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CISS Centro Internazionale di Studi Sociali Rapporto al CNEL L’allargamento dell’Unione europea due anni dopo (settembre 2006) Centro Internazionale di Studi Sociali

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  • CISS – Centro Internazionale di Studi Sociali

    Rapporto al CNEL

    L’allargamento dell’Unione europea due anni dopo

    (settembre 2006)

    Centro Internazionale di Studi Sociali

  • Prefazione

    Il Rapporto dedicato a “L’allargamento dell’Unione europea, due anni dopo” è la prima parte del progetto CISS - Commissione Internazionale del CNEL, relativo all’analisi dei processi istituzionali e politici in corso nell’Unione europea. Il Rapporto sull’allargamento analizza i principali dati economici sociali e politici con particolare riferimento agli otto paesi neo-comunitari dell’Europa centro-orientale e baltici, oltre ai due paesi candidati, Bulgaria e Romania, per i quali è stata decisa l’entrata nell’Unione a gennaio del 2007. Il Rapporto fornisce nel primo capitolo un quadro d’insieme diretto a intrecciare le prospettive economiche e sociali con gli scenari politici e i rapporti con l’Unione europea. Il secondo capitolo analizza gli andamenti economici, i ritmi della convergenza con i vecchi paesi dell’Unione, le tendenze dell’interscambio commerciale e degli investimenti esteri e le prospettive dell’ingresso nell’euro. Il terzo capitolo esamina la configurazione dei mercati del lavoro con riferimento alle differenze fra i diversi paesi sotto il profilo della disoccupazione, dell’occupazione e dei modelli d’impiego. I salari, la produttività e la distribuzione del reddito sono, a loro volta, esaminati in rapporto alle medie europee. Il quarto capitolo si sofferma su assetto e dinamiche della spesa sociale con riferimento alle sue principali funzioni, relative a pensioni, sanità, famiglia. Un ulteriore capitolo tratta delle minoranze etniche che sono parte rilevante del dibattito in corso, nei paesi entrati e candidati, sui principi di non discriminazione dell’Unione. Infine, un Focus è dedicato alla Polonia che, oltre a essere il paese di maggior rilievo nel contesto dell’ allargamento, è stato nell’ultimo anno (e rimane) alla ribalta dell’attenzione europea per i suoi repentini e profondi cambiamenti degli scenari politici. Questa prima analisi degli esiti e delle prospettive dell’allargamento dell’Unione a 25 (e da gennaio 2007 a 27) ha, fra l’altro, lo scopo di contribuire a definire i contesto nel cui ambito si pone il problema delle riforme istituzionali, strettamente legato a quello dell’allargamento, dopo la crisi del Trattato costituzionale. Tema che nel progetto del CNEL è oggetto di un secondo Rapporto.

    Roma, settembre 2006 ______________________________________________________ CISS - Centro internazionale di studi sociali - ha come principale missione l’analisi dei cambiamenti del lavoro e delle politiche sociali a livello europeo e nei processi di globalizzazione. Fanno parte del Comitato Scientifico di CISS i professori Umberto Romagnoli (presidente), Ruggero Paladini, Guido Rey, Mario Rusciano, Barry Bluestone (Boston), Jeff Faux (Washington), Jacques Freyssinet (Parigi) Presidente di CISS è Antonio Lettieri; Coordinatrice Matilde Raspini. CISS - Roma, via Buonarroti, 12 - 00185 Roma. e-mail: [email protected]

    Il Rapporto è stato curato da Antonio Lettieri, Matilde Raspini e Michael Haile

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    Sommario Uno sguardo d’insieme pag. 1 La globalizzazione in prospettiva Per un’analisi economica e politica dell’allargamento I nuovi scenari politici nell’Europa centro-orientale Istituzioni e allargamento

    Le politiche macroeconomiche pag. 13 La crescita e i redditi I tempi dell’euro La politica fiscale Commercio estero e investimenti Il mercato del lavoro pag. 25 La disoccupazione L’occupazione Retribuzioni e costo del lavoro I sistemi di protezione sociale pag. 36 La spesa sociale Le pensioni La sanità La spesa per la famiglia Le minoranze pag. 42 I Russofoni di Lettonia I Rom Focus Polonia: i nuovi scenari politici pag. 47 La svolta politica La lotta alla corruzione Il caso Unicredit e i rapporti con l’Unione europea Riferimenti bibliografici pag. 58

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    GRAFICI Economie mondiali nel 2020 pag. 2 La lunga strada della convergenza 5 Opinioni europee sulla adesione della Turchia alla UE 11 PIL pro capite PPS 14 Investimenti esteri totali 21 Stock investimenti esteri in % sul PIL 23 Banche di proprietà estera 24 Tassi di disoccupazione 25 Tempo determinato 30 Spesa sociale % sul PIL 37 Spesa pensionistica % sul PIL 38 Spesa sanitaria pubblica % sul PIL 39 Spesa per la famiglia % sul totale della spesa sociale 40 EU 10 - Tasso di sindacalizzazione 50 Lavoratori polacchi in Europa 53 TABELLE Tasso di crescita del PIL (2000-2006) pag. 13 PIL pro capite in euro e in % sul PIL 15 I parametri di Maastricht (2004 - 2005) 15 Imposte sul reddito personale e sulle società 19 Italia: dinamica degli scambi commerciali 22 Tassi di disoccupazione 1998-2005 26 Tassi di occupazione 1998-2005 28 Tempo determinato: % 2005 30 Part-time 1998-2005 31 Occupazione settoriale 32 Costo del lavoro 33 Produttività del lavoro 34 Quota distributiva dei redditi da lavoro dipendente 34 Retribuzione/anno in euro 35 Spesa sociale in alcuni paesi neocomunitari 36 Spesa per funzioni in % sul totale della spesa sociale 41 Le principali comunità Rom in Europa 44

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    L’Allargamento dell’Unione Europea due anni dopo

    Uno sguardo d’insieme Tracciando un bilancio a due anni dall’evento, la Commissione europea giudica l’allargamento dell’Unione europea ai nuovi dieci paesi, entrati nell’Unione il primo maggio del 2004, un “successo”. Il giudizio è per molti aspetti motivato.

    In effetti, nel giro di quindici anni dal collasso dell’impero sovietico, otto paesi dell’Europa centro-orientale e baltica – oltre alle due piccole isole del Mediterraneo - si sono integrati a pieno titolo nell’Unione europea, dando luogo a un processo di riunificazione continentale che ha gia compiuto i passi più importanti, e che sarà consolidato dall’ingresso nel gennaio 2007 degli altri due candidati dell’Europa balcanica: Romania e Bulgaria. L’Unione europea costituisce ormai un’area regionale di assoluta importanza nello scenario mondiale.

    L’allargamento – è stato scritto – è il risultato più significativo della politica estera dell’Unione. Per averne una riprova, si potrebbe fare l’esercizio contrario: immaginare un’Europa dell’est senza l’allargamento dell’Unione già realizzata o in via di realizzazione. Senza alcun dubbio, la politica estera dell’Unione, o dei singoli paesi che la compongono, risulterebbe enormemente più complessa e, per molti versi, rischiosa. Il caso dell’ex Jugoslavia è certamente peculiare nel suo processo di frantumazione. Fornisce, tuttavia, l’idea della difficoltà di attuare una profonda transizione economica, politica e culturale, da un regime collettivista a un regime pluralistico quando si affacciano, in una fase di radicali cambiamenti, problemi di carattere etnico, territoriale, religioso.

    Problemi che, fortunatamente, non si sono posti con la stessa acutezza nei rapporti tra i diversi paesi dell’area centro-orientale. Ma che non erano del tutto assenti, e che si sarebbero potuti porre per le diverse minoranze che vivono oltre i confini degli stati nazionali e, in alcuni casi, all’interno degli stessi confini. Indubbiamente la prospettiva della comune partecipazione all’Unione europea ha contribuito al consolidamento dei regimi democratici nati dalla dissoluzione del regime sovietico.

    Pertanto, non è fuori luogo attribuire alla politica di allargamento il merito storico di aver contribuito alla pace e allo sviluppo della democrazia in un’area del mondo che doveva attraversare un processo di transizione per la sua stessa radicalità non privo di incognite. Da questo punto di vista, possiamo parlare a ragion veduta di un “successo”.

    L’allargamento merita di essere valutato anche sotto un differente e non meno importante profilo: ci riferiamo al processo di globalizzazione dell’economia e dei mercati. Con l’accesso dei dieci paesi neo-comunitari, l’Unione europea ha accresciuto del 20 per cento la sua popolazione, superando i 450 milioni di abitanti, che diventeranno 480 con i due ingressi già decisi, divenendo l’area economica e commerciale più importante nel mondo della globalizzazione. Calcolando il reddito totale in termini di potere d’acquisto, all’Unione europea si attribuisce un valore

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    leggermente superiore a quello degli Stati Uniti, intorno al 21 per cento del reddito a livello mondiale.

    La globalizzazione in prospettiva

    L’allargamento dell’Unione acquista in prospettiva un significato crescente, se si considera che il processo di globalizzazione, egemonizzato negli ultimi venti anni dalle principali potenze occidentali affacciate sull’Atlantico, viene sempre di più assumendo un carattere regionale con nuovi protagonisti come la Cina, l’India, la Russia, l’America latina.

    In questa progressiva ridefinizione policentrica della globalizzazione, l’Unione europea allargata a una dimensione continentale può assumere un ruolo peculiare, che non sarebbe consentito a nessun paese o gruppo di paesi più o meno isolatamente considerato.

    Naturalmente, ci si riferisce all’acquisizione di una posizione potenziale, la cui realizzazione dipende da molti fattori economici e politici. Dal punto di vista economico, l’allargamento ha funzionato, prima ancora di essere istituzionalizzato nel 2004, come un potente fattore di integrazione economica. Gli scambi commerciali tra la vecchia Unione e i paesi candidati dell’est sono continuamente cresciuti.

    Ma, ancora più dell’aspetto quantitativo, è importante rilevare che gli scambi si sono sviluppati non solo fra settori diversi come storicamente avviene tra paesi con diversi gradi di sviluppo economico e tecnologico. Infatti, dopo una prima fase di tipo tradizionale, l’interscambio si è fortemente intensificato all’interno degli stessi settori come risultato di una crescente integrazione verticale della produzione.

    Integrazione resa possibile da un elevato livello di investimenti nei paesi “nuovi”, investimenti diretti non solo a sfruttare le possibilità indotte da mercati in crescita ma anche (e in alcuni casi, principalmente) diretti a fabbricare prodotti intermedi con una riduzione dei costi per le imprese investitrici. Al tempo stesso, gli investimenti esteri apportavano nei paesi in via di industrializzazione (o re-industrializzazione) dell’est innovazione tecnologica e organizzativa.

    Economie mondiali nel 2020

    2,54,5

    8,8

    19,0 19,1 19,4

    26,7

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    10

    20

    30

    Russia

    Giappone

    India

    USA

    EU

    Cina

    Altri

    Fonte: Europe’s World Guide to the EU in 2020, 2006

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    Proiettando lo sguardo ai prossimi decenni, secondo alcune stime econometriche, nel 2020 l’Unione europea ulteriormente allargata fino a 33 stati membri e con 600 milioni di abitanti manterrebbe una quota del prodotto lordo mondiale (calcolato a parità di potere d’acquisto) nell’ordine del 19 per cento al pari degli stati Uniti e della Cina.

    Si confermerebbe, in altri termini, l’ascesa della Cina e il primato di queste tre regioni nello scenario della globalizzazione, in attesa di nuovi protagonisti come l’India che raggiungerebbe il Giappone, a sua volta ancora posizionato al quarto posto nella graduatoria mondiale.

    Per un’analisi economica e politica dell’allargamento

    Indipendentemente dai risultati di carattere “storico” che connotano l’allargamento e dalle prospettive in relazione ai possibili sviluppi della globalizzazione, il bilancio dell’allargamento a due anni dalla realizzazione richiede un’analisi ravvicinata di alcuni essenziali aspetti economici e politici a cui sono dedicati i capitoli successivi del Rapporto.

    L’analisi economica, come si vedrà, presenta aspetti molteplici che s’intrecciano con questioni istituzionali, sociali e politiche. Bisogna premettere che l’intreccio fra questi diversi aspetti non è sempre agevole. Le istituzioni internazionali e gli istituti di ricerca seguono piste che tendono a separare i diversi profili di analisi, consegnandoci dati, ricerche e valutazioni più o meno approfondite dell’uno o l’altro versante, ma difficilmente intrecciandoli in uno scenario complessivo e coerente.

    Bisogna aggiungere che, nel confrontarsi con l’allargamento, è sempre presente il rischio di considerare omogenea una realtà che invece non lo è, trattandosi di paesi che hanno forti identità, storia, culture diverse e che, pur avendo seguito percorsi per molti versi analoghi, hanno sperimentato tempi e modi diversi nel processo di transizione dai vecchi regimi centralizzati ai regimi di mercato.

    In altri termini, si corre il rischio di considerare, come spesso avviene nelle graduatorie di successo o insuccesso stilate dalle istituzioni internazionali, solo alcuni tasselli del mosaico, costruendo “modelli” di riferimento che a un’analisi più generale possono risultare unilaterali, se non viziati da alcuni assunti pregiudiziali.

    Per fare un esempio, non si possono confrontare, allo scopo di trarne valutazioni e lezioni generali, esperienze così disparate come quelle praticate in un paese di piccole o piccolissime dimensioni con quelle di un paese grande o medio-grande. Un regime fiscale praticato nel primo può risultare inapplicabile nel secondo, per cui non può essere adottato come modello di eccellenza.

    Quando si legge che l’Estonia può funzionare da modello per aspetti che attengono alla liberalizzazione e deregolazione dei mercati finanziari o all’adozione di un regime fiscale che esenta da imposte i profitti reinvestiti - che sono generalmente quelli delle multinazionali - non si può non metter in conto che si tratta di un paese di un milione e mezzo di abitanti, peraltro favorito dalla prossimità con i paesi ad alto sviluppo dell’area scandinava.

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    E risulta piuttosto avventata l’idea che la Finlandia o la Svezia dovrebbero adeguare il proprio modello a quello dell’Estonia: flat tax con bassa tassazione e, parallelamente, ridotta spesa sociale insieme con bassa protezione del lavoro, e così via.

    L’”esempio” estone non è isolato. Non sono poche le analisi che hanno visto nella Slovacchia un ulteriore “modello” di attrazione degli investimenti esteri favoriti da una deregolazione spinta e dall’adozione di un regime fiscale con aliquota unica (flat rate) per tutte le imposte dirette e indirette, personali e societarie. Un’analisi ravvicinata e in grado di tener conto delle interrelazioni fra le varie dimensioni economiche, politiche e sociali, mostra che non c’è una soluzione unica e semplificata per i diversi problemi di sviluppo, di occupazione, di equità.

    Avendo premesso l’esigenza di operare le necessarie distinzioni, si possono schematizzare, in prima approssimazione, alcuni aspetti essenziali di un bilancio generale dell’allargamento due anni dopo.

    Un dato inequivocabilmente positivo è quello della crescita economica. Gli otto paesi neo-comunitari dell’est crescono a un ritmo decisamente più alto di quello dell’EU 15. I paesi baltici raggiungono ritmi di crescita compresi tra l’8 e il 10 per cento. Quelli dell’Europa centro-orientale si muovono intorno a una media compresa fra il 4 e il 5 per cento. Questa crescita sostenuta si consolida, secondo le stime disponibili, nel corso del 2006.

    E’ interessante notare che la crescita degli ultimi anni si è verificata in un quadro di rallentamento e, in alcuni anni, di sostanziale stagnazione dell’economia dei Quindici e, in particolare, della Germania che ha il peso maggiore nelle esportazioni dei paesi centro-orientali. Un consolidamento della crescita dei Quindici per i prossimi anni, così come annunciato per il 2007, costituirebbe certamente un fattore di continuità della crescita a livelli medio-alti per l’area neo-comunitaria.

    Nell’apprezzare i passi avanti dei paesi dell’est, bisogna considerare che trattandosi di paesi in via di sviluppo, essi devono confrontarsi non solo, o non tanto, con i Quindici, ma con i paesi di altre aree del mondo come quelli del sudest asiatico, che marciano con ritmi di crescita straordinariamente elevati. D’altra parte, la convergenza in termini di reddito pro-capite all’interno dell’Unione europea è ancora lontana. Si calcola che mediamente potrebbe essere raggiunta intorno al 2040, e per alcuni paesi, come Bulgaria e Romania di prossima entrata, ben al di là della metà del secolo.

    Il quadro economico non può essere, tuttavia, osservato soltanto sotto il profilo della crescita, che ci fornisce una dimensione importante, ma unilaterale degli assetti e delle dinamiche sociali dei paesi dell’allargamento. Sta di fatto che, nonostante la rilevanza dei ritmi di crescita, la disoccupazione si mantiene a livelli più che doppi della media europea in Slovacchia e, specialmente, in Polonia, dove rimane intorno al 18 per cento.

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    La lunga strada della convergenzaUE 15 2% crescita annua - UE 10 4% crescita annua

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    150

    200

    250

    2005 2015 2025 2035 2040

    UE15UE10

    Fonte: CE Directorate-General for Economic an Financial Affairs, Enlargement, two years after: an economic evaluation, maggio 2006

    In altri termini, la modernizzazione dell’apparato produttivo, favorito dagli investimenti delle multinazionali estere, europee e americane (in particolare in alcuni settori manifatturieri come l’elettronica e l’auto), produce un elevato incremento della produttività che difficilmente si riflette sul miglioramento dei livelli di occupazione, tendendo più spesso a ridurli attraverso i processi di ristrutturazione.

    Se poi si considera che l’agricoltura, soprattutto in Polonia e in Romania, presenta tassi di occupazione estremamente più alti di quelli della media europea, appare evidente che il riassorbimento della disoccupazione dipenderà da moti fattori, fra i quali lo sviluppo dei settori industriali tecnologicamente avanzati rispetto ai settori dominati dalla concorrenza asiatica e dai servizi.

    Il contesto sociale è segnato anche dagli effetti della transizione dalla vecchia economia centralizzata ad un’economia di mercato. Le terapie shock praticate all’inizio degli anni 90, attraverso i processi di privatizzazione, il ritiro dello Stato dal finanziamento delle imprese pubbliche, la compressione della spesa sociale nei settori delle pensioni, della sanità, dell’istruzione hanno creato situazioni di difficoltà per rilevanti quote della popolazione a cui il precedente regime comunista sia pure a livelli mediocri e, talvolta, di pura sussistenza, garantiva un quadro generalizzato di tutele.

    Il passaggio repentino a una struttura sociale caratterizzata da una progressiva riduzione dell’intervento pubblico ha generato ampie fasce di emarginazione soprattutto nelle aree soggette a de-industrializzazione, nelle regioni agricole, fra i lavoratori anziani pensionati, nelle famiglie più povere.

    Una volta superata la fase più dura della transizione, la ripresa della crescita economica ha contribuito a elevare i livelli medi di reddito, alimentando aree di benessere e ricchezza che sono particolarmente evidenti nei grandi centri urbani e, in primo luogo, nelle capitali. Queste sono sempre più somiglianti ai grandi centri urbani occidentali. Si tratta dei centri di riferimento dei nuovi mercati finanziari, delle grandi banche, dei quartieri generali delle imprese multinazionali, dei centri commerciali, oltre che dei maggiori flussi turistici. Alle spalle di queste realtà in pieno sviluppo vi sono, tuttavia, situazioni di forte squilibrio e disagio sociale.

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    Secondo le statistiche ufficiali, il 30 per cento della popolazione polacca vive in condizioni di povertà. Le disuguaglianze regionali sono particolarmente forti: sei regioni polacche su sedici sono annoverate fra le dieci più povere dell’Unione europea.

    I differenziali retributivi sono particolarmente elevati. E le tutele contrattuali sono precarie a causa della ridotta presenza sindacale, sia per le difficoltà di riconversione dei vecchi sindacati di regime, sia per la difficoltà di posizionarsi in un sistema produttivo caratterizzato, da un lato, dalla presenza delle multinazionali, dall’altro dal nuovo tessuto di piccole e piccolissime imprese.

    In effetti, lo sviluppo economico ha seguito le linee di un modello sociale generalmente ispirato al modello anglosassone molto più che al tradizionale modello sociale europeo. A questo si aggiunge la tendenza ad una progressiva riduzione del prelievo fiscale sul reddito delle persone e, in particolare, su quello delle società, con la conseguente riduzione delle risorse pubbliche destinabili alla spesa sociale.

    La deregolazione del mercato del lavoro, il contenimento dei salari che, pur crescendo, seguono un ritmo inferiore a quello della produttività, la riduzione delle imposte hanno sollevato nei vecchi stati membri riserve intorno a quelle che vengono considerate pratiche di dumping sociale e fiscale.

    In linea generale, si può affermare che le istituzioni europee siano state, nella fase di pre-adesione come in quella corrente, più attente ad alcuni aspetti del processo economico coerenti con la liberalizzazione dei mercati (le privatizzazioni, l’internazionalizzazione dell’economia, la fine degli aiuti di stato, gli equilibri finanziari) che non ai problemi di equilibrio sociale.

    Bisogna aggiungere che alla ricchezza delle analisi economiche riscontrabile nei rapporti delle istituzioni internazionali e degli istituti di ricerca privati, appartenenti alle grandi banche d’affari, difficilmente fa riscontro – se si esclude l’Organizzazione internazionale del lavoro - un’analisi altrettanto approfondita delle condizioni di vita, che pure influenzano profondamente i modelli di comportamento politico e la percezione del processo di integrazione europea.

    I nuovi scenari politici nell’Europa centro-orientale

    Tra l’autunno del 2005 e l’estate 2006 si sono svolte le elezioni politiche in tutti i maggiori paesi dell’Europa centro-orientale neo-comunitari con esiti che in almeno due casi (Polonia e Slovacchia) hanno prodotto mutamenti importanti degli scenari di governo. Dei quattro paesi centro-orientali, solo in Ungheria, per la prima volta un governo in carica è stato riconfermato si apre, com’è noto, nei mesi successivi un aspro scontro politico che mette in gioco la premiership del capo del governo socialista.

    Nella Repubblica Ceca il governo socialdemocratico è stato, invece, battuto dalla coalizione di centro-destra ispirata al presidente della Repubblica Vaclav Klaus che detiene un ruolo di leadership dai primi anni 90. Mentre i cambiamenti più radicali si verificano in Polonia e Slovacchia con esiti contrapposti. In Slovacchia è uscita di scena la coalizione di centro-destra dopo sette anni di governo di Michael Dzurinda.

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    In Polonia, al contrario, è stato nettamente sconfitta la coalizione di centro-sinistra con la vittoria dei partiti di centro-destra e, in particolare, dell’ala conservatrice. La situazione è in tutti e quattro i paesi così fluida da rendere complessa e precaria l’individuazione delle possibili prospettive a breve e medio termine.

    Nella Repubblica Ceca il vecchio governo socialdemocratico, guidato da Jiri Paroubek, non è riuscito a riconquistare la maggioranza, essendosi creata una situazione di “pareggio” con la coalizione di centro-destra che, all’inizio di settembre, ha assunto la direzione del governo con la nomina a premier di Mirek Topolánek dell’ODS (Partito democratico civico).

    Ma la situazione rimane instabile, e non si esclude per l’autunno la formazione di una “grande coalizione” con il ritorno alla direzione del governo del leader del partito socialdemocratico. Vale la pena di osservare che, nonostante le incertezze del quadro politico, la Repubblica Ceca presenta un’economia in pieno sviluppo che nel primo trimestre del 2006 faceva registrare una crescita del PIL superiore al 6 per cento sul corrispondente periodo dell’anno precedente.

    In Slovacchia, che pure ha realizzato negli otto anni di governo di centro-destra notevoli risultati dal punto di vista della crescita economica, il rovesciamento è stato netto con la vittoria de partito Smer (“Direzione”) fondato da Roberto Fico, giovane avvocato schierato sul fronte socialdemocratico. Il suo programma prevede un cambiamento di linea: cambiamenti nel sistema fiscale, caratterizzato dalla flat rate, freno alla politica di privatizzazione (anche se rimane poco da privatizzare), aumento della spesa sociale, riduzione dei contributi sanitari dovuti dagli assistiti.

    Il cambiamento è stato accolto con preoccupazione nei circoli finanziari internazionali, ma altri commentatori fanno notare che la svolta testimonia – come ha scritto il Financial Times – la difficoltà di mantenere il sostegno popolare in un quadro di radicali riforme economiche, soprattutto – bisogna aggiungere – quando si è in presenza, come appunto in Slovacchia, di una forte disoccupazione, più che doppia della media europea, di gravi divari regionali e di una progressiva riduzione della spesa sociale passata dal 26 per cento del PIL a metà degli anni 90 al 18 per cento nel 2003.

    Il nuovo governo del premier Robert Fico dovrà non soltanto provarsi a mantenere le promesse di carattere sociale contenute nel suo programma, ma a governare una coalizione di maggioranza che ha suscitato problemi e sospetti nel contesto europeo. Smer, infatti, il partito del premier che si proclama socialista, ha dovuto imbarcare nella maggioranza di governo, da un lato, il partito di Vladimir Maciar che, già a capo dei governi degli anni 90, aveva diretto il paese su posizioni conservatrici ed isolazioniste; dall’altro, il partito nazionalista che ha condotto la campagna elettorale all’insegna di “La Slovacchia agli slovacchi” con allusione ai cittadini di origine ungherese che sono il 10 per cento della popolazione. Fico ha cercato di attenuare l’impatto di questa scelta, escludendo dal governo i rappresentanti di questi due partiti minori della coalizione e nominando al ministero degli Affari esteri un diplomatico indipendente di tendenza filo-europea, ma senza potere evitare lo scontro col partito socialista europeo, a cui Smer è affiliato, per avere accolto nella maggioranza di governo un partito ultra-nazionalista ed etnocentrico.

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    L’Ungheria, dove il governo di centro-sinistra è stato, come abbiamo visto, confermato con un buon successo elettorale nelle elezioni dell’aprile 2005 è venuto improvvisamente a trovarsi in una situazione fortemente critica a causa di circostanze piuttosto singolari. Nel mese di settembre è stato consegnato ai media un discorso – che doveva rimanere riservato - tenuto nel mese di maggio dal primo ministro Ferenc Gyurcsany ai quadri del Partito socialista, nel quale il premier affermava che il passato governo (socialista, e da lui stesso diretto negli ultimi due anni) aveva ripetutamente mentito sulla realtà della situazione economica del paese.

    L’obiettivo di un’affermazione così grave e inconsueta sarebbe stato quello di ottenere il consenso per una politica di severa austerità finanziaria (aumento delle imposte e riduzione della spesa sociale) diretta a fronteggiare il crescente disavanzo di bilancio e il conseguente rischio inflazionistico riverberato sui tassi d’interesse già fortemente in aumento. Il risultato di queste affermazioni (“abbiamo raccontato menzogne durante i nostri cinque anni di governo”) ha innescato una sollevazione popolare sostenuta da Fidesz, il principale partito di opposizione, che ha chiesto le dimissioni del governo.

    Gyurcsany, un imprenditore considerato uno degli uomini più ricchi d’Ungheria, giunto al partito socialista nel 2001 e divenuto primo ministro con una rapida ascesa nel 2004, non ha negato le affermazioni contenute nel suo discorso destinato a rimanere interno al partito, sottolineandone al contrario la validità e il coraggio, in quanto rompeva con l’ipocrisia dei governi che hanno guidato il paese in tutti gli anni della transizione dopo il collasso del regime comunista.

    L’opposizione di centro-destra, che anche per ragioni elettorali contesta la politica di austerità annunciata dal governo, spera a questo punto se non nelle dimissioni immediate del governo nella possibilità di vincere le elezioni amministrative fissate per il 1° ottobre. Quali che siano gli esiti della crisi in corso, si conferma attraverso questa singolare esperienza ungherese, la difficoltà di pervenire ad un quadro politico stabile, anche nel paese dove per la prima volta dagli anni 90 il governo in carica era stato riconfermato.

    La svolta è stata per molti versi ancora più radicale (e le prospettive si presentano non meno incerte) in Polonia, a seguito delle elezioni per il parlamento e per il rinnovo della presidenza della Repubblica nell’autunno del 2005. Le previsioni annunciavano la sconfitta della coalizione di centro-sinistra che guidava il governo dal 2001. Ma i risultati andarono al di là dei pronostici.

    Il maggiore partito della coalizione di governo l’Alleanza democratica di sinistra accusava una netta sconfitta, mentre nel fronte di centro-destra il partito conservatore “Legge e giustizia “arrivava davanti a “Piattaforma civica” di tendenza neoliberale. Al tempo stesso si affermavano Samoobrona (Autodifesa), partito di sinistra con forti connotazioni populiste, e il partito cattolico-integralista, di estrema destra “Lega delle famiglie polacche”.

    Fallita l’ipotesi d una coalizione di centro-destra che associasse, secondo le previsioni pre-elettorali, “Legge e Giustizia” con “Piattaforma civica”, si è giunti attraverso di versi passaggi a un governo che segnava una netta frattura con la vecchia classe politica, che aveva diretto la transizione, con forti radici in Solidarnosh, nelle

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    posizioni post-comuniste e nel ceto tecnocratico di tendenza neoliberista. La caratteristica singolare della situazione polacca è che il vertice dello Stato è retto da due gemelli: il primo, Lech Kaczynski, eletto nell’ottobre del 2005 alla presidenza della Repubblica; il secondo, Jaroslav Kaczynski, leader di “Legge e giustizia”, alla testa del governo dal luglio 2006. Ma anche questo passaggio non è stato risolutivo. Nel mese di settembre la coalizione è stata messa in crisi dal conflitto tra il partito dei Kaczynski, e “Autodifesa”, il partito fortemente radicato nelle campagne di vocazione populista ed euroscettica, guidato da Andrzej Lepper. All’origine della rottura, il dissenso sull’invio di nuove truppe in Afganistan annunciato dal ministro degli Esteri polacco in occasione dell’Assemblea dell’ONU e, principalmente, il mancato inserimento nella legge di bilancio di un aumento della spesa sociale. “Legge e Giustizia” viene così nuovamente a trovarsi senza una maggioranza parlamentare precostituita.

    Si ritorna al punto di partenza, l’autunno del 2005, con la possibilità di nuove elezioni a novembre, quando Legge e Giustizia potrebbe acquisire, secondo i sondaggi correnti, una più solida maggioranza,. Il partito attualmente al governo ritiene, infatti, di avvantaggiarsi della politica seguita prima e dopo le elezioni del 2005, con un programma diretto a denunciare la corruzione della vecchia classe politica, ponendo in primo piano la difesa degli interessi nazionali e una politica di autonomia, quando non apertamente conflittuale, nei confronti delle istituzioni europee.

    Una considerazione d’insieme degli elementi d’instabilità politica deve tener conto di una sorta di scollamento fra le élites politiche e i cittadini, su una parte dei quali è gravato il peso della transizione. Si è creata una situazione di scetticismo e diffidenza nei riguardi della classe politica che si è apertamente manifestata in occasione delle scadenze referendarie ed elettorali. In occasione delle elezioni per il Parlamento europeo, la media di partecipazione nei paesi dell’allargamento è stata del 28 per cento, con punte ancora più basse del 20 in Polonia e del 16 per cento in Slovacchia. Limiti di partecipazione confermati dall’astensione di circa il 60 per cento degli aventi diritto al voto in occasione delle elezioni politiche polacche.

    Istituzioni e allargamento

    La crisi del Trattato costituzionale seguita all’esito negativo dei referendum francese e olandese ha riproposto in termini nuovi le prospettive dell’allargamento. Il passaggio a 27 con l’ingresso nell’Unione di Bulgaria e Romania rimane l’unico dato certo.

    Nonostante i dubbi sollevati nel corso dell’anno intorno ad alcuni aspetti della convergenza di questi due paesi in materia di giustizia, lotta alla corruzione e alla criminalità, la data del 1° gennaio 2007 per l’ingresso nell’Unione sarà rispettata, sia pure col mantenimento da parte della Commissione europea di uno stato di sorveglianza – e di possibili penalizzazioni – in ordine all’effettività delle misure che i nuovi aderenti sono impegnati ad assumere.

    Una volta raggiunto il limite di 27 stati membri, ogni passo ulteriore è per il momento bloccato. Le istituzioni europee avevano preso un anno di riflessione per

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    avanzare nuove proposte circa il destino del Trattato costituzionale,ma il tempo della riflessione non è stato sufficiente per pervenire a un’opinione sufficientemente condivisa tra gli Stati membri.

    Le posizioni rimangono divergenti fra chi ritiene che si debba procedere con il processo di ratifica e chi lo considera ormai votato a un inevitabile fallimento. In realtà, non solo non è praticabile la ripetizione del referendum nei due paesi che si sono espressi negativamente. Ma anche Gran Bretagna, dove il governo Blair ha preso l’impegno della verifica referendaria, il risultato sarebbe scontato in senso negativo. E la stessa cosa si dovrebbe dire di un altro grande paese come la Polonia, stando alle dichiarazioni anche recenti del capo del governo.

    Per individuare una traiettoria di exit dalla crisi attuale, è convinzione comune che si debba attendere, da un lato, la presidenza tedesca del primo semestre 2007; dall’altro, lo svolgimento e gli esiti delle elezioni presidenziali in Francia. Nello stesso lasso di tempo si dovrebbe assistere al cambio del governo in Gran Bretagna col passaggio della premiership da Blair a Gordon Brown che si presenta scarsamente incline al tema dell’Unione.

    E’, in ogni caso del tutto evidente, che prima del 2008-09 non si perverrà a una soluzione, che è anche la premessa per ogni ulteriore decisione in ordine all’allargamento.Questo anche per la semplice ragione che il Trattato di Nizza, sulla cui base funzionano attualmente le istituzioni dell’Unione, non ha previsto regole per una dimensione superiore a 27 membri. Per ogni ulteriore adesione bisognerà, infatti, rinegoziare l’attribuzione dei voti nel Consiglio europeo e la presenza nel Parlamento europeo. Questo significa che l’ingresso della Croazia, che era programmato come un seguito immediato al compimento dei 27, è allo stato attuale sospeso.

    Ma, ovviamente, non si tratta solo di questioni regolamentari. In effetti, senza un nuovo Trattato, il funzionamento dell’Unione si presenta già oggi problematico: basti considerare che l’attuale rotazione semestrale della presidenza dell’Unione significherebbe, se fosse mantenuta, che, dopo la prossima presidenza, per un nuovo turno, la Germania dovrebbe attendere più o meno 15 anni. Insomma, la riforma delle istituzioni è giustamente considerata una premessa irrinunciabile per ogni ulteriore allargamento.

    Il problema non ha solo aspetti istituzionali. In un certo senso, siamo di fronte a un intreccio per il quale l’allargamento è bloccato per la mancata approvazione della Costituzione, e questa a sua volta ha avuto tra i fattori di rigetto anche una considerazione negativa dell’allargamento.

    I sondaggi condotti da Eurobarometro su questo tema indicano un’elevata percentuale di cittadini europei contrari al proseguimento del processo di allargamento anche in quei paesi che ne sono statati protagonisti, come la Germania e la Francia. Le ragioni di questo atteggiamento sono complesse. E’ probabile che tra le cause vi sia anche il clima di difficoltà e stagnazione economica che ha segnato gli anni del dibattito e del voto referendario sul Trattato costituzionale, e quindi una percezione negativa dell’allargamento.

    Vi è anche l’opinione che i paesi nuovi si muovano in direzione di un modello economico e sociale fortemente divergente rispetto al quadro tradizionale

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    dell’Europa continentale, essendo piuttosto ispirato ai canoni neoliberisti del modello anglosassone. Vi è infine l’incertezza intorno a quelli che dovrebbero essere i confini dell’Unione e quindi la salvaguardia della sua identità. Indipendentemente dalle questioni istituzionali, che si pongono anche a prescindere dagli ulteriori possibili allargamenti, l’Unione si confronta con due questioni politiche a cui deve dare una risposta.

    La prima è quella degli Stati emersi dalla frantumazione dell’ex Jugoslavia, al di là della Slovenia che è entrata a farne parte e con successo, testimoniato anche dalla sua rapida entrata nell’euro. Se si escludono la Croazia e la Serbia, si tratta di piccoli Stati esposti anche a rischi di conflitti etnici interni, come la Macedonia, la Bosnia Erzegovina, a parte il piccolo Montenegro.

    Queste realtà statuali, sorte in un clima di aspri conflitti, quando non di guerre vere e proprie, contengono fattori di pericolosa instabilità. La prospettiva dell’adesione all’Unione europea è lo strumento possibile e necessario per creare un quadro di stabilità della quale hanno bisogno sia quei paesi che l’Unione. Quest’aspetto del problema dell’allargamento non può che rimanere all’ordine del giorno.

    L’altro tema è la Turchia. Non si può fare a meno di considerare che la domanda di adesione risale a molti decenni or sono e che, infine, i negoziati sono stati aperti. Ma, al tempo stesso, si tratta del punto di maggiore contrasto nell’opinione pubblica europea. Il consenso verso il suo ingresso nell’Unione è decisamente minoritario.

    Se l’ammissione della Turchia dovesse essere sottoposta a referendum popolare, come del resto hanno annunciato alcuni governi, l’esito sarebbe con ogni probabilità negativo. Quanto ai governi, le più recenti prese di posizione del candidato di punta del centro-destra francese alla presidenza della Repubblica, Nicholas Sarkozy, non lasciano dubbi sulla scelta contraria all’ingresso della Turchia nell’Unione.

    Opinioni europee sull'adesione della Turchia alla UE

    0

    10

    20

    30

    40

    50

    2004 2005 2006

    Né positivo nénegativo

    Positivo

    Negativo

    Fonte: German Marshall Fund, Transatlantic Trends – Principali risultati 2006

    Il problema Turchia rimane tuttavia aperto in quanto tende a definire la natura, i confini, l‘identità dell’Unione europea nel suo divenire. Proprio le obiezioni in ordine

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    alla sua condizione di confine verso il Medio Oriente e la condizione di paese islamico e insieme laico costituiscono una sfida centrale per il futuro dell’Unione e per la sua capacità di estendere le frontiere di una democrazia laica basata sui principi che informano la tradizione dello stato di diritto.

    A questo si aggiungono considerazioni di carattere geo-strategico. Trattandosi di un grande paese in una regione altamente sensibile e in evoluzione, il mancato aggancio all’Unione europea avrebbe molto probabilmente come alternativa altre forme di alleanze nell’area mediorientale. Alleanze che, a giudizio di alcuni commentatori, cominciano a delinearsi in direzione di una strategia di collegamento della Turchia con Iran e Russia.

    E’ in conclusione, del tutto prevedibile che la questione dei Balcani sud-occidentali e quella della Turchia rimarranno per un certo periodo in ombra, dal punto di vista delle scelte operative riguardanti i concreti processi di allargamento. Ma si tratta di due temi politici che, per ragioni diverse, restano centrali per la definizione della natura e delle prospettive dell’Unione. E sarà interessante vedere come s’intrecceranno con la ripresa del discorso sul futuro costituzionale dell’Unione europea, dal momento che un nuovo trattato potrebbe prevedere anche forme diverse di strutture istituzionali rispetto a quelle delle quali si è discusso finora. Ma questo tema esige un suo specifico approfondimento nella consapevolezza dell’estrema incertezza che, allo stato attuale, circonda la questione.

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    Le politiche macroeconomiche e i tempi dell’euro La crescita e i redditi L’andamento dell’economia nei paesi neocomunitari è stata caratterizzato negli ultimi anni da una elevata crescita del prodotto interno lordo. Nel confronto fra l’Unione a 15 e l’Unione a 25 è la seconda a mostrare una migliore performance. In effetti la svolta, nel senso di una crescita più alta nei paesi dell’allargamento, caratterizza l’intero ultimo quinquennio, fra il 2001 e il 2006.

    A partire dal 2001 i paesi candidati dell’est accelerano la crescita in termini significativi. I tre piccoli paesi baltici realizzano aumenti del PIL del 7-8 per cento con punte intorno al 10 per cento nel 2005 in Estonia e Lettonia. Il 2005 fa registrare un rilevante livello di crescita del 6 per cento nella Repubblica Ceca e in Slovacchia L’Ungheria presenta una crescita relativamente costante nel corso degli anni intorno al 4 per cento. La Polonia migliora i propri risultati fra il 2003 e il 2005, sia pure con un andamento più oscillante, ma con una accentuazione della crescita prevista nell’ordine del 5 per cento per il 2006.

    Tasso di crescita del PIL reale (2000-2006)

    2000 2001 2002 2003 2004 2005 2006(f) UE 25 3.9 1.9 1.2 1.2 2.4 1.6 2.1 UE 15 3.9 1.9 1.1 1.0 2.3 1.4 2.0 Cipro 5.0 4.1 2.1 1.9 3.9 3.8 4.0 Estonia 7.9 6.5 7.2 6.7 7.8 9.8 7.2 Lettonia 8.4 8.0 6.5 7.2 8.5 10.2 7.7 Lituania 3.9 6.4 6.7 10.4 7.0 7.5 6.2 Malta 6.4 0.4 1.5 -2.5 -1.5 2.5 0.7 Polonia 4.2 1.1 1.4 3.8 5.3 3.2 4.3 Repubblica Ceca 3.9 2.6 1.5 3.2 4.7 6.0 4.4 Slovacchia 2.0 3.8 4.6 4.5 5.5 6.0 5.5 Slovenia 4.1 2.7 3.5 2.7 4.2 3.9 4.0 Ungheria 6.0 4.3 3.8 3.4 4.6 4.1 3.9 Bulgaria 5.4 4.1 4.9 4.5 5.6 6.0 (f) 5.5 Romania 2.1 5.7 5.1 5.2 8.4 4.1 5.3 Italia 3.6 1.8 0.3 0.0 1.1 -0.0 1.5 Fonte: Eurostat 2006 (f) previsioni

    Da una valutazione d’insieme emerge che i paesi neocomunitari non hanno potuto giovarsi di quella che appariva, all’inizio del decennio, la capacità di traino della vecchia Unione che invece, in contrasto con l’andamento complessivamente elevato della crescita globale, ha fatto segnare un ritmo di crescita modesto e in alcuni grandi paesi, come la Germania e l’Italia, vicino alla recessione.

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    In questo quadro, come vedremo più avanti, sono state piuttosto le importazioni dei paesi neocomunitari a sostenere la crescita dei vecchi paesi dell’Unione che non viceversa.

    Il PIL (prodotto interno lordo) pro capite viene calcolato sia in una moneta “forte” (euro o dollaro), sia in termini di potere d’acquisto. Il primo metodo favorisce il confronto per alcuni aspetti: per esempio il costo di un asset o di un bene in termini comparativi fra un paese e l’altro o il costo del lavoro per un investimento estero. Il secondo metodo ci fornisce invece informazioni sull’effettivo potere d’acquisto degli abitanti del paese considerato, tenendo conto dei prezzi vigenti sul mercato interno.

    A livello internazionale, le comparazioni sono elaborate in termini di potere d’acquisto standard (PPS) per una realistica definizione del reddito pro-capite in relazione alle condizioni di mercato specifiche del paese di riferimento. La tabella che segue fissa a 100 la media del PIL (PPS) pro capite in riferimento all’Unione allargata a 25. Com’è intuitivo la media dei 15 è superiore a 100, e tocca 108.2 nel 2005.

    EU 10 + 2 candidati - PIL pro capite in PPS 2005 (UE 25=100)

    0

    20

    40

    60

    80

    100

    120

    Bulgari a

    Rom

    an ia

    Let t oni a

    Polo ni a

    Lit ua nia

    Sl ova cchi a

    Est oni a

    Un ghe ri a

    Mal ta

    Rep. C

    e ca

    Sl oven ia

    Cip ro

    UE

    2 5

    I tal i a

    UE

    15

    Fonte:Eurostat 2006

    Considerando EU8 (+2), vale a dire i paesi dell’Europa centro-orientale entrati nell’Unione nel 2004 più i due candidati ad entrare nel 2007, possiamo osservare che nelle stime del 2005, la Polonia si colloca alla metà del reddito pro-capite della media europea, mentre i tre paesi baltici e la Slovacchia oscillano intorno a questo livello con un minimo la Lettonia (46.8) e un massimo l’Estonia (56.8).

    Decisamente diverso si presenta il quadro per gli altri tre paesi neo-entrati, dove il reddito varia dal 62 per cento in Ungheria al 73 nella Repubblica Ceca, fino a superare l’80 per cento in Slovenia. La situazione si presenta rovesciata in Bulgaria e Romania, dove rimane intorno a un terzo della media europea.

    In conclusione, saranno necessari alcuni decenni perché il reddito pro-capite dei paesi neocomunitari e, particolarmente, dei due attualmente in procinto di entrare – Bulgaria e Romania - possano raggiungere la media dell’Unione.

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    Per le ragioni menzionate prima è, tuttavia, utile il confronto riferito ad un’unica moneta di riserva come l’euro o il dollaro. In questo caso le variazioni rispetto alla media europea sono molto più rilevanti, come si desume dalla tabella che segue.

    PIL pro capite in euro e in % sul PIL EU 15 2005 € %

    EU 15 27.014 100 Cipro 18.578 68.7 Estonia 8.311 30.7 Lituania 6.343 23.4 Malta 11.354 42.0 Polonia 6.009 22.2 Repubblica Ceca 10.248 37.9 Slovacchia 7.347 27.2 Slovenia 13.988 51.7 Ungheria 8.805 32.5 Italia 24.665 91.3 Fonte: Eurostat 2006, elaborazione CISS

    I tempi dell’euro Nei trattati di adesione alla UE dei paesi dell’est è previsto l’ingresso nell’Unione economica e monetaria pur non essendo fissate scadenze preventive.

    La partecipazione è condizionata ai criteri fissati nel trattato di Maastricht con riferimento a: tassi di inflazione, tassi di interesse, disavanzo e debito pubblico, nonché un periodo di stabilità del cambio nell’ambito dell’ Exchange rate mechanism (ERM 2).

    I parametri di Maastricht (2004 - 2005)

    Tasso di inflazione (giugno 2004-2005)

    Deficit del bilancio

    (% del PIL)

    Debito pubblico (% del PIL)

    Corrispondenza criteri di

    Maastricht criteri 2.3 -3.0 60.0 Cipro 2.5 -4.1 71.9 0 Estonia 4.1 +1.8 4.9 3 Lettonia 7.0 -0.7 14.3 3 Lituania 2.7 -2.5 19.7 3 Malta 2.4 -5.2 75.0 1 Polonia 3.8 -6.8 47.7 1 Rep. Ceca 2.1 -3.0 37.4 4 Slovacchia 4.5 -3.3 43.6 2 Slovenia 3.0 -1.9 29.4 3 Ungheria 5.0 -5.4 60.4 0 Fonte: Eurostat and Fitch Ratings, 2006

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    L’inflazione

    Per quanto concerne la convergenza con i criteri di Maastricht, si può osservare che i tassi di inflazione sono elevati soprattutto in Lettonia e Ungheria (non dovrebbero superare di più di 1.5 punti il tasso d’inflazione medio dei tre paesi dell’Unione Europea più “virtuosi”).

    Considerato isolatamente, il profilo dell’inflazione non sembra sollevare problemi rilevanti per la maggioranza dei paesi neo-comunitari. Rimane il fatto che una crescita accelerata, com’è il caso dell’Estonia e della Lettonia, tende a dilatare il potenziale d’inflazione, accompagnandosi all’aumento della domanda interna e agli aumenti del costo del lavoro nei settori più dinamici, aumenti che tendono a diffondersi anche nei settori a minore produttività, conformemente ad una dinamica ampiamente nota in dottrina.

    Sotto questo profilo una maggiore ampiezza di oscillazione del tasso di inflazione potrebbe essere fisiologicamente connesso agli andamenti della crescita. Di qui, come si è visto, discende una controindicazione a un ingresso accelerato nell’unione monetaria, che elimina, per definizione, la possibilità di operare sul cambio per difendere la competitività delle esportazioni, quando divenisse necessario.

    La finanza pubblica

    Il parametro relativo agli equilibri del bilancio pubblico, costituisce uno dei criteri principali per l’ingresso nell’euro e per l’osservanza dei parametri fissati dal Patto di stabilità e crescita.

    Per questo aspetto, tutti i paesi neocomunitari, con la sola eccezione dell’Ungheria (e di Malta), rientrano entro il limite di un disavanzo massimo del tre per cento in rapporto al PIL. L’Estonia da più anni e la Lettonia nel 2005 esibiscono un avanzo di bilancio.

    Il paese con una rilevante difficoltà è l’Ungheria che presenta elevati tassi di disavanzo pubblico. Allo stato attuale, le istituzioni internazionali e le agenzie di rating mettono l’accento sui rischi di questo squilibrio sia per l’inflazione che per il tasso di sconto elevato al 7 per cento nel corso dell’estate, oltre che per le possibili conseguenze sul cambio.

    Spetta al governo di centro-sinistra presieduto da Ferenc Gyurcsany - l’unico confermato nelle recenti elezioni politiche nei maggiori paesi dell’Europa centro-orientale – trovare un non facile equilibrio fra la continuità della crescita, stabilmente attestata intorno al 4 per cento negli anni più recenti, e un inversione di tendenza verso una progressiva convergenza sui parametri dell’Unione.

    Si confermano per l’Ungheria le osservazioni relative alla problematica dell’ingresso nell’Unione monetaria, quando essa impone scelte complesse nel favorire l’equilibrio fra continuità della crescita e stabilizzazione finanziaria. In ogni caso la scadenza dell’ammissione all’euro si allontana rispetto a quella inizialmente prevista intorno al 2008.

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    I paesi neocomunitari si pongono da questo punto di vista su posizioni diverse. Per la maggior parte la scadenza era indicata intorno al 2008-2009. In effetti, il quadro è mutato.

    La Slovenia ha superato tutti gli “esami” e, dopo la decisione adottata nel mese di luglio 2006 dal Consiglio dei ministri delle Finanze dell’eurozona, sarà la prima ad entrare nell’UEM il 1° gennaio del 2007.

    Il Trattato di Maastricht

    Stipulato nel 1992 stabilisce i seguenti prerequisiti per l’accesso all’Unione economica e monetaria: - un tasso d’inflazione che non superi di più di 1,5 punti percentuali la media dei

    tre paesi dell’Unione europea con la migliore performance in termini d’inflazione;

    - un tasso d’interesse a lungo termine che non superi di più di due punti il valore dei tassi dei tre paesi a più bassa inflazione nell’anno di riferimento;

    - tassi di cambio fluttuanti per almeno due anni all’interno del meccanismo di cambio europeo, che prevede una flessibilità del cambio del 15 per cento intorno alla parità centrale;

    - un debito pubblico non superiore al 60 % del PIL o chiaramente tendente a ridursi verso questo livello;

    - un disavanzo pubblico non superiore al tre per cento del PIL.

    La Commissione europea ha invece rigettato la candidatura presentata dalla Lituania, adducendo la non corrispondenza del parametro inflazione. Questo rigetto è stato contestato dal paese interessato sia per il modo in cui il parametro veniva calcolato, trattandosi di un divario intorno a un decimo di punto, sia per una ragione più generale. Si è posta, in altri termini, la questione se i criteri di Maastricht fissati prima dell’instaurazione dell’euro, dovessero essere riferiti agli andamenti macroeconomici (in questo caso, l’inflazione) dell’UE 25, o come in verità sembrerebbe più logico in relazione all’eurozona, formata da 12 paesi. (Si veda a questo proposito l’analisi di Galgóczi e Kemekliene).

    L’Estonia era inizialmente candidata a entrare insieme con Slovenia e Lituania nel 2007. La corona è legata all’euro nell’ambito di una banda di fluttuazione del 15 per cento in conformità alle regole del Meccanismo europeo di cambio (ERM II). Ma, secondo le previsioni più recenti, la partecipazione all’euro è rinviata di alcuni anni, probabilmente fino al 2010. Il motivo principale è anche in questo caso la non corrispondenza del parametro dell’inflazione.

    Diversa si presenta la situazione per i paesi di maggior rilievo. L’Ungheria che si proponeva di entrare intorno al 2010 è gravata, come si è detto sopra, da un rilevante problema di finanza pubblica a causa del crescente disavanzo, accompagnato da un elevato tasso d’inflazione.

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    Questi due fattori trascinano, a loro volta, un elevato tasso di interesse e la crescita del debito pubblico, che secondo le proiezioni più recenti, si avvia a superare il 70 per cento del PIL. In questo contesto nel quale tutti i parametri di Maastricht sono notevolmente lontani è probabile che l’adesione all’euro non sia proponibile prima del 2012.

    La Polonia, indipendentemente dalle condizioni economiche, ha allontanato l’obiettivo dell’euro come scelta politica del nuovo governo. Una decisione sarà assunta nella prossima legislatura successiva al 2009, e difficilmente l’adesione potrebbe verificarsi prima di due o tre anni dopo l’adozione di una decisione in questo senso.

    La Slovacchia potrebbe realizzare le condizioni per l’adesione fra il 2009 e 2010, attraverso un’operazione di riduzione dell’inflazione e del disavanzo. Mentre per la Repubblica Ceca la decisione ha un carattere politico, essendo abbastanza ravvicinati i parametri richiesti per l’adesione.

    In effetti, l’ingresso nell’euro non è solo un problema di convergenza dei diversi profili finanziari. Se, formalmente, si tratta puramente e semplicemente di ottemperare ai criteri oggettivamente fissati per l’ammissione, nel merito diversi punti di vista si confrontano intorno all’opportunità di accelerare o ritardare la partecipazione alla moneta unica.

    La politica fiscale In tutti i paesi neocomunitari dell’Europa centro-orientale la politica fiscale ha occupato un posto di primo piano negli orientamenti di politica economica. Provenendo da regimi a economia centralizzata un elemento essenziale del passaggio all’economia di mercato è stato la riorganizzazione del prelievo e della spesa pubblica. Si trattava in primo luogo di organizzare un sistema di prelievo fiscale coerente con l’economia di mercato, nella quale prendevano corpo una nuova composizione del reddito e nuove forme di prelievo diretto e indiretto.

    E’ in questo contesto di ridefinizione dei criteri di prelievo, con riguardo ai redditi personali e delle società, che si è fatta strada la tendenza a una progressiva riduzione delle imposte sui profitti delle società, con l’obiettivo prioritario di attrarre gli investimenti esteri.

    Questa tendenza, presente in tutti i paesi, ha assunto caratteristiche particolarmente rilevanti in alcuni, dove si è fatta una scelta radicale in direzione di un’imposta unica (flat rate). Il paese che si è spinto più avanti in questa direzione è stata la Slovacchia, dove il governo di Michail Dzurinda, a capo di una coalizione di centro-destra fra il 1999 e il 2006, ha ricondotto tutte le imposte, sia dirette che indirette, ad un’aliquota unica del 19 per cento applicata sia ai redditi personali che ai profitti societari.

    La riduzione del prelievo fiscale tende, tuttavia, a creare un maggiore disavanzo del bilancio pubblico che, per essere compatibile con il Patto di stabilità dell’Unione europea, deve essere compensato dalla riduzione della spesa pubblica, riducendo l’occupazione nel settore pubblico e, specialmente, la spesa sociale. Questa era e

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    rimane ancora relativamente alta, essendo radicata nel vecchio regime che prevedeva sistemi assicurativi e previdenziali di tipo universale.

    Per ottenere il rientro strutturale dal disavanzo, l’Ocse raccomanda, in particolare, la riduzione della spesa sanitaria e dei sussidi di disoccupazione, che scoraggerebbero la ricerca di un’occupazione da parte dei lavoratori meno qualificati, i cui salari sono spesso al di sotto dei sussidi di disoccupazione.

    S’iscrive in questo quadro la riforma delle pensioni che prevede il versamento del 50 per cento dei contributi obbligatori ai fondi privati a capitalizzazione. Questa misura non è in grado di ridurre a breve la spesa pensionistica – al contrario, ne accresce il disavanzo - ma a lungo termine dislocherà una parte consistente del sistema verso i fondi privati.

    La flat rate era in effetti oggetto di un diffuso dibattito teorico, ma non era stata mai applicata se non a Hong Kong. Ma improvvisamente nell’Europa centro-orientale è entrata nel dibattito politico, spingendo i diversi paesi, se non verso una sua totale applicazione, verso una sostanziale progressiva riduzione del prelievo.

    Imposte sul reddito personale e sulle società 2005 negli EU 8 + 2 candidati + Italia e Svezia

    Imposta sul reddito personale

    Imposta sulle società

    Estonia 26 : Lettonia 25 15 Lituania 33 15 Polonia 40 19 Repubblica Ceca 32 28 Slovacchia 19 19 Slovenia 50 25 Ungheria 38 16 Bulgaria 29 19.5 Romania 16 16 Italia 43 34 Svezia 60 28 Fonte: Heritage Foundation and National reports, 2006

    I riflessi di questa politica sono di vario ordine. In primo luogo essa si riflette sulla spesa pubblica e in particolare sulla spesa sociale. In tutti i paesi dell’est la spesa sociale è consistentemente al di sotto della media dei 25, circostanza che pesa particolarmente sulle fasce più deboli della società dal punto di vista dei trasferimenti monetari, delle tutele sociali e dei servizi pubblici.

    In secondo luogo ha creato problemi con i paesi della vecchia Unione che interpretano l’abbattimento del prelievo come una sorta di doping fiscale. Si osserva infatti che se il bilancio pubblico può fare a meno di risorse derivanti dal sistema di imposte, non si vede perché là Comunità europea debba essere impegnata nel conferimento di risorse a titolo di fondi strutturali, il cui finanziamento risale alle imposte pagate dai cittadini della vecchia Unione.

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    Commercio estero e investimenti La crescita dell’interscambio commerciale fra la vecchia Unione a 15 e i paesi neocomunitari, in particolare dell’Europa centro-orientale, è uno degli aspetti salienti del processo di integrazione. Aspetto che s’inserisce nel più vasto processo della globalizzazione che riguarda l’Unione nel suo rapporto col resto del mondo. L’integrazione commerciale e – come vedremo – dei flussi di investimento ha dato luogo a un fenomeno che potremmo definire di globalizzazione ravvicinata. E per ciò stesso intensa e in continua crescita e diversificazione.

    Da questo punto di vista, l’integrazione commerciale fra la vecchia e la nuova Europa è iniziata già molto prima dell’allargamento formale a 25 del maggio 2004 che ha ulteriormente consolidato e intensificato il processo. L’ingresso nell’euro dovrebbe a sua volta, via via che si attuerà, rafforzare il processo di integrazione.

    Considerando le caratteristiche dell’interscambio è importante osservare la sua dinamica evolutiva. Inizialmente, nel corso degli anni 90, l’intercambio tendeva a svilupparsi in relazione a quella che potremmo definire una complementarietà orizzontale della produzione di merci. In sostanza, i paesi candidati esportavano verso i 15 beni a bassa intensità di capitale e ad alta intensità di lavoro.

    E’ il caso dei tessili, dell’abbigliamento, dell’elettronica, mentre le importazioni dei paesi candidati si concentravano in particolare sui beni strumentali e ad alta tecnologia. Questo andamento rifletteva il processo di transizione in corso nei paesi dell’est, caratterizzato prima da una caduta verticale della produzione con il collasso dei vecchi regimi e del Comecon (l’organizzazione dei rapporti economici all’interno del blocco comunista), poi dalla lenta riorganizzazione dei settori manifatturieri.

    Evoluzione qualitativa dell’interscambio

    Successivamente, col consolidarsi del processo di ristrutturazione e modernizzazione dell’apparato produttivo, anche in virtù degli investimenti esteri, l’interscambio ha assunto caratteristiche nuove nella divisione del lavoro. E’ venuto crescendo un processo di specializzazione all’interno dei settori, dove l’articolazione produttiva riguarda beni appartenenti allo stesso settore, ma su una diversa scala di sofisticazione tecnologica e qualitativa che riflette anche la diversità dei costi di produzione e dei prezzi di vendita al consumatore.

    Un ulteriore passo nel processo di specializzazione è consistito nella divisione del lavoro all’interno dei sistemi d’impresa. La delocalizzazione avviene in questo caso all’interno della produzione dello stesso bene, allungando la catena di produzione del valore, nel senso di concentrare nel paese di provenienza i segmenti tecnologicamente più avanzati, mentre si dislocano nei paesi nuovi i segmenti a più alta intensità di lavoro. In questo quadro, è cresciuto l’interscambio di parti, componenti, semilavorati che poi danno luogo al prodotto finito.

    Il fenomeno ha acquistato una particolare importanza in settori industrialmente rilevanti come l’auto e l’ICT: l’Ungheria e la Repubblica Ceca per esempio presentano un elevato sviluppo nei settori delle tecnologie informatiche e delle telecomunicazioni; la Repubblica Ceca e la Slovacchia nel settore dell’auto.

  • L’allargamento della UE due anni dopo CISS

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    In linea generale, possiamo affermare che l’interscambio commerciale insieme con la crescita degli investimenti esteri dei 15 verso i nuovi paesi comunitari e candidati costituisce, come si poteva prevedere, un fattore decisivo del processo d’integrazione. Un fattore che influenza profondamente le prospettive e i modelli di crescita dei paesi dell’est, ma che si riflette anche sugli assetti produttivi dei paesi della vecchia Unione in relazione ai processi di delocalizzazione, la cui convenienza è determinata da un complesso di fattori.

    Investimenti esteri totali in UE10 2004 (milioni di euro)

    0

    10000

    20000

    30000

    40000

    50000

    60000

    70000

    Malta

    Lettonia

    Lituania

    Slovenia

    Cipro

    Estonia

    Slovacchia

    Rep. C

    eca

    Ungheria

    Polonia

    Fonte: CE Directorate-General for Economic an Financial Affairs, Enlargement, two years after: an economic evaluation, maggio 2006

    Da un lato, i differenziali di costo del lavoro. Dall’altro, un contesto culturale e di formazione non riscontrabile in aree diverse, come per esempio quelle del sudest asiatico. La vicinanza è a sua volta un fattore importante. Secondo i modelli “gravitazionali” del commercio estero l’intensità dell’interscambio fra una coppia di paesi è determinata dall’ampiezza di almeno uno dei due e dalla prossimità dei mercati. Questo spiega l’importanza assunta nel commercio dalla Germania e dall’Austria e, in parte, dall’Italia, mentre meno rilevante risulta per altri paesi come la Francia e la Gran Bretagna.

    L’analisi quantitativa dei flussi conferma il crescente rilievo dell’integrazione da questo punto di vista. Il 60 per cento delle esportazioni dei dieci paesi neocomunitari è diretto verso i 15. Mentre questi contano per il 70 per cento delle importazioni dei 15. Il saldo commerciale è a favore dell’UE 15. In altri termini, i paesi dell’allargamento hanno contribuito alla crescita dell’EU 15. Ciò è da porre anche in relazione alla bassa crescita dell’EU 15 a partire dal 2001, mentre si consolidava a livelli decisamente più alti il ritmo di crescita dei paesi nuovi.

    La principale caratteristica dei paesi UE 15 è stata nel lungo periodo lo sviluppo degli scambi commerciali all’interno dell’area, con una percentuale (media tra esportazioni ed importazioni) che nel complesso dei 15 paesi si colloca oltre il 60% degli scambi totali. Fanno eccezione i due paesi più coinvolti nei rapporti con il mondo esterno all’UE, la Germania e l’Italia, che non solo si collocano al di sotto della soglia del 60%

  • L’allargamento della UE due anni dopo CISS

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    ma che negli ultimi anni hanno aumentato in termini percentuali l’impegno verso le aree esterne.

    In sostanza, L’UE15 è progressivamente diventata il maggior partner commerciale per tutti i paesi UE10. Nel 2003 UE15 assorbiva il 67 per cento del totale delle esportazioni dei paesi UE10, mentre si aggiudicava il 58 per cento delle loro importazioni.

    Nell’insieme l’interscambio fra le due aree si è collocato intorno al 62 per cento, riflettendo un elevato livello d’integrazione fra la vecchia Europa e i paesi neocomunitari. E’ interessante notare che i tre principali paesi dell’allargamento – Polonia, Ungheria, Repubblica Ceca – superavano già alla fine del decennio ’90, la soglia di integrazione del 60 per cento.

    La quota di mercato dei paesi UE10 nel mercato dell’area UE15 è aumentata di 8 punti nell’arco del decennio 1993/2003, collocandosi intorno al 13 per cento delle importazioni UE15. Valore determinato in grande parte dai tre paesi principali: Repubblica Ceca (3.7%), Polonia (3.5%), Ungheria (2.8%).

    In questo contesto, l’interscambio fra l’Italia e i maggiori paesi neo-entrati e quelli candidati è costantemente cresciuto tra la metà degli anni 90 e il 2003, sia da lato delle importazioni che delle esportazioni, così come è fortemente cresciuto il numero degli operatori coinvolti

    Fonte: Istituto Commercio estero, 2005

    Nel periodo 1992/2003, il flusso delle esportazione dei paesi UE10 ha mostrato un vantaggio comparato positivo a loro favore, rispetto ai paesi UE15, in alcuni settori fra i quali auto, abbigliamento, macchine elettriche, semiconduttori e uno svantaggio sostanziale in altri come farmaceutici, attrezzature, telematica, computer.

    L’interscambio nel settore dei servizi si è rivelato meno consistente di quello dei beni. Nel rapporto tra le due aree hanno prevalso le esportazioni di servizi dai paesi UE15 verso i paesi UE10 collegate al consolidamento degli investimenti diretti, consistenti in rimesse per royalties e licenze; seguono i servizi nell’area dei computers, delle attività finanziarie e di quelle commerciali.

    Se consideriamo la posizione competitiva dei paesi UE25 nelle esportazioni verso il resto del mondo, constatiamo che si è lievemente rafforzata negli ultimi anni

    Italia: dinamica degli scambi commerciali con i principali paesi neocomunitari e candidati 1995/2003 (miliardi di US$)

    Esportazioni Importazioni Operatori italiani coinvolti (000) 1995 2003 1995 2003 1995 2003 Rep. Ceca 1,1 2,6 0,7 1,7 10,3 16,5 Polonia 2,1 4,9 1,1 3,5 10,9 20,6 Ungheria 1,2 2,7 1,1 2,4 11,3 16,8 Bulgaria 0,4 1,1 0,4 1,1 4,0 12,0 Romania 1,0 4,3 1,1 4,0 8,6 19,3 Turchia 2,7 6,0 1,3 4,0 10,8 16,5

  • L’allargamento della UE due anni dopo CISS

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    (2003/2005), attestandosi sul 35 per cento del totale, mentre la quota di export dei paesi UE10 diretta al di fuori dell’Unione è rimasta al 25%.

    Gli investimenti esteri diretti

    Nel 2004 lo stock di investimenti esteri presenti nei paesi UE 10 assommava a circa 200 miliardi di euro. L’80% di tali investimenti si è diretto verso i tre paesi maggiori dell’area, nell’ordine Polonia, Ungheria, Repubblica Ceca.

    Gli effetti dell’integrazione sono particolarmente evidenti se si considera che il 77,5% dello stock di capitali esteri presenti nei 10 paesi di nuovo accesso proviene dai paesi EU15. Anche dalla parte di chi investe c’è la prevalenza di alcuni paesi. Nell’ordine: Olanda, Germania e Francia, cioè i due maggiori paesi dell’Europa occidentale continentale e l’Olanda, sede di molte multinazionali.

    E’ rilevante la scarsa presenza della Gran Bretagna da una parte ed il ruolo di apripista delle multinazionali assunto dall’Olanda. Il ruolo dell’Italia è meno rilevante, ma ciò anche perché l’Italia, pur presente nei paesi di nuovo accesso all’UE, privilegia sugli investimenti diretti i più tradizionali strumenti degli scambi commerciali e delle joint ventures produttive o commerciali.

    Stock investimenti esteri EU10 in % sul PIL (2003)

    01020304050607080

    Slovenia

    Polonia

    Lituania

    Lettonia

    Slovacchia

    Rep. C

    eca

    Ungheria

    UE 15

    Cipro

    Malta

    Estonia

    Fonte: CE Directorate-General for Economic an Financial Affairs, Enlargement, two years after: an economic evaluation, maggio 2006 Dall’altra parte vi sono differenze nel predominio in ogni singolo paese dell’UE10 di alcuni degli interlocutori forti dell’UE15. In tre dei paesi dell’area centro-orientale (Repubblica Ceca, Ungheria, e Slovacchia) la scala dei primi tre investitori è omogenea: prima la Germania (in Ungheria e Slovacchia), poi l’Olanda (in particolare nella Repubblica Ceca), terza l’Austria. A questo modello si avvicina la Polonia, ove al primo posto si colloca la Germania, al secondo l’Olanda, mentre al terzo si inserisce la Francia, anche grazie ad antiche affinità culturali. Si presenta quindi un quadro di prevalente impegno dei due paesi

  • L’allargamento della UE due anni dopo CISS

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    di lingua tedesca, con il già menzionato ruolo specifico rivestito dall’Olanda e dalle multinazionali che vi hanno sede. Nei tre paesi baltici (Estonia, Lettonia, Lituania) è prevalente la presenza dei dirimpettai baltici già membri della vecchia Unione (Finlandia e Svezia), con l’eccezione, tuttavia, della Lettonia, dove la Germania si colloca al primo posto, anche in virtù di un’ antica tradizione culturale tedesca e di una minore predominanza delle etnie scandinave. La Slovenia fa caso a sé, con l’inserimento dei paesi più vicini ma senza, sorprendentemente, la presenza dell’Italia. Gli investimenti nel settore manifatturiero si vanno differenziando per area. Due settori sono risultati preminenti nel triennio 2001/2003, assorbendo quasi i due terzi dei flussi in entrata nei paesi UE10: primo tra tutti quello dell’elettronica e comunicazioni, che si è diretto selettivamente verso l’Ungheria (e Repubblica Ceca), quello dell’automobile che si è ripartito tra Repubblica Ceca, Ungheria e Slovacchia. Il terzo residuo si è ripartito tra i settori più tradizionali e si è diretto prevalentemente verso i paesi baltici e la Polonia.

    Banche di proprietà estera in EU10 2004 (% sul totale)

    0

    20

    40

    60

    80

    100

    Estonia

    Rep. C

    eca

    Slovacchia

    Lituania

    Polonia

    Ungheria

    Lettonia

    Malta

    Cipro

    UE

    15

    Slovenia

    Fonte: CE Directorate-General for Economic an Financial Affairs, Enlargement, two years after: an economic evaluation, maggio 2006

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    Problemi e prospettive del mercato del lavoro

    La disoccupazione Il tasso di disoccupazione nell’Unione europea allargata a 25 è nel 2005 più alto di quello registrato nell’Unione a 15. La differenza è inferiore a 1 punto percentuale, pari a 0.8 (8.7 nell’Unione allargata rispetto a 7.9 nella vecchia Unione). La differenza non è di per sé particolarmente rilevante, trattandosi di meno di un punto percentuale. Vi è tuttavia da mettere in evidenza che la situazione si presenta molto differenziata all’interno degli otto paesi dell'Europa centro-orientale entrati nell’Unione a maggio del 2004.

    Mentre in cinque dei nuovi paesi comunitari considerati (Estonia, Lituania, Repubblica Ceca, Slovenia, Ungheria e, sostanzialmente, Lettonia) il tasso di disoccupazione si mantiene al di sotto della media, in due paesi (Slovacchia e Polonia) sale verticalmente, aggirandosi su un valore doppio rispetto alla media dei 25.

    Per quanto concerne i 6 paesi citati, riscontriamo nel corso degli anni un tasso di disoccupazione fra il 6 e l’8 per cento nella Repubblica Ceca, in Ungheria e Slovenia, e in progressiva discesa verso la media nei tre paesi baltici che presentavano alla fine del passato decennio tassi particolarmente elevati.

    Tassi di disoccupazione 2005 nei 10 paesi neocomunitari e nei 2 paesi candidati

    0

    5

    10

    15

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    Polonia

    Slovacchia

    Bulgaria

    Lettonia

    UE

    25

    Lituania

    UE

    15

    Estonia

    Rep. C

    eca

    Rom

    ania

    Italia

    Malta

    Ungheria

    Slovenia

    Cipro

    Fonte: Eurostat 2006

    Ma rimane la divaricazione particolarmente grave in relazione a Slovacchia e Polonia. E se per la Slovacchia si tratta di un paese di proporzioni relativamente modeste, per la Polonia siamo in presenza di un paese che da solo, con 40 milioni di abitanti, rappresenta oltre la metà di tutta la popolazione dei dieci paesi neocomunitari.

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    In entrambi i paesi il tasso di disoccupazione manifesta nel 2005 qualche segno di riduzione ma, nonostante la forte crescita del PIL che dura ormai da qualche anno, rimane al 16.4 in Slovacchia e al 17.7 in Polonia. Il fenomeno polacco si presenta particolarmente problematico perché, a partire dal 1998, il tasso di disoccupazione ha seguito una linea ascendente, passando dal 10 per cento nel 1998 a circa il 20 per cento negli anni più recenti.

    Uno sguardo ai due paesi candidati al prossimo allargamento (Bulgaria e Romania) segnala una situazione relativamente omogenea. La Bulgaria parte nel 2000 con un tasso di disoccupazione particolarmente elevato (16.4), ma con una discesa costante si attesta nel 2005 intorno al 9.9 per cento.

    La Romania fa rilevare, sorprendentemente, un tasso costantemente inferiore alle medie, toccando solo nel 2005 il livello più alto del 7.7 per cento – che, sia detto per inciso, è pari a quello dell’Italia. Ma, considerato l’alto livello di occupazione agricola, è molto probabile che la sottoccupazione nelle campagne e i metodi di rilevazione mascherino una quota più alta di disoccupazione effettiva.

    EU10 + 2 candidati - Tassi di disoccupazione 1998-2005 1998 2003 2005 T M F T M F T M F UE 25 9.4 8.0 11.2 9.0 8.1 10.2 8.7 7.9 9.8 UE 15 9.3 7.8 11.2 8.0 7.0 9.3 7.9 7.0 8.9 Cipro : : : 4.1 3.6 4.7 5.3 4.1 6.7 Estonia 9.2 9.9 8.3 10.0 10.2 9.9 7.9 8.8 7.1 Lettonia 14.3 15.1 13.6 10.5 10.6 10.4 9.0 9.1 9.0 Lituania 13.2 14.6 11.7 12.4 12.7 12.2 8.2 7.9 8.5 Malta : : : 7.6 6.9 9.1 7.3 6.5 9.0 Polonia 10.2 8.5 12.2 19.6 19.0 20.4 17.7 16.5 19.2 Rep. Ceca 6.4 5.0 8.1 7.8 6.2 9.9 7.9 6.5 9.8 Slovacchia 12.6 7.3 7.5 17.6 6.3 7.1 16.4 5.9 6.8 Slovenia 7.4 : : 6.7 17.4 17.7 6.3 15.7 17.3 Ungheria 8.4 9.0 7.8 5.9 6.1 5.6 7.2 7.0 7.4 Bulgaria : : : 13.7 14.1 13.2 9.9 10.0 9.6 Romania 5.4 5.5 5.3 6.8 7.2 6.3 7.7 8.0 7.5 Italia 11.3 8.8 15.4 8.4 6.5 11.3 7.7 6.2 10.1

    Fonte: Eurostat 2006

    La disoccupazione di genere

    A uno sguardo d’insieme il differenziale di disoccupazione fra uomini e donne non si presenta nei paesi neocomunitari diverso da quello che si osserva nella vecchia Unione a 15. Infatti lo scarto fra disoccupazione maschile e quella femminile nel 2005 è ugualmente inferiore a due punti (1.9).

    In Estonia e Lettonia, Romania e Bulgaria il tasso ufficiale di disoccupazione femminile è anche più basso di quello maschile. In Ungheria è storicamente più basso, ma in crescita nel 2005. Nel caso della Slovacchia e della Polonia lo scarto fra

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    maschi e femmine è compreso negli ultimi anni considerati fra due e tre punti, non molto distante dallo scarto medio dell’Unione, ma con livelli assoluti più o meno doppi, non lontani dal 20 per cento, riflettendo il quadro generale della disoccupazione totale che affligge, come abbiamo visto, questi due paesi.

    Concludendo su questo punto, dobbiamo osservare che una valutazione ravvicinata delle condizioni del mercato del lavoro non può basarsi soltanto sulle statistiche della disoccupazione. E questo per diverse ragioni. La prima riguarda la metodologia delle rilevazioni. Com’è noto, le rilevazioni registrate nei singoli paesi, e poi riportate da Eurostat, si basano sulla nozione internazionalmente definita dall’Organizzazione internazionale del Lavoro, secondo la quale è disoccupato chi non ha prestato nemmeno un’ora di lavoro nella settimana di riferimento.

    Da questo punto di vista, un sostanziale stato di disoccupazione può essere mascherato da prestazioni autonome o subordinate del tutto occasionali e di scarsissimo rilievo. In secondo luogo, la presenza di un diffuso lavoro nelle campagne (Polonia e Romania) tende a coprire con un alto livello di sottoccupazione un sostanziale stato di disoccupazione, come probabilmente si verifica in Romania, dove la disoccupazione, sia totale sia femminile, risulta al di sotto della media dell’Unione, sia a 25 che a 15.

    Infine, i dati dei tassi di disoccupazione acquistano un più preciso significato dal punto di vista economico e sociale quando sono confrontati con i tassi di occupazione, fornendo insieme il quadro del tasso di attività, vale a dire della popolazione attiva (occupata o attivamente in cerca di occupazione) rispetto alla popolazione in età di lavoro. A questi temi sono dedicati i paragrafi che seguono.

    L’occupazione Come è noto, il tasso medio di occupazione nella vecchia Unione europea a 15 è storicamente basso se confrontato con la situazione delle altre grandi aree industriali dell’Ocse, come gli Stati Uniti e il Giappone. Verso la fine del passato decennio questo tasso superava di poco il 60 per cento della popolazione attiva. Al volgere del decennio assistiamo ad una svolta importante, che inizia nel 1997, alla fine di un lungo ciclo di stagnazione. Il tasso di occupazione che ha raggiunto il 61.4 nel 1998 cresce in termini sostenuti fino al 2001 raggiungendo il 64 per cento.

    Negli anni successivi, fino al 2005, il tasso di crescita rallenta significativamente: aumentando di 1.2 punti complessivamente per attestarsi al 65,2 nel 2005.

    Nei paesi dell’est, l’andamento dell’occupazione presenta un quadro solo in parte sovrapponibile. Infatti, inizialmente, nel 1998, il tasso di occupazione dei 25 è analogo a quello dei 15 (61.2 contro 61.4). Dopo sette anni il divario si presenta notevolmente ampliato.

    Il tasso di occupazione presenta un ritmo di crescita inferiore nei paesi neocomunitari, nonostante il più alto tasso di crescita del PIL. Ma anche in questo caso sono importanti le differenze. Repubblica Ceca e Slovenia mostrano tassi di occupazione prossimi o superiori anche alla media dei 15 (rispettivamente, 64.8 e 66.0).

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    EU10 + 2 candidati - Tassi di occupazione 1998-2005

    1998 2003 2005 T M F T M F T M F UE 25 61.2 70.6 51.8 62.9 70.8 55.0 63.8 71.3 56.3 UE 15 61.4 71,3 51,6 64.3 72,7 56,1 65.2 72.9 57.4 Cipro : : : 69.2 78.8 60.4 68.5 79.2 58.4 Estonia 64.6 69.6 60.3 62.9 67.2 59 64.4 67.0 62.1 Lettonia 59.9 65.1 55.1 61.8 66.1 57.9 63.3 67.6 59.3 Lituania 62.3 66.2 58.6 61.1 64 58.4 62.6 66.1 59.4 Malta : : : 54.2 74.5 33.6 53.9 73.8 33.7 Polonia 59.0 66.5 51.7 51.2 56.5 46 52.8 58.9 46.8 Rep. Ceca 67.3 76 58.7 64.7 73.1 56.3 64.8 73.3 56.3 Slovacchia 60.6 67.8 53.5 57.7 63.3 52.2 57.7 64.6 50.9 Slovenia 62.9 67.2 58.6 62.6 67.4 57.6 66.0 70.4 61.3 Ungheria 53.7 60.5 47.2 57.0 63.5 50.9 56.9 63.1 51.0 Bulgaria : : : 52.5 56 49 55.8 60.0 51.7 Romania 64.2 70.4 58.2 57.6 63.8 51.5 57.6 63.7 51.5 Italia 51.9 66.8 37.3 56.1 69.6 42.7 57.6 69.9 45.3

    Fonte: Eurostat 2006

    I tre piccoli paesi baltici presentano tassi di occupazione più o meno vicini alle medie dell’Unione. Gli altri cinque paesi dell’Europa centro-orientale (Bulgaria e Romania inclusi) fanno, invece, registrare tassi di occupazione notevolmente più bassi, e la Polonia col 52,8 si colloca addirittura 11 punti percentuali al di sotto della media UE 25.

    Il caso della Polonia è particolarmente significativo anche perché nel 1998 il suo distacco rispetto alla media superava di poco due punti, facendo registrare una forte e progressiva discesa negli anni successivi fino al 2003 e riprendendo a salire solo negli ultimi due anni. Come già abbiamo osservato a proposito della disoccupazione, il peso demografico della Polonia influenza il dato medio e spiega in una certa misura l’allargamento della forbice tra EU 15 e EU 25.

    Rimane il fatto che l’obiettivo fissato nel Vertice di Lisbona (2000) tendente a un’occupazione media del 70 per cento per la fine del decennio si presenta irraggiungibile per l’insieme dell’Unione allargata: esaurita infatti la spinta registrata nei EU15, dove l’occupazione era cresciuta di circa 10 milioni di unità (quasi il 4 per cento) in 4 anni, tra il 1997 e il 2001, nei successivi quattro anni il tasso di occupazione è cresciuto poco più di un punto percentuale in EU15 e di un solo punto nell’Unione a 25.

    Le differenze di genere

    Come già si è visto per la disoccupazione, la partecipazione femminile all’occupazione totale presenta nei paesi neocomunitari scarti, nella media, non dissimili da quelli della vecchia Unione. Passando dall’Unione a 15 a quella a 25,

  • L’allargamento della UE due anni dopo CISS

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    l’occupazione maschile diminuisce da 72.9 a 71.3 (-1.6) e quella femminile da 57.4 a 56.3 (- 1.1).

    All’est, in sostanza, l’occupazione femminile fa registrare storicamente tassi relativamente elevati. Alla fine del decennio passato rimaneva ancora mediamente più alta rispetto alla vecchia Unione. Negli anni successivi (fra il 1998 e il 2005), l’occupazione femminile cresce tuttavia più rapidamente nella vecchia Unione (poco meno