la voce del pane

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poesia la voce del pane leda moncalieri

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poesie di leda moncalieri

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poesia

la voce del pane

leda moncalieri

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a mia madre

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uso la voce del pane quella che seguiva mia madre nelle preghiere

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non c’è pane che resti quotidiano da portare alla bocca, da graffiare anche di notte il respiro inoltra le domande sulla pelle e chiedo l’acqua, la finestra aperta le foglie, che non riesco a toccare

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ho abiti pronti alle mattanze e sangue basso, lavato per l’arrivo della neve; tiepido ancora come una mattina che schiaccia la bocca alla finestra nel chiedere voce per gridare

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benedetto il seme, questo slancio di terra imperfetta nell’addome dove morde una guerra diversa come un tramonto secco, apribile a me che ti scrivo con le mani i solchi fertili, i dialetti ridenti sul pelo dell’acqua prima di affogare

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ho idee povere come mondi poveri giostre senza cavalli, che girano su un vaso di fiori, si fermano alla calligrafia scarna di una voce che viene a disegnare il seme l’albero, la casa

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resteremo a fare il conto dei regali di Natale come miracoli spenti nell’armadio oppure a conservare il biglietto di un concerto ritrovarlo dentro un libro con disegnato un cuore la freccia che ci uccise –allora

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tutto ha bocche qui, come autopsie reazioni di colore indifferenti alla famiglia che riceve l’olio santo un cane, gonfio sull’asfalto deve ancora morire il velo pietoso è bianco il rumore, quello dell’ultima canzone che tormenta un’estate

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si fece anonimo il settembre ancora battuto dalla sete estiva mi sfociò, insanguinata di un colore bruno alle tempie il cuore, un pugno tra i rami del ginepro e la vita aperta come la raccolta delle bacche

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il tuo nome, lo sogno da quando incide la pietra la fotografia, nitida la camicia a quadri, un urlo che sembra un sorriso come se fossi morto a gennaio tra la posa delle scale e l’insegna di un bar viola sul letto, un’intermittenza che ha già vissuto l’ultimo Natale

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non mancherò tra le comparse del nostro essere declino anonimi, nonostante ogni nome posi la sua prima pietra anello di una dinastia allevata a latte di parrocchia la casa, la fabbrica, puntate come nidi nel prepararci a noi, quando odoriamo selvatici, con le dita infilate tra le maglie; metallica la voce aperta ai rifiuti del pane

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qui a colpi stretti si avanza ad imparare il sonno macchia dopo macchia fino alle mani smagrite come cenere che si elargisce al vento in particelle ancora sveglie a simulare i corvi

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la terra sconfina alle unghie come preda odore madre di patate novelle, odore buono il ricongiungersi sui pani benedetti sul bacio fatto preghiera

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le vene s’arrendono, una all’altra per un traverso teso alla distanza un filo regge il candido delle cose scorre la schiena, come fosse un vicolo che scende al mercato

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vado cercando i suoni della casa l’odore delle pieghe ai fazzoletti una precisione che somigli a quella di mia madre un’orma, la mano che raccolga i miei sanguinamenti

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noi, così come stiamo dovremmo imparare Dio il suo esserci dentro

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siamo esatti per la morte basta un orlo, un segno di fumo alla parete la cornice disfatta di una porta il non dirci come siamo, che la fame è un’altra che amiamo il tempo come un fratello i capelli bianchi, la smorfia che prende la bocca la riga tremante, la voce, quando saluta

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esatta la bocca nel cercare appena il rumore del fiato la parola lieve che s’accorcia sul tatto, sul lamento su una qualsiasi inclinazione del buio

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sembra che mi perdoni la vendetta ma lascia un tempo corto l’arma di traverso, i fiori in bocca come sigilli al buio, al deglutire copro uno spazio minimo supino al giorno che si spezza come bucato steso sotto zero la saliva si fa fiume un testamento in piena che cancella la terra mentre avanza

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ho una vita, ho delle opere il sangue sollecito al divenire ho l’altro in me, per lui io m’attraverso ho dei paradisi e l’inferno è l’attimo né più corto, né più lungo dal quale dondolo appesa

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supponiamo un’esplosione, un cielo che non sia più cielo, ma crescere di tenaglie presso le fonti, come se il paradiso avesse la mia forma nello starti accanto

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resta un bene, come correre tra i quadri augurali delle risaie contro la neve dei pioppi, sulla strada dove tutti hanno perso tutto allargato le reti, senza cambiare il cielo

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siamo qui a dirci dei nuovi morti di un’abbazia sul fondo del vallone senza capire quale Dio pregare senza l'odore dei fiori, né dei santi solo un cadere, simili alle stelle carne contro carne, nessun argomento tu e io, a gorgogliare come secche

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mi manca di scrivere una lettera d’amore anche sul cartoncino delle calze a rete oppure di baciare uno scontrino di vederti salire con la coperta in mano perché di notte ci piace stare fuori

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mi dici che la vita è un’ora di fiato un permesso che il tempo ci concerta piuttosto l’avverto come un annerimento un fazzoletto macchiato di sangue il cibo per un giorno i minatori in coda per vedere il cielo

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così sorrido con muscoli silenziosissimi giungo le mani come a raccoglierti, come per averti mi aggrappo ai tuoi vestiti, lascio morire i piedi quando mi trascini con le tue braccia forti in un tango di parole urbane e perdi sangue sui miei capelli

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cominceremo dalle forbici che non trovo più da mesi, nonostante la perizia del conservarle in vista pronte a troncare le eccedenze. come noi, che eccediamo d’orgoglio, di fratture, firme affrettate, ovunque capiti sui gessi, sulle teste

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urlo uno stare in piedi senza sponde significati che volgono i giorni al tozzo di pane, alla goccia d’acqua, al prato che diventa cielo sotto i passi di un bambino in coro d’alberelli il bianco, una campana la vita alla vecchiaia, come ci piovesse dentro

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prendi i miei abiti, dammi i tuoi scambiamoci i tepori, scambiamoci le idee mettiamo in riga le pianure e i fiumi e pioppi perpendicolari tu la livella, io l’accidentale

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la pelle si versa al respiro e la mano alla sete come fosse una radice maestra la linea del palmo che sale alla tempia un pulsare, un silenzio, una lontananza che comprende il ricomporsi impreciso di rovine ancora, a seminare

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proveremo a costruire dei libri con la paglia per scrivere del freddo che c’ingessa, come metafisica appenderemo fuori la nostra parte di mondo a seccare tra il raccolto, o nei binari fatti con i piedi tra i chicchi del mais stravolti al sole, ed una mano che prende l’altra mano, i semi nuovi, le invenzioni

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guarda il grano che urla la terra mossa, il suo odore guarda il giorno: non ha eguali il suo vivere diverso nasce semplice e poi torna sul vespero alla cena saremo avemarie quando la notte leva al nostro cielo e nel buongiorno, quattro biscotti in mano messi a torre

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dimmi se senti la cura, il soffio dato alla mano per affiancare spirito e corpo annessi a questo sguardo vuoto a mala pena assorto quando prego e dimmi ancora se alla voce, affidi un suono o solo opacità ché il mio stesso sterno segua l’andamento del tuo respiro

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marzo 2013

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