L’altro Barça - Senza Soste€¦ · Barça, non ha mai vinto niente di importante a livello...

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Periodico livornese indipendente - Anno XI n. 119 - Ottobre 2016 OFFERTA LIBERA Poste italiane S.p.A. Spedizione in Abb. Post. 70% Regime libero aut. cns/cbpa/centro1 Validità dal 05/04/2007 www.senzasoste.it La fine del mondo già conosciuta NIQUE LA POLICE S e esiste un esercizio difficile in politica si chiama andare oltre la punta del proprio naso. Esercizio difficile anche su altri terreni ma, da qualche parte, qualcuno nella società dovreb- be pur guardare lontano, senza timore. Qualsiasi sia l’esito di fronte allo sguardo preoccupa- to e curioso del politico. Inol- tre, guardando la politica oggi, quella istituzionale, si rimane sorpresi da quanto valga, an- cora oggi, il peso delle illusio- ni, delle vanità, delle favole e, persino, della presunzione delle cospirazioni. Del resto questa è ancora la società delle masse. Quella in cui la razionalità in- dividuale si perde nel momento in cui il collettivo sbanda. Avve- niva ai tempi di LeBon avviene sui social network. E in attesa, perché nella storia occasioni ci sono per tutti, che il collettivo e il politico trovino saggezza, una bella descrizione: della fine del mondo come l’avete già cono- sciuta. Cosa si preferisce? Un mondo con tassi bassi? Le sue patologie sono note. Uno dove si alzano i tassi? Anche qui cosa può accadere all’Italia è chiaro. Nel primo caso l’Italia sarebbe preda della volatilità, scatena- ta da capitai globali: attacco alla borsa, alle banche, ai beni pubblici che fruttino un qualche interesse. Nel secondo, esplo- sione del debito pubblico causa aumento generalizzato tassi in- teresse. E la mitica crescita? In un continente con un alto tasso di invecchiamento come il no- stro la crescita, ammesso e non concesso che questa espressione abbia un senso, è strutturalmen- te bassa. Un punto di media di Pil per una trentina d’anni. Quindi l’economia come la co- nosciamo, che comunque porta problemi anche quando funzio- na, non risolverà nessuna delle criticità strutturali che abbiamo davanti. Quindi è inutile scru- tare il cielo o le interiora di un capretto: la fine del mondo si è già vista. Sarà una radicalizza- zione degli effetti dei tassi bassi o dei rialzi decisi, magari dopo le presidenziali, dalla Fed. Sarà una precipitazione degli effetti recessivi o di quelli della bas- sa crescita. Tutto prevedibile. Come il mare di chiacchiere che accompagnerà gli eventi. E qui cosa è importante? Sapere già da oggi che esiste un giorno del- la quiete. Quello in cui la polve- re, in silenzio, torna a poggiarsi sulle macerie sfinite dal crollo. E da lì ricominciare a costruire. Dopo le tante (troppe) bocciature nel concorso, la scuola riparte a regime ridotto. Per gli otto milioni di studenti, classi accorpate, mancanza di personale e orari ridotti. Il mini- stero emana una “riforma”a ogni cambio di governo, producendo provvedimenti spes- so in contrasto tra loro, ma in ogni caso sempre accomunati dalla logica del risparmio. IMMA CARDATO A nche quest’anno è iniziata la scuola e, al di là della rappre- sentazione patinata dei servizi del tg1 delle 20 sui nonni che accom- pagnano i bambini in prima ele- mentare, chiunque metta effettiva- mente piede in una scuola – alun- ni, genitori, docenti e personale non docente – si ritrova in mezzo al caos più completo. In moltissi- me scuole orario ridotto, ricambio di insegnanti, via vai di supplenti. Fioccano le denunce delle famiglie di studenti disabili, che in alcuni casi sono addirittura stati costretti a rimanere a casa per la mancanza di insegnanti di sostegno. Per molti non addetti ai lavori è spesso difficile capire le ragioni di questo caos ricorrente, e spes- so lo è anche per chi nella scuo- la ci lavora, perché si tratta di un ingarbugliato sistema di punteggi e graduatorie e di una burocra- zia bizantina, gestiti da un mini- stero che emana una “riforma” a ogni cambio di governo, pro- ducendo provvedimenti spesso in contrasto tra loro, ma in ogni caso sempre accomunati dalla lo- gica del risparmio. Pochi soldi e pochissima lungimiranza. Questo settembre però il caos stupisce ancor di più perché arri- va dopo una massiccia tornata di assunzioni, le immissioni in ruolo dei precari storici a seguito della sentenza europea che ha condan- nato l’Italia per l’abuso dei contrat- ti a tempo determinato. E soprat- tutto arriva dopo un concorso che avrebbe dovuto immettere in ruolo più di 60mila docenti. Un concor- so che lo scorso febbraio il premier Renzi e la ministra Giannini ave- vano presentato come il toccasana contro la “supplentite” e come una nuova procedura selettiva all’avan- guardia e all’insegna della qualità. Eppure oggi ci ritroviamo ancora con circa 100mila supplenti previsti per l’anno scolastico 2016/2017. Per capire come ciò sia stato pos- sibile, è forse bene ripercorrere le tappe di questo concorso, che da molti è stato rinominato a ra- gione “concorso truffa” e che è solo uno dei tanti emblemi di quale idea della scuola pubbli- ca caratterizzi la sciagurata leg- ge 107, alias Buona Scuola. Il bando è uscito con il consueto, nostrano, ritardo, cioè a fine feb- braio, con prove scritte da svolgersi durante il mese di maggio. È par- tita dunque una maratona nelle varie regioni, alle quali era affidata tutta la gestione delle procedure, per far partire una macchina or- ganizzativa complicatissima, sia per l’allestimento di una prova computerizzata (conosciamo tut- ti lo stato delle aule informatiche nelle nostre scuole), sia per il re- perimento delle commissioni. Sì, perché il Miur, dopo aver delegato alle scuole gli oneri della logistica, ha preteso anche che i commissari si prestassero ad un lavoro sovru- mano (per alcune classi di concor- so i candidati erano nell’ordine del migliaio) senza essere esonerati dall’orario normale in classe e per una paga a cottimo di 50 centesi- mi a compito corretto. Ovvio che nessuna persona sana di mente si prenderebbe una tale responsabili- tà con una procedura organizzata così in fretta e male, e per di più per pochi spiccioli. Così gli Uffici Scolastici Regionali sono stati co- stretti a raschiare il fondo del ba- rile, a contattare personalmente i potenziali commissari, addirittura a offrire l’incarico a chi aveva a malapena i requisiti per ottener- lo, magari facendo valere antichi favori o promettendo misere ri- compense accessorie in termini di prestigio e piccoli vantaggi la- vorativi per chi accettava. In questo clima già poco promet- tente, sono cominciate a maggio le prove scritte per i 180mila can- didati. Facendo la proporzione tra numero dei candidati e numero dei posti a bando (60mila) si nota già un’anomalia profonda di questa procedura, e cioè l’altissimo nume- ro di posti rispetto ai candidati; in alcune regioni e per determinate classi di concorso, i candidati era- no addirittura meno dei posti di- sponibili. Questo perché il bando prevedeva la partecipazione per i soli abilitati all’insegnamento, cioè coloro che già hanno segui- to corsi appositi per l’abilitazione (TFA e PAS), con centinaia di ore di lezioni e tirocini specifici e nu- merosi esami per ottenere il titolo. Corsi pagati migliaia di euro alle Università, per accedere ai quali, nel caso del TFA, i partecipanti hanno già superato una procedu- ra selettiva nazionale. Dal bando sono stati invece esclusi i neolau- reati e tutti coloro che, pur senza abilitazione, insegnano da anni nelle scuole italiane. Perché mette- re in moto una procedura concor- suale nazionale, riservandola solo a chi ha già dimostrato di essere preparato nella propria disciplina e idoneo all’insegnamento otte- nendo l’abilitazione? E perché non concedere la possibilità di la- vorare nella scuola a chi si è appe- na laureato o a chi nella scuola la- vora da precario ormai da anni? Mettendo un attimo da parte queste domande, torniamo alle prove scritte. Gli aspiranti docen- ti si sono trovati di fronte a delle richieste impossibili, a partire dai quesiti in... (continua a pagina 3) #Bocciato

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Periodico livornese indipendente - Anno XI n. 119 - Ottobre 2016 OFFERTA LIBERAPoste italiane S.p.A. Spedizione in Abb. Post. 70%

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Pagina OttoAnno XI - n. 119 - Ottobre 2016

SUDAMERICA - In Ecuador, a Guayaquil, esiste un altro Barcellona ed è la squadra più popolare e vincente del paese. La scelta del nome è un omaggio al club catalano. Ma i rapporti tra le due società sembrano essersi irrimediabilmente incrinati.

TITO SOMMARTINO

La visione marcatamente eu-rocentrica che abbiamo in

Italia fa sì che vengano trasmes-se in tv partite disputate davanti a tremila spettatori, come avvie-ne spesso in campionati privi di alcun appeal come quello olan-dese o quello belga, ma che non si dedichi nemmeno un highlight, né mezza pagina di giornale a match capaci di convogliare cen-tomila persone allo stadio e bloc-care interi paesi davanti alla tv come spesso accade in America Latina. Ciò fa sì che in Italia la stragrande maggioranza dei cal-ciofili neanche sia a conoscenza dell’esistenza di veri e propri fe-nomeni sportivi e sociali di mas-sa. A diecimila km dalla capitale ca-talana, ad esempio, esiste un al-tro Barcellona. Ha sede a Guaya-quil, in Ecuador, e come quello blaugrana è anch’esso una poli-sportiva che trova nel calcio la massima espressione popolare. A differenza del plurititolato Barça, non ha mai vinto niente di importante a livello interna-zionale avendo soltanto sfiorato la Libertadores in due occasioni. Questo però non toglie che il Barcelona Sporting Club, da tut-ti conosciuto semplicemente come il Barcelona, sia ricono-sciuto in patria come una vera e propria istituzione che travalica l’aspetto puramente sportivo. Negli anni ’80, nella curva Sud dell’Olimpico, uno striscione re-citava: “La Roma non si discute, si ama”. A Guayaquil, e in gene-rale in tutto l’Ecuador, il Barce-lona si ama. E chi non lo ama non si accontenta di discuterlo. Lo odia proprio, visceralmente. Non solo gli eterni rivali cittadi-ni dell’Emelec, ma i tifosi di tutti gli altri club. Un po’ come succe-de in Italia con la Juve, in Spa-gna col Real Madrid o in Ger-mania col Bayern. Però andiamo piano, perché le analogie con le Juventus d’Europa finiscono qua. A Guayaquil, come del re-sto in quasi la totalità degli stadi del Sudamerica, si respira anco-ra passione autentica, i tifosi non sono meri clienti, il merchandi-sing è ancora una voce pressoché sconosciuta. Il Barcelona, poi, ha una peculiarità particolare: uno stadio stupendo, oltre che caldissimo e traboccante di colo-re ed entusiasmo. Lo stadio L’Estadio Monumental Isidro Romero Carbo è così denomina-to in onore di un Berlusconi ecuadoriano che dopo aver fatto una valanga di soldi ha dappri-ma comprato il club, poi finan-ziato parte della costruzione del-lo stadio stesso e infine si è dato alla politica nelle fila di un parti-to di destra di ispirazione cattoli-ca. A dispetto della persona di cui porta il nome è uno stadio meraviglioso, secondo molti il più bello del continente. Bello nel senso di “maggior fascino”, prescindendo da quei canoni di sicurezza, fruibilità e “vivibilità”

che nel mondo occidentale hanno trasformato gli stadi in moderni teatri stellati e i tifosi in sagome viventi. Chi ha avuto la fortuna di vedere un Barcelona-Emelec lo racconta come un incomparabile spettacolo sugli spalti dove tutto è eccesso: la passione, il colore, il delirio e anche la violenza. Archi-tettonicamente, lo stadio consta di due tribune gemelle semi circo-lari sormontate da una serie di palchi per stampa e autorità che corrono per tutta la lunghezza di entrambe le tribune. Le due cur-ve, la casa della tifoseria organiz-zata, si chiamano “General”, sono scoperte e su due livelli. Quello inferiore della General Norte viene solitamente riservata ai sostenitori ospiti. Il Clásico del Astillero Santiago de Guayaquil, più nota solo come Guayaquil, conta più di 3.700.000 abitanti (compresa l’area metropolitana) ed è la città più grande e popolata del paese. Grazie alle attività legate al por-to, in primis la cantieristica, si è trasformata rapidamente nel cen-tro commerciale più importante dell’Ecuador e sta vivendo anni di continuo e crescente sviluppo che attira lavoratori da altre pro-vince ecuadoriane e dai paesi li-mitrofi. Per questa ragione il der-by tra le due squadre di Guaya-quil, il Barcelona e l’Emelec, è noto come El Clásico del Astillero (in spagnolo l’astillero è il cantiere navale). Entrambe le squadre sono state fondate in epoca relati-vamente recente (il Barcelona nel 1925, l’Emelec nel 1929) e, cosa abbastanza rara, nello stesso quartiere della città, il barrio de

Perché Barcelona Tutto inizia il 1° maggio 1925 quando un gruppo di ragazzi co-nosciuti come “La gallada de La Modelo” (un liceo tecnico di Guayaquil) presero l’abitudine di frequentare un parco cittadino per praticare diversi sport, tra cui il calcio. Il leader della compa-gnia, tale Manuel Murillo, lavo-rava con diversi commercianti catalani e dall’amicizia tra i due gruppi nacque una squadra di calcio. Inizialmente la squadra, che ancora non aveva un vero e proprio nome, giocava nelle stra-de e nei parchi del quartiere. A dargli il nome di Barcelona Spor-ting Club fu il catalano Eutimio Pérez, fervente tifoso del Barça. Con lui, alla fondazione, parteci-parono anche l’uruguaiano Mog-gia e gli italiani Bruno, Vincenzi-ni e Cassinelli. Il club si strutturò in modo solido soltanto nel 1940 quando iniziò a vincere partite contro club già epici quali i Mil-lionarios di Bogotà, all’epoca la squadra più forte del continente, che contava su autentici fuori-classe del calibro di Pederna, Rossi e soprattutto Di Stefano, quest’ultimo poi diventato un’i-cona del Real Madrid, ma anche l’Estudiantes di Mar del Plata. FC Barcelona e Barcelona SC hanno giocato tre volte e il bilan-cio è in perfetta parità con un pa-reggio e una vittoria per parte. Fu proprio il Barça a inaugurare il Monumental nel 1988 e in quell’occasione vinse la squadra di Guayaquil per 2-1. Curiosa-mente, però, la prima maglia del Barcelona S.C. era a strisce bian-che e nere verticali con pantalon-

l’astillero, appunto. Il Barcelona nasce in un liceo, la Escuela 9 de Octubre, mentre l’Emelec nelle strutture della Empresa Eléctrica del Ecuador (da qui l’acronimo Em.El.Ec.). Il primo derby tra le squadre avvenne il 22 agosto 1943 nell’allora Guayaquil Sta-dium dove il Barcelona vinse per 4-3. Dopo alcune gare, che hanno aumentato la popolarità di Barce-lona ed Emelec, i tifosi di Guaya-quil cominciarono a esprimere la loro simpatia e la loro antipatia per ognuna delle due squadre: la partita assunse così sempre mag-giore importanza. Nel 1948, il duello venne definito Clásico del Astillero, su iniziativa del Diario El Universo, un giornale ecuado-riano. Ma il Clásico, essendo tifo visce-rale e spesso ragione di vita, è an-che violenza. Il 30 aprile 2006, sul risultato di 3-0 al 6’ della ri-presa, i tifosi del Barcelona si rendono protagonisti di gravi taf-ferugli nella curva San Martín dello stadio Capwell. Il primo lancio di oggetti sul campo feri-sce seriamente un guardalinee. La battaglia che ne segue provoca 40 feriti e nove arresti. Ma l’epi-sodio più grave avviene l’anno successivo quando Carlos Ce-deño Veliz, undicenne tifoso dell’Emelec che si trovava allo stadio con i genitori, muore pri-ma 20 minuti prima dell’inizio del derby dopo essere stato colpi-to da un petardo lanciato dalla curva Sud (Sur Oscura) dove era-no ospitati i tifosi del Barcelona. L’esplosione della bomba lo col-pisce in petto, ledendo i polmoni e parte del cuore.

cini e calzettoni bianchi. Solo più tardi uno dei catalani che fondò il club impose di cambiare le maglie scegliendo i colori del-la senyera catalana: gialla con collo rosso (con pantaloni e cal-zettoni neri che però niente c’entrano con la bandiera catala-na). Lo stemma del club ecuadoriano, invece, è identico al logo di quello catalano.I rap-porti tra i due Barcelona si sono però deteriorati nel 2013, quan-do il Barça ha avviato la proce-dura per registrare il nome del club nel paese latino-americano, cosa che l’omonimo locale non ha gradito affatto. La richiesta del club catalano è supportato da una serie di leggi internazionali e della Convenzione di Parigi (1885) e fa riferimento al princi-pio di territorialità registrati in altri paesi. Da parte sua, il Bar-celona de Guayaquil ha presen-tato ricorso per evitare che una società straniera registrata in Ecuador leda i propri diritti. Se-condo il direttore dell’Istituto ecuadoriano di Proprietà Intel-lettuale, Andrés Ycaza Mantilla, il Barça lo può fare perché all’e-poca in cui è stato registrato il Barcelona Sporting Club, il Bar-celona F.C. non solo era già co-nosciuto in Ecuador, ma qualcu-no decise persino di registrare la squadra di Guayaquil mutuando il nome dal club catalano.

L’altro Barça

La fine del mondogià conosciuta

NIQUE LA POLICE

Se esiste un esercizio difficile in politica si chiama andare

oltre la punta del proprio naso. Esercizio difficile anche su altri terreni ma, da qualche parte, qualcuno nella società dovreb-be pur guardare lontano, senza timore. Qualsiasi sia l’esito di fronte allo sguardo preoccupa-to e curioso del politico. Inol-tre, guardando la politica oggi, quella istituzionale, si rimane sorpresi da quanto valga, an-cora oggi, il peso delle illusio-ni, delle vanità, delle favole e, persino, della presunzione delle cospirazioni. Del resto questa è ancora la società delle masse. Quella in cui la razionalità in-dividuale si perde nel momento in cui il collettivo sbanda. Avve-niva ai tempi di LeBon avviene sui social network. E in attesa, perché nella storia occasioni ci sono per tutti, che il collettivo e il politico trovino saggezza, una bella descrizione: della fine del mondo come l’avete già cono-sciuta. Cosa si preferisce? Un mondo con tassi bassi? Le sue patologie sono note. Uno dove si alzano i tassi? Anche qui cosa può accadere all’Italia è chiaro. Nel primo caso l’Italia sarebbe preda della volatilità, scatena-ta da capitai globali: attacco alla borsa, alle banche, ai beni pubblici che fruttino un qualche interesse. Nel secondo, esplo-sione del debito pubblico causa aumento generalizzato tassi in-teresse. E la mitica crescita? In un continente con un alto tasso di invecchiamento come il no-stro la crescita, ammesso e non concesso che questa espressione abbia un senso, è strutturalmen-te bassa. Un punto di media di Pil per una trentina d’anni. Quindi l’economia come la co-nosciamo, che comunque porta problemi anche quando funzio-na, non risolverà nessuna delle criticità strutturali che abbiamo davanti. Quindi è inutile scru-tare il cielo o le interiora di un capretto: la fine del mondo si è già vista. Sarà una radicalizza-zione degli effetti dei tassi bassi o dei rialzi decisi, magari dopo le presidenziali, dalla Fed. Sarà una precipitazione degli effetti recessivi o di quelli della bas-sa crescita. Tutto prevedibile. Come il mare di chiacchiere che accompagnerà gli eventi. E qui cosa è importante? Sapere già da oggi che esiste un giorno del-la quiete. Quello in cui la polve-re, in silenzio, torna a poggiarsi sulle macerie sfinite dal crollo. E da lì ricominciare a costruire.

Dopo le tante (troppe) bocciature nel concorso, la scuola riparte a regime ridotto. Per gli otto milioni di studenti, classi accorpate, mancanza di personale e orari ridotti. Il mini- stero emana una “riforma” a ogni cambio di governo, producendo provvedimenti spes-so in contrasto tra loro, ma in ogni caso sempre accomunati dalla logica del risparmio.

IMMA CARDATO

Anche quest’anno è iniziata la scuola e, al di là della rappre-

sentazione patinata dei servizi del tg1 delle 20 sui nonni che accom-pagnano i bambini in prima ele-mentare, chiunque metta effettiva-mente piede in una scuola – alun-ni, genitori, docenti e personale non docente – si ritrova in mezzo al caos più completo. In moltissi-me scuole orario ridotto, ricambio di insegnanti, via vai di supplenti. Fioccano le denunce delle famiglie di studenti disabili, che in alcuni casi sono addirittura stati costretti a rimanere a casa per la mancanza di insegnanti di sostegno. Per molti non addetti ai lavori è spesso difficile capire le ragioni di questo caos ricorrente, e spes-so lo è anche per chi nella scuo-la ci lavora, perché si tratta di un ingarbugliato sistema di punteggi e graduatorie e di una burocra-zia bizantina, gestiti da un mini-stero che emana una “riforma” a ogni cambio di governo, pro-ducendo provvedimenti spesso in contrasto tra loro, ma in ogni caso sempre accomunati dalla lo-gica del risparmio. Pochi soldi e pochissima lungimiranza. Questo settembre però il caos stupisce ancor di più perché arri-va dopo una massiccia tornata di

assunzioni, le immissioni in ruolo dei precari storici a seguito della sentenza europea che ha condan-nato l’Italia per l’abuso dei contrat-ti a tempo determinato. E soprat-tutto arriva dopo un concorso che avrebbe dovuto immettere in ruolo più di 60mila docenti. Un concor-so che lo scorso febbraio il premier Renzi e la ministra Giannini ave-vano presentato come il toccasana contro la “supplentite” e come una nuova procedura selettiva all’avan-guardia e all’insegna della qualità. Eppure oggi ci ritroviamo ancora con circa 100mila supplenti previsti per l’anno scolastico 2016/2017. Per capire come ciò sia stato pos-sibile, è forse bene ripercorrere le tappe di questo concorso, che da molti è stato rinominato a ra-gione “concorso truffa” e che è solo uno dei tanti emblemi di quale idea della scuola pubbli-ca caratterizzi la sciagurata leg-ge 107, alias Buona Scuola. Il bando è uscito con il consueto, nostrano, ritardo, cioè a fine feb-braio, con prove scritte da svolgersi durante il mese di maggio. È par-tita dunque una maratona nelle varie regioni, alle quali era affidata tutta la gestione delle procedure, per far partire una macchina or-ganizzativa complicatissima, sia per l’allestimento di una prova computerizzata (conosciamo tut-

ti lo stato delle aule informatiche nelle nostre scuole), sia per il re-perimento delle commissioni. Sì, perché il Miur, dopo aver delegato alle scuole gli oneri della logistica, ha preteso anche che i commissari si prestassero ad un lavoro sovru-mano (per alcune classi di concor-so i candidati erano nell’ordine del migliaio) senza essere esonerati dall’orario normale in classe e per una paga a cottimo di 50 centesi-mi a compito corretto. Ovvio che nessuna persona sana di mente si prenderebbe una tale responsabili-tà con una procedura organizzata così in fretta e male, e per di più per pochi spiccioli. Così gli Uffici Scolastici Regionali sono stati co-stretti a raschiare il fondo del ba-rile, a contattare personalmente i potenziali commissari, addirittura a offrire l’incarico a chi aveva a malapena i requisiti per ottener-lo, magari facendo valere antichi favori o promettendo misere ri-compense accessorie in termini di prestigio e piccoli vantaggi la-vorativi per chi accettava. In questo clima già poco promet-tente, sono cominciate a maggio le prove scritte per i 180mila can-didati. Facendo la proporzione tra numero dei candidati e numero dei posti a bando (60mila) si nota già un’anomalia profonda di questa procedura, e cioè l’altissimo nume-

ro di posti rispetto ai candidati; in alcune regioni e per determinate classi di concorso, i candidati era-no addirittura meno dei posti di-sponibili. Questo perché il bando prevedeva la partecipazione per i soli abilitati all’insegnamento, cioè coloro che già hanno segui-to corsi appositi per l’abilitazione (TFA e PAS), con centinaia di ore di lezioni e tirocini specifici e nu-merosi esami per ottenere il titolo. Corsi pagati migliaia di euro alle Università, per accedere ai quali, nel caso del TFA, i partecipanti hanno già superato una procedu-ra selettiva nazionale. Dal bando sono stati invece esclusi i neolau-reati e tutti coloro che, pur senza abilitazione, insegnano da anni nelle scuole italiane. Perché mette-re in moto una procedura concor-suale nazionale, riservandola solo a chi ha già dimostrato di essere preparato nella propria disciplina e idoneo all’insegnamento otte-nendo l’abilitazione? E perché non concedere la possibilità di la-vorare nella scuola a chi si è appe-na laureato o a chi nella scuola la-vora da precario ormai da anni? Mettendo un attimo da parte queste domande, torniamo alle prove scritte. Gli aspiranti docen-ti si sono trovati di fronte a delle richieste impossibili, a partire dai quesiti in... (continua a pagina 3)

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internazionale Anno XI, n. 119 7stile liberoOttobre 2016

tassi di recupero delle somme in-vestite pari al 21 per cento, quan-do la media su altri settori indu-striali è del 58 per cento. Proprio nei giorni scorsi però, la società energetica statunitense Apache ha annunciato la scoperta di un im-portante giacimento di petrolio e gas in Texas. Si tratta, ha scritto la stampa Usa, della maggiore sco-perta degli ultimi 10 anni. Il gia-cimento si chiama Alpine High ed è situato nel bacino del Delaware nel Texas occidentale e potrebbe contenere l’equivalente di alme-no 3 miliardi di barili di petrolio e oltre 2.000 miliardi di metri cubi di gas, ha spiegato Moody’s. Ma, in vista della riunione informale tra i membri dell’Organizzazione Opec e Russia, in programma a margine della Conferenza inter-nazionale sull’energia di Algeri, il vero osservatore speciale sarà la Cina. Se il motore energetico cinese continuerà nelle prossime settimane a perdere giri allora sarà veramente difficile cercare di rag-giungere l’equilibrio necessario a rilanciare l’industria petrolifera globale. Riad si trova quindi a far fronte ad un rallentamento del-la crescita globale, la crescita di nuovi concorrenti come il Kaza-kistan e gli Usa di fronte a nuove scoperte, e a stringenti necessità di riscossa dovute alla crisi della fi-nanza legata al petrolio. L’Arabia Saudita, uno dei paesi chiave del mondo si trova così davanti a nuo-ve crisi globali (fine prima puntata).

TERRY MCDERMOTT

Cominciamo una serie di articoli dedicati all’Arabia Saudita, pae-

se chiave non solo in Medio Oriente, sul piano geopolitico, ma anche a li-vello globale sia per la produzione di petrolio che per il ruolo nei mercati finanziari. L’Arabia Saudita, anche per una storica connivenza con gli interessi americani, è sempre rimasta nel cono d’ombra delle notizie. Eppu-re, per la crisi che sta attraversando, e anche per l’allentamento dagli inte-ressi americani, meriterebbe maggiore attenzione. Lo facciamo dedicandogli una serie di articoli. Il primo non può che riguardare il petrolio.

L’Agenzia internazionale per l’e-nergia (Aie) ha recentente lancia-to l’ennesimo allarme ribassista per il mercato del petrolio causato da un rallentamento della crescita della domanda di greggio per il 2016 e il 2017, a fronte di un’offer-ta che, invece, resta sempre trop-po alta. Nel 2016, la domanda di petrolio dovrebbe aumentare di 1,3 milioni di barili giornalieri, un dato di 100 mila barili inferiore alle ultime previsioni, mentre nel 2017 la crescita dovrebbe scende-re poi a 1,2 milioni di barili. Lo schiaffo, alle aspettative dell’Ara-bia Saudita e dei mercati globali del petrolio, arriva da Cina e In-dia che stanno già cominciando a ridurre la domanda di greggio e dall’offerta dei paesi produtto-ri non appartenenti all’Opec (il

principale cartello di produttori di greggio) come il Brasile, il Canada e il Kazakistan. Ad Astana, infatti, sono pronti a festeggiare la definitiva messa in moto – dopo anni di ritardi e una crescita esorbitante dei costi – del supergiacimento di Kashagan, che dovrebbe avvenire ad ottobre, come hanno fatto sapere dal con-sorzio che gestisce il progetto, di cui

fa parte anche l’Eni. Come si vede, quindi, non solo c’è una tendenza verso il rallentamento della doman-da globale di petrolio ma, anche, una di concorrenza verso i sauditi, che crea molte difficoltà a Riad. Ma, nonostante tutto nell’Opec proprio l’Arabia Saudita non vuole cedere lo scettro di leader del mercato alimen-tando il fuoco dell’iperofferta, come

due anni fa. Infatti ad ago-sto l’Arabia ha sorpassa-to, di nuovo, gli Stati Uni-ti come primo produttore mondiale di petrolio. Il mese scorso, sempre fon-te l’Aie, Riad ha prodotto 12,58 milioni di barili di greggio e condensati al giorno, contro i 12,2 mi-lioni degli americani: gli Stati Uniti perdono così quel primo posto conqui-stato ad aprile 2014 (pri-ma della guerra fredda del petrolio tra Usa e sauditi)grazie al boom del tight oil.Dunque, mentre i sau-diti hanno aumentato di 400 mila barili al giorno la produzione dai propri giacimenti a basso costo a partire da maggio, circa 460 mila barili americani sono usciti dalla produ-zione nel giro di un’estate. Secondo Moody’s la crisi del barile Usa si è estesa a tutto sistema finanziario che ha supportato negli anni la shale revolution

(anche se, onestamente, stupisce solo che Moody’s abbia fatto fin-ta fino ad adesso di non accorgersi di questo contagio). In uno studio sulle principali bancarotte nel set-tore petrolifero nazionale, l’agenzia di rating afferma quind. che questi fallimenti sono stati, per gli istituti di credito e gli investitori, tra i più catastrofici degli ultimi anni, con

GEOPOLITICA - Viaggio in un paese chiave nello scacchiere globale (prima puntata)

Arabia Saudita: la grande sconosciuta

RELIGIONE - La santificazione di Madre Teresa di Calcutta

Il dolore come businessNELLO GRADIRÀ

Il 4 settembre scorso in Vaticano è stata santificata la suora alba-

nese Anjezë Gonxhe Bojaxhiu, più nota come Madre Teresa di Calcutta, morta nel 1997 all’età di 87 anni, una delle icone religiose più note a livello internazionale. Secondo le regole della Chiesa cattolica, per la beatificazione occorre che il candidato sia sta-to autore di un miracolo docu-mentato, e altrettanto avviene per la santificazione. Nel caso di Madre Teresa si tratta in entrambi i casi di stupefacen-ti miracoli a distanza: era stata beatificata da Karol Wojtyla nel 2003 grazie alla guarigione di tale Monica Besra, una donna indiana che risolse improvvisamente una forma di tubercolosi dopo aver ap-poggiato sull’addome un’immagi-ne della suora. In base a un’inda-gine condotta dal governo india-no, il presunto miracolo si è rive-lato falso. La donna è stata gua-rita dalle medicine ricevute in un ospedale, e i medici della struttura dov’è stata curata hanno denun-ciato pressioni subite dalle suore per tacere. Per la santificazione è stata invece omologata la guari-gione di un brasiliano affetto da un’infezione cerebrale: la moglie

avrebbe pregato con un santino di Madre Teresa nelle mani. Quest’an-no il miracolato ha raccontato la sua esperienza al meeting di CL a Rimi-ni. Madre Teresa, trasferitasi in India appena diciottenne, fondò nel 1950 la congregazione delle “Missionarie della carità”, dirigendola con estre-mo autoritarismo, e due anni dopo aprì un piccolo ospedale da 40 posti letto, il Nirmal Hriday, destinato ai moribondi che venivano respinti da-gli ospedali pubblici. Per quanto pos-sa essere sorprendente, vista l’incre-

dibile quantità di donazioni ricevute, si tratta dell’unica struttura sanitaria costruita da Madre Teresa. Questo ospedale l’ha resa famosa in tutto il mondo, ma ha attirato durissime

critiche, provenienti anche da fonti molto autorevoli, inerenti la sua ge-stione e il trattamento dei malati. Piuttosto esplicito il settimanale tedesco Stern, che nel 1998 titolò “Madre Teresa, dove sono i tuoi milioni?” I soldi delle donazioni finivano di solito nella costruzio-ne di nuovi conventi, che in genere non forniscono alcuna assisten-za alla popolazione ma hanno solo un ruolo di proselitismo. Le note riviste mediche “Lancet” e “British Medical Journal” hanno puntato l’indice sulle terapie pra-ticate, giudicate assolutamente in-

sufficienti ed inefficaci. Si parlava di scarsa professionalità, diagnosi molto superficiali, carenti condizioni igieniche, riutilizzo di aghi con peri-colo di contagio, mancanza di acqua calda, pessima qualità del cibo: «Tra i malati incurabili finivano spesso anche poveracci che sarebbero potuti guarire con le cure appropriate, ma che finivano anche loro per morire a causa delle infezioni e dell’inedia». Qualche giornalista addirittura ha paragonato i malati di Madre Te-resa agli internati nei lager. E “Le Monde” scriveva: «La suorina alba-nese era interessata a promuovere i

suoi disumani principi dottrinali su sventurati moribondi che fini-vano nel suo ospizio, destinati a non uscirne più e a morire nella sofferenza, giacché la missionaria non permetteva l’uso di antidolo-rifici”. Madre Teresa si opponeva esplicitamente alle cure mediche: «Se accetti la sofferenza e la offri a Dio, ti darà gioia. La sofferenza è un grande dono di Dio. Il dolore avvicina a Gesù». Lei probabil-mente era già abbastanza vicina a Gesù, tanto è vero che quando ha avuto bisogno di cure non ha esi-tato a procurarsele in strutture pri-vate di alto livello situate all’estero, come la Mayo Clinic di Jackson-ville (Florida). Uno studio cana-dese del 2013 parlava di “metodo opinabile nella gestione dei ma-lati, controversa gestione dell’e-norme quantità di soldi ricevuti, strani agganci politici”. Dal punto di vista politico, Madre Teresa si caratterizzava per un as-soluto fondamentalismo, e consi-derava un tradimento le riforme del Concilio vaticano secondo. Ha sempre manifestato posizioni ultraconservatrici: contraria all’a-borto, alla contraccezione e al divorzio. E naturalmente «L’Aids è semplicemente una giusta retri-buzione per una condotta sessuale impropria».

La suora albanese

era contraria perfino anche all’uso di

antidolorifici per i malati terminali

sorprende ogni volta. Io mi sento profondamente riconoscente verso chi mi ascolta. Perché senza la condivisione, la musica (come tante altre cose) varrebbe davvero poco. Il disco l’abbiamo ristampato tre volte...se si pensa che è quasi completamente autoprodotto trovo che sia un successo. In tutto questo bisogna tener conto che io ho un lavoro vero (!), e che tutto quello che mi arriva dalla musica (in termini di gioia, intendo) dà un senso enorme alle fatiche, ai sacrifici, alle rinunce che sono inevitabili. “La prima volta” è stata una grandissima soddisfazione. Un battito di cuore durato due anni». Per il 2017 è già in cantiere un nuovo album che si intitolerà «Secondo tempo», «perché il primo tempo, diciamocelo, dovrebbero abolirlo. Dovrebbero fare partite da 60 minuti tirati senza fuorigioco e coi cambi volanti; roba che ne prendi 4 in 5 minuti e poi vinci 37 a 26. Perché quello è il calcio, com’era al campetto, com’era da bambini. Quando la vita aveva davvero la carica, l’ansia, la paura e la fretta di un lunghissimo secondo tempo». In «campo» George Best visto da bambino, Claudio Spagna e Gianluca Signorini, il 4 Maggio granata, Beppe Viola...perché Filippo Andreani i miti moderni non li vuol cantare.

ORLANDO SANTESIDRA

Il pettirosso in copertina come omaggio al noto romanzo di

Maurizio Maggiani. Si presenta così «La prima volta», il terzo album in studio di Filippo Andreani (con le voci di Marino Severini dei Gang, Sigaro della Banda Bassotti, Steno dei Nabat, Rob dei Temporal Sluts) che ha trovato nelle pagine dello scrittore ligure il coraggio di estrarre «dall’incendio della storia» dieci canzoni che offrono intatto il sogno di libertà del suo autore. Comasco, classe 1977, Filippo Andreani è stato per più di un decennio protagonista della scena combat rock italiana (o combat burdel, come ama definirla) con gli Atarassia Gröp (nel disco compare la voce di Robi in «Veloce»), poi ha scelto di inseguire il profumo «inebriante della parola cantautore». Una carriera solista iniziata tra luci e ombre per stessa ammissione del cantante, che è poi riuscito a ritrovare «la sincerità musicale» e a partorire un album dove tutto è al posto giusto e di cui si sente orgoglioso dalla prima all’ultima parola. Un nuovo inizio, «La prima volta», che canta storie e protagonisti del passato. Frammenti di storia d’Italia come quella dei fratelli Cervi a cui è dedicata «Canzone

per Delmo», pezzo d’apertura del disco nel quale «dal cielo sopra Reggio Emilia» Aldo invoca il figlio a difendere il suo cognome da chi farà di tutto «per lavargli il cuore». Appassionato di calcio, una vita da ultrà nella curva del Como, il cantante racconta in più brani i suoi eroi del pallone, lui che tra Mazzola e Rivera avrebbe scelto Vendrame perché non vuole ragazzi dorati - «li scelgo di pane» - non fa sconti al calcio moderno «ché l’amore si misura in sciarpe tese e non in tessere che puoi farci la spesa». E così nessun omaggio a calciatori con la cresta, ma a un

grande narratore di calcio come Gianni Brera («Che la terra ti sia lieve»), al «Numero nove» Stefano Borgonovo, ricordando il suo ritorno al Sinigaglia e al numero «sette» della storia del calcio italiano, lariano di nascita e protagonista in maglia granata, «Gigi Meroni», canzone finalista del premio Tenco 2015. In questo percorso in parte autobiografico, in parte teso a raccontare una fotografia dei tempi andati della nostra società, non mancano dediche ai suoi riferimenti musicali, Lindo Ferretti, Joe Strummer («Il prossimo disco dei Clash») e in particolare Piero

Ciampi e la sua Livorno che entrano nel disco con la bellissima «Lettera da Litaliano». A tal proposito, dice Filippo, «i tributi a Piero non saranno mai abbastanza. E’ l’unico (forse, in parte, Tenco) che ha messo in musica una disperazione autentica e non di maniera. Glielo dovevo. Anche perché Adius è uno dei primi pezzi punk che ho conosciuto». Conclude l’album una canzone per la nascita di Annarella, prima figlia del cantautore, scritta, mentre fuori nevicava, in una sala d’attesa

dell’ospedale di Varese. «E’ stata una redenzione. Alla fine, nel disco, arriva a salvare tutti: il suo papà, la tristezza di Meroni e le lacrime di Cristiana, la malinconia di Adelmo, l’addio di Mura al suo “maestro” Brera, il mio amico Speedy e tutto il resto». L’album, dopo la sua uscita, ha fatto per due anni il giro d’Italia. «Abbiamo fatto una quarantina di date ed in ciascuna ho trovato un pubblico che conosceva - a volte per intero - le mie canzoni. Che mi aspettava. Che ha voluto parlare. Che ha diviso con me un bicchiere. Mi sono sempre stupito. La musica ha una forza comunicativa che mi

La prima volta di Filippo AndreaniSUONI/1 - Al terzo album, il cantautore comasco ritrova se stesso e tutte le sue passioni

SUONI/2 - Dopo due dischi con i Criminal Jokers esordio solista per Francesco Motta

La fine dei vent’anniLUCIO BAOPRATI

Partiti da lontano/ e di colpo ar-rivare ad essere contenti/ma il

colpo era forte / e le note non erano giuste. Comincia così - e con le note giuste di Del tempo che passa la felicità - quello che già all’esor-dio (18 marzo) era stato indica-to come uno dei migliori dischi del 2016, “La fine dei vent’an-ni” (Woodworm/Audioglobe) del cantautore, compositore e polistrumentista Francesco Motta, col quale si è aggiudi-cato la Targa Tenco 2016 per la sezione “Opera prima”. Nato da famiglia livornese a Pisa nell’ottobre del ‘86 e cre-sciuto artisticamente proprio nella città della Torre, dell’Uni-versità e degli Zen Circus, Mot-ta dopo dischi con i Criminal Jokers (2010 This Was Supposed To Be The Future, 2012 Bestie) si trasferisce a Roma dove tra l’altro si forma come film com-poser al Centro Sperimentale di Cinematografia (degne di nota le musiche che ha composto per il bel documentario, uscito quest’anno, del livornese Simo-ne Manetti Goodbye Darling, I’m off to Fight).E proprio a Roma Francesco, inizia a lavorare al suo primo di-sco solista, forte del suo talento e della sua versatile esperienza pluriennale sia sul palco che

fuori. Consapevole delle sue doti e capacità individuali ma anche lu-cidamente forte dell’arricchimento che può arrivare da altri Francesco contatta e riesce a coinvolgere uno dei musicisti, autori e produttori più interessanti del panorama ita-liano, il romano Riccardo Sinigal-lia, già autore e collaboratore tra gli altri di Niccolò Fabi, Max Gaz-zé, Tiromancino, Frankie hi-nrg mc. Sinigallia, uno per il quale «il testo è il centro di una canzone» ri-mane colpito dalle prime canzoni

abbozzate di Francesco e decide così di produrlo. Nasce a detta di entrambi una forte sinergia artisti-ca ed una grande sintonia perso-nale che porteranno a comporre e confezionare un grande disco

e saldare una grande amici-zia. Dentro e fuori questo lavo-ro, a partire dalla coperti-na sostenuta dal bel ritratto della fotore-porter Clau-dia Pajewski, Motta mette se stesso, ci mette il suo cogno-me (ovvero le sue origini, la sua famiglia - la sua ama-tissima sorella Alice - i suoi ricordi che ritroviamo sparsi al centro del booklet), ci mette la sua faccia, con i sui segni, il suo passato e ci mette il suo sguardo, il suo punto di vista: ci affronta, determinato, ma in pace. La title track del disco poi (lanciata come singolo con un videoclip diretto in piano sequenza dal napoletano Francesco Lettieri) regala secondo me uno degli incipit più belli della canzone italiana “C’è un sole perfet-

to/ ma lei vuole la luna, per chiudersi con un’avvolgente coda di rumori.La fine dei vent’anni, rispetto a quelli con i Criminal Jokers è un disco più consapevole, più scelto nelle intenzioni e più equilibrato nella dinamica interna ma non manca la dimensione fisica ed a tratti ritmicamente ipnotica della cifra stilista ed umana di France-sco Motta. Dimensione che è sta-ta nuovamente esaltata in un lungo

tour di presentazione del disco, partito l’8 aprile da Pisa (Depo-sito Pontecorvo) per approdare il 1° di ottobre dopo altre qua-si quaranta tappe in giro per lo stivale ed ormai prossimo al suo trentesimo compleanno alla sua famigliare Livorno inaugurando la nuova stagione del The Cage.Motta in una dialettica continua tra cervello e nervi scrive musi-ca e testi di metà del disco, l’al-tra metà con Sinigallia, tra cui i due testi a quattro mani di Sei bella davvero e Roma stasera, ma con l’intelligenza e la consape-volezza ancora una volta di non peccare di autosufficienza coin-volgendo nella registrazione altri musicisti (alcuni scelti da lui altri da Sinigallia): dalla ex bassista dei Tiromancino Laura Arzilli, al batterista Cesare Pe-tulicchio, da Alessandro Alosi all’inossidabile Giorgio Canali che con la sua chitarra elettrica va ad impreziosire le atmosfere degli ultimi due pezzi del di-sco, Una maternità ed Abbiamo vinto un’altra guerra. Una canzo-ne quest’ultima che Francesco Motta chiude – e noi con lui questo articolo – così: li guarde-remo negli occhi / ci spareranno alle gambe/per non farci pensare / noi strisceremo di notte/ per non farci vedere.

“La fine dei vent’anni è un po’ come essere in ritardo, non devi

sbagliare strada, non farti del male e trovare parcheggio”

2

Page 3: L’altro Barça - Senza Soste€¦ · Barça, non ha mai vinto niente di importante a livello interna-zionale avendo soltanto sfiorato la Libertadores in due occasioni. Questo però

per non dimenticare6 3interniOttobre 2016

sociale e la costruzione di una società nella quale il lavoro sia liberato dallo sfruttamento capitalistico sono possibili sol-tanto con il consenso e la par-tecipazione attiva della classe operaia e delle masse popola-ri, garanzia di una più ampia affermazione dei diritti di li-bertà, di democrazia e di indi-pendenza nazionale”. La Camera del Lavoro di Li-vorno indice 15 minuti di sciopero in solidarietà con l’insurrezione ungherese. Di Vittorio viene costretto a un dietrofront, ma ormai il mito dell’Unione Sovietica come paese guida del socialismo è in frantumi. Negli anni successi-vi nascerà una nuova sinistra critica con l’autoritarismo e il burocratismo dei partiti comu-nisti “tradizionali”. Due anni

dopo Togliatti voterà a favo-re della con-danna a morte di Imre Nagy, c h i e d e n d o però di rinvia-re l’esecuzione dopo le elezio-ni del maggio 1958. Così fu: Imre Nagy, Pàl Maléter e il

giornalista comunista Miklos Gimes verranno impiccati in una prigione di Budapest il 16 giugno 1958.

NELLO GRADIRÀ

L’Ungheria era uscita dalle due guerre mondiali con

due sconfitte, nella prima come parte dell’Impero austro-unga-rico e nella seconda in quanto alleata dei nazisti. Il paese fu liberato dall’Armata Rossa nei primi mesi del 1945, e nel 1949 nacque la Repubblica Popolare d’Ungheria, strettamente con-trollata dai sovietici. Come negli altri Paesi occupa-ti l’Unione Sovietica impose un’economia rigidamente cen-tralizzata e un rapido sviluppo dell’industria pesante, con un forte sfruttamento dei lavo-ratori. Inoltre sull’economia ungherese gravavano enormi crediti di guerra: nel 1946, il 65% della produzione fu desti-nata alle riparazioni belliche nei confronti dell’Urss. Questa situazione cancellò anche mol-ti provvedimenti positivi dei governi dell’immediato dopo-guerra, come la riforma agra-ria e la nazionalizzazione delle principali imprese, e provocò un diffuso malcontento. In al-tri paesi dell’Est subito dopo la morte di Stalin (marzo 1953) erano scoppiati moti operai e popolari con l’obiettivo di ottenere migliori condizioni economiche e maggiore demo-crazia. Il 17 giugno del 1953 gli operai di Berlino Est ave-vano iniziato uno sciopero che

si era esteso a tutte le città della Germania Est: a stroncarlo in-tervennero le truppe sovietiche. In Ungheria il governo di Imre Nagy aveva alleviato le condizio-ni di vita dei lavoratori, ma con la crisi economica del 1955 la si-tuazione era di nuovo peggiora-ta e Nagy era stato sostituito da Matyas Rakosi, esponente della “vecchia guardia”. Nel febbraio del 1956 con il XX congresso del Partito Comunista Sovietico iniziò l’epoca della “destaliniz-zazione”. Venne dichiarata la legittimità delle “vie nazionali al socialismo”, suscitando grandi speranze nei vari paesi satelliti di Mosca. Il 28 giugno del 1956 gli

operai di Poznan (Polonia) sce-sero in piazza contro la riduzio-ne del 30% dei salari. Anche in questo caso la rivolta fu repressa e si contò un centinaio di vittime. Il 23 ottobre dello stesso anno a Budapest studenti e intellettuali organizzano una manifestazio-ne di solidarietà con gli operai polacchi. Si chiede il ritorno di Nagy, che torna al potere, ma la situazione ormai è fuori control-lo e la protesta diventa insurre-zione. In tutto il paese si forma-no consigli operai che assumono rapidamente la guida della rivol-ta. Nagy concorda con le richie-ste dei rivoltosi e dichiara di vo-ler uscire dal Patto di Varsavia.

Il 3 novembre i rus-si arrestano il ge-nerale Pàl Maléter, ex partigiano e co-munista. Il giorno dopo 200.000 sol-dati e 4.000 carri armati russi entra-no a Budapest e im-pongono un gover-no filo-sovietico ca-peggiato da Jànos Kàdàr. Nagy si rifu-gia nell’ambasciata jugoslava ma il 22 viene catturato con uno stratagemma. Il movimento co-munista internazio-nale è scosso e divi-so. Mao Zedong e i partiti comunisti

“ortodossi” si schierano a favore dell’invasione, ma il dissenso è enorme. In Italia, a fronte della po-sizione filo-russa del gruppo di-rigente del Pci, molti intellettuali firmano il “Ma-nifesto dei 101”, di segno opposto, e la Cgil parla di “condanna stori-ca e definitiva di metodi antidemo-cratici di governo e di direzione politica ed economica, che de-terminano il distacco fra dirigen-ti e masse popolari. Il progresso

OTTOBRE 1956 - 60 anni fa l’insurrezione ungherese che scosse il movimento comunista internazionale

Finisce a Budapest il mito dell’Urss

La Camera del

Lavoro di Livorno indisse 15 minuti

di sciopero in solidarietà con l’insurrezione

OTTOBRE 1931 - 85 anni fa il processo e la condanna di Al Capone

Gli anni ruggenti della mafia negli UsaNELLO GRADIRÀ

Il 16 gennaio 1920, dopo anni di pressione da parte delle organiz-

zazioni religiose fondamentaliste, finanziate anche da ricchi impren-ditori come Rockefeller e Ford, entrò in vigore negli Stati Uniti il proibizionismo. Il senatore Volste-ad, autore della proposta di legge, usò toni trionfalistici: Le prigioni e i riformatori resteranno vuoti. Tutti gli uomini cammineranno di nuovo eret-ti, tutte le donne sorrideranno e tutti i bambini rideranno. Le porte dell’infer-no si sono chiuse per sempre. A ridere invece fu la criminalità organizzata, che si trovò tra le mani l’affare del secolo: il prezzo dell’alcool, come sempre accade quando un prodotto viene mes-so fuorilegge, salì alle stelle. Gli alcolici venivano contrabbandati dall’estero o distillati clandesti-namente negli Usa, e nacquero decine di migliaia di locali detti “Speak easy” (Parlate piano) dove si poteva consumare alcool illega-le, spesso di pessima qualità e “ta-gliato” con varie sostanze. Gli enormi profitti del traffico di alcolici, che si aggiunsero a quelli derivanti dai “tradizionali” racket della prostituzione e del gioco d’azzardo, permisero ai boss ma-

fiosi di corrompere poliziotti e poli-tici, garantendosi un’impunità pres-soché totale, e di controllare la vita pubblica di molte città statunitensi. Il personaggio più emblematico dei “ruggenti anni Venti” fu senz’altro Al (Alphonse Gabriel) Capone, det-to “Scarface” per una cicatrice sulla guancia sinistra lasciatagli dalla ra-soiata di un gangster che non aveva apprezzato un complimento rivolto a sua sorella. Nato a Brooklyn nel 1899 da una famiglia originaria di

Angri (Salerno), sale rapida-mente tutti i gradini della ge-rarchia malavitosa. A vent’an-ni si trasferisce a Chicago dove prende in gestione un locale notturno del mafioso Johnny Torrio e poi ne diventa so-cio. Fonda un vero e proprio impero: arriva ad avere sul libro paga metà della polizia di Chicago, e controlla mili-tarmente vari sobborghi della città, come Cicero, sopranno-minato “Caponeville”. Qui i suoi uomini girano armati per le strade come se fossero

loro la polizia, e in occasione delle elezioni del 1924 decine di scagnoz-zi picchiano elettori e candidati per imporre un sindaco “amico”. Le guerre tra bande per il controllo del territorio sfociano spesso in battaglie campali e i regolamenti di conti av-vengono con modalità volutamente clamorose. Nel settembre 1926 ben dieci macchine piene di killer del boss Moran crivellano di colpi il ri-storante dove Capone sta pranzan-do e tutto l’isolato, ma “Scarface”

riesce a scamparla. Il 14 febbraio del 1929 uomini di Al Capone tra-vestiti da poliziotti fanno irruzione in una distilleria clandestina di Mo-ran ed uccidono sette persone. Dopo il massacro di San Valenti-no Al Capone è al suo apice: viene intervistato come un divo e non tralascia la benefi-cenza per i poveri creati dalla Gran-de Depressione. Ma è diventato “il nemico pubbli-co numero uno”: nell’impossibili-tà di attribuirgli la responsabilità degli omicidi per l’assoluta omertà, le autorità pensa-no di incastrarlo per evasione fiscale. Buona parte dei proventi delle attività illecite, però, vengono reinvestiti in attività legali e quasi mai sono riconducibili al vero proprietario. Dopo cinque anni di ri-cerche, gli agenti delle tasse federali riescono ad incriminarlo. Il processo

si apre il 6 ottobre 1931. Ci sono fondati sospetti che la giuria popo-lare sia stata corrotta, e il giorno dopo con un clamoroso colpo di scena i giurati vengono sostitui-ti. Il 17 ottobre Al Capone viene condannato a undici anni. Inviato nel penitenziario di Atlanta vive

tra lussi e privi-legi e continua a controllare il business. Viene allora trasferito nel famigera-to carcere di Alcatraz dove i contatti con l’esterno sono praticamente impossibili. Per uscire sceglie la strada della

buona condotta, che gli vale una riduzione della condanna. Viene scarcerato nel 1939, ma soffre di una forma di demenza causata da una sifilide. Si ritira in Florida, dove morirà prematuramente il 25 gennaio 1947.

Grazie al proibizionismo

la criminalità organizzata arrivò a dominare la politica

statunitense

Anno XI, n. 119

OLIMPIADI - Da Boston a Roma, da Barcellona a Pechino: rinunce, fallimenti e benefici dei giochi olimpici

Il buco olimpico

un “rischio imprenditoriale”, gesti-to da enti terzi ma le cui ricadute possono avere effetti sulle casse di chi ospita fisicamente l’evento. Il passato. Ci sono vari esempi del passato che hanno fatto scuola. Toronto 1976: un disastro, +800% di spesa prevista e 30 anni di debi-ti. Atene 2004: 16 miliardi spesi e 10 di debito. Londra 2012: edizio-ne sobria in stile inglese con tanti impianti “smontabili” ma costi lievitati da 3 miliardi a oltre . Le olimpiadi invernali di Sochi (Rus-sia) e quelle estive di Pechino 2008 (-40 miliardi) sono esempi di buchi neri ma creati all’interno di siste-mi e contesti storico-politici non sovrapponibili ai nostri. Qualcuno però può obiettare che di fronte ad una rimessa oggi ci possono esse-re dei benefici domani. Ed anche qui ci sono forti dubbi. Prendiamo

Atlanta 1996: nonostante i debiti accumulati ci fu una lieve crescita economica dell’area negli anni dei Giochi. Lo stesso studio dimostrò che il settore pubblico avrebbe ot-tenuto gli stessi risultati, in termini di posti di lavoro creati, spendendo la stessa cifra in più tradizionali progetti di sviluppo, che oltretutto avrebbero avuto un effetto positivo di più lungo periodo sulla cittadi-nanza. Tutto male dunque? No, Barcellona 1992 ne è un esempio. A fronte di un deficit di circa 6 miliar-di, Barcellona riuscì ad iniziare la propria ricostruzione a livello urba-nistico e turistico. Ma non scordia-moci che stiamo parlando di una città e di un paese uscito da appena una decina di anni dal franchismo e che con quelle olimpiadi fece leva verso una veloce modernizzazione che trainò una città intera. Non ci

pare che le condizioni di Boston, Amburgo o Roma siano tali che l’evento possa avere questo impatto a livello economico e politico. Chi rimane in corsa? Rimangono Parigi, Bu-dapest e Los Angeles. Parigi ha partorito il suo Sì non senza diffi-coltà. Il sindaco socia-lista Anne Hidalgo due anni fa, quando entrò in carica, pendeva deci-samente per il No. Per convincerla il comitato a favore della candidatu-ra ha dovuto presentar-le un progetto low cost (1,5 miliardi), a basso

impatto ambientale e con dentro la riqualificazione del quartiere/banlieue Saint Denis. Budapest in-vece ha presentato una candidatura più che altro politi-ca. Il presidente Orban, nazionali-sta di destra, cerca una vetrina per ali-mentare il senso di appartenenza alla grande Ungheria. Ora però cerca al-leati. Un passo per molti azzardato che non ha fatto mancare aspri dibattiti in patria e con l’opinione pubblica divisa dalla paura di ritrovarsi un ingente debito da pagare sulla testa. Infi-ne Los Angeles. Una candidatura cresciuta specialmente dopo l’ab-bandono di Boston. Una città che

nel 1984 passò alla cronaca per un’olimpiade che non portò far-delli sulle casse pubbliche perché organizzata con finanziamenti privati. Un caso raro che forse si può permettere solo la patria di Hollywood e di quella che poi è diventata la Silicon Valley. Come fecero? Grande disponibilità di capitali privati e un grande giro di affari dietro i diritti televisivi che a quel tempo (ed anche oggi) solo gli Usa sanno accumulare. Si parla di un sistema diverso da quello europeo, dove i privati ed i capitali finanziari scandiscono la vita, anche con larghe fette di miseria, di una città all’in-terno di uno Stato (regione) come la California che ha para-metri tutti suoi anche all’inter-no degli Stati Uniti. Roma. Come si può vedere ogni territorio ed ogni contesto ha bisogno di una propria analisi rispetto a costi e benefici. Roma, dallo scandalo dei mondiali di nuoto del 2009 (nella foto le in-compiute vele di Calatrava a Tor Vergata) passando dagli ultimi

sette anni di im-barbar imento della corruzione della classe di-rigente, non ci pare nelle stesse condizioni poli-tiche ed econo-miche di altre città che hanno esse stesse rinun-ciato. Quindi

la Raggi ha fatto bene? Dato il contesto storico ci è parsa una scelta “razionale”. D’altra parte quando quattro anni fa la fece Monti in molti applaudirono. E probabilmente ora la situazione è anche peggiore.

FRANCO MARINO

Estate 2015: il sindaco di Bo-ston, Marty Walsh si presen-

ta in conferenza stampa: “Non firmerò nessun accordo che pos-sa lasciare i miei cittadini/contri-buenti schiacciati dai costi sfora-ti come è sempre accaduto a chi organizza i grandi eventi spor-tivi”. Si sta parlando di un ec-centrico populista alla ricerca di consensi facili? No, Marty Walsh è un esponente labour del partito democratico. Ha già avuto altri incarichi politici ed ha valutato che i rischi per le casse della cit-tà sarebbero stati più grandi dei possibili successi. A Davos, Cra-covia, Oslo, Monaco di Baviera e Amburgo hanno rinunciato alle olimpiadi con un referendum, a Boston invece il dibattito politi-co che lo ha preceduto è bastato per ritirare la candidatura. Sono tutte amministrazioni incapaci, improvvisate e che non sanno prendersi responsabilità? A leg-gere i nomi non pare e dentro si possono trovare sindaci di vari schieramenti politici. Quali rischi? In un contesto eco-nomico fatto di tagli agli enti lo-cali ed ai servizi dove i comuni fanno fatica a chiudere i bilan-ci, ritrovarsi con i costi previsti sballati significa condannare i propri cittadini a purghe post-o-limpiche. Perché i soldi per le olimpiadi non vengono tutti dal Comitato Olimpico Internazio-nale e dal governo, sennò tutti farebbero a cazzotti per acca-parrarseli. Gli enti territoriali devono contribuire con opere e servizi che hanno dei costi, che quando la città diventa un can-tiere sono destinati ad aumenta-re. I grandi eventi quindi hanno

#Bocciato(segue da pagina 1) ...lingua straniera, volti ad attestare un livello B2, mai richiesto prima né all’università, né nei percorsi abilitanti (per-ché un buon insegnante di matematica o una brava ma-estra di italiano dovrebbero avere tra le loro doti princi-pali quella di saper cogliere le sottigliezze lessicali di un testo giuridico in francese o in inglese?). I quesiti relativi alle singole discipline, poi, richiedevano di svolgere in 15 minuti dei lavori di pro-gettazione didattica a cui qualsiasi insegnante dedica normalmente ore del proprio quotidiano lavoro. Si è subito parlato di prove fatte apposta per bocciare e infatti a luglio sono co-minciati ad uscire i risultati degli scritti, e il risultato è stato un’ecatombe, con per-centuali di bocciature che hanno raggiunto talvolta il 90% o addirittura il 100%. Non è ancora possibile fare una stima nazionale, perché in molte regioni le procedure non si sono (ov-

viamente) ancora concluse, in alcuni casi per l’alto numero dei partecipanti, in altri per il susseguirsi di irregolarità eclatanti, come la convoca-zione agli orali di persone che mai avevano partecipato allo scritto, la perdita dei codici che consentivano di identifi-care gli autori dei compiti, lo scambio di codici, la scoperta di manifeste incompatibili-tà dei commissari ecc.

Si può però già dire che, ad eccezione di qualche regione illuminata, la tendenza gene-rale è stata quella di bocciare il più possibile. Un caso esem-plare è il dato (questo nazio-nale) del concorso per il so-stegno: i posti messi a bando erano 5700, in numero quindi già irrisorio rispetto al fabbi-sogno, se si considera che dei 120mila insegnanti di soste-gno in Italia, più di 40mila

sono precari. Nonostante que-sto, a fronte delle numerose bocciature, un migliaio dei po-sti messi a bando sono rimasti senza vincitori e saranno co-perti nuovamente da precari. Un altro caso emblematico è proprio quello della Toscana, patria di Renzi e Giannini, forse non a caso la regione con il numero più alto di bocciatu-re. Per la classe delle materie letterarie, ad esempio, a fronte di più di 700 posti disponibili e soli 590 aspiranti, i vincitori sono stati 142: significa che più di 500 posti rimarranno vuoti. O meglio, saranno occupati dagli stessi precari che sono stati bocciati al concorso. A questo palese fallimento, non solo e non tanto dei sin-goli docenti costretti a questa umiliazione, ma di un’intera procedura concorsuale che do-veva “abolire la supplentite”, la Giannini, vergognosamente spalleggiata dai media main-stream, ha risposto attribuen-do la responsabilità all’im-preparazione dei candidati. “Meglio un somaro a spasso che un somaro in cattedra”,

commenta la Repubblica, andando a rinfocolare quel processo di screditamen-to della scuola pubblica e della figura dell’insegnante che da anni i governi che si sono succeduti stanno portando avanti. Ma anche un somaro capi-rebbe che la realtà è molto più banale e cruda. Basta chiedersi a chi giova man-tenere precaria una genera-zione di insegnanti ultrafor-mati e ultratitolati: di certo non giova ai ragazzi e ai do-centi, precari e non. Giova, forse, solo a uno stato che vuole una scuola a costo zero, fatta per una larghis-sima parte da lavoratori sta-gionali, che prendi e scari-chi quando vuoi, a seconda delle esigenze, a cui non pa-ghi la malattia e che l’esta-te paghi con una miseria di disoccupazione. Questa è la Buona Scuola, quella dove i lavoratori sono ricattabili e si risparmia fregandose-ne dei diritti delle persone. Come in ogni Buona Azien-da.

In tanti hanno rinunciato alla sfida olimpica, perché il

rischio di far pagare un flop ai cittadini

era troppo alto

Page 4: L’altro Barça - Senza Soste€¦ · Barça, non ha mai vinto niente di importante a livello interna-zionale avendo soltanto sfiorato la Libertadores in due occasioni. Questo però

Livorno Livorno Anno XI, n. 119 Ottobre 20164 5

turazioni e ‘retrocessioni’ finaliz-zato alla creazione di fondi neri”. E per tutelare l’immagine dell’im-presa, quindici giorni dopo il Consiglio di Amministrazione del Co.ve.co. viene totalmente azze-rato. Co.ve.co era stata presente in quasi tutte le grandi opere pubbli-che, dal Mose all’Expo 2015 alla terza corsia della A4. Morbiolo è “uscito dall’inchiesta con il pat-teggiamento di un anno e sei mesi di reclusione per false fatturazioni e per finanziamento illecito all’ex sindaco Giorgio Orsoni e all’ex responsabile amministrativo del Pd, Gianpietro Marchese (che ha già patteggiato 11 mesi)”. Riflessione conclusiva Dalla cronaca giudiziaria ormai da anni emerge un sistema di corruzione generalizzata legata alle “grandi opere”. Ogni forza politica ha le sue imprese, coope-

rative e banche di riferimento e una vittoria elettora-le rappresenta la conquista di un territorio da de-predare: devasta-zioni ambientali, appalti (truccati), tangenti... Questo accade dal Veneto alla Sicilia, ovunque insom-ma tranne che in

Toscana: perché le stesse imprese che altrove adottano normalmen-te questo modus operandi quando entrano nella nostra regione sono toccate dallo spirito santo e diven-tano un modello di trasparenza amministrativa. Non dovremmo ritenerci fortunati?

CIRO BILARDI

Nel maggio 2013 l’Associazio-ne temporanea d’impresa che

fa capo al gruppo Guerrato di Ro-vigo e di cui fa parte anche il Co.ve.co. (consorzio veneto delle coope-rative, leggi PD) si aggiudica l’ap-palto per la costruzione del Nuovo Ospedale di Livorno a Montenero Basso. Il “Corriere del Veneto” dà la notizia esprimendo ovvia soddi-sfazione (si tratta di un’impresa del suo territorio di riferimento) ma non nasconde una certa sorpresa: Guerrato, si legge, era partito come outsider, e aveva presentato un’of-ferta economica superiore rispetti-vamente di 12 e 8 milioni a quella dei due gruppi concorrenti. Inoltre i canoni proposti da Guerrato per il project financing “costerebbero oltre 100 milioni di più di quelli di Astaldi”. Ma nel giudizio della commissione era risultata decisiva la parte qualitativa del progetto, in particolare il “valore esteti-co dell’opera” che era oggetto di una valutazione discrezionale. La commissione assegna ad Astaldi (che ha realizzato i quattro nuo-vi ospedali toscani già costruiti) appena 0,29 punti per il valore ar-chitettonico e zero spaccato per la qualità dei servizi! I guai di Guerrato L’impresa Guerrato, nata nel 1935, 245 addetti e un fatturato di 90 milioni di euro, è “specializza-ta in project financing”. Secondo la stampa “viene considerata come un’azienda che negli anni ha sapu-to mantenere ottimi rapporti con la politica, specialmente con il partito di Alleanza Nazionale al quale vie-ne ritenuta vicina”.

Nel luglio del 2015 Guerrato ha cedu-to a un fondo d’investimento inglese la convenzione per gli ospedali di Ca-stelfranco Veneto e Montebelluna, il che rafforza l’idea che il project finan-cing ospedaliero abbia un carattere fi-nanziario e speculativo piuttosto che gestionale. Nel giugno scorso Saverio Guerrato è stato arrestato, con altri due imprenditori e due sindaci, per un presunto giro di tangenti nei co-muni termali del Padovano. È accu-

sato di avere pagato una tangente al sindaco di Abano Terme, Luca Clau-dio, di 174mila euro per accaparrarsi un appalto di 15 milioni. La vicenda rende problematica anche la costru-zione di un altro ospedale di cui era aggiudicataria l’impresa, quello di Vibo Valentia. La famiglia Guerrato è uscita dal CDA dell’azienda e ad agosto la stampa ha pubblicato la no-tizia che il gruppo sarebbe in vendita. Le offerte più sostanziose per l’acqui-

sto sarebbero quelle di Edf, colosso francese dell’elettricità, e della coo-perativa bolognese Manutencoop, delle cui vicende giudiziarie ci siamo occupati il mese scorso. E quelli di Co.ve.co. Se Guerrato piange, Co.ve.co. non ride: nel giugno del 2014, a segui-to dell’inchiesta sul project financing per il MOSE, vengono arrestate 35 persone, tra cui l’ex presidente della Regione Veneto ed ex ministro Galan (FI) e il sindaco PD di Venezia Or-soni. Ma ci sono anche diversi espo-nenti del consorzio “Venezia Nuova”, di cui Co.ve.co. fa parte, tra cui il presidente Franco Morbiolo e il diri-gente Nicola Falco-ni. Co.ve.co avreb-be pagato tangenti ad una eu-rodeputata di Forza Italia e a due politici del Pd. “L’immagine di Co.ve.co” scrisse al-lora Il Gazzettino “sprofonda nelle acque del malaffare, additato come uno dei centri erogatori di mazzette attraverso l’oliato sistema di sovrafat-

I guai giudiziari di Guerrato e Co.ve.co.

APPALTI - Quelli che... vincono le gare (seconda puntata)

Le imprese che

avrebbero dovuto costruire l’ospedale

a Montenero coinvolte in

inchieste per storie di tangenti

salvo assumerne successiva-mente un ruolo contrattuale di mero “guardianaggio” nei confronti dell’Autorità Por-tuale. Anni e anni di chiac-chiere sulle gare internazio-nali mai svolte, sulla compa-tibilità delle “tre gambe” e soprattutto sui costi stimati per la ristrutturazione dei bacini (in un range fra i 18 e i 50 milioni di euro secon-do le prevsioni della Camera di Commercio di Livorno), insomma, hanno portato a questo risultato.Tra la custodia e una sor-ta di controllo strumentale che, come tale, avrebbe as-sicurato l’impiego dei baci-ni per le attività di refitting degli yacht, ma che, di ri-flesso, non avrebbe generato alcun automatico obbligo di manutenzione degli stessi con i relativi profili di respon-sabilità civile e penale. Uno scudo ideale, obiettivamen-

te, che avreb-be leso in origine, tra l’altro, quel principio di concorrenza spesso sol-lecitato dai s i n d a c a t i c o n f e d e r a -li di settore, sempre pron-ti a contesta-

re ai “competitors” di Azi-mut l’assenza di un benchè minimo piano industriale alternativo per l’uso dei ba-cini. Dunque, è da escludere, tecnicamente, una citazione diretta di Azimut fra i re-sponsabili della morte di Pe-trone e del ferimento di una decina di colleghi.Eppure, come ha sostenuto Adalberto Roncucci, ex Di-rettore Tecnico del Cantie-re Navale Luigi Orlando, il “concessionario” dei bacini di fronte al disastro sarebbe dovuto essere chiamato in causa per il presunto cedi-mento della platea del baci-no di carenaggio, ma soprat-tutto perché deve essere rite-nuto comunque responsabile delle operazioni di entrata e di uscita delle navi dai ba-cini. Attendiamo a questo punto l’esito finale delle in-dagini, ma soprattutto di ca-pire se e come per davvero, dal 2003 a oggi, le stazioni demaniali di servizio del porto di Livorno siano sta-te lasciate degradare in una condizione borderline senza che alcuno intervenisse. Il sacrificio di Petrone allora non sarebbe stato invano. E chissà che allora lo stesso inafferrabile bando dei baci-ni di Livorno non possa esse-re riscritto.

FRANCO REVELLI

Chissà se il sacrificio dell’elettricista napoleta-

no Gabriele Petrone, allora di anni 39, possa servire a squa-dernare e magari a risolvere il nodo dei bacini di carenaggio del Porto di Livorno. Riferi-mento azzardato, certamente, di cui gliene saremmo comun-que grati a futura memoria, dopo una decina di anni di indeterminatezza nel corso dei quali al porto di Livor-no (già Porto dei Porti nella visione di Roberto Piccini) è mancato il governo e la ma-nutenzione delle sue due prin-cipali Stazioni demaniali di servizio, il Bacino Grande in Muratura e lo stesso Bacino Galleggiante. Due comparti al limite della praticabilità e per troppo tem-po orfani di una regolamenta-zione d’uso che garantisse, fra le altre cose, anche il rispetto delle più elementari condizio-ni di sicurezza sui cantieri di lavoro. E dove si potesse scol-pire con assoluta chiarezza, in vista di gare internazionali di “affidamento in concessio-ne” più volte annunciate, ma mai colpevolmente celebrate, il rapporto fra proprietà de-maniale, gestione, concessio-ne, mera utilizzazione degli impianti, sistema di protezio-ne e controllo degli ambienti di lavoro.Un rapporto vischioso e flut-tuante, a sua volta condizio-nato, come vedremo, dalla “levità” del dibattito politico istituzionale sulla collocazio-ne dei bacini. Un dibattito per cui si sono spesi alternativa-mente due presidenze; la pri-ma ,quella di Roberto Piccini, favorevole ad una delocaliz-zazione dei bacini in Darsena 1, la seconda , quella di Gal-lanti, che nel 2011 era partito lancia in resta per confermare i bacini “là dove stanno e con caratteristiche di riparazio-ne navalmeccanica pesante”, prima di flettersi al magiste-ro del Registro Navale Italia-no (Rina).Quest’ultimo aveva infat-ti rappresentato, conti alla mano, l’inopportunità eco-nomica di investire sui ba-cini per farne una “Cmf del mare”, specie dopo l’avvento di Azimut Benetti con il suo portafoglio ordini pieno zep-po di yacht da 90 metri e lo sviluppo urbanistico della Porta a Mare di Livorno.Gallanti per la verità, all’in-domani di uno dei suoi mu-tevoli insediamenti (da Pre-sidente e da Commissario) parlò di “schermature” che avrebbero garantito l’im-permeabilità del quartiere a mare rispetto alle lavorazioni industriali, ma ogni volta che l’avvocato genovese sollevava un argomento così dirimente, Azimut Benetti da parte sua o minacciava di andarsene o,

con l’aiuto del Tirreno, rilan-ciava la costruzione dei mega yacht promettendo assunzioni dirette nell’immediato e corre-

date da 500-600 posti di lavoro in quell’indotto che era stato raso a zero dall’operazione di acquisto dell’ex Cantiere fra il

2002 e il 2003.Affermazioni che ovviamen-te finivano per rappresentare un’ipoteca giuridica e media-tica formidabile sul controllo dell’Area industriale di Porta a Mare, acquistata da Azimut non a caso per soli 50 milioni

di euro, proprio perché, come ha sempre sostenuto lo stesso deus ex machina dell’operazio-ne amministrativa Lamberti, “in mezzo c’erano anche i ba-cini”, che come tali avrebbero svalutato il prezzo d’acquisto di un’area altrimenti appetibi-le per stratosferici investimenti immobiliari.Ora, la domanda che spesso ricorre fra gli appassionati del genere, è se Azimut-Benetti, re-centemente chiamata in causa dalla Procura della Repubbli-ca di Livorno sulla compraven-dita illecita degli appartamenti della cosiddetta stecca artigia-nale di Porta a Mare, possa considerarsi parimenti respon-sabile, fra gli altri, dell’inciden-te mortale occorso a Gabriele

Petrone presso il bacino galleg-giante il 25 agosto di un anno fa in circostanze da verificare. Un incidente che, lo ricordiamo, ha determinato il sequestro giudi-ziario del bacino galleggiante e paradossalmente congelato la gara di assentimento in conces-

sione dei bacini di carenaggio istruita dall’Autorità Portuale nella primavera del 2015 e per la quale non solo Azimut, ma un numeroso cartello di com-petitors, avreb-be depositato la propria candi-datura. E questo nono-stante il bando sembrava fos-se stato scritto dai tecnici del Registro Na-vale Italiano (Rina) con un occhio di riguar-do per l’ormai monopolista in-dustriale d’area e proprietario, appunto Azimut Benetti. Che da parte sua, mentre il Sosti-

tuto Procuratore della Repub-blica di Livorno compila la lunga lista degli indagati per il disastro del Bacino Mediter-raneo che è costato la vita a Petrone, si scopre essere stata concessionaria formale dei ba-cini solo fino alla fine del 2009,

CANTIERE - Ad un anno dalla morte dell’elettricista nel bacino di carenaggio, il bando è avvolto nell’oscurità

Il mistero dei bacini

ACQUA - L’aumento sarà inferiore dopo tante polemiche, e il Forum toscano attacca il Pd

La bolletta della discordiaLo scorso 20 settembre l’as-

semblea dei sindaci del ter-ritorio gestito da Asa ha deciso: l’aumento della bolletta dell’ac-qua sarà “solo” del 2,7%. Chi ha vinto? Qualcuno dice i sin-daci di Livorno (M5S), Suvereto (sinistra) e Volterra (civico) per-ché l’azienda aveva proposto un rincaro del 6,5%. Il Pd invece ha giocato a nascondino. Non ha fatto nessuna proposta alternati-va, ha poi accusato i colleghi so-pracitati dell’aumento, ma allo stesso tempo ha sempre avallato le decisioni, e gli aumenti, det-tati dalle decisioni dell’Autorità Idrica Toscana (Ait, a comando Pd) e tutti i complicatissimi cal-coli per determinare gli aumenti in bolletta. Pd e Iren. I sindaci Pd allora sono tornati all’attacco su Iren e gli investimenti, denunciando che con questo lieve aumento sono a rischio gli investimenti sulla rete idrica. Quali investi-menti? Per loro mancheranno gli 85 milioni che avrebbe messo Iren se gli fosse stato concesso di scalare l’azienda e quindi di fatto di privatizzare il servizio idrico e mettere tutto nel bilan-cio della società quotata in bor-sa. Ma di questi 85 milioni, solo 15 sarebbero stati messi da Iren a fondo perso, proprio per pren-dere il controllo di tutto, mentre gli altri sarebbero coperti da pre-

stiti da restituire con interessi, an-dando a gravare sulle bollette dei cittadini.Il tasso usuraio Mps. Questa è la fredda cronaca dell’ultima tesa as-semblea dei sindaci dell’Ato. Ma il Forum Toscano dei movimenti per l’acqua pubblica, che segue da vi-cino le vicende livornesi in quanto terreno di scontro sull’avanzata del socio privato, non ha risparmiato alcune bacchettate alle preceden-ti gestioni chiedendo, in un co-municato, dov’erano i sindaci Pd quando avevano la maggioranza assoluta in Asa e l’azienda aveva “stipulato un project financing con il Monte dei Paschi, ad un tasso usuraio del 7%”.

Gli investimenti man-cati ma pagati. Il Fo-rum ha poi continuato il suo attacco: “Dalla relazione 2013 del diret-tore generale dell’Ait, apprendiamo che negli anni precedenti Asa ha effettuato solo la metà o anche meno degli investimenti previsti e all’appello mancano 21 milioni, non realizzati ma già incassati con le

bollette, come previsto dal Meto-do Normalizzato, allora in vigore. Inoltre Asa si è vista bloccare i fi-nanziamenti da parte della Regio-ne Toscana, per non aver concluso i lavori programmati entro i termi-ni. Dove erano allora questi sinda-ci? Di sicuro non hanno svolto la funzione di controllo che compete-va loro. Quei 21 milioni mancanti saranno stati impiegati in manu-tenzioni straordinarie? Sarebbe l’ora che i sindaci andassero a ve-rificare che il gestore non ricorra al gioco di inserire in modo ingiu-stificato le manutenzioni ordinarie della rete idrica e delle fognature tra le manutenzioni straordinarie: ciò comporta che si addebitino in

fattura agli utenti, oltre al costo del lavoro anche il progetto, gli am-mortamenti e i profitti che finisco-no nelle tasche dei soci aziendali”.L’acqua regalata a Solvay. L’at-tacco del Forum si è poi spostato sulla questione Solvay: “Come mai dai sindaci non si alza alcuna voce di protesta in relazione al fatto che la sola Solvay consuma tanta acqua quanto quasi quella di tutti gli utenti di Asa, pagandola solo 5 millesimi al me-tro cubo? Mentre gli investimenti per reperire altra acqua potabile si mettono in testa ai cittadini tutti e non a chi fa un uso sconsiderato di questo bene prezioso. Asa ha costi di gestione tra i più alti della Toscana. Non sono forse dovuti ai clientelismi messi in atto dai sinda-ci negli anni? Il Rivellino. Infine la questione dello spostamento del Rivellino, che a questo giro è rimasto fuori da tutte le polemiche. Strano, per-ché fino ad oggi era il ricatto su cui

si doveva giocare tutta la partita della scalata di Iren. La questio-ne invece, come abbiamo sempre scritto, era diversa. Quasi tutte le forze politiche hanno sempre convenuto che lo spostamento del Rivellino dall’attuale collo-cazione dentro la cinta esterna, a pochi metri dalla Venezia, sia una cosa positiva. Semmai c’e-ra da capire dove reperire i soldi per un’operazione che nel com-plesso costa quasi 25 milioni. Un primo lotto da 4 milioni do-vrebbe essere fatto davanti alla ex Trw. La scelta doveva essere

fra interveni-re sul vecchio impianto per adeguarlo o fare quel pezzo integrativo (per coprire circa 15.000 abi-tanti) in altro luogo. Proba-bilmente sarà scelta la se-conda ipotesi.

Poi per il resto dell’investimento serve l’accordo tra più parti in vista del risultato finale cioè la liberazione di tutta quella parte che dagli ex Macelli arriva a San Marco. Vedremo. Senza ricatti.

Senza Soste redazione

Il Forum attacca: tassi usurai dal

Mps e 21 milioni di investimenti già

pagati in bolletta mai eseguiti

Dal 2009 Azimut

è un semplice guardiano dei bacini

e ciò lo salverà da responsabilità per la morte dell’operaio di

un anno fa

Dopo la sentenza il bando dei bacini

potrebbe essere riscritto e riportato a ciò che era stato pensato nel 2003

Page 5: L’altro Barça - Senza Soste€¦ · Barça, non ha mai vinto niente di importante a livello interna-zionale avendo soltanto sfiorato la Libertadores in due occasioni. Questo però

Livorno Livorno Anno XI, n. 119 Ottobre 20164 5

turazioni e ‘retrocessioni’ finaliz-zato alla creazione di fondi neri”. E per tutelare l’immagine dell’im-presa, quindici giorni dopo il Consiglio di Amministrazione del Co.ve.co. viene totalmente azze-rato. Co.ve.co era stata presente in quasi tutte le grandi opere pubbli-che, dal Mose all’Expo 2015 alla terza corsia della A4. Morbiolo è “uscito dall’inchiesta con il pat-teggiamento di un anno e sei mesi di reclusione per false fatturazioni e per finanziamento illecito all’ex sindaco Giorgio Orsoni e all’ex responsabile amministrativo del Pd, Gianpietro Marchese (che ha già patteggiato 11 mesi)”. Riflessione conclusiva Dalla cronaca giudiziaria ormai da anni emerge un sistema di corruzione generalizzata legata alle “grandi opere”. Ogni forza politica ha le sue imprese, coope-

rative e banche di riferimento e una vittoria elettora-le rappresenta la conquista di un territorio da de-predare: devasta-zioni ambientali, appalti (truccati), tangenti... Questo accade dal Veneto alla Sicilia, ovunque insom-ma tranne che in

Toscana: perché le stesse imprese che altrove adottano normalmen-te questo modus operandi quando entrano nella nostra regione sono toccate dallo spirito santo e diven-tano un modello di trasparenza amministrativa. Non dovremmo ritenerci fortunati?

CIRO BILARDI

Nel maggio 2013 l’Associazio-ne temporanea d’impresa che

fa capo al gruppo Guerrato di Ro-vigo e di cui fa parte anche il Co.ve.co. (consorzio veneto delle coope-rative, leggi PD) si aggiudica l’ap-palto per la costruzione del Nuovo Ospedale di Livorno a Montenero Basso. Il “Corriere del Veneto” dà la notizia esprimendo ovvia soddi-sfazione (si tratta di un’impresa del suo territorio di riferimento) ma non nasconde una certa sorpresa: Guerrato, si legge, era partito come outsider, e aveva presentato un’of-ferta economica superiore rispetti-vamente di 12 e 8 milioni a quella dei due gruppi concorrenti. Inoltre i canoni proposti da Guerrato per il project financing “costerebbero oltre 100 milioni di più di quelli di Astaldi”. Ma nel giudizio della commissione era risultata decisiva la parte qualitativa del progetto, in particolare il “valore esteti-co dell’opera” che era oggetto di una valutazione discrezionale. La commissione assegna ad Astaldi (che ha realizzato i quattro nuo-vi ospedali toscani già costruiti) appena 0,29 punti per il valore ar-chitettonico e zero spaccato per la qualità dei servizi! I guai di Guerrato L’impresa Guerrato, nata nel 1935, 245 addetti e un fatturato di 90 milioni di euro, è “specializza-ta in project financing”. Secondo la stampa “viene considerata come un’azienda che negli anni ha sapu-to mantenere ottimi rapporti con la politica, specialmente con il partito di Alleanza Nazionale al quale vie-ne ritenuta vicina”.

Nel luglio del 2015 Guerrato ha cedu-to a un fondo d’investimento inglese la convenzione per gli ospedali di Ca-stelfranco Veneto e Montebelluna, il che rafforza l’idea che il project finan-cing ospedaliero abbia un carattere fi-nanziario e speculativo piuttosto che gestionale. Nel giugno scorso Saverio Guerrato è stato arrestato, con altri due imprenditori e due sindaci, per un presunto giro di tangenti nei co-muni termali del Padovano. È accu-

sato di avere pagato una tangente al sindaco di Abano Terme, Luca Clau-dio, di 174mila euro per accaparrarsi un appalto di 15 milioni. La vicenda rende problematica anche la costru-zione di un altro ospedale di cui era aggiudicataria l’impresa, quello di Vibo Valentia. La famiglia Guerrato è uscita dal CDA dell’azienda e ad agosto la stampa ha pubblicato la no-tizia che il gruppo sarebbe in vendita. Le offerte più sostanziose per l’acqui-

sto sarebbero quelle di Edf, colosso francese dell’elettricità, e della coo-perativa bolognese Manutencoop, delle cui vicende giudiziarie ci siamo occupati il mese scorso. E quelli di Co.ve.co. Se Guerrato piange, Co.ve.co. non ride: nel giugno del 2014, a segui-to dell’inchiesta sul project financing per il MOSE, vengono arrestate 35 persone, tra cui l’ex presidente della Regione Veneto ed ex ministro Galan (FI) e il sindaco PD di Venezia Or-soni. Ma ci sono anche diversi espo-nenti del consorzio “Venezia Nuova”, di cui Co.ve.co. fa parte, tra cui il presidente Franco Morbiolo e il diri-gente Nicola Falco-ni. Co.ve.co avreb-be pagato tangenti ad una eu-rodeputata di Forza Italia e a due politici del Pd. “L’immagine di Co.ve.co” scrisse al-lora Il Gazzettino “sprofonda nelle acque del malaffare, additato come uno dei centri erogatori di mazzette attraverso l’oliato sistema di sovrafat-

I guai giudiziari di Guerrato e Co.ve.co.

APPALTI - Quelli che... vincono le gare (seconda puntata)

Le imprese che

avrebbero dovuto costruire l’ospedale

a Montenero coinvolte in

inchieste per storie di tangenti

salvo assumerne successiva-mente un ruolo contrattuale di mero “guardianaggio” nei confronti dell’Autorità Por-tuale. Anni e anni di chiac-chiere sulle gare internazio-nali mai svolte, sulla compa-tibilità delle “tre gambe” e soprattutto sui costi stimati per la ristrutturazione dei bacini (in un range fra i 18 e i 50 milioni di euro secon-do le prevsioni della Camera di Commercio di Livorno), insomma, hanno portato a questo risultato.Tra la custodia e una sor-ta di controllo strumentale che, come tale, avrebbe as-sicurato l’impiego dei baci-ni per le attività di refitting degli yacht, ma che, di ri-flesso, non avrebbe generato alcun automatico obbligo di manutenzione degli stessi con i relativi profili di respon-sabilità civile e penale. Uno scudo ideale, obiettivamen-

te, che avreb-be leso in origine, tra l’altro, quel principio di concorrenza spesso sol-lecitato dai s i n d a c a t i c o n f e d e r a -li di settore, sempre pron-ti a contesta-

re ai “competitors” di Azi-mut l’assenza di un benchè minimo piano industriale alternativo per l’uso dei ba-cini. Dunque, è da escludere, tecnicamente, una citazione diretta di Azimut fra i re-sponsabili della morte di Pe-trone e del ferimento di una decina di colleghi.Eppure, come ha sostenuto Adalberto Roncucci, ex Di-rettore Tecnico del Cantie-re Navale Luigi Orlando, il “concessionario” dei bacini di fronte al disastro sarebbe dovuto essere chiamato in causa per il presunto cedi-mento della platea del baci-no di carenaggio, ma soprat-tutto perché deve essere rite-nuto comunque responsabile delle operazioni di entrata e di uscita delle navi dai ba-cini. Attendiamo a questo punto l’esito finale delle in-dagini, ma soprattutto di ca-pire se e come per davvero, dal 2003 a oggi, le stazioni demaniali di servizio del porto di Livorno siano sta-te lasciate degradare in una condizione borderline senza che alcuno intervenisse. Il sacrificio di Petrone allora non sarebbe stato invano. E chissà che allora lo stesso inafferrabile bando dei baci-ni di Livorno non possa esse-re riscritto.

FRANCO REVELLI

Chissà se il sacrificio dell’elettricista napoleta-

no Gabriele Petrone, allora di anni 39, possa servire a squa-dernare e magari a risolvere il nodo dei bacini di carenaggio del Porto di Livorno. Riferi-mento azzardato, certamente, di cui gliene saremmo comun-que grati a futura memoria, dopo una decina di anni di indeterminatezza nel corso dei quali al porto di Livor-no (già Porto dei Porti nella visione di Roberto Piccini) è mancato il governo e la ma-nutenzione delle sue due prin-cipali Stazioni demaniali di servizio, il Bacino Grande in Muratura e lo stesso Bacino Galleggiante. Due comparti al limite della praticabilità e per troppo tem-po orfani di una regolamenta-zione d’uso che garantisse, fra le altre cose, anche il rispetto delle più elementari condizio-ni di sicurezza sui cantieri di lavoro. E dove si potesse scol-pire con assoluta chiarezza, in vista di gare internazionali di “affidamento in concessio-ne” più volte annunciate, ma mai colpevolmente celebrate, il rapporto fra proprietà de-maniale, gestione, concessio-ne, mera utilizzazione degli impianti, sistema di protezio-ne e controllo degli ambienti di lavoro.Un rapporto vischioso e flut-tuante, a sua volta condizio-nato, come vedremo, dalla “levità” del dibattito politico istituzionale sulla collocazio-ne dei bacini. Un dibattito per cui si sono spesi alternativa-mente due presidenze; la pri-ma ,quella di Roberto Piccini, favorevole ad una delocaliz-zazione dei bacini in Darsena 1, la seconda , quella di Gal-lanti, che nel 2011 era partito lancia in resta per confermare i bacini “là dove stanno e con caratteristiche di riparazio-ne navalmeccanica pesante”, prima di flettersi al magiste-ro del Registro Navale Italia-no (Rina).Quest’ultimo aveva infat-ti rappresentato, conti alla mano, l’inopportunità eco-nomica di investire sui ba-cini per farne una “Cmf del mare”, specie dopo l’avvento di Azimut Benetti con il suo portafoglio ordini pieno zep-po di yacht da 90 metri e lo sviluppo urbanistico della Porta a Mare di Livorno.Gallanti per la verità, all’in-domani di uno dei suoi mu-tevoli insediamenti (da Pre-sidente e da Commissario) parlò di “schermature” che avrebbero garantito l’im-permeabilità del quartiere a mare rispetto alle lavorazioni industriali, ma ogni volta che l’avvocato genovese sollevava un argomento così dirimente, Azimut Benetti da parte sua o minacciava di andarsene o,

con l’aiuto del Tirreno, rilan-ciava la costruzione dei mega yacht promettendo assunzioni dirette nell’immediato e corre-

date da 500-600 posti di lavoro in quell’indotto che era stato raso a zero dall’operazione di acquisto dell’ex Cantiere fra il

2002 e il 2003.Affermazioni che ovviamen-te finivano per rappresentare un’ipoteca giuridica e media-tica formidabile sul controllo dell’Area industriale di Porta a Mare, acquistata da Azimut non a caso per soli 50 milioni

di euro, proprio perché, come ha sempre sostenuto lo stesso deus ex machina dell’operazio-ne amministrativa Lamberti, “in mezzo c’erano anche i ba-cini”, che come tali avrebbero svalutato il prezzo d’acquisto di un’area altrimenti appetibi-le per stratosferici investimenti immobiliari.Ora, la domanda che spesso ricorre fra gli appassionati del genere, è se Azimut-Benetti, re-centemente chiamata in causa dalla Procura della Repubbli-ca di Livorno sulla compraven-dita illecita degli appartamenti della cosiddetta stecca artigia-nale di Porta a Mare, possa considerarsi parimenti respon-sabile, fra gli altri, dell’inciden-te mortale occorso a Gabriele

Petrone presso il bacino galleg-giante il 25 agosto di un anno fa in circostanze da verificare. Un incidente che, lo ricordiamo, ha determinato il sequestro giudi-ziario del bacino galleggiante e paradossalmente congelato la gara di assentimento in conces-

sione dei bacini di carenaggio istruita dall’Autorità Portuale nella primavera del 2015 e per la quale non solo Azimut, ma un numeroso cartello di com-petitors, avreb-be depositato la propria candi-datura. E questo nono-stante il bando sembrava fos-se stato scritto dai tecnici del Registro Na-vale Italiano (Rina) con un occhio di riguar-do per l’ormai monopolista in-dustriale d’area e proprietario, appunto Azimut Benetti. Che da parte sua, mentre il Sosti-

tuto Procuratore della Repub-blica di Livorno compila la lunga lista degli indagati per il disastro del Bacino Mediter-raneo che è costato la vita a Petrone, si scopre essere stata concessionaria formale dei ba-cini solo fino alla fine del 2009,

CANTIERE - Ad un anno dalla morte dell’elettricista nel bacino di carenaggio, il bando è avvolto nell’oscurità

Il mistero dei bacini

ACQUA - L’aumento sarà inferiore dopo tante polemiche, e il Forum toscano attacca il Pd

La bolletta della discordiaLo scorso 20 settembre l’as-

semblea dei sindaci del ter-ritorio gestito da Asa ha deciso: l’aumento della bolletta dell’ac-qua sarà “solo” del 2,7%. Chi ha vinto? Qualcuno dice i sin-daci di Livorno (M5S), Suvereto (sinistra) e Volterra (civico) per-ché l’azienda aveva proposto un rincaro del 6,5%. Il Pd invece ha giocato a nascondino. Non ha fatto nessuna proposta alternati-va, ha poi accusato i colleghi so-pracitati dell’aumento, ma allo stesso tempo ha sempre avallato le decisioni, e gli aumenti, det-tati dalle decisioni dell’Autorità Idrica Toscana (Ait, a comando Pd) e tutti i complicatissimi cal-coli per determinare gli aumenti in bolletta. Pd e Iren. I sindaci Pd allora sono tornati all’attacco su Iren e gli investimenti, denunciando che con questo lieve aumento sono a rischio gli investimenti sulla rete idrica. Quali investi-menti? Per loro mancheranno gli 85 milioni che avrebbe messo Iren se gli fosse stato concesso di scalare l’azienda e quindi di fatto di privatizzare il servizio idrico e mettere tutto nel bilan-cio della società quotata in bor-sa. Ma di questi 85 milioni, solo 15 sarebbero stati messi da Iren a fondo perso, proprio per pren-dere il controllo di tutto, mentre gli altri sarebbero coperti da pre-

stiti da restituire con interessi, an-dando a gravare sulle bollette dei cittadini.Il tasso usuraio Mps. Questa è la fredda cronaca dell’ultima tesa as-semblea dei sindaci dell’Ato. Ma il Forum Toscano dei movimenti per l’acqua pubblica, che segue da vi-cino le vicende livornesi in quanto terreno di scontro sull’avanzata del socio privato, non ha risparmiato alcune bacchettate alle preceden-ti gestioni chiedendo, in un co-municato, dov’erano i sindaci Pd quando avevano la maggioranza assoluta in Asa e l’azienda aveva “stipulato un project financing con il Monte dei Paschi, ad un tasso usuraio del 7%”.

Gli investimenti man-cati ma pagati. Il Fo-rum ha poi continuato il suo attacco: “Dalla relazione 2013 del diret-tore generale dell’Ait, apprendiamo che negli anni precedenti Asa ha effettuato solo la metà o anche meno degli investimenti previsti e all’appello mancano 21 milioni, non realizzati ma già incassati con le

bollette, come previsto dal Meto-do Normalizzato, allora in vigore. Inoltre Asa si è vista bloccare i fi-nanziamenti da parte della Regio-ne Toscana, per non aver concluso i lavori programmati entro i termi-ni. Dove erano allora questi sinda-ci? Di sicuro non hanno svolto la funzione di controllo che compete-va loro. Quei 21 milioni mancanti saranno stati impiegati in manu-tenzioni straordinarie? Sarebbe l’ora che i sindaci andassero a ve-rificare che il gestore non ricorra al gioco di inserire in modo ingiu-stificato le manutenzioni ordinarie della rete idrica e delle fognature tra le manutenzioni straordinarie: ciò comporta che si addebitino in

fattura agli utenti, oltre al costo del lavoro anche il progetto, gli am-mortamenti e i profitti che finisco-no nelle tasche dei soci aziendali”.L’acqua regalata a Solvay. L’at-tacco del Forum si è poi spostato sulla questione Solvay: “Come mai dai sindaci non si alza alcuna voce di protesta in relazione al fatto che la sola Solvay consuma tanta acqua quanto quasi quella di tutti gli utenti di Asa, pagandola solo 5 millesimi al me-tro cubo? Mentre gli investimenti per reperire altra acqua potabile si mettono in testa ai cittadini tutti e non a chi fa un uso sconsiderato di questo bene prezioso. Asa ha costi di gestione tra i più alti della Toscana. Non sono forse dovuti ai clientelismi messi in atto dai sinda-ci negli anni? Il Rivellino. Infine la questione dello spostamento del Rivellino, che a questo giro è rimasto fuori da tutte le polemiche. Strano, per-ché fino ad oggi era il ricatto su cui

si doveva giocare tutta la partita della scalata di Iren. La questio-ne invece, come abbiamo sempre scritto, era diversa. Quasi tutte le forze politiche hanno sempre convenuto che lo spostamento del Rivellino dall’attuale collo-cazione dentro la cinta esterna, a pochi metri dalla Venezia, sia una cosa positiva. Semmai c’e-ra da capire dove reperire i soldi per un’operazione che nel com-plesso costa quasi 25 milioni. Un primo lotto da 4 milioni do-vrebbe essere fatto davanti alla ex Trw. La scelta doveva essere

fra interveni-re sul vecchio impianto per adeguarlo o fare quel pezzo integrativo (per coprire circa 15.000 abi-tanti) in altro luogo. Proba-bilmente sarà scelta la se-conda ipotesi.

Poi per il resto dell’investimento serve l’accordo tra più parti in vista del risultato finale cioè la liberazione di tutta quella parte che dagli ex Macelli arriva a San Marco. Vedremo. Senza ricatti.

Senza Soste redazione

Il Forum attacca: tassi usurai dal

Mps e 21 milioni di investimenti già

pagati in bolletta mai eseguiti

Dal 2009 Azimut

è un semplice guardiano dei bacini

e ciò lo salverà da responsabilità per la morte dell’operaio di

un anno fa

Dopo la sentenza il bando dei bacini

potrebbe essere riscritto e riportato a ciò che era stato pensato nel 2003

Page 6: L’altro Barça - Senza Soste€¦ · Barça, non ha mai vinto niente di importante a livello interna-zionale avendo soltanto sfiorato la Libertadores in due occasioni. Questo però

per non dimenticare6 3interniOttobre 2016

sociale e la costruzione di una società nella quale il lavoro sia liberato dallo sfruttamento capitalistico sono possibili sol-tanto con il consenso e la par-tecipazione attiva della classe operaia e delle masse popola-ri, garanzia di una più ampia affermazione dei diritti di li-bertà, di democrazia e di indi-pendenza nazionale”. La Camera del Lavoro di Li-vorno indice 15 minuti di sciopero in solidarietà con l’insurrezione ungherese. Di Vittorio viene costretto a un dietrofront, ma ormai il mito dell’Unione Sovietica come paese guida del socialismo è in frantumi. Negli anni successi-vi nascerà una nuova sinistra critica con l’autoritarismo e il burocratismo dei partiti comu-nisti “tradizionali”. Due anni

dopo Togliatti voterà a favo-re della con-danna a morte di Imre Nagy, c h i e d e n d o però di rinvia-re l’esecuzione dopo le elezio-ni del maggio 1958. Così fu: Imre Nagy, Pàl Maléter e il

giornalista comunista Miklos Gimes verranno impiccati in una prigione di Budapest il 16 giugno 1958.

NELLO GRADIRÀ

L’Ungheria era uscita dalle due guerre mondiali con

due sconfitte, nella prima come parte dell’Impero austro-unga-rico e nella seconda in quanto alleata dei nazisti. Il paese fu liberato dall’Armata Rossa nei primi mesi del 1945, e nel 1949 nacque la Repubblica Popolare d’Ungheria, strettamente con-trollata dai sovietici. Come negli altri Paesi occupa-ti l’Unione Sovietica impose un’economia rigidamente cen-tralizzata e un rapido sviluppo dell’industria pesante, con un forte sfruttamento dei lavo-ratori. Inoltre sull’economia ungherese gravavano enormi crediti di guerra: nel 1946, il 65% della produzione fu desti-nata alle riparazioni belliche nei confronti dell’Urss. Questa situazione cancellò anche mol-ti provvedimenti positivi dei governi dell’immediato dopo-guerra, come la riforma agra-ria e la nazionalizzazione delle principali imprese, e provocò un diffuso malcontento. In al-tri paesi dell’Est subito dopo la morte di Stalin (marzo 1953) erano scoppiati moti operai e popolari con l’obiettivo di ottenere migliori condizioni economiche e maggiore demo-crazia. Il 17 giugno del 1953 gli operai di Berlino Est ave-vano iniziato uno sciopero che

si era esteso a tutte le città della Germania Est: a stroncarlo in-tervennero le truppe sovietiche. In Ungheria il governo di Imre Nagy aveva alleviato le condizio-ni di vita dei lavoratori, ma con la crisi economica del 1955 la si-tuazione era di nuovo peggiora-ta e Nagy era stato sostituito da Matyas Rakosi, esponente della “vecchia guardia”. Nel febbraio del 1956 con il XX congresso del Partito Comunista Sovietico iniziò l’epoca della “destaliniz-zazione”. Venne dichiarata la legittimità delle “vie nazionali al socialismo”, suscitando grandi speranze nei vari paesi satelliti di Mosca. Il 28 giugno del 1956 gli

operai di Poznan (Polonia) sce-sero in piazza contro la riduzio-ne del 30% dei salari. Anche in questo caso la rivolta fu repressa e si contò un centinaio di vittime. Il 23 ottobre dello stesso anno a Budapest studenti e intellettuali organizzano una manifestazio-ne di solidarietà con gli operai polacchi. Si chiede il ritorno di Nagy, che torna al potere, ma la situazione ormai è fuori control-lo e la protesta diventa insurre-zione. In tutto il paese si forma-no consigli operai che assumono rapidamente la guida della rivol-ta. Nagy concorda con le richie-ste dei rivoltosi e dichiara di vo-ler uscire dal Patto di Varsavia.

Il 3 novembre i rus-si arrestano il ge-nerale Pàl Maléter, ex partigiano e co-munista. Il giorno dopo 200.000 sol-dati e 4.000 carri armati russi entra-no a Budapest e im-pongono un gover-no filo-sovietico ca-peggiato da Jànos Kàdàr. Nagy si rifu-gia nell’ambasciata jugoslava ma il 22 viene catturato con uno stratagemma. Il movimento co-munista internazio-nale è scosso e divi-so. Mao Zedong e i partiti comunisti

“ortodossi” si schierano a favore dell’invasione, ma il dissenso è enorme. In Italia, a fronte della po-sizione filo-russa del gruppo di-rigente del Pci, molti intellettuali firmano il “Ma-nifesto dei 101”, di segno opposto, e la Cgil parla di “condanna stori-ca e definitiva di metodi antidemo-cratici di governo e di direzione politica ed economica, che de-terminano il distacco fra dirigen-ti e masse popolari. Il progresso

OTTOBRE 1956 - 60 anni fa l’insurrezione ungherese che scosse il movimento comunista internazionale

Finisce a Budapest il mito dell’Urss

La Camera del

Lavoro di Livorno indisse 15 minuti

di sciopero in solidarietà con l’insurrezione

OTTOBRE 1931 - 85 anni fa il processo e la condanna di Al Capone

Gli anni ruggenti della mafia negli UsaNELLO GRADIRÀ

Il 16 gennaio 1920, dopo anni di pressione da parte delle organiz-

zazioni religiose fondamentaliste, finanziate anche da ricchi impren-ditori come Rockefeller e Ford, entrò in vigore negli Stati Uniti il proibizionismo. Il senatore Volste-ad, autore della proposta di legge, usò toni trionfalistici: Le prigioni e i riformatori resteranno vuoti. Tutti gli uomini cammineranno di nuovo eret-ti, tutte le donne sorrideranno e tutti i bambini rideranno. Le porte dell’infer-no si sono chiuse per sempre. A ridere invece fu la criminalità organizzata, che si trovò tra le mani l’affare del secolo: il prezzo dell’alcool, come sempre accade quando un prodotto viene mes-so fuorilegge, salì alle stelle. Gli alcolici venivano contrabbandati dall’estero o distillati clandesti-namente negli Usa, e nacquero decine di migliaia di locali detti “Speak easy” (Parlate piano) dove si poteva consumare alcool illega-le, spesso di pessima qualità e “ta-gliato” con varie sostanze. Gli enormi profitti del traffico di alcolici, che si aggiunsero a quelli derivanti dai “tradizionali” racket della prostituzione e del gioco d’azzardo, permisero ai boss ma-

fiosi di corrompere poliziotti e poli-tici, garantendosi un’impunità pres-soché totale, e di controllare la vita pubblica di molte città statunitensi. Il personaggio più emblematico dei “ruggenti anni Venti” fu senz’altro Al (Alphonse Gabriel) Capone, det-to “Scarface” per una cicatrice sulla guancia sinistra lasciatagli dalla ra-soiata di un gangster che non aveva apprezzato un complimento rivolto a sua sorella. Nato a Brooklyn nel 1899 da una famiglia originaria di

Angri (Salerno), sale rapida-mente tutti i gradini della ge-rarchia malavitosa. A vent’an-ni si trasferisce a Chicago dove prende in gestione un locale notturno del mafioso Johnny Torrio e poi ne diventa so-cio. Fonda un vero e proprio impero: arriva ad avere sul libro paga metà della polizia di Chicago, e controlla mili-tarmente vari sobborghi della città, come Cicero, sopranno-minato “Caponeville”. Qui i suoi uomini girano armati per le strade come se fossero

loro la polizia, e in occasione delle elezioni del 1924 decine di scagnoz-zi picchiano elettori e candidati per imporre un sindaco “amico”. Le guerre tra bande per il controllo del territorio sfociano spesso in battaglie campali e i regolamenti di conti av-vengono con modalità volutamente clamorose. Nel settembre 1926 ben dieci macchine piene di killer del boss Moran crivellano di colpi il ri-storante dove Capone sta pranzan-do e tutto l’isolato, ma “Scarface”

riesce a scamparla. Il 14 febbraio del 1929 uomini di Al Capone tra-vestiti da poliziotti fanno irruzione in una distilleria clandestina di Mo-ran ed uccidono sette persone. Dopo il massacro di San Valenti-no Al Capone è al suo apice: viene intervistato come un divo e non tralascia la benefi-cenza per i poveri creati dalla Gran-de Depressione. Ma è diventato “il nemico pubbli-co numero uno”: nell’impossibili-tà di attribuirgli la responsabilità degli omicidi per l’assoluta omertà, le autorità pensa-no di incastrarlo per evasione fiscale. Buona parte dei proventi delle attività illecite, però, vengono reinvestiti in attività legali e quasi mai sono riconducibili al vero proprietario. Dopo cinque anni di ri-cerche, gli agenti delle tasse federali riescono ad incriminarlo. Il processo

si apre il 6 ottobre 1931. Ci sono fondati sospetti che la giuria popo-lare sia stata corrotta, e il giorno dopo con un clamoroso colpo di scena i giurati vengono sostitui-ti. Il 17 ottobre Al Capone viene condannato a undici anni. Inviato nel penitenziario di Atlanta vive

tra lussi e privi-legi e continua a controllare il business. Viene allora trasferito nel famigera-to carcere di Alcatraz dove i contatti con l’esterno sono praticamente impossibili. Per uscire sceglie la strada della

buona condotta, che gli vale una riduzione della condanna. Viene scarcerato nel 1939, ma soffre di una forma di demenza causata da una sifilide. Si ritira in Florida, dove morirà prematuramente il 25 gennaio 1947.

Grazie al proibizionismo

la criminalità organizzata arrivò a dominare la politica

statunitense

Anno XI, n. 119

OLIMPIADI - Da Boston a Roma, da Barcellona a Pechino: rinunce, fallimenti e benefici dei giochi olimpici

Il buco olimpico

un “rischio imprenditoriale”, gesti-to da enti terzi ma le cui ricadute possono avere effetti sulle casse di chi ospita fisicamente l’evento. Il passato. Ci sono vari esempi del passato che hanno fatto scuola. Toronto 1976: un disastro, +800% di spesa prevista e 30 anni di debi-ti. Atene 2004: 16 miliardi spesi e 10 di debito. Londra 2012: edizio-ne sobria in stile inglese con tanti impianti “smontabili” ma costi lievitati da 3 miliardi a oltre . Le olimpiadi invernali di Sochi (Rus-sia) e quelle estive di Pechino 2008 (-40 miliardi) sono esempi di buchi neri ma creati all’interno di siste-mi e contesti storico-politici non sovrapponibili ai nostri. Qualcuno però può obiettare che di fronte ad una rimessa oggi ci possono esse-re dei benefici domani. Ed anche qui ci sono forti dubbi. Prendiamo

Atlanta 1996: nonostante i debiti accumulati ci fu una lieve crescita economica dell’area negli anni dei Giochi. Lo stesso studio dimostrò che il settore pubblico avrebbe ot-tenuto gli stessi risultati, in termini di posti di lavoro creati, spendendo la stessa cifra in più tradizionali progetti di sviluppo, che oltretutto avrebbero avuto un effetto positivo di più lungo periodo sulla cittadi-nanza. Tutto male dunque? No, Barcellona 1992 ne è un esempio. A fronte di un deficit di circa 6 miliar-di, Barcellona riuscì ad iniziare la propria ricostruzione a livello urba-nistico e turistico. Ma non scordia-moci che stiamo parlando di una città e di un paese uscito da appena una decina di anni dal franchismo e che con quelle olimpiadi fece leva verso una veloce modernizzazione che trainò una città intera. Non ci

pare che le condizioni di Boston, Amburgo o Roma siano tali che l’evento possa avere questo impatto a livello economico e politico. Chi rimane in corsa? Rimangono Parigi, Bu-dapest e Los Angeles. Parigi ha partorito il suo Sì non senza diffi-coltà. Il sindaco socia-lista Anne Hidalgo due anni fa, quando entrò in carica, pendeva deci-samente per il No. Per convincerla il comitato a favore della candidatu-ra ha dovuto presentar-le un progetto low cost (1,5 miliardi), a basso

impatto ambientale e con dentro la riqualificazione del quartiere/banlieue Saint Denis. Budapest in-vece ha presentato una candidatura più che altro politi-ca. Il presidente Orban, nazionali-sta di destra, cerca una vetrina per ali-mentare il senso di appartenenza alla grande Ungheria. Ora però cerca al-leati. Un passo per molti azzardato che non ha fatto mancare aspri dibattiti in patria e con l’opinione pubblica divisa dalla paura di ritrovarsi un ingente debito da pagare sulla testa. Infi-ne Los Angeles. Una candidatura cresciuta specialmente dopo l’ab-bandono di Boston. Una città che

nel 1984 passò alla cronaca per un’olimpiade che non portò far-delli sulle casse pubbliche perché organizzata con finanziamenti privati. Un caso raro che forse si può permettere solo la patria di Hollywood e di quella che poi è diventata la Silicon Valley. Come fecero? Grande disponibilità di capitali privati e un grande giro di affari dietro i diritti televisivi che a quel tempo (ed anche oggi) solo gli Usa sanno accumulare. Si parla di un sistema diverso da quello europeo, dove i privati ed i capitali finanziari scandiscono la vita, anche con larghe fette di miseria, di una città all’in-terno di uno Stato (regione) come la California che ha para-metri tutti suoi anche all’inter-no degli Stati Uniti. Roma. Come si può vedere ogni territorio ed ogni contesto ha bisogno di una propria analisi rispetto a costi e benefici. Roma, dallo scandalo dei mondiali di nuoto del 2009 (nella foto le in-compiute vele di Calatrava a Tor Vergata) passando dagli ultimi

sette anni di im-barbar imento della corruzione della classe di-rigente, non ci pare nelle stesse condizioni poli-tiche ed econo-miche di altre città che hanno esse stesse rinun-ciato. Quindi

la Raggi ha fatto bene? Dato il contesto storico ci è parsa una scelta “razionale”. D’altra parte quando quattro anni fa la fece Monti in molti applaudirono. E probabilmente ora la situazione è anche peggiore.

FRANCO MARINO

Estate 2015: il sindaco di Bo-ston, Marty Walsh si presen-

ta in conferenza stampa: “Non firmerò nessun accordo che pos-sa lasciare i miei cittadini/contri-buenti schiacciati dai costi sfora-ti come è sempre accaduto a chi organizza i grandi eventi spor-tivi”. Si sta parlando di un ec-centrico populista alla ricerca di consensi facili? No, Marty Walsh è un esponente labour del partito democratico. Ha già avuto altri incarichi politici ed ha valutato che i rischi per le casse della cit-tà sarebbero stati più grandi dei possibili successi. A Davos, Cra-covia, Oslo, Monaco di Baviera e Amburgo hanno rinunciato alle olimpiadi con un referendum, a Boston invece il dibattito politi-co che lo ha preceduto è bastato per ritirare la candidatura. Sono tutte amministrazioni incapaci, improvvisate e che non sanno prendersi responsabilità? A leg-gere i nomi non pare e dentro si possono trovare sindaci di vari schieramenti politici. Quali rischi? In un contesto eco-nomico fatto di tagli agli enti lo-cali ed ai servizi dove i comuni fanno fatica a chiudere i bilan-ci, ritrovarsi con i costi previsti sballati significa condannare i propri cittadini a purghe post-o-limpiche. Perché i soldi per le olimpiadi non vengono tutti dal Comitato Olimpico Internazio-nale e dal governo, sennò tutti farebbero a cazzotti per acca-parrarseli. Gli enti territoriali devono contribuire con opere e servizi che hanno dei costi, che quando la città diventa un can-tiere sono destinati ad aumenta-re. I grandi eventi quindi hanno

#Bocciato(segue da pagina 1) ...lingua straniera, volti ad attestare un livello B2, mai richiesto prima né all’università, né nei percorsi abilitanti (per-ché un buon insegnante di matematica o una brava ma-estra di italiano dovrebbero avere tra le loro doti princi-pali quella di saper cogliere le sottigliezze lessicali di un testo giuridico in francese o in inglese?). I quesiti relativi alle singole discipline, poi, richiedevano di svolgere in 15 minuti dei lavori di pro-gettazione didattica a cui qualsiasi insegnante dedica normalmente ore del proprio quotidiano lavoro. Si è subito parlato di prove fatte apposta per bocciare e infatti a luglio sono co-minciati ad uscire i risultati degli scritti, e il risultato è stato un’ecatombe, con per-centuali di bocciature che hanno raggiunto talvolta il 90% o addirittura il 100%. Non è ancora possibile fare una stima nazionale, perché in molte regioni le procedure non si sono (ov-

viamente) ancora concluse, in alcuni casi per l’alto numero dei partecipanti, in altri per il susseguirsi di irregolarità eclatanti, come la convoca-zione agli orali di persone che mai avevano partecipato allo scritto, la perdita dei codici che consentivano di identifi-care gli autori dei compiti, lo scambio di codici, la scoperta di manifeste incompatibili-tà dei commissari ecc.

Si può però già dire che, ad eccezione di qualche regione illuminata, la tendenza gene-rale è stata quella di bocciare il più possibile. Un caso esem-plare è il dato (questo nazio-nale) del concorso per il so-stegno: i posti messi a bando erano 5700, in numero quindi già irrisorio rispetto al fabbi-sogno, se si considera che dei 120mila insegnanti di soste-gno in Italia, più di 40mila

sono precari. Nonostante que-sto, a fronte delle numerose bocciature, un migliaio dei po-sti messi a bando sono rimasti senza vincitori e saranno co-perti nuovamente da precari. Un altro caso emblematico è proprio quello della Toscana, patria di Renzi e Giannini, forse non a caso la regione con il numero più alto di bocciatu-re. Per la classe delle materie letterarie, ad esempio, a fronte di più di 700 posti disponibili e soli 590 aspiranti, i vincitori sono stati 142: significa che più di 500 posti rimarranno vuoti. O meglio, saranno occupati dagli stessi precari che sono stati bocciati al concorso. A questo palese fallimento, non solo e non tanto dei sin-goli docenti costretti a questa umiliazione, ma di un’intera procedura concorsuale che do-veva “abolire la supplentite”, la Giannini, vergognosamente spalleggiata dai media main-stream, ha risposto attribuen-do la responsabilità all’im-preparazione dei candidati. “Meglio un somaro a spasso che un somaro in cattedra”,

commenta la Repubblica, andando a rinfocolare quel processo di screditamen-to della scuola pubblica e della figura dell’insegnante che da anni i governi che si sono succeduti stanno portando avanti. Ma anche un somaro capi-rebbe che la realtà è molto più banale e cruda. Basta chiedersi a chi giova man-tenere precaria una genera-zione di insegnanti ultrafor-mati e ultratitolati: di certo non giova ai ragazzi e ai do-centi, precari e non. Giova, forse, solo a uno stato che vuole una scuola a costo zero, fatta per una larghis-sima parte da lavoratori sta-gionali, che prendi e scari-chi quando vuoi, a seconda delle esigenze, a cui non pa-ghi la malattia e che l’esta-te paghi con una miseria di disoccupazione. Questa è la Buona Scuola, quella dove i lavoratori sono ricattabili e si risparmia fregandose-ne dei diritti delle persone. Come in ogni Buona Azien-da.

In tanti hanno rinunciato alla sfida olimpica, perché il

rischio di far pagare un flop ai cittadini

era troppo alto

Page 7: L’altro Barça - Senza Soste€¦ · Barça, non ha mai vinto niente di importante a livello interna-zionale avendo soltanto sfiorato la Libertadores in due occasioni. Questo però

internazionale Anno XI, n. 119 7stile liberoOttobre 2016

tassi di recupero delle somme in-vestite pari al 21 per cento, quan-do la media su altri settori indu-striali è del 58 per cento. Proprio nei giorni scorsi però, la società energetica statunitense Apache ha annunciato la scoperta di un im-portante giacimento di petrolio e gas in Texas. Si tratta, ha scritto la stampa Usa, della maggiore sco-perta degli ultimi 10 anni. Il gia-cimento si chiama Alpine High ed è situato nel bacino del Delaware nel Texas occidentale e potrebbe contenere l’equivalente di alme-no 3 miliardi di barili di petrolio e oltre 2.000 miliardi di metri cubi di gas, ha spiegato Moody’s. Ma, in vista della riunione informale tra i membri dell’Organizzazione Opec e Russia, in programma a margine della Conferenza inter-nazionale sull’energia di Algeri, il vero osservatore speciale sarà la Cina. Se il motore energetico cinese continuerà nelle prossime settimane a perdere giri allora sarà veramente difficile cercare di rag-giungere l’equilibrio necessario a rilanciare l’industria petrolifera globale. Riad si trova quindi a far fronte ad un rallentamento del-la crescita globale, la crescita di nuovi concorrenti come il Kaza-kistan e gli Usa di fronte a nuove scoperte, e a stringenti necessità di riscossa dovute alla crisi della fi-nanza legata al petrolio. L’Arabia Saudita, uno dei paesi chiave del mondo si trova così davanti a nuo-ve crisi globali (fine prima puntata).

TERRY MCDERMOTT

Cominciamo una serie di articoli dedicati all’Arabia Saudita, pae-

se chiave non solo in Medio Oriente, sul piano geopolitico, ma anche a li-vello globale sia per la produzione di petrolio che per il ruolo nei mercati finanziari. L’Arabia Saudita, anche per una storica connivenza con gli interessi americani, è sempre rimasta nel cono d’ombra delle notizie. Eppu-re, per la crisi che sta attraversando, e anche per l’allentamento dagli inte-ressi americani, meriterebbe maggiore attenzione. Lo facciamo dedicandogli una serie di articoli. Il primo non può che riguardare il petrolio.

L’Agenzia internazionale per l’e-nergia (Aie) ha recentente lancia-to l’ennesimo allarme ribassista per il mercato del petrolio causato da un rallentamento della crescita della domanda di greggio per il 2016 e il 2017, a fronte di un’offer-ta che, invece, resta sempre trop-po alta. Nel 2016, la domanda di petrolio dovrebbe aumentare di 1,3 milioni di barili giornalieri, un dato di 100 mila barili inferiore alle ultime previsioni, mentre nel 2017 la crescita dovrebbe scende-re poi a 1,2 milioni di barili. Lo schiaffo, alle aspettative dell’Ara-bia Saudita e dei mercati globali del petrolio, arriva da Cina e In-dia che stanno già cominciando a ridurre la domanda di greggio e dall’offerta dei paesi produtto-ri non appartenenti all’Opec (il

principale cartello di produttori di greggio) come il Brasile, il Canada e il Kazakistan. Ad Astana, infatti, sono pronti a festeggiare la definitiva messa in moto – dopo anni di ritardi e una crescita esorbitante dei costi – del supergiacimento di Kashagan, che dovrebbe avvenire ad ottobre, come hanno fatto sapere dal con-sorzio che gestisce il progetto, di cui

fa parte anche l’Eni. Come si vede, quindi, non solo c’è una tendenza verso il rallentamento della doman-da globale di petrolio ma, anche, una di concorrenza verso i sauditi, che crea molte difficoltà a Riad. Ma, nonostante tutto nell’Opec proprio l’Arabia Saudita non vuole cedere lo scettro di leader del mercato alimen-tando il fuoco dell’iperofferta, come

due anni fa. Infatti ad ago-sto l’Arabia ha sorpassa-to, di nuovo, gli Stati Uni-ti come primo produttore mondiale di petrolio. Il mese scorso, sempre fon-te l’Aie, Riad ha prodotto 12,58 milioni di barili di greggio e condensati al giorno, contro i 12,2 mi-lioni degli americani: gli Stati Uniti perdono così quel primo posto conqui-stato ad aprile 2014 (pri-ma della guerra fredda del petrolio tra Usa e sauditi)grazie al boom del tight oil.Dunque, mentre i sau-diti hanno aumentato di 400 mila barili al giorno la produzione dai propri giacimenti a basso costo a partire da maggio, circa 460 mila barili americani sono usciti dalla produ-zione nel giro di un’estate. Secondo Moody’s la crisi del barile Usa si è estesa a tutto sistema finanziario che ha supportato negli anni la shale revolution

(anche se, onestamente, stupisce solo che Moody’s abbia fatto fin-ta fino ad adesso di non accorgersi di questo contagio). In uno studio sulle principali bancarotte nel set-tore petrolifero nazionale, l’agenzia di rating afferma quind. che questi fallimenti sono stati, per gli istituti di credito e gli investitori, tra i più catastrofici degli ultimi anni, con

GEOPOLITICA - Viaggio in un paese chiave nello scacchiere globale (prima puntata)

Arabia Saudita: la grande sconosciuta

RELIGIONE - La santificazione di Madre Teresa di Calcutta

Il dolore come businessNELLO GRADIRÀ

Il 4 settembre scorso in Vaticano è stata santificata la suora alba-

nese Anjezë Gonxhe Bojaxhiu, più nota come Madre Teresa di Calcutta, morta nel 1997 all’età di 87 anni, una delle icone religiose più note a livello internazionale. Secondo le regole della Chiesa cattolica, per la beatificazione occorre che il candidato sia sta-to autore di un miracolo docu-mentato, e altrettanto avviene per la santificazione. Nel caso di Madre Teresa si tratta in entrambi i casi di stupefacen-ti miracoli a distanza: era stata beatificata da Karol Wojtyla nel 2003 grazie alla guarigione di tale Monica Besra, una donna indiana che risolse improvvisamente una forma di tubercolosi dopo aver ap-poggiato sull’addome un’immagi-ne della suora. In base a un’inda-gine condotta dal governo india-no, il presunto miracolo si è rive-lato falso. La donna è stata gua-rita dalle medicine ricevute in un ospedale, e i medici della struttura dov’è stata curata hanno denun-ciato pressioni subite dalle suore per tacere. Per la santificazione è stata invece omologata la guari-gione di un brasiliano affetto da un’infezione cerebrale: la moglie

avrebbe pregato con un santino di Madre Teresa nelle mani. Quest’an-no il miracolato ha raccontato la sua esperienza al meeting di CL a Rimi-ni. Madre Teresa, trasferitasi in India appena diciottenne, fondò nel 1950 la congregazione delle “Missionarie della carità”, dirigendola con estre-mo autoritarismo, e due anni dopo aprì un piccolo ospedale da 40 posti letto, il Nirmal Hriday, destinato ai moribondi che venivano respinti da-gli ospedali pubblici. Per quanto pos-sa essere sorprendente, vista l’incre-

dibile quantità di donazioni ricevute, si tratta dell’unica struttura sanitaria costruita da Madre Teresa. Questo ospedale l’ha resa famosa in tutto il mondo, ma ha attirato durissime

critiche, provenienti anche da fonti molto autorevoli, inerenti la sua ge-stione e il trattamento dei malati. Piuttosto esplicito il settimanale tedesco Stern, che nel 1998 titolò “Madre Teresa, dove sono i tuoi milioni?” I soldi delle donazioni finivano di solito nella costruzio-ne di nuovi conventi, che in genere non forniscono alcuna assisten-za alla popolazione ma hanno solo un ruolo di proselitismo. Le note riviste mediche “Lancet” e “British Medical Journal” hanno puntato l’indice sulle terapie pra-ticate, giudicate assolutamente in-

sufficienti ed inefficaci. Si parlava di scarsa professionalità, diagnosi molto superficiali, carenti condizioni igieniche, riutilizzo di aghi con peri-colo di contagio, mancanza di acqua calda, pessima qualità del cibo: «Tra i malati incurabili finivano spesso anche poveracci che sarebbero potuti guarire con le cure appropriate, ma che finivano anche loro per morire a causa delle infezioni e dell’inedia». Qualche giornalista addirittura ha paragonato i malati di Madre Te-resa agli internati nei lager. E “Le Monde” scriveva: «La suorina alba-nese era interessata a promuovere i

suoi disumani principi dottrinali su sventurati moribondi che fini-vano nel suo ospizio, destinati a non uscirne più e a morire nella sofferenza, giacché la missionaria non permetteva l’uso di antidolo-rifici”. Madre Teresa si opponeva esplicitamente alle cure mediche: «Se accetti la sofferenza e la offri a Dio, ti darà gioia. La sofferenza è un grande dono di Dio. Il dolore avvicina a Gesù». Lei probabil-mente era già abbastanza vicina a Gesù, tanto è vero che quando ha avuto bisogno di cure non ha esi-tato a procurarsele in strutture pri-vate di alto livello situate all’estero, come la Mayo Clinic di Jackson-ville (Florida). Uno studio cana-dese del 2013 parlava di “metodo opinabile nella gestione dei ma-lati, controversa gestione dell’e-norme quantità di soldi ricevuti, strani agganci politici”. Dal punto di vista politico, Madre Teresa si caratterizzava per un as-soluto fondamentalismo, e consi-derava un tradimento le riforme del Concilio vaticano secondo. Ha sempre manifestato posizioni ultraconservatrici: contraria all’a-borto, alla contraccezione e al divorzio. E naturalmente «L’Aids è semplicemente una giusta retri-buzione per una condotta sessuale impropria».

La suora albanese

era contraria perfino anche all’uso di

antidolorifici per i malati terminali

sorprende ogni volta. Io mi sento profondamente riconoscente verso chi mi ascolta. Perché senza la condivisione, la musica (come tante altre cose) varrebbe davvero poco. Il disco l’abbiamo ristampato tre volte...se si pensa che è quasi completamente autoprodotto trovo che sia un successo. In tutto questo bisogna tener conto che io ho un lavoro vero (!), e che tutto quello che mi arriva dalla musica (in termini di gioia, intendo) dà un senso enorme alle fatiche, ai sacrifici, alle rinunce che sono inevitabili. “La prima volta” è stata una grandissima soddisfazione. Un battito di cuore durato due anni». Per il 2017 è già in cantiere un nuovo album che si intitolerà «Secondo tempo», «perché il primo tempo, diciamocelo, dovrebbero abolirlo. Dovrebbero fare partite da 60 minuti tirati senza fuorigioco e coi cambi volanti; roba che ne prendi 4 in 5 minuti e poi vinci 37 a 26. Perché quello è il calcio, com’era al campetto, com’era da bambini. Quando la vita aveva davvero la carica, l’ansia, la paura e la fretta di un lunghissimo secondo tempo». In «campo» George Best visto da bambino, Claudio Spagna e Gianluca Signorini, il 4 Maggio granata, Beppe Viola...perché Filippo Andreani i miti moderni non li vuol cantare.

ORLANDO SANTESIDRA

Il pettirosso in copertina come omaggio al noto romanzo di

Maurizio Maggiani. Si presenta così «La prima volta», il terzo album in studio di Filippo Andreani (con le voci di Marino Severini dei Gang, Sigaro della Banda Bassotti, Steno dei Nabat, Rob dei Temporal Sluts) che ha trovato nelle pagine dello scrittore ligure il coraggio di estrarre «dall’incendio della storia» dieci canzoni che offrono intatto il sogno di libertà del suo autore. Comasco, classe 1977, Filippo Andreani è stato per più di un decennio protagonista della scena combat rock italiana (o combat burdel, come ama definirla) con gli Atarassia Gröp (nel disco compare la voce di Robi in «Veloce»), poi ha scelto di inseguire il profumo «inebriante della parola cantautore». Una carriera solista iniziata tra luci e ombre per stessa ammissione del cantante, che è poi riuscito a ritrovare «la sincerità musicale» e a partorire un album dove tutto è al posto giusto e di cui si sente orgoglioso dalla prima all’ultima parola. Un nuovo inizio, «La prima volta», che canta storie e protagonisti del passato. Frammenti di storia d’Italia come quella dei fratelli Cervi a cui è dedicata «Canzone

per Delmo», pezzo d’apertura del disco nel quale «dal cielo sopra Reggio Emilia» Aldo invoca il figlio a difendere il suo cognome da chi farà di tutto «per lavargli il cuore». Appassionato di calcio, una vita da ultrà nella curva del Como, il cantante racconta in più brani i suoi eroi del pallone, lui che tra Mazzola e Rivera avrebbe scelto Vendrame perché non vuole ragazzi dorati - «li scelgo di pane» - non fa sconti al calcio moderno «ché l’amore si misura in sciarpe tese e non in tessere che puoi farci la spesa». E così nessun omaggio a calciatori con la cresta, ma a un

grande narratore di calcio come Gianni Brera («Che la terra ti sia lieve»), al «Numero nove» Stefano Borgonovo, ricordando il suo ritorno al Sinigaglia e al numero «sette» della storia del calcio italiano, lariano di nascita e protagonista in maglia granata, «Gigi Meroni», canzone finalista del premio Tenco 2015. In questo percorso in parte autobiografico, in parte teso a raccontare una fotografia dei tempi andati della nostra società, non mancano dediche ai suoi riferimenti musicali, Lindo Ferretti, Joe Strummer («Il prossimo disco dei Clash») e in particolare Piero

Ciampi e la sua Livorno che entrano nel disco con la bellissima «Lettera da Litaliano». A tal proposito, dice Filippo, «i tributi a Piero non saranno mai abbastanza. E’ l’unico (forse, in parte, Tenco) che ha messo in musica una disperazione autentica e non di maniera. Glielo dovevo. Anche perché Adius è uno dei primi pezzi punk che ho conosciuto». Conclude l’album una canzone per la nascita di Annarella, prima figlia del cantautore, scritta, mentre fuori nevicava, in una sala d’attesa

dell’ospedale di Varese. «E’ stata una redenzione. Alla fine, nel disco, arriva a salvare tutti: il suo papà, la tristezza di Meroni e le lacrime di Cristiana, la malinconia di Adelmo, l’addio di Mura al suo “maestro” Brera, il mio amico Speedy e tutto il resto». L’album, dopo la sua uscita, ha fatto per due anni il giro d’Italia. «Abbiamo fatto una quarantina di date ed in ciascuna ho trovato un pubblico che conosceva - a volte per intero - le mie canzoni. Che mi aspettava. Che ha voluto parlare. Che ha diviso con me un bicchiere. Mi sono sempre stupito. La musica ha una forza comunicativa che mi

La prima volta di Filippo AndreaniSUONI/1 - Al terzo album, il cantautore comasco ritrova se stesso e tutte le sue passioni

SUONI/2 - Dopo due dischi con i Criminal Jokers esordio solista per Francesco Motta

La fine dei vent’anniLUCIO BAOPRATI

Partiti da lontano/ e di colpo ar-rivare ad essere contenti/ma il

colpo era forte / e le note non erano giuste. Comincia così - e con le note giuste di Del tempo che passa la felicità - quello che già all’esor-dio (18 marzo) era stato indica-to come uno dei migliori dischi del 2016, “La fine dei vent’an-ni” (Woodworm/Audioglobe) del cantautore, compositore e polistrumentista Francesco Motta, col quale si è aggiudi-cato la Targa Tenco 2016 per la sezione “Opera prima”. Nato da famiglia livornese a Pisa nell’ottobre del ‘86 e cre-sciuto artisticamente proprio nella città della Torre, dell’Uni-versità e degli Zen Circus, Mot-ta dopo dischi con i Criminal Jokers (2010 This Was Supposed To Be The Future, 2012 Bestie) si trasferisce a Roma dove tra l’altro si forma come film com-poser al Centro Sperimentale di Cinematografia (degne di nota le musiche che ha composto per il bel documentario, uscito quest’anno, del livornese Simo-ne Manetti Goodbye Darling, I’m off to Fight).E proprio a Roma Francesco, inizia a lavorare al suo primo di-sco solista, forte del suo talento e della sua versatile esperienza pluriennale sia sul palco che

fuori. Consapevole delle sue doti e capacità individuali ma anche lu-cidamente forte dell’arricchimento che può arrivare da altri Francesco contatta e riesce a coinvolgere uno dei musicisti, autori e produttori più interessanti del panorama ita-liano, il romano Riccardo Sinigal-lia, già autore e collaboratore tra gli altri di Niccolò Fabi, Max Gaz-zé, Tiromancino, Frankie hi-nrg mc. Sinigallia, uno per il quale «il testo è il centro di una canzone» ri-mane colpito dalle prime canzoni

abbozzate di Francesco e decide così di produrlo. Nasce a detta di entrambi una forte sinergia artisti-ca ed una grande sintonia perso-nale che porteranno a comporre e confezionare un grande disco

e saldare una grande amici-zia. Dentro e fuori questo lavo-ro, a partire dalla coperti-na sostenuta dal bel ritratto della fotore-porter Clau-dia Pajewski, Motta mette se stesso, ci mette il suo cogno-me (ovvero le sue origini, la sua famiglia - la sua ama-tissima sorella Alice - i suoi ricordi che ritroviamo sparsi al centro del booklet), ci mette la sua faccia, con i sui segni, il suo passato e ci mette il suo sguardo, il suo punto di vista: ci affronta, determinato, ma in pace. La title track del disco poi (lanciata come singolo con un videoclip diretto in piano sequenza dal napoletano Francesco Lettieri) regala secondo me uno degli incipit più belli della canzone italiana “C’è un sole perfet-

to/ ma lei vuole la luna, per chiudersi con un’avvolgente coda di rumori.La fine dei vent’anni, rispetto a quelli con i Criminal Jokers è un disco più consapevole, più scelto nelle intenzioni e più equilibrato nella dinamica interna ma non manca la dimensione fisica ed a tratti ritmicamente ipnotica della cifra stilista ed umana di France-sco Motta. Dimensione che è sta-ta nuovamente esaltata in un lungo

tour di presentazione del disco, partito l’8 aprile da Pisa (Depo-sito Pontecorvo) per approdare il 1° di ottobre dopo altre qua-si quaranta tappe in giro per lo stivale ed ormai prossimo al suo trentesimo compleanno alla sua famigliare Livorno inaugurando la nuova stagione del The Cage.Motta in una dialettica continua tra cervello e nervi scrive musi-ca e testi di metà del disco, l’al-tra metà con Sinigallia, tra cui i due testi a quattro mani di Sei bella davvero e Roma stasera, ma con l’intelligenza e la consape-volezza ancora una volta di non peccare di autosufficienza coin-volgendo nella registrazione altri musicisti (alcuni scelti da lui altri da Sinigallia): dalla ex bassista dei Tiromancino Laura Arzilli, al batterista Cesare Pe-tulicchio, da Alessandro Alosi all’inossidabile Giorgio Canali che con la sua chitarra elettrica va ad impreziosire le atmosfere degli ultimi due pezzi del di-sco, Una maternità ed Abbiamo vinto un’altra guerra. Una canzo-ne quest’ultima che Francesco Motta chiude – e noi con lui questo articolo – così: li guarde-remo negli occhi / ci spareranno alle gambe/per non farci pensare / noi strisceremo di notte/ per non farci vedere.

“La fine dei vent’anni è un po’ come essere in ritardo, non devi

sbagliare strada, non farti del male e trovare parcheggio”

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Page 8: L’altro Barça - Senza Soste€¦ · Barça, non ha mai vinto niente di importante a livello interna-zionale avendo soltanto sfiorato la Libertadores in due occasioni. Questo però

Periodico livornese indipendente - Anno XI n. 119 - Ottobre 2016 OFFERTA LIBERAPoste italiane S.p.A. Spedizione in Abb. Post. 70%

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Pagina OttoAnno XI - n. 119 - Ottobre 2016

SUDAMERICA - In Ecuador, a Guayaquil, esiste un altro Barcellona ed è la squadra più popolare e vincente del paese. La scelta del nome è un omaggio al club catalano. Ma i rapporti tra le due società sembrano essersi irrimediabilmente incrinati.

TITO SOMMARTINO

La visione marcatamente eu-rocentrica che abbiamo in

Italia fa sì che vengano trasmes-se in tv partite disputate davanti a tremila spettatori, come avvie-ne spesso in campionati privi di alcun appeal come quello olan-dese o quello belga, ma che non si dedichi nemmeno un highlight, né mezza pagina di giornale a match capaci di convogliare cen-tomila persone allo stadio e bloc-care interi paesi davanti alla tv come spesso accade in America Latina. Ciò fa sì che in Italia la stragrande maggioranza dei cal-ciofili neanche sia a conoscenza dell’esistenza di veri e propri fe-nomeni sportivi e sociali di mas-sa. A diecimila km dalla capitale ca-talana, ad esempio, esiste un al-tro Barcellona. Ha sede a Guaya-quil, in Ecuador, e come quello blaugrana è anch’esso una poli-sportiva che trova nel calcio la massima espressione popolare. A differenza del plurititolato Barça, non ha mai vinto niente di importante a livello interna-zionale avendo soltanto sfiorato la Libertadores in due occasioni. Questo però non toglie che il Barcelona Sporting Club, da tut-ti conosciuto semplicemente come il Barcelona, sia ricono-sciuto in patria come una vera e propria istituzione che travalica l’aspetto puramente sportivo. Negli anni ’80, nella curva Sud dell’Olimpico, uno striscione re-citava: “La Roma non si discute, si ama”. A Guayaquil, e in gene-rale in tutto l’Ecuador, il Barce-lona si ama. E chi non lo ama non si accontenta di discuterlo. Lo odia proprio, visceralmente. Non solo gli eterni rivali cittadi-ni dell’Emelec, ma i tifosi di tutti gli altri club. Un po’ come succe-de in Italia con la Juve, in Spa-gna col Real Madrid o in Ger-mania col Bayern. Però andiamo piano, perché le analogie con le Juventus d’Europa finiscono qua. A Guayaquil, come del re-sto in quasi la totalità degli stadi del Sudamerica, si respira anco-ra passione autentica, i tifosi non sono meri clienti, il merchandi-sing è ancora una voce pressoché sconosciuta. Il Barcelona, poi, ha una peculiarità particolare: uno stadio stupendo, oltre che caldissimo e traboccante di colo-re ed entusiasmo. Lo stadio L’Estadio Monumental Isidro Romero Carbo è così denomina-to in onore di un Berlusconi ecuadoriano che dopo aver fatto una valanga di soldi ha dappri-ma comprato il club, poi finan-ziato parte della costruzione del-lo stadio stesso e infine si è dato alla politica nelle fila di un parti-to di destra di ispirazione cattoli-ca. A dispetto della persona di cui porta il nome è uno stadio meraviglioso, secondo molti il più bello del continente. Bello nel senso di “maggior fascino”, prescindendo da quei canoni di sicurezza, fruibilità e “vivibilità”

che nel mondo occidentale hanno trasformato gli stadi in moderni teatri stellati e i tifosi in sagome viventi. Chi ha avuto la fortuna di vedere un Barcelona-Emelec lo racconta come un incomparabile spettacolo sugli spalti dove tutto è eccesso: la passione, il colore, il delirio e anche la violenza. Archi-tettonicamente, lo stadio consta di due tribune gemelle semi circo-lari sormontate da una serie di palchi per stampa e autorità che corrono per tutta la lunghezza di entrambe le tribune. Le due cur-ve, la casa della tifoseria organiz-zata, si chiamano “General”, sono scoperte e su due livelli. Quello inferiore della General Norte viene solitamente riservata ai sostenitori ospiti. Il Clásico del Astillero Santiago de Guayaquil, più nota solo come Guayaquil, conta più di 3.700.000 abitanti (compresa l’area metropolitana) ed è la città più grande e popolata del paese. Grazie alle attività legate al por-to, in primis la cantieristica, si è trasformata rapidamente nel cen-tro commerciale più importante dell’Ecuador e sta vivendo anni di continuo e crescente sviluppo che attira lavoratori da altre pro-vince ecuadoriane e dai paesi li-mitrofi. Per questa ragione il der-by tra le due squadre di Guaya-quil, il Barcelona e l’Emelec, è noto come El Clásico del Astillero (in spagnolo l’astillero è il cantiere navale). Entrambe le squadre sono state fondate in epoca relati-vamente recente (il Barcelona nel 1925, l’Emelec nel 1929) e, cosa abbastanza rara, nello stesso quartiere della città, il barrio de

Perché Barcelona Tutto inizia il 1° maggio 1925 quando un gruppo di ragazzi co-nosciuti come “La gallada de La Modelo” (un liceo tecnico di Guayaquil) presero l’abitudine di frequentare un parco cittadino per praticare diversi sport, tra cui il calcio. Il leader della compa-gnia, tale Manuel Murillo, lavo-rava con diversi commercianti catalani e dall’amicizia tra i due gruppi nacque una squadra di calcio. Inizialmente la squadra, che ancora non aveva un vero e proprio nome, giocava nelle stra-de e nei parchi del quartiere. A dargli il nome di Barcelona Spor-ting Club fu il catalano Eutimio Pérez, fervente tifoso del Barça. Con lui, alla fondazione, parteci-parono anche l’uruguaiano Mog-gia e gli italiani Bruno, Vincenzi-ni e Cassinelli. Il club si strutturò in modo solido soltanto nel 1940 quando iniziò a vincere partite contro club già epici quali i Mil-lionarios di Bogotà, all’epoca la squadra più forte del continente, che contava su autentici fuori-classe del calibro di Pederna, Rossi e soprattutto Di Stefano, quest’ultimo poi diventato un’i-cona del Real Madrid, ma anche l’Estudiantes di Mar del Plata. FC Barcelona e Barcelona SC hanno giocato tre volte e il bilan-cio è in perfetta parità con un pa-reggio e una vittoria per parte. Fu proprio il Barça a inaugurare il Monumental nel 1988 e in quell’occasione vinse la squadra di Guayaquil per 2-1. Curiosa-mente, però, la prima maglia del Barcelona S.C. era a strisce bian-che e nere verticali con pantalon-

l’astillero, appunto. Il Barcelona nasce in un liceo, la Escuela 9 de Octubre, mentre l’Emelec nelle strutture della Empresa Eléctrica del Ecuador (da qui l’acronimo Em.El.Ec.). Il primo derby tra le squadre avvenne il 22 agosto 1943 nell’allora Guayaquil Sta-dium dove il Barcelona vinse per 4-3. Dopo alcune gare, che hanno aumentato la popolarità di Barce-lona ed Emelec, i tifosi di Guaya-quil cominciarono a esprimere la loro simpatia e la loro antipatia per ognuna delle due squadre: la partita assunse così sempre mag-giore importanza. Nel 1948, il duello venne definito Clásico del Astillero, su iniziativa del Diario El Universo, un giornale ecuado-riano. Ma il Clásico, essendo tifo visce-rale e spesso ragione di vita, è an-che violenza. Il 30 aprile 2006, sul risultato di 3-0 al 6’ della ri-presa, i tifosi del Barcelona si rendono protagonisti di gravi taf-ferugli nella curva San Martín dello stadio Capwell. Il primo lancio di oggetti sul campo feri-sce seriamente un guardalinee. La battaglia che ne segue provoca 40 feriti e nove arresti. Ma l’epi-sodio più grave avviene l’anno successivo quando Carlos Ce-deño Veliz, undicenne tifoso dell’Emelec che si trovava allo stadio con i genitori, muore pri-ma 20 minuti prima dell’inizio del derby dopo essere stato colpi-to da un petardo lanciato dalla curva Sud (Sur Oscura) dove era-no ospitati i tifosi del Barcelona. L’esplosione della bomba lo col-pisce in petto, ledendo i polmoni e parte del cuore.

cini e calzettoni bianchi. Solo più tardi uno dei catalani che fondò il club impose di cambiare le maglie scegliendo i colori del-la senyera catalana: gialla con collo rosso (con pantaloni e cal-zettoni neri che però niente c’entrano con la bandiera catala-na). Lo stemma del club ecuadoriano, invece, è identico al logo di quello catalano.I rap-porti tra i due Barcelona si sono però deteriorati nel 2013, quan-do il Barça ha avviato la proce-dura per registrare il nome del club nel paese latino-americano, cosa che l’omonimo locale non ha gradito affatto. La richiesta del club catalano è supportato da una serie di leggi internazionali e della Convenzione di Parigi (1885) e fa riferimento al princi-pio di territorialità registrati in altri paesi. Da parte sua, il Bar-celona de Guayaquil ha presen-tato ricorso per evitare che una società straniera registrata in Ecuador leda i propri diritti. Se-condo il direttore dell’Istituto ecuadoriano di Proprietà Intel-lettuale, Andrés Ycaza Mantilla, il Barça lo può fare perché all’e-poca in cui è stato registrato il Barcelona Sporting Club, il Bar-celona F.C. non solo era già co-nosciuto in Ecuador, ma qualcu-no decise persino di registrare la squadra di Guayaquil mutuando il nome dal club catalano.

L’altro Barça

La fine del mondogià conosciuta

NIQUE LA POLICE

Se esiste un esercizio difficile in politica si chiama andare

oltre la punta del proprio naso. Esercizio difficile anche su altri terreni ma, da qualche parte, qualcuno nella società dovreb-be pur guardare lontano, senza timore. Qualsiasi sia l’esito di fronte allo sguardo preoccupa-to e curioso del politico. Inol-tre, guardando la politica oggi, quella istituzionale, si rimane sorpresi da quanto valga, an-cora oggi, il peso delle illusio-ni, delle vanità, delle favole e, persino, della presunzione delle cospirazioni. Del resto questa è ancora la società delle masse. Quella in cui la razionalità in-dividuale si perde nel momento in cui il collettivo sbanda. Avve-niva ai tempi di LeBon avviene sui social network. E in attesa, perché nella storia occasioni ci sono per tutti, che il collettivo e il politico trovino saggezza, una bella descrizione: della fine del mondo come l’avete già cono-sciuta. Cosa si preferisce? Un mondo con tassi bassi? Le sue patologie sono note. Uno dove si alzano i tassi? Anche qui cosa può accadere all’Italia è chiaro. Nel primo caso l’Italia sarebbe preda della volatilità, scatena-ta da capitai globali: attacco alla borsa, alle banche, ai beni pubblici che fruttino un qualche interesse. Nel secondo, esplo-sione del debito pubblico causa aumento generalizzato tassi in-teresse. E la mitica crescita? In un continente con un alto tasso di invecchiamento come il no-stro la crescita, ammesso e non concesso che questa espressione abbia un senso, è strutturalmen-te bassa. Un punto di media di Pil per una trentina d’anni. Quindi l’economia come la co-nosciamo, che comunque porta problemi anche quando funzio-na, non risolverà nessuna delle criticità strutturali che abbiamo davanti. Quindi è inutile scru-tare il cielo o le interiora di un capretto: la fine del mondo si è già vista. Sarà una radicalizza-zione degli effetti dei tassi bassi o dei rialzi decisi, magari dopo le presidenziali, dalla Fed. Sarà una precipitazione degli effetti recessivi o di quelli della bas-sa crescita. Tutto prevedibile. Come il mare di chiacchiere che accompagnerà gli eventi. E qui cosa è importante? Sapere già da oggi che esiste un giorno del-la quiete. Quello in cui la polve-re, in silenzio, torna a poggiarsi sulle macerie sfinite dal crollo. E da lì ricominciare a costruire.

Dopo le tante (troppe) bocciature nel concorso, la scuola riparte a regime ridotto. Per gli otto milioni di studenti, classi accorpate, mancanza di personale e orari ridotti. Il mini- stero emana una “riforma” a ogni cambio di governo, producendo provvedimenti spes-so in contrasto tra loro, ma in ogni caso sempre accomunati dalla logica del risparmio.

IMMA CARDATO

Anche quest’anno è iniziata la scuola e, al di là della rappre-

sentazione patinata dei servizi del tg1 delle 20 sui nonni che accom-pagnano i bambini in prima ele-mentare, chiunque metta effettiva-mente piede in una scuola – alun-ni, genitori, docenti e personale non docente – si ritrova in mezzo al caos più completo. In moltissi-me scuole orario ridotto, ricambio di insegnanti, via vai di supplenti. Fioccano le denunce delle famiglie di studenti disabili, che in alcuni casi sono addirittura stati costretti a rimanere a casa per la mancanza di insegnanti di sostegno. Per molti non addetti ai lavori è spesso difficile capire le ragioni di questo caos ricorrente, e spes-so lo è anche per chi nella scuo-la ci lavora, perché si tratta di un ingarbugliato sistema di punteggi e graduatorie e di una burocra-zia bizantina, gestiti da un mini-stero che emana una “riforma” a ogni cambio di governo, pro-ducendo provvedimenti spesso in contrasto tra loro, ma in ogni caso sempre accomunati dalla lo-gica del risparmio. Pochi soldi e pochissima lungimiranza. Questo settembre però il caos stupisce ancor di più perché arri-va dopo una massiccia tornata di

assunzioni, le immissioni in ruolo dei precari storici a seguito della sentenza europea che ha condan-nato l’Italia per l’abuso dei contrat-ti a tempo determinato. E soprat-tutto arriva dopo un concorso che avrebbe dovuto immettere in ruolo più di 60mila docenti. Un concor-so che lo scorso febbraio il premier Renzi e la ministra Giannini ave-vano presentato come il toccasana contro la “supplentite” e come una nuova procedura selettiva all’avan-guardia e all’insegna della qualità. Eppure oggi ci ritroviamo ancora con circa 100mila supplenti previsti per l’anno scolastico 2016/2017. Per capire come ciò sia stato pos-sibile, è forse bene ripercorrere le tappe di questo concorso, che da molti è stato rinominato a ra-gione “concorso truffa” e che è solo uno dei tanti emblemi di quale idea della scuola pubbli-ca caratterizzi la sciagurata leg-ge 107, alias Buona Scuola. Il bando è uscito con il consueto, nostrano, ritardo, cioè a fine feb-braio, con prove scritte da svolgersi durante il mese di maggio. È par-tita dunque una maratona nelle varie regioni, alle quali era affidata tutta la gestione delle procedure, per far partire una macchina or-ganizzativa complicatissima, sia per l’allestimento di una prova computerizzata (conosciamo tut-

ti lo stato delle aule informatiche nelle nostre scuole), sia per il re-perimento delle commissioni. Sì, perché il Miur, dopo aver delegato alle scuole gli oneri della logistica, ha preteso anche che i commissari si prestassero ad un lavoro sovru-mano (per alcune classi di concor-so i candidati erano nell’ordine del migliaio) senza essere esonerati dall’orario normale in classe e per una paga a cottimo di 50 centesi-mi a compito corretto. Ovvio che nessuna persona sana di mente si prenderebbe una tale responsabili-tà con una procedura organizzata così in fretta e male, e per di più per pochi spiccioli. Così gli Uffici Scolastici Regionali sono stati co-stretti a raschiare il fondo del ba-rile, a contattare personalmente i potenziali commissari, addirittura a offrire l’incarico a chi aveva a malapena i requisiti per ottener-lo, magari facendo valere antichi favori o promettendo misere ri-compense accessorie in termini di prestigio e piccoli vantaggi la-vorativi per chi accettava. In questo clima già poco promet-tente, sono cominciate a maggio le prove scritte per i 180mila can-didati. Facendo la proporzione tra numero dei candidati e numero dei posti a bando (60mila) si nota già un’anomalia profonda di questa procedura, e cioè l’altissimo nume-

ro di posti rispetto ai candidati; in alcune regioni e per determinate classi di concorso, i candidati era-no addirittura meno dei posti di-sponibili. Questo perché il bando prevedeva la partecipazione per i soli abilitati all’insegnamento, cioè coloro che già hanno segui-to corsi appositi per l’abilitazione (TFA e PAS), con centinaia di ore di lezioni e tirocini specifici e nu-merosi esami per ottenere il titolo. Corsi pagati migliaia di euro alle Università, per accedere ai quali, nel caso del TFA, i partecipanti hanno già superato una procedu-ra selettiva nazionale. Dal bando sono stati invece esclusi i neolau-reati e tutti coloro che, pur senza abilitazione, insegnano da anni nelle scuole italiane. Perché mette-re in moto una procedura concor-suale nazionale, riservandola solo a chi ha già dimostrato di essere preparato nella propria disciplina e idoneo all’insegnamento otte-nendo l’abilitazione? E perché non concedere la possibilità di la-vorare nella scuola a chi si è appe-na laureato o a chi nella scuola la-vora da precario ormai da anni? Mettendo un attimo da parte queste domande, torniamo alle prove scritte. Gli aspiranti docen-ti si sono trovati di fronte a delle richieste impossibili, a partire dai quesiti in... (continua a pagina 3)

#Bocciato