiro sulla piastra e si siede. «Però non parlarmi più del

tuo parto» dice. «Ti scongiuro.»

Decide di non parlare più del suo parto. Ma il suo pensiero vi torna come a una

gioia radiante.

Il 27 settembre 1984, camminando nel crepuscolo alla periferia di Merano, tra

villette circondate dagli alberi a poca distanza dalla corrente del Passirio, si alza sulle

punte dei piedi, come faceva da ragazzo, per toccare un ramo. Non sa se è vero quello

che la sua amica, sdraiata vicino a lui sul copriletto, gli ha detto due ore prima: che ha

sposato la donna che piaceva non a lui, ma a sua madre, perché solo così poteva

rimanere fedele.

«A chi?» aveva chiesto.

«A tua madre.»

Né sa se ha scelto legge, anziché geologia, per espiare il delitto della nascita. Per la

stessa ragione eviterebbe il sole — gli effetti sulla epidermide che lui chiama eritemi —

perché associato alla verità e alla vita già dagli Egizi. E neanche sapeva —mentre la sua

amica gli parlava con voce monotona, come se recitasse una preghiera, facendolo

cadere in un deliquio intermittente — se tutto questo era vero oppure falso. Ma non gli

importava più di saperlo. Capiva che se accettava se stesso avrebbe accettato il sole. E

quel giorno aveva rinunciato a calcolare, mentre camminava sotto la volta verde dei

viali, le distanze dai punti invisibili che fissava sul percorso.

«Mi sento rinascere» dice il 7 maggio 1985 al commendator Mambriani, l‘ufficio in

penombra, nel tardo pomeriggio in cui viene convocato per spiegare le dimissioni.

«Non so se è la causa o l‘effetto della mia decisione.»

«Ma non pensa al futuro?» gli chiede, austero e grave, il commendator

Mambriani, immobile nella poltrona come un monarca assiro.

«Pensare al futuro è sempre stato il mio modo di punirmi. Ora basta» risponde.

Decide di impiegare parte della liquidazione per una crociera sul Nilo. La sogna da

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molti anni, da quando ha letto che, in altri secoli, risalirlo significava un viaggio non solo

al centro del mondo, ma dell‘uomo.

Cerca di spiegare a sua moglie perché vuole farlo da solo.

«Ho bisogno di ritrovarmi» le dice.

«Tu devi curarti» gli risponde lei.

L‘amica, anche se turbata, approva la sua scelta.

«Potevamo farlo assieme» aggiunge, con le lacrime agli occhi. «Ma sarà per

un‘altra volta.»

Il 27 dicembre 1985 si imbarca ad Asyu‘t, più di 300 chilometri a sud del Cairo, sul

battello Osiride.

Sdraiato sul letto, emozionato, estatico, vede dalla cabina le rive scivolare con le

palme, la linea rossa dei monti più lontani, i bambini che nuotano tra le canne, i

cammelli e gli autocarri nella polvere. In sala da pranzo, sotto i bassi soffitti di un rosso

damascato, si sorprende a fissare con desiderio una ragazza francese, bruna, ridente,

una grazia maliziosa nello sguardo. Pensa con ansia placata alle vite che non si vivono.

Il 2 gennaio 1986 sbarca a Luxor. Manda alla sua amica una cartolina con la

fotografia di un faraone di pietra adagiato sulla sabbia e queste parole: «Non ho più

paura del sole».

Si aggira, tra obelischi e colonne, stordito di luce. Al tramonto, mentre sale verso

le porte del Tempio le statue gigantesche a presidio della città sacra si oscurano in un

cielo che rotea in alto. Alcuni uomini tengono lontani i curiosi che si affacciano su di lui.

Un altro gli preme sulla fronte un fazzoletto bagnato. E mentre le palpebre si chiudono

sull'estremo dolore del suo petto, vede all‘orizzonte un sole enorme, rosso, che si

inabissa con lui.

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STEFANO BENNI (1947) I QUATTRO VELI DI KULALA In Il bar sotto il mare, 1987.

SONNO! … spazzino di rancore! (Tristan Corbière)

In un villaggio sul fiume Yuele viveva un uomo che si chiamava Doruma ed era molto

fortunato. Aveva una bella moglie, due figli sani e un campo fertile. Era un buon cacciatore

e nel villaggio non aveva nemici. Fu così che Shabunda, il diavolo del bosco, ne ebbe invidia.

E per dispetto una notte entrò nella capanna, gli infilò le unghie adunche nei capelli e da lì

gli sfilò via il sonno. Doruma si svegliò di colpo, destò la moglie Oda e le disse che un’ombra

maligna l’aveva sfiorato. – È stato solo un brutto sogno – disse Oda – torna a dormire.

Ma Doruma non dormì né quella notte, né la notte dopo, né tutte le notti di quella

luna: il sonno non veniva. Provò a farsi accarezzare con la coda di un ghiro Chaqui, a bere

l’erba Terené che fa inginocchiare anche gli elefanti, cercò di dormire sulla terra e sugli

alberi e sulle pietre del fiume, ma non ci fu nulla da fare.

Venne lo stregone del villaggio e vide in che stato si trovava. Disse che il diavolo

Shabunda gli aveva rubato il sonno, e non c’era magia che potesse ridarglielo; così sarebbe

morto entro breve tempo. Poteva salvarlo solo Kulala, lo spirito del sonno, la cui dimora era

al di là delle montagne. Egli aveva sicuramente molti sonni, poiché era lui che li costruiva

per Yumau, il creatore. Ma Doruma era troppo debole per fare il viaggio.

Allora Oda, la moglie, disse: – Andrò io da Kulala lo spirito del sonno –. E poiché era

una donna coraggiosa prese una zucca d’acqua, un po’ di cibo e un bastone, e partì per le

montagne. Camminò molti giorni, quasi senza riposare. Scalò le montagne blu di Alowa e

arrivò nella valle del bosco sacro di Kulala.

Sul limitare del bosco gli uccelli cantavano, le scimmie urlavano e il vento scuoteva gli

alberi. Ma appena Oda si inoltrò nell’ombra un grande silenzio la avvolse. Nel bosco del

sonno non una foglia si muoveva, gli uccelli erano muti e si vedevano strisciare solo i

serpenti silenziosi. Oda camminò a lungo, finché giunse davanti a un grande albero cavo, la

casa di Kulala. Oda entrò e vide lo spirito che dormiva su un’amaca. Rimase in attesa che si

svegliasse. Kulala dormì per un quarto di luna, e quando si destò vide la piccola donna

nell’angolo della sua casa.

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– Chi sei e perché sei venuta? – urlò adirato.

– Kulala, spirito del buio che ristora, io ti prego. Un diavolo maligno ha rubato il sonno

a mio marito ed egli morirà se non gli porto un sonno nuovo.

– E perché mai dovrei dartelo? –

Perché ho camminato per molto tempo, i miei piedi sono feriti e sono stremata,

eppure quando ti ho visto dormire non ti ho svegliato, ma ho atteso con pazienza.

– E sia – disse Kulala – là su quel tavolo ci sono i pezzi del sonno di un uomo. Ogni

sonno è fatto di quattro veli. Se tu saprai riconoscerli, potrai portarli a tuo marito ed egli

riavrà il sonno perduto. Ma sta attenta a scegliere i veli giusti, o la tua sorte sarà tremenda.

– Non ho paura – disse Oda.

Allora Kulala la condusse davanti a una pietra dove erano stesi i veli.

– Ecco due veli bianchi – disse. – Uno è quello del silenzio, l’altro è quello dei rumori

della notte. Scegli.

Oda guardò i due veli e le sembrarono uguali. Ma una mosca volò sopra di essi. Ronzò

sopra il primo, ma non fece alcun rumore quando volò sull’altro. Oda prese il secondo e se

lo mise sul capo.

– Hai indovinato – disse Kulala. – Ora guarda questi due veli colorati. Uno è quello dei

sogni e l’altro quello dei fantasmi della notte. Se prendi quello sbagliato tutti i demoni e gli

incubi balzeranno su di te e ti uccideranno.

Oda li guardò e li trovò uguali. Allora prese un piccolo ragno e lo mise tra i due veli. Da

uno sbucò un orribile ramarro con tre teste che mangiò il ragno. Oda prese l’altro.

– Sei astuta, donna del fiume – disse Kulala – ora ecco due veli neri. Uno è quello del

buio e l’altro è quello della luce di fuoco. Uno porta il sonno, l’altro acceca. Oda li guardò.

Poi prese da una foglia due gocce d’acqua e le lasciò cadere sui veli. Una di esse evaporò

per il calore della luce. Oda prese l’altro velo. – Brava, donna del fiume – disse Kulala – ma

ora ti attende la prova più difficile. Ecco due veli rossi. Uno è quello del sonno, che insieme

agli altri tre ridarà la pace alle notti di tuo marito e alle tue. L’altro è il velo del sonno

eterno, la morte. Se lo toccherai, morirai.

Oda stavolta non esitò e ne scelse subito uno. Era proprio quello del sonno. Lo mise sul

capo e subito cadde addormentata. Quando si svegliò, Kulala la guardava sorridente e le

porgeva una tazza di hakarà caldo.

– Mi hai sorpreso, donna del fiume. Con quale magia hai riconosciuto il velo del sonno,

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il più misterioso di tutti?

– Nessuna magia – disse la donna – ho lavato per tanti anni i panni nel fiume, e so

riconoscerli. Il velo del sonno era più consumato perché viene usato per tante volte e tante

notti. Il velo della morte era più nuovo, poiché si usa una volta sola.

Kulala rise e con un soffio la fece volare fino alla soglia della sua capanna. Oda mise i

quattro veli sulla testa del marito e quello finalmente dormì, e fu salvo.

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GIUSEPPE PONTREMOLI (1955–2004) AUTOPRESENTAZIONE In Rabbia Birabbia, Nuove Edizioni Romane, 1991.

A me piace molto il mare. E mi piace anche se a Milano, dove lavoro, il mare proprio

non c’è – non ce n’è nemmeno l’ombra, e neppure il sudore. E anche a Sesto S. Giovanni,

dove abito, e a Parma, dove sono nato, sempre la stessa storia; mare niente, né qui né lì né

là. E comunque il mare mi piace. Però c’è un problema; io non so nuotare, e così tutte le

volte che vado al mare combino qualche guaio. Una volta, per esempio, al mare ho

conosciuto un uomo una donna e una bambina e, parlando parlando, ho detto loro che di

mestiere faccio il maestro. A sentire questa notizia l’uomo e la donna erano allegri e

incuriositi; la bambina invece ha detto «Ecco, rovinata la serata». A me è dispiaciuto molto;

da allora, dato che non voglio rovinare a nessuno né le serate né le giornate, non dico più

che faccio il maestro, e così non lo dirò nemmeno qui. No, non lo dirò, mi terrò la notizia

come un imbarazzante segreto.

Il mare, però, non è la cosa che mi piace di più. Più di tutto mi piacciono il vento, la

musica e le storie. Storie ne leggo proprio tante; le leggo e le rileggo e poi le racconto anche

in giro. E quando ce n’è qualcuna che mi sembra bellissima ne parlo e ne scrivo. Così,

leggendo leggendo, in una storia raccontata da un bravissimo narratore che si chiama Isaac

Bashevis Singer, ho trovato alcune parole di cui mi piace servirmi per dire come sono io: «Si

avvicinava ormai ai trentacinque anni, ma la sua irrequietezza non accennava a calmarsi».

Basta, mi fermo qui, perché non vorrei che vi venisse una barba come la mia. Ah,

dimenticavo di dire che certe poche volte porto gli occhiali, e forse me ne dimenticavo

perché spesso dimentico di infilarli; e forse me ne dimentico perché non mi piace metterli;

e forse non mi piace metterli perché… No, no, avevo già detto “basta” e poi, tra l’altro,

questa è un’altra storia.

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BARBARA GARLASCHELLI (1965) ADELAIDE BREME E FIGLIA In O ridere o morire, Marcos y Marcos 1995.

Adelaide Breme era bella, ricca e intelligente. Era iscritta al club esclusivo Amici del

polo, giocava tutte le domeniche a golf e tutti i giovedì a bridge dalla contessa Marini.

Si era laureata in Bocconi con il massimo dei voti e aveva fatto una brillante nonché

fulminante carriere.

Tutti gli aggettivi utilizzati dalla gente per descrivere Adelaide Breme erano

accompagnati da un avverbio. Tremendamente affascinante. Sorprendentemente arguta.

Prodigiosamente abile. Meravigliosamente dolce. Amorevolmente vezzosa.

All’età di venticinque anni si era sposata con il secondogenito di un’illustre famiglia di

possidenti brasiliani e nella terra del consorte si era trasferita.

Colà, Adelaide Breme possedeva una fazenda, quindici servitori di vari colori, due

cuochi, una segretaria, due giardinieri.

Era magnanima ma intransigente. Sapeva regalare decide di suoi abiti dismessi alle

cameriere ma sapeva licenziare sui due piedi un giardiniere per aver troppo innaffiato le

orchidee.

Piangeva ascoltando la Cavalleria Rusticana di Mascagni e rideva guardando le

comiche di Charlot. Era ammirata ma temuta, adulata ma con discrezione.

Adelaide Breme a trent’anni ebbe una figlia che chiamò Giuditta in onore della suocera

defunta. Giuditta era cagionevole di salute, pallida e con due grandi occhi sporgenti.

Non imparò mai a giocare a bridge. Odiava il golf e non voleva andare a cavallo. Non

avrebbe mai giocato a polo.

Giuditta non amava Mascagni e detestava Charlie Chaplin.

Chiacchierava con la servitù e aiutava i giardinieri ad innaffiare le orchidee.

Tutti gli aggettivi utilizzati dalla gente per descrivere Giuditta iniziavano con la “i”.

Inetta. Indolente. Introversa. Insipida. Imbarazzante.

Adelaide era bella, seducente e abile giocatrice di scacchi.

Giuditta era bruttina, scipita e non sapeva nemmeno giocare a dama.

Ma sapeva sparare.

E aveva un’ottima mira.

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BARBARA GARLASCHELLI (1965) UN COLPO BEN ASSESTATO In O ridere o morire, Marcos y Marcos 1995.

Due pallottole non sempre uccidono.

L’ho colpito puntando l’arma dritta al cuore. Ma lui si è mosso e io non ho mai avuto

una buona mira. Il prima colpo lo ha ferito al braccio sinistro, il secondo si è conficcato nella

credenza del Settecento di sua madre. Poco male. L’ideale, però, sarebbe stato che al posto

del mobile ci fosse una madre nonché mia adorata suocera.

L’aspetto seccante di tutta questa faccenda è la patetica assenza di originalità: mio

marito completamente fagocitato da sua madre, sua alleata e consigliera. L’ha spinto a

tradirmi con la mia migliore amica. Più bella, più giovane, più magra, più laureata, più ricca.

Più.

Quando l’ho affrontato non ha nemmeno tentato di negare. Non per più di cinque

minuti almeno. Ha dilatato gli occhi in una sorta di ingenuo pentimento poi mi ha giurato

che è stata l’avventura di una notte e che ama solo me.

Siamo sposati da cinque anni, ma tra noi due nemmeno una notte è stata

un’avventura.

Mi ha promesso di portarmi in crociera, così, solo io e lui. Mi ha rigiurato che io sono

l’unica donna della sua vita. “Chiedilo alla mamma se non parlo sempre di te”.

Gli credo.

Per questo ho preso la pistola.

Solo che lui, nonostante la pinguedine e la totale mancanza di allenamento, è stato

sorprendentemente agile.

Ha schivato i due colpi, non del tutto ma abbastanza per cominciare a correre. Si è

precipitato in giardino facendo i gradini due alla volta, ha saltato con un balzo il nipote della

portinaia seduto per terra a giocare con secchiello e paletta, ha quasi travolto il postino, ha

attraverso la strada a grandi falcate ed è scomparso nel parco davanti casa.

In questo momento i poliziotti hanno finito di leggermi i miei diritti che sono più

numerosi di quanto mi aspettassi.

Mi sento comunque appagata.

Due pallottole non sempre uccidono.

L’infarto sì.

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BARBARA GARLASCHELLI (1965) IPOCONDRIA In O ridere o morire, Marcos y Marcos 1995.

Federica aveva una spiccata diffidenza verso qualsiasi genere di medicinale ma

provava un morboso fascino per qualsiasi malattia. Essendo queste due caratteristiche

palesemente l’una in contraddizione con l’altra, trascorreva la maggior parte del tempo

assillata da disturbi misteriosi e, secondo lei, letali che rovinavano la sua esistenza e la mia,

suo medico curante.

Non poteva prendere nessun tipo di farmaco perché era allergica pressoché a tutto,

fuorché alle caramelle balsamiche che assumeva per qualunque malanno, della faringite al

mal ai piedi alla stitichezza.

Era la persona sana più cagionevole di salute che conoscessi. I suoi esami erano

perfetti, da far invidia ad un atleta olimpionico, eppure soffriva in modo penoso.

Un giorno, in preda ad una pietà pari solo al desiderio di strangolarla, dopo anni di

disparate telefonate notturne, le dissi: - Sì, Federica, devo dirtelo, la tua situazione è grave.

Si buttò sotto un camion il giorno successivo.

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ALDO NOVE (1967) MARTA RUSSO1 In Superwoobinda, Einaudi 1998.

Io sono una ragazza che per un anno ero sempre sui giornali. Sono una fotografia che

avete visto tutti. Sono la notizia che aspettavate. Sono stata meritoria della vostra

attenzione. Sono stata la notizia che avete consumato.

Sono stata un giallo irresolubile.

Ho abitato nei vostri pensieri un poco al giorno. Un poco ogni tanto. Vi siete interessati

a me. Vi siete interessati alla mia testa. Vi siete occupati di quello che avevo dentro. Di chi

ce l’avesse messo. Dell’esplosione che a un certo punto ha messo nella mia testa quello che

è entrato, che dentro la mia testa è entrato. Che spezzato in più frammenti ha sbriciolato

un pezzo del mio cervello.

Camminavo, e dopo basta.

Dopo rumore metallico di sangue la mia vita nella cronaca la leggete, la mia morte.

Come un fiore fragile mi sono accasciata senza un gemito.

Mi chiamo Marta Russo.

Sono una studentessa di giurisprudenza e cammino.

Sono un caso chiuso dal procuratore aggiunto.

1 Il racconto attinge a un terribile fatto di cronaca, oggetto di molte polemiche e di una vasta attenzione mediatica. Marta Russo era una studentessa ventiduenne iscritta alla Facoltà di Giurisprudenza dell’Università La Sapienza di Roma; la mattina del 9 maggio 1997, mentre passeggiava con un amica in un vialetto interno all’Università, fu centrata alla testa da un proiettile sparato a distanza e morì pochi giorni più tardi al Policlinico Umberto I. Le indagini si mostrarono subito delicate e complesse, per la particolarità della scena del delitto e per il sospetto che potesse trattarsi di un omicidio politico, da collegarsi a una ripresa della strategia della tensione e più in particolare alla vittoria della destra nelle elezioni delle rappresentanze studentesche dell’Ateneo. Sulla base degli accertamenti eseguiti, gli inquirenti giunsero poi alla conclusione che il colpo fosse partito da una finestra dell’Istituto di Filosofia del diritto della Facoltà di Giurisprudenza. Le testimonianze rese, non senza ambiguità e contraddizioni, dal personale docente e non docente dell’Istituto e da alcuni studenti portarono infine all’incriminazione di due ricercatori, Giovanni Scattone e Salvatore Ferraro, con l’accusa rispettivamente di omicidio colposo e di favoreggiamento. Entrambi non hanno mai smesso di proclamarsi innocenti, e non sono poche le ombre che gravano tuttora sul quadro probatorio.

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Sono la fidanzata di Luca.

Sono una folla che si raduna.

Sono il rumore di uno sparo.

Sono ancora viva.

Sono trasportata in ospedale.

Sono l’oggetto di un’intervista a Laura Grimaldi. Sono un ronzio che non finisce. Sono

quello che nessuno ha visto. Sono chiusa nel box. Sono nella sezione nell’occhiello nel

palinsesto nell’intervista nell’intervento nella didascalia. Sono un caso irresolubile. Sono

l’impiego di ottanta poliziotti 70 telefoni sotto controllo decine di intercettazioni ambientali

sono la richiesta del Sisde di collaborare al caso. Sono assimilabile, dal punto di vista

giornalistico, a Simonetta Cesaroni. Sono l’oggetto di una discussione sul garantismo. Sono

queste parole che state leggendo. Sono un vocabolo che si trova con il motore di ricerca

digitando marta + russo. Sono nella Rete. Sono un caso. Sono stata ricostruita da Corrado

Augias. Sono stata soccorsa da un impiegato della ditta di pulizie. Sono delle grida

nell’androne. Sono sul piano emotivo meno coinvolgente di Alfredino Rampi. Sono nove

pagine prima dello sport. Sono impaginata sopra l’impiego dei militari a Napoli. Sono 128

interviste 122.000.000 di battute. Sono ricoverata al Policlinico. Sono lo sconforto di Luca

che rompe il silenzio che dice che potevamo fare tante cose insieme e invece non le

abbiamo fatte, che con me ha passato due anni bellissimi. Sono sorella di Tiziana Russo che

intervistata dal settimanale «Oggi» ha detto che a cinque anni nostro padre che era

maestro di fioretto mi aveva iscritta a un corso di scherma. Sono figlia di un maestro di

scherma.

Sono stata l’oggetto delle dichiarazioni di una donna sui trent’anni, meridionale, già

laureata ma che continua a studiare Statistica in Università. Sono la morte silenziosa che ha

fatto incriminare i due assistenti di Filosofia del diritto Salvatore Ferraro e Giovanni

Scattone. Sono la condanna dei media a Salvatore Ferraro e a Giovanni Scattone. Sono

l’intervista a Jolanda Ricci sul «Corriere della Sera» dell’11 luglio 1997. Sono uno strascinato

momento di riflessione collettiva. Sono l’insidia mentale di una motivazione che sfugge.

Sono una rassegna stampa. Sono due ragazzi che dopo l’attentato sono usciti dalla parte di

Scienze politiche correndo via. Sono un via vai di risoluzione e riaperture.

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Sono morta dopo quattro ore di coma il 12 maggio dell’anno scorso alle ore 22.

Sono la causa dell’arresto del direttore dell’Istituto di Filosofia del diritto Bruno

Romano, accusato dall’assistente Maria Chiara Lipari di aver coperto i colpevoli del mio

delitto. Sono la causa dell’arresto per reticenza dei dipendenti dell’università in cui mi

hanno ucciso Maria Urilli e Maurizio Basciu. Sono la protagonista di una canzoncina scritta

sulla sua agenda da Salvatore Ferraro, allegata alle prove giudiziarie. Sono l’elemento che

ha fatto cadere l’attenzione sull’elenco di donne con accanto particolari sulla loro

biancheria intima ritrovato in casa di Giovanni Scattone.

Sono la perizia balistica ripetuta dai periti.

Sono un vuoto incolmabile.

Sono la fame di mostri dei lettori.

Sono la vostra fame.

Sono una nota in cronaca sempre più esile.

Sono il movente della dichiarata volontà di suicidio di Salvatore Ferraro. Sono il

possibile soggetto per un film. Sono il trambusto nella redazione dei giornali le due colonne

che stanno per arrivare. Sono un indagato messo in prigione con la speranza che confessi.

Sono l’ombra inquieta di un paese civile. Sono un caso giudiziario risolto in quattro e

quattr’otto rivelato poi sbagliato sono una sequenza di innocenti messi alla gogna sono la

riabilitazione che non trova spazio.

Se avessi vissuto di più mi sarei dedicata al Telefono azzurro.

Se avessi vissuto avrei continuato a frequentare Luca. Se avessi vissuto di più non mi

sarei occupata di politica.

Se avessi vissuto di più avrei continuato a praticare la scherma.

Se avessi vissuto di più avrei progettato delle gite insieme a Francesca Zurlo,

accompagnatrice del Club scherma di Roma e mia amica intervistata da «Repubblica».

Sono Marta Russo.

Sono l’ombra inqueta di un paese civile.

Sono la ragazza innocente uccisa da un folle forse da qualcuno esaltato della vittoria

delle destre, un individuo dissennato che ha agito da solo un fantasma forse qualcuno che

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mi amava perché ero una bella ragazza per fare qualcosa per provare il brivido di un’azione

inconsulta per vedere scorrere il sangue per vedere un corpo crollare per vedere la scienza

la conciliazione per sentire parlare al telegiornale per studiare l’effetto dei giornalisti per

continuare la tensione degli inquirenti per stimolare i giornalisti a scrivere articoli

interessanti per spingere i giallisti di fama nazionale a intervenire sul caso per fare piangere

i lettori per tenere aggiornati gli ascoltatori per fare intervenire i sociologi per fare

intervistare i sociologi per continuare a parlare per considerare per occupare spazio.

Sono Marta Russo

Sono morta il 12 maggio del 1997.

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