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www.invisible-dog.com [email protected] LA VITTORIA DI PIRRO DELLA DEMOCRAZIA IN EGITTO La rivoluzione egiziana inizia il 25 gennaio 2011 ad oltre un mese dalle prime manifestazioni in Tunisia e dopo che Ben Ali e' gia' scappato in Arabia Saudita. Da questi eventi precedenti, per contagio, anche l'Egitto si ribella al proprio Rais. In comune tra i due Paesi una forte crisi economica, corruzione dilagante, arricchimenti illeciti, un regime autoritario, un dittatore con familiari dediti a vari traffici, la voglia di cambiare e di liberta'. Come a Tunisi, la prima reazione del regime e' la repressione che porta vittime (la polizia spara sulla folla). E proprio come a Tunisi, a fronte al perdurare delle manifestazioni e delle proteste popolari, Hosni Mubarak, come Ben Ali, promette di non ricandidarsi alla Presidenza. Ma non basta. Il 10 febbraio 2011 il Rais annuncia il passaggio del potere al suo vicepresidente, Omar Suleiman, dal 1993 a capo del General Intelligence Service (Jihaz al Mukhabarat al Amma), l'uomo che per tanti anni ha schiacciato ogni tipo di opposizione, considerato il vero pilastro del potere nel Paese. Di fronte alle crescenti proteste popolari contro questa nomina, considerata un tentativo maldestro per riaffermare la continuita' del potere militare, il giorno dopo Hosni Mubarak e la sua famiglia lasciano il Cairo e si trasferiscono a Sharm el Sheik. Da quel momento il Consiglio Supremo delle Forze Armate sotto la guida del Generale Mohamed Hussein Tantawi, Capo di Stato Maggiore dell'Esercito, prende le redini del Paese. E qui finiscono le analogie tra gli eventi tunisini, dove il trapasso del potere di un militare viene gestito in discontinuita' da civili, e quelli egiziani, dove il potere passa da un militare ad un altro senza cambiare i rapporti di forza tra il passato ed il presente. Ben Ali era venuto al potere defenestrando e sostituendosi al vecchio Habib Bourghiba. Aveva acquisito il potere per se' e per i suoi accoliti forte del controllo e dell'appoggio degli apparati di sicurezza. Non era espressione di un sistema o di un'istituzione. In Egitto, invece, il potere e' nelle mani dei militari che di volta in volta esprimono un personaggio che li rappresenti: oggi Tantawi, ieri Mubarak, prima Anwar Sadat, prima ancora Gamal Abdel Nasser e Mohamed Neguib. Nel caso egiziano, quindi, il problema non e' cacciare un uomo, ma sradicare un sistema di potere. Ed e' molto piu' difficile. Nel proseguo della cosiddetta Primavera Araba egiziana tutto quello che si e' sviluppato dall'11 febbraio 2011 in poi e' un processo di pseudo-democratizzazione della societa', ma pur sempre sotto tutela militare. Il Consiglio Supremo delle Forze Armate era un organismo che si riuniva periodicamente e soprattutto nei momenti di maggior crisi del Paese come le guerre. Adesso e' diventato il gestore della politica del Paese. E non e' un caso che sia composto da una ventina di alti ufficiali delle FF.AA.. Invisible Dog – Periodico online Direttore Responsabile – Alessandro Righi Edito da Invisible Dog Srl Via Cassia 833, Rome, Italy Testata registrata presso il Tribunale di Roma n.198/2011 del 17/6/2011

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LA VITTORIA DI PIRRO DELLA DEMOCRAZIA IN EGITTO

La rivoluzione egiziana inizia il 25 gennaio 2011 ad oltre un mese dalle prime manifestazioni in Tunisia e dopo che Ben Ali e' gia' scappato in Arabia Saudita.

Da questi eventi precedenti, per contagio, anche l'Egitto si ribella al proprio Rais. In comune tra i due Paesi una forte crisi economica, corruzione dilagante, arricchimenti illeciti, un regime autoritario, un dittatore con familiari dediti a vari traffici, la voglia di cambiare e di liberta'.

Come a Tunisi, la prima reazione del regime e' la repressione che porta vittime (la polizia spara sulla folla). E proprio come a Tunisi, a fronte al perdurare delle manifestazioni e delle proteste popolari, Hosni Mubarak, come Ben Ali, promette di non ricandidarsi alla Presidenza. Ma non basta.

Il 10 febbraio 2011 il Rais annuncia il passaggio del potere al suo vicepresidente, Omar Suleiman, dal 1993 a capo del General Intelligence Service (Jihaz al Mukhabarat al Amma), l'uomo che per tanti anni ha schiacciato ogni tipo di opposizione, considerato il vero pilastro del potere nel Paese. Di fronte alle crescenti proteste popolari contro questa nomina, considerata un tentativo maldestro per riaffermare la continuita' del potere militare, il giorno dopo Hosni Mubarak e la sua famiglia lasciano il Cairo e si trasferiscono a Sharm el Sheik.

Da quel momento il Consiglio Supremo delle Forze Armate sotto la guida del Generale Mohamed Hussein Tantawi, Capo di Stato Maggiore dell'Esercito, prende le redini del Paese. E qui finiscono le analogie tra gli eventi tunisini, dove il trapasso del potere di un militare viene gestito in discontinuita' da civili, e quelli egiziani, dove il potere passa da un militare ad un altro senza cambiare i rapporti di forza tra il passato ed il presente.

Ben Ali era venuto al potere defenestrando e sostituendosi al vecchio Habib Bourghiba. Aveva acquisito il potere per se' e per i suoi accoliti forte del controllo e dell'appoggio degli apparati di sicurezza. Non era espressione di un sistema o di un'istituzione.

In Egitto, invece, il potere e' nelle mani dei militari che di volta in volta esprimono un personaggio che li rappresenti: oggi Tantawi, ieri Mubarak, prima Anwar Sadat, prima ancora Gamal Abdel Nasser e Mohamed Neguib. Nel caso egiziano, quindi, il problema non e' cacciare un uomo, ma sradicare un sistema di potere. Ed e' molto piu' difficile.

Nel proseguo della cosiddetta Primavera Araba egiziana tutto quello che si e' sviluppato dall'11 febbraio 2011 in poi e' un processo di pseudo-democratizzazione della societa', ma pur sempre sotto tutela militare.

Il Consiglio Supremo delle Forze Armate era un organismo che si riuniva periodicamente e soprattutto nei momenti di maggior crisi del Paese come le guerre. Adesso e' diventato il gestore della politica del Paese. E non e' un caso che sia composto da una ventina di alti ufficiali delle FF.AA..

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Il 28 febbraio 2011 le autorita' impediscono alla famiglia Mubarak di viaggiare e bloccano i loro conti finanziari. Pochi giorni dopo (3 marzo) il Premier Ahmad Shafiq nominato da Hosni Mubarak rassegna le dimissioni, mentre nel Paese continuano manifestazioni e proteste (si parla sinora di oltre 800 morti).

Il 19 marzo avviene il primo test di una democrazia nascente: gli egiziani approvano a larghissima maggioranza una riforma della Costituzione.

Il 16 aprile la Corte amministrativa scioglie il partito di regime: il Partito Nazionale Democratico.

Il 24 maggio viene annunciato ufficialmente che il deposto presidente Mubarak e due dei suoi figli (Gamal e Alaa), il Ministro dell'Interno ed altri personaggi minori verranno processati per la morte dei manifestanti durante le proteste (il processo avra' inizio il 3 agosto). Ovviamente il giudizio verra' comminato da un tribunale militare.

Le manifestazioni, le proteste e gli incidenti continuano in tutto il Paese e culminano a luglio con gli scontri tra la polizia e una folla oramai accampata in Piazza Tahrir, il luogo simbolo della rivoluzione. A cavallo di questi eventi i Fratelli Musulmani, che fino ad allora avevano mantenuto un ruolo defilato nelle vicende sociali, decidono di partecipare alle proteste.

Il 15 luglio 2011, per assecondare la rabbia popolare, 587 generali vengono mandati in pensione, ma la gente vuole un cambiamento politico e vuole la democrazia, richieste che i militari non intendono assecondare del tutto. Anche le riforme costituzionali procedono lentamente e senza apprezzabili risultati.

La popolazione continua a protestare in massa, chiede a gran voce che i personaggi del vecchio regime siano rimossi e urgono, con una grossa manifestazione il 28 ottobre 2011, che i militari cedano il potere ad un governo civile. La richiesta e' respinta.

In questo clima incandescente hanno inizio il 28 novembre 2011 le elezioni legislative che si svilupperanno in tre fasi (28/29 novembre - 5/6 dicembre; 14/15 dicembre - 21/22 dicembre; 3/4 gennaio - 10/11 gennaio 2012).

Una procedura lenta, farraginosa (forse per meglio monitorare i risultati da parte dei militari) che porta comunque ad un'incontrovertibile vittoria degli islamisti con una forte partecipazione popolare al voto.

Su un totale di 508 deputati:

− 213 vanno alla formazione dei Fratelli Musulmani, "Partito Giustizia e Liberta'", associato in un'alleanza politica con altre formazioni come l'"Alleanza Democratica per l'Egitto" per un totale di 235 seggi (circa il 37,5% dell'intera assemblea);

− Il "Blocco Islamico" che riuniva tutte le istanze salafite ottiene 122 seggi, di cui 107 al Partito "al Nour" (circa il 27% dell'assemblea);

− Un altro partito islamico moderato "Al Wasat" conquista 10 seggi

Le formazioni laiche socialiste e di sinistra si devono accontentare di una presenza parlamentare molto ridotta.

E' chiaro, a questo punto, che il maggior pericolo per i militari nel mantenere il proprio potere viene dagli islamisti e soprattutto dalle formazioni collegate ai Fratelli Musulmani. Ed e' su questo

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confronto/contrasto che devono essere analizzate le successive vicende politiche del Paese.

Da questo punto in poi l'evolversi della situazione in Egitto abbandona definitivamente il solcato tunisino e si sviluppa sulla falsariga degli eventi algerini. Dalla guerra di indipendenza in poi anche in Algeria il potere, anzi "le pouvoir", e' gestito dai militari. Il sistema finanziario, quello economico, la giustizia, il controllo degli apparati di sicurezza e' nei due Paesi sotto il controllo di questa casta. Cosi' come e' sotto tutela ogni concessione di pseudo-democrazia.

Come nel gennaio del 1991 a fronte della vittoria del F.I.S. fu sciolto il Parlamento algerino, altrettanto hanno fatto i militari egiziani a cavallo del ballottaggio per le presidenziali il 14 giugno 2012. E' stata invalidata l'elezione dei deputati dell'Assemblea popolare che, guarda caso, erano in forte maggioranza islamica. E' stato poi autorizzato Ahmad Shafiq, ex generale ed ex premier, a partecipare al ballottaggio contro il candidato dei Fratelli Musulmani. Il tutto e' avvenuto in modo giuridicamente "regolare": chi ha deciso in entrambi i casi e' stata la Corte Costituzionale che - dettaglio ovviamente non trascurabile - era stata nominata da Hosni Mubarak. E qualora il messaggio di restaurazione non fosse arrivato chiaro agli interessati, il giorno precedente il ministero della Giustizia aveva emanato un decreto legge che autorizzava l'arresto dei criminali da parte della polizia militare e dei Servizi. Nei fatti un ritorno alla legge di emergenza eliminata soltanto qualche settimana prima.

Tuttavia, le elezioni presidenziali si sono svolte e nonostante le titubanze iniziali (i militari potevano giocare la carta dei ricorsi per brogli - oltre un centinaio - che il candidato perdente aveva gia' presentato e che, se accolti, avrebbero potuto ribaltare l'esito del voto), i militari sono stati obbligati a dichiarare la vittoria del candidato dei Fratelli Musulmani, Mohammed Morsi, per evitare ulteriori sommosse e proteste.

Le contromisure dei militari

La partita a scacchi tra l'e'lite militare ed i Fratelli Musulmani non si era comunque ancora conclusa.

L'idea di Tantawi non era tanto quella di cedere il potere ad un governo politico, ma quella di far si' che questo potere fosse solo formale e subordinato ad una tutela della classe militare.

Oltre ad aver sciolto il Parlamento, essersi riappropriati per legge di prerogative di ordine pubblico, i militari hanno messo in atto tutta una serie di altre contromisure per contenere o, all'occorrenza bloccare, il potere del neo Presidente egiziano.

Un'altra arma segreta in mano ai militari era l'assenza di una Costituzione. Un'arma che permetteva di ridimensionare il potere di ogni organismo o istituzione ritenuta contraria ai propri interessi. Ed infatti, in attesa che il nuovo voto per il Parlamento designasse la struttura delegata all'elaborazione di una nuova Costituzione, i militari hanno dato vita ad una serie di emendamenti alla Dichiarazione Costituzionale del 30 marzo 2011 che li cautelassero da possibili iniziative del Presidente.Nel dettaglio :

− mancando il Parlamento, il Presidente giura davanti alla Corte Costituzionale (come poi realmente avvenuto). Quindi - ed e' questo il messaggio - di fronte ad un organismo che rappresenta il potere in atto e non di fronte ad eventuali rappresentanti eletti, come avrebbe voluto Morsi (art.30);

− le elezioni parlamentari devono essere condotte in accordo alla legge (art. 38 ma da correlare al successivo art. 56 che conferisce la facolta' legislativa ai militari);

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− i militari restano responsabili per ogni problematica militare e per la designazione dei propri vertici. Tantawi, fino alla elaborazione di una nuova Costituzione, resta capo delle FF.AA. e Ministro della Difesa ( art. 53);

− il Presidente puo' dichiarare guerra solo previa approvazione del Consiglio Supremo delle FF.AA. (art. 53/1):

− se si verificavano disordini interni che richiedono l'intervento delle FF.AA., il Presidente puo' delegare le FF.AA. - ovviamente con il consenso del Consiglio Supremo delle Forze Armate - a mantenere la sicurezza e a difendere le proprieta' pubbliche. L'attuale legislazione egiziana stabilisce il potere delle FF.AA. e la sua autorita' in casi di detenzioni, arresti, uso della forza (art. 53/2);

− il Consiglio Supremo delle Forze Armate assume l'autorita' (leggasi potere legislativo) fintanto che non e' eletto un nuovo Parlamento (art. 56);

− se l'Assemblea Costituente incontra ostacoli nella sua attivita', il Consiglio Supremo delle Forze Armate ha il potere di nominare i suoi rappresentanti e di far si' che una nuova bozza costituzionale sia elaborata entro tre mesi e poi soggetta ad un referendum popolare (art. 60 B);

− se il Presidente del Consiglio Supremo delle Forze Armate e/o il Consiglio Supremo della Magistratura (controllato dai militari) e/o un 1/5 dell'assemblea costituente obietta che qualche articolo della Costituzione non sia in linea con i principi e gli obiettivi della Rivoluzione egiziana puo' chiederne una revisione. Se l'Assemblea Costituente invece lo conferma, e' l'Alta Corte Costituzionale a decidere (art. 60 B1).

Nei giorni successivi l'Alta Corte Amministrativa ha poi deciso di rimandare al 1 Settembre 2012 la decisione sullo scioglimento della Confraternita dei Fratelli Musulmani ed in data 4 Settembre la deliberazione sullo scioglimento del Partito Giustizia e Liberta'. L'avvocato Shehada Mohammed Shehada aveva presentato una denuncia con riferimento a due leggi: una del 1954 che impedisce alle organizzazioni non governative di svolgere attivita' politica e l'altra del 2002 che vieta partiti costituiti su base religiosa. Visto che l'Alta Corte Amministrativa era sotto controllo del regime militare anche questa iniziativa lasciava ampio spazio discrezionale alla possibilita' di bandire dall'attivita' politica uno scomodo avversario. Opportunita' e minaccia da utilizzare nel prossimo futuro. Shehada, nella sua denunzia, chiedeva la chiusura del Quartier generale della Confraternita e il congelamento dei suoi fondi.

Da Tantawi, il 14 giugno 2012, e' arrivato l'annuncio della creazione di un neo Consiglio Nazionale della Difesa - ovviamente con forte presenza di militari - senza pero' specificarne le funzioni. Forse, ma era forse solo una coincidenza, l'organismo risultava presieduto dal Presidente della Repubblica e composto da 16 persone tutte in una maniera o nell'altra correlate ai militari (il Capo di Stato Maggiore, i 4 comandanti delle FF.AA. Esercito, Marina, Aviazione, Difesa aerea, il Capo dell‘Intelligence Generale e quello dell'Intelligence Militare, il Capo della Giustizia Militare, il Capo delle Operazioni militari, il Ministro dell'Approvvigionamento militare, il Ministro della Difesa ed il suo Assistente, lo speaker del Parlamento, il Ministro degli Esteri, il Ministro dell'Interno e il Ministro delle Finanze). A cosa servisse questo organismo quando esisteva gia' il Consiglio Supremo delle Forze Armate non era dato ancora di sapere. Rimaneva pero' lecito il dubbio che questo nuovo organismo avesse il precipuo scopo di dare, anche in futuro, continuita' al potere dei militari - magari in coabitazione con Morsi - al di fuori del Consiglio Supremo delle Forze Armate. I fatti successivi hanno dimostrato che l'iniziativa non ha prodotto il risultato sperato.La tattica dei due poteri contendenti

A commento di questa serie di iniziative di Hussein Tantawi e dei suoi generali bisogna sottolineare come la tattica dei militari fosse stata sino allora vincente. Non c'era stato bisogno, come in Algeria,

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di un colpo di stato restauratore. Avevano sacrificato Mubarak sull'onda delle proteste (e presto avrebbero potuto essere disponibili a fare altrettanto con il premier Ahmad Shafiq che prudentemente se ne era andato all'estero), avevano alternato concessioni fittizie a minacce convincenti, avevano manipolato il quadro politico operando su distinguo giuridici potendo contare sulla mancata terzieta' di tutti gli apparati dello Stato. Piu' della forza, avevano utilizzato un camaleontico approccio levantino. Astuzia anziche' armi. Altri marchingegni giuridici avrebbero potuto aiutare i militari - era questa allora la convinzione - a contenere o ribaltare la presenza scomoda di Mohamed Morsi anche in futuro.

I militari hanno avuto anche gioco facile nel giocare con le ambizioni dei Fratelli Musulmani che gia' conoscevano le regole del gioco. Sapevano - o almeno speravano che sapessero - che non potevano tirare la corda oltre un certo limite e sapevano che il ricorso a forme violente di proteste - peraltro mai perseguite nel passato - non avrebbero prodotto risultati apprezzabili. Anzi, avrebbero legittimato i militari ad esercitare il loro potere.

In questo gioco delle parti circolavano ricorrenti voci di trattative segrete tra la Confraternita ed i militari per una convivenza futura nella gestione del potere. Negoziato non condotto con Morsi, ma con Khairat al Shater, il primo candidato presidenziale scelto dalla guida suprema Badie estromesso dalle elezioni dai militari in quanto uscito di galera nel Marzo 2011 (uno dei requisiti imposti era che il candidato fosse a piede libero da almeno 6 anni).

I Fratelli Musulmani in Egitto hanno una lunga esperienza nel coabitare con le intemperanze di un regime autoritario. Da Nasser fino a Mubarak sono stati molto spesso oggetto di repressione e persecuzioni. Qualche volta tollerati, politicamente qualche volta accettati, molte volte emarginati. Comunque forti del sostegno popolare in virtu' delle opere caritatevoli, di assistenza sanitaria e scolastica, con una disponibilita' finanziaria di tutto rispetto (ora fortemente incrementata da donazioni del Qatar e dell'Arabia Saudita), il movimento e' sempre sopravvissuto ad ogni epurazione. Questo vivere in modo pericoloso ha affinato nella Confraternita egiziana la tendenza al

Scacco matto

Questo sembrava fosse lo stato dei rapporti tra il potere consolidato dei militari e quello emergente dei Fratelli Musulmani. Nessuno pensava che in queste condizioni Mohamed Morsi avrebbe potuto affrancarsi dalla tutela dei militari. Ma il 12 agosto 2012 ecco la mossa a sorpresa: Morsi avvicenda il generale Hussein Tantawi, da poco nominato Ministro della Difesa (e con lui il Capo di Stato Maggiore Sami Anan e i Comandanti delle varie Forze Armate), guadagnando l'appoggio dell'ex capo sei Servizi militari, il Gen. Abdul Fattah Al Sissi subito nominato al posto dell'uomo di Mubarak. Il tutto avviene senza particolari stravolgimenti.

Hussein Tantawi e' nominato "Consigliere del Presidente della Repubblica" e decorato. Nessuna vendetta per essere stato per circa 20 anni al vertice delle Forze Armate, nessuna vendetta per essere stato nominato da Mubarak ai vertici dello Stato dopo le dimissioni del Rais o per essere stato elemento di contatto con gli israeliani, nessuna vendetta per essere stato in passato uno degli strumenti della repressione contro le attivita' dei Fratelli Musulmani.

Si apre cosi' una crepa nelle gerarchie militari - giocata soprattutto sull'avvicendamento di una nuova generazione di generali - che sembrano adesso piu' disponibili ad una coabitazione nel potere. Il prezzo pagato mai ufficializzato e' il mantenimento di tutti quei privilegi economici e finanziari che hanno reso la casta militare potente, soprattutto nella gestione di quel miliardo e mezzo che gli USA versano annualmente per il potenziamento delle Forze Armate egiziane.

A questo punto, la strada del presidente egiziano Morsi appare in discesa. Gli Stati Uniti avevano gia' nei mesi scorsi sdoganato politicamente i Fratelli Musulmani come possibili interlocutori. E gli U.S.A. erano e sono i maggiori sostenitori finanziari del Paese. Questa e' stata sicuramente una

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circostanza che ha impedito ai militari di truccare le elezioni presidenziali.

Nella mossa dei militari di cedere il potere a Morsi senza resistenze esisteva anche un secondo fine: aspettare che i Fratelli Musulmani si rivelassero inaffidabili agli occhi degli americani (il loro sostegno ad Hamas, i rapporti con Teheran, i contrasti con Israele) e, nel contempo, deludessero le aspettative della popolazione egiziana (l'introduzione di leggi islamiche avrebbero potuto emarginare laici e cristiani e scoraggiare il turismo, principale risorsa del Paese, in assenza di misure adeguate a una crescente crisi economica con alti tassi di disoccupazione).

Sotto quest'ultimo aspetto, durante la campagna elettorale Mohamed Morsi aveva fatto grandi promesse: introdurre sussidi per gli agricoltori, creare nuovi sistemi di irrigazione, migliorare l'apparato sanitario, fare investimenti in settori chiave. Il caso vuole pero' che il bilancio dello Stato per il 2012-2013, approntato dai militari prima della loro estromissione, prevedeva scarsissime risorse e l'assorbimento dell'80% delle disponibilita' di fondi a spese per il personale del pubblico impiego.

La partita a scacchi tra Fratelli Musulmani e militari non si era ancora conclusa: l'ultima mossa l'ha fatta Morsi riaprendo, solo simbolicamente, il Parlamento che i militari - tramite la decisione della Corte Costituzionale - avevano sciolto, ha scelto un Primo Ministro e esautorato alcuni vertici militari e dei Servizi per gli scontri con i fondamentalisti nel Sinai. Serviva per affermare il suo ruolo di presidente. C'e' stata poi la chiusura dei tunnel con Gaza. Un Morsi moderato e filo-israeliano in una partita giocata non solo in Egitto, ma nei rapporti internazionali del Paese.

Dopo la crisi di Gaza che ha visto Mohamed Morsi guadagnarsi un ruolo di mediatore internazionale ecco un'altra mossa politicamente involutiva: Morsi il 22 novembre 2012 si appropria con un decreto presidenziale tutti i poteri, stabilisce che tutte le sue decisioni sono immediatamente esecutive e inappellabili, sostituisce il Procuratore generale della giustizia Meguid Mahamoud (ultimo baluardo in mano ai militari) con un suo fedelissimo, Ibrahim Talaat. Questo porta la magistratura allo sciopero e alle proteste.

Contrariamente alle istanze dell'opposizione, il 29 novembre 2012 il presidente egiziano fa varare dall'Assemblea Costituente (controllata dai Fratelli Musulmani e, a seguito delle dimissioni dei rappresentati laici, marcatamente islamica) una nuova Costituzione. Un totale di 234 articoli sono discussi e approvati in una notte. Ovviamente una Costituzione di pura ispirazione islamica: la Sharia rimane, come in passato, fonte del diritto. In un successivo articolo (art. 219) si specifica che i principi islamici di riferimento sono quelli dei primi Ulema (qui emerge un indirizzo salafita radicale). L'Universita' islamica di Al Azhar e' elevata al rango dirimente sulla Sharia che sembra cosi' assumere una posizione prevalente nelle decisioni della magistratura. Si introduce anche l'affermazione sulla difesa dei valori della famiglia che sembra dare spazio ad una possibile censura di stampa e sistemi audiovisivi.

Mohamed Morsi oramai sembra non volersi piu' fermare e nonostante le proteste delle opposizioni e le manifestazioni di piazza, il 15 dicembre 2012 ha fatto approvare la Costituzione da un referendum popolare che ha ottenuto il 63.8% dei suffragi del 32,9% degli elettori.

I veri perdenti

Lo spirito di Piazza Tahrir non era impersonato ne' da Morsi, ne' dalla politica levantina dei Fratelli Musulmani, ne' dal potere incontrastato prima dei militari ed ora della Fratellanza. La rivoluzione egiziana e' identificata in tutta quella serie di partiti laici e riformisti che presentandosi divisi alle elezioni hanno finito per non essere rappresentati in modo adeguato nel contesto politico egiziano. Un errore che e' stato capito tardi e adesso emendato con la creazione di un Fronte di Salvezza Nazionale. La rivoluzione araba del Cairo non e' nata ne' e' stata pilotata dai Fratelli Musulmani, ma da una serie di istanze libertarie e rivendicazioni sociali di cui, con

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opportunismo e con maggiore organizzazione, i Fratelli Musulmani si sono poi appropriati. Ma forse gli egiziani, quelli di Piazza Tahir volevano un cambiamento e non un potere sostituito da un altro potere. L'astensione al primo turno delle elezioni presidenziali e' stata del 54% (23 milioni di votanti su 52 milioni di aventi diritto). Al ballottaggio non si e' arrivati al 40% dei voti espressi. Un dato che quantifica e qualifica quanto sia stata ampia la delusione popolare di fronte a due candidati (Morsi e Shafiq) che non rappresentavano le istanze di piazza Tahrir. I cristiani copti avevano scelto tra i mali minori quello dei militari.

Per fortuna esiste in Egitto anche una societa' civile laica e illuminata e molti delusi hanno preferito non votare. Alcuni addirittura hanno avuto piu' paura di un futuro incerto che di un passato scadente e hanno sostenuto il candidato dei militari paventando il pericolo di un salto nel buio.

Il ruolo americano

Forse a causa di un approccio emotivo nei confronti della Primavera Araba, gli Stati Uniti hanno subito acriticamente appoggiato le formazioni islamiche senza attendere che questo ciclo - peraltro ancora in uno sviluppo instabile - si completasse.

Se la politica estera americana fosse basata su questioni di principio questa scelta avrebbe senso, ma quello che generalmente guida le scelte di un Paese sono generalmente le questioni di interesse. E sotto questo aspetto, la scelta degli U.S.A. e le ricorrenti dichiarazioni di sostegno del Segretario di Stato, Hillary Clinton, verso i Fratelli Musulmani appaiono di piu' difficile comprensione.

Un Egitto a guida islamica fondamentalista non facilita sicuramente lo storico legame con Israele. Rischia di accrescere le posizioni estremistiche di Hamas e rischia di portare verso una connotazione fondamentalista il prossimo assetto politico della Siria e/o accrescere la sua influenza nel panorama politico libico.

C'e' poi il riavvicinamento tra Egitto e Iran (Mohamed Morsi a Teheran per il vertice del movimento dei non allineati lo scorso agosto, Mahmoud Ahmadinejad adesso al Cairo per partecipare al vertice dell'Organizzazione della Conferenza islamica) i cui effetti non sono ancora chiari.

Una Confraternita che spazia e si afferma nella galassia politica mediorientale e' negli interessi americani? Gli USA hanno forse stimato che un uomo come Mohamed Morsi, con studi accademici e cattedratici in America (University of Southern California) sia garanzia di affidabilita'? Non e' dato ancora di sapere.

La vittoria di Pirro

Per le vicende egiziane la domanda di fondo e' sempre la stessa: gli oltre 1000 morti della primavera egiziana, gli aneliti di liberta', le aspettative sociali, la voglia di combattere corruzione e consorterie a cosa sono serviti? Tutte le utopie vanno contestualizzate nel tessuto sociale in cui nascono e si sviluppano. In Egitto, meglio dire alla maggioranza della sua popolazione, manca il riferimento di cosa sia una democrazia propriamente detta. E se la democrazia diventa anarchia, lo status quo vince sul riformismo o se - come nel caso in questione - ad una pseudo-dittatura se ne sostituisce un'altra nella scelta tra restaurazione e fondamentalismo perde, come dimostrano i fatti, il Paese.Lo scontro fra poteri nella sua prima configurazione vedeva i militari mantenere parte della loro influenza e restare arbitri dei destini dell'Egitto. Dall'altra, i Fratelli Musulmani si sono associati ai militari nella gestione del potere negoziando una convivenza politica. Era un nuovo politico bipolare dove le debolezze dell'uno diventavano i punti di forza dell'altro e viceversa. E questo ha evitato i radicalismi di ambo le parti.

Questo equilibrio ora si e' rotto con l'emarginazione di un potere (quello militare) e con il presidente

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egiziano Mohamed Morsi che tira dritto su scelte non condivise, tenta avventure antidemocratiche e inasprisce i contrasti con le altre istanze sociali.

L'Egitto di oggi vive le pulsioni di una primavera araba incompiuta e forse nemmeno mai iniziata. La cacciata di Mubarak ha portato alla luce tutte le contraddizioni che la mano pensante dell'e'lite militare che governava il Paese riusciva a minimizzare.

Sono venuti in superficie i contrasti tra laici e religiosi, tra tolleranza e radicalismo islamico, tra i poveri sempre piu' poveri ed i ricchi che rimangono tali, tra la casta dei privilegiati (sempre gli stessi) e quella degli emarginati (ora aumentata , si parla di circa il 70% della popolazione sotto la soglia della poverta') sotto la cappa di un sistema di corruzione mai combattuto, tra i giovani che non trovano prospettive di una vita migliore che la rivoluzione auspicava. Emergono anche le spinte autonomistiche, come dimostrano i recenti scontri di Port Said, Ismailya e Suez, con la risorgenza del sistema tribale e clanico che costituisce il punto di riferimento in assenza di uno Stato. C'e' la guerra tra copti e islamici, una burocrazia che penalizza ogni modernizzazione del Paese e l'analfabetismo nelle aree rurali, Vi e' infine un capo poco carismatico, come Mohamed Morsi ha dimostrato di essere. I suoi maldestri tentativi di attribuirsi pieni poteri (e questo da' il senso di quale democrazia prevale sulle dittature nelle Primavere Arabe) lo dimostrano ampiamente. I 6 morti e gli oltre 250 feriti che hanno insanguinato le strade del paese nel secondo anniversario della rivoluzione danno un senso alla divisione che tuttora attraversa l'Egitto.

I Fratelli Musulmani non hanno saputo coagulare i sentimenti della societa' egiziana in un percorso condiviso verso liberta' e uguaglianza sociale. Sono stati, al contrario, un elemento di divisione. Non hanno accettato alcuna condivisione del potere con le altre anime laiche del Paese. La loro tentata islamizzazione della societa' poteva essere un mezzo per guidare la rinascita economica del Paese, ma e' diventato un fine. Non ha prodotto benessere, ma false aspettative che ora sono venute alla luce. Crollo del turismo, una recessione galoppante, la necessita' di negoziare un prestito con il Fondo Monetario Internazionale in cambio di ulteriori misure di austerita'. Ad essere colpiti saranno i sussidi governativi per i generi di prima necessita' (e non casualmente il Premier Hisham Qandil era recentemente presente al Forum Economico di Davos). Il massiccio ricorso agli aiuti finanziari sauditi e qatarioti costituira' un'altra forma di sudditanza in un quadro economico che offusca il futuro dell'Egitto. E il peggio deve ancora venire.

E qui si inserisce la profezia del maresciallo Hussein Tantawi che - prima della sua esautorazione - vedeva nella crisi economica lo spiraglio per la rinascita del ruolo dei militari. Ed infatti, dopo gli scontri per il secondo anniversario della rivoluzione egiziana (25 gennaio 2013) e gli scontri sul canale di Suez, Mohamed Morsi e' stato costretto a convocare il Consiglio Nazionale di Difesa ed a imporre - con il consenso dei militari - lo stato di emergenza (quello che per tanti anni concedeva ai militari poteri enormi nel controllo dell'ordine pubblico e della dissidenza) a Port Said, Suez e Ismailyah (schierando i militari sul terreno). Per un leader islamico che si afferma al potere defenestrando i militari, il ricorso a questi ultimi per il mantenimento dell'ordine pubblico e il ripristino delle misure di emergenza tanto care ai tempi di Mubarak suona come una cocente sconfitta. Il monito del Generale Al Sissi, Ministro della Difesa e capo delle Forze Armate, circa il pericolo di un tracollo dello Stato suona invece come un avvertimento. E dopo aver rimesso in pista i militari, il presidente egiziano e' adesso costretto a tentare di dialogare con l'opposizione.

Pirro, il re dell'Epiro, nel 280 avanti Cristo era sbarcato in Italia con mercenari ed elefanti. Aveva combattuto e vinto i romani a Eraclea. Una vittoria che era costata un prezzo altissimo in termini di vite umane e che si e' tramandata nella storia: un prezzo troppo alto per una vittoria inutile. Il parallelismo con quel che succede per il momento in Egitto con la sua Primavera Araba puo' diventare calzante.

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IL RUOLO DELLA GIORDANIA NELLA TEMPESTA MEDIORIENTALE

La Giordania non compare quasi mai nei bollettini di guerra del Medioriente o nelle instabilita' che costellano quotidianamente la regione, ma questa circostanza non rende giustizia all'importanza che questo Paese ha avuto ed ha oggi nel panorama arabo.

La primavera araba giordana

La Giordania e' stata marginalmente sfiorata dalla cosiddetta Primavera Araba. Il 14 gennaio 2011 vi sono state le prime di una serie di manifestazioni di piazza ad Amman ed in altre citta' del regno hashemita pilotate dai partiti di sinistra contro il rincaro di alcuni prodotti, come il pane, soggetti a prezzi calmierati da sussidi governativi. Le manifestazioni si sono ripetute piu' numerose nei giorni successivi ed hanno preso di mira il governo del Premier Samir Rifai.

Il primo febbraio 2011, il sovrano re Abdallah si e' piegato alle proteste e ha sostituito il Premier con un ex Generale, Marouf al Bakhit. La concessione non ha messo fine alle manifestazioni, ora indirizzatesi nel richiedere maggiori liberta' politiche e forti cambiamenti nel sistema economico del Paese. Lo stato di tensione ha portato fra marzo ed aprile 2011 a scontri tra fedeli alla monarchia e manifestanti.

Il 12 giugno 2011, nell'anniversario dell'ascesa al trono, re Abdallah annunciava la sua rinuncia, a partire dall'anno successivo, al diritto di nominare il Primo Ministro ed i governi (competenze che passavano al Parlamento) nonche' nuove leggi elettorali e sui partiti. Qualche giorno piu' tardi, il 15 giugno 2011, il corteo reale che attraversava la citta' di Tafileh veniva bersagliato da sassi. Il 29 luglio sulle proteste si inserivano i Fratelli Musulmani che, con una manifestazione di circa 30.000 attivisti, richiedevano anche loro riforme politiche.

In agosto scontri e feriti si sono verificati a Kerak mentre un Comitato per le riforme proponeva modifiche costituzionali consideravate inadeguate dai manifestanti. Tra queste anche la limitazione della giurisdizione dei tribunali militari ai soli reati di spionaggio e terrorismo. In ottobre gli scontri tra lealisti e riformisti non accennavano a diminuire. I manifestanti, appoggiati da 70 deputati sui 120 del Parlamento, hanno chiesto ancora una volta la sostituzione del Primo Ministro che il re ha accordato il 17 ottobre nominando, al posto di al Bakhit, Awn Shawkat Khasaweneh.

Da questo momento in poi la situazione interna giordana si eclissava per fare posto alla crisi in Siria. Il 14 novembre 2011 re Abdallah ha chiesto pubblicamente a Bashar al Assad di dimettersi di fronte alla rivolta popolare. Qualche giorno piu' tardi (21 novembre), il sovrano hasmemita e' andato in Cisgiordania ad offrire il proprio sostegno al leader palestinese Mahmoud Abbas.

Gli incidenti e le proteste contro il governo giordano sono continuate, ma con minor impeto. Il Fronte Islamico di Azione (IAF), partito dei Fratelli Musulmani all'interno del Parlamento, ha organizzato in dicembre una manifestazione tentando di entrare negli uffici del Primo Ministro. Questa volta gli scontri hanno visto confrontarsi lealisti e islamici, questi ultimi nel palese tentativo di impossessarsi, come e' accaduto in Egitto, della leadership del malcontento popolare e delle istanze riformiste.

Le proteste hanno teso comunque a scemare anche perche' la solidarieta' mostrata dal sovrano nei

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confronti delle istanze del popolo siriano contro il regime alawita e a sostegno della causa palestinese nel tentativo di riattivare il dialogo con Israele (nel gennaio 2012 si e' tenuto ad Amman un primo contatto tra l'israeliano Yitzhak Molcho e il palestinese Saeb Erekat con la presenza degli inviati di USA, ONU, Russia e EU) hanno tolto ai Fratelli Musulmani locali molti argomenti di contestazione alla monarchia hashemita. Peraltro - altro elemento da non sottovalutare - la monarchia giordana e' legittimata e suffragata dalla discendenza dalla tribu' dei Bani Hashem a cui apparteneva il Profeta Maometto.

Nell'aprile del 2012 il Premier Khasawneh ha dato anche lui le dimissioni ed e' stato sostituito da Fayez Tarawneh (il quarto cambio alla testa dell'esecutivo in poco piu' di un anno). Il mese successivo e' stata messa in funzione una "Commissione elettorale Indipendente" per pilotare le successive elezioni (inizialmente previste per la fine dell'anno, ma poi slittate a gennaio 2013 a causa dei ritardi nella registrazione degli elettori).La monarchia

Re Hussein, che ha guidato la Giordania dal 1952 (facendo abdicare il padre Talal) fino alla sua morte nel febbraio del 1999, ha incarnato la vera anima del Paese. Lo ha fatto con il coraggio che gli veniva riconosciuto anche dagli avversari nei momenti di pericolo, con il carisma che esercitava sulla popolazione autoctona, sul timore reverenziale che incuteva negli interlocutori palestinesi o mediorientali con quel suo mix di guasconeria militare (pilotava gli aerei personalmente, aveva una predilezione per le pattuglie acrobatiche) e fama di donnaiolo (sempre belle donne al suo fianco, ricorrenti voci di avventure con hostess a cui regalava Rolex d'oro con galanteria) che avevano un grosso impatto sull'immaginario popolare. Re Hussein e' stato nei fatti piu' un Capo militare che uno statista come hanno dimostrato alcuni errori ricorrenti nelle sue scelte politico-militari (il coinvolgimento nella guerra contro Israele del '67 con cui ha perso la Cisgiordania; la mancata adesione alla guerra del '73 che invece avrebbe prodotto un tornaconto negoziale, l'iniziale appoggio a Saddam Hussein nella prima Guerra del Golfo).

Tuttavia, ogni volta Hussein e' uscito dalle situazioni piu' intricate con destrezza e coraggio. Anche sul piano interno, quando periodicamente intervenivano rivolte per questioni sociali ed economiche, solo lui era in grado di fronteggiare i capi beduini o le tribu' ostili con tutta l'autorita' che incuteva nella controparte (basti ricordare la rivolta del pane a Ma'an nel 1989).

Re Hussein ha esercitato il potere senza gli eccessi di altre monarchie assolute nella regione. La dissidenza politica e' stat sicuramente osteggiata o emarginata, ma non con le efferatezze di altri. Il General Intelligence Directorate (G.I.D. o Dairat al-Mukhabarat al-Ammah) con cui veniva assicurata la sicurezza del regime era piu' noto per la sua efficienza che per la sua eventuale crudelta'. Nella procedura con cui venivano trattati i dossier piu' delicati della dissidenza, prima di ogni intervento risolutivo venivano interposti stadi intermedi come moniti, avvertimenti, arresti limitati. Soltanto nel settembre del '70 nella lotta contro i Fedayn palestinesi che hanno messo in pericolo il suo regno Hussein e' stato spietato.

La sua forza risiedeva nella legione araba, un esercito composto di soli beduini, e in una guardia personale di circassi discendenti di quelle tribu' del Caucaso osteggiate dalla Russia e riposizionate, alla fine del 1800, dall'Impero Ottomano in Transgiordania e successivamente entrate nelle grazie della dinastia hashemita.

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Hussein era anche noto per i suoi gesti di generosita'. Coltivava un personale rispetto per l'ospedale italiano di Amman dove era nato. Era lui che adottava tutti i bambini abbandonati nati da relazioni improprie che le suore raccoglievano e assistevano . Quando gli arrivo' la notizia che in un incidente delle Frecce tricolori italiane - di cui lui era un forte estimatore - erano morti dei piloti, fu scoperto a piangere in pubblico. Era amico personale di Amedeo Guillet, prima generale e poi diplomatico che da tenente aveva combattuto in clandestinita' gli inglesi in Etiopia nella seconda guerra mondiale alla testa di una banda di eritrei, etiopi e yemeniti guadagnandosi il titolo di "tenente del Diavolo". Sapeva riconoscere anche agli avversari il coraggio e l'onore che lui coltivava. Se veniva a conoscenza di un'ingiustizia o di un sopruso era capace di intervenire e pretendere giustizia. Il popolo gli riconosceva anche molti difetti come sovrano, ma l'uomo Hussein aveva il generale rispetto che meritava.

Come abbiamo detto, Hussein ha avuto una vita sentimentale molto articolata. Si e' sposato quattro volte: dalla prima moglie egiziana (Sharifa Dina bin Abdulhamid), da cui si e' separato nel 1956, ha avuto una figlia, Alia; poi ha sposato una inglese (Avril Gardiner), figlia di un ufficiale inglese, da cui ha divorziato nel 1971 e da cui ha avuto altri quattro figli (Abdallah, Feysal, Aisha e Zein); poi e' stata la volta di una palestinese (Alia Bahen bin Toukan) morta in un incidente aereo nel 1977 e da cui ha avuto un maschio (Ali) ed una femmina( Haya); infine, e' stato sposato fino alla morte con una libanese, Elizabeth Halaby, convertita all'Islam e con la quale ha avuto due maschi (Hamzah e Hashem) e due femmine (Iman e Raiyah). Questa intricata vita familiare e' diventata un problema nell'assicurare una linea di discendenza indolore allo stesso Hussein.

La Costituzione giordana stabiliva che l'erede al trono fosse il primo figlio maschio di moglie araba e musulmana e quindi il figlio della terza moglie palestinese Ali. Nato nel 1975 era ancora troppo piccolo per esercitare il suo ruolo e quindi negli anni ottanta e novanta la funzione di erede e reggente e' stata esercitata dal fratello di Hussein, Hassan.

Inizialmente re Hussein, nell'approssimarsi della morte per un cancro, aveva designato il fratello per succedergli sul trono nonostante lo scarso carisma e le molte perplessita' dei principali esponenti della Corte reale. Alcune improvvide iniziative di Hassan, ancora prima della morte del fratello, miranti a esautorare personaggi ed a imporre propri fedeli, hanno fatto si' che re Hussein ritornasse benche' fortemente debilitato in patria e designasse, il giorno prima della morte, il figlio Abdallah come suo erede. Abdallah era il primo maschio adulto, seppur non figlio di moglie araba (ma inglese) e musulmana.

Da questa concitata successione (si parla anche del fatto che Abdallah avrebbe promesso al padre di favorire in futuro i figli dell'ultima moglie libanese) erano sorti dubbi sulla futura tenuta della monarchia hashemita dopo la morte di Hussein. Abdallah, sotto molti aspetti, ha/aveva caratteristiche simili al padre: pilota di elicotteri, paracadutista, cultore dei reparti speciali, coraggioso ed anche donnaiolo. Ma quel che piu' preoccupava era l'aspetto politico del suo mandato che Hussein aveva affinato in tanti anni di regno, ma che Abdallah non aveva mai avuto opportunita' di esercitare. Anche l'esautorazione dello zio Hassan poneva dei dubbi sulla tenuta della monarchia.

I fatti hanno sinora dimostrato che Abdallah, anche senza quel carisma internazionale che si era creato intorno al padre, ha saputo sinora gestire il regno con sufficiente polso e moderazione aiutato, sul fronte interno, da una moglie di origine palestinese.

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Le sfide di oggi

La capacita' gestionale della monarchia hashemita sotto la guida di Abdallah dovra' essere adesso verificata alla luce degli ultimi eventi esogeni ed endogeni che scuotono la regione ed il regno.

Sul piano interno

Per quanto riguarda il piano interno tutto si gioca sulle prerogative del re e sulle possibili concessioni alle istanze dell'opposizione. A seguito delle manifestazioni che hanno procurato proteste e disordini nel 2011, Abdallah ha messo in funzione due organismi: un "Comitato per il Dialogo Nazionale" (creato il 14 marzo 2011 e composto da esponenti politici, giornalisti, attivisti e giuristi e guidato da un fedelissimo del re come Taher Masri) per redigere una nuova legge elettorale e dei partiti e una "Commissione reale per la Revisione della Costituzione" (creata il 27 aprile 2011). Entrambi gli organismi hanno poi presentato le loro proposte.

Per quanto riguarda i partiti ed il sistema elettorale, la nuova legge garantisce meglio la funzionalita' di un sistema multipartitico. E' stabilito che i partiti non devono essere basati su criteri etnici, religiosi o razziali, che non devono fare politica nel sistema giudiziario o militare e soprattutto che non devono accettare finanziamenti dall'estero, ma avranno sovvenzioni dallo Stato. L' art. 32 della legge fa cenno alle pene potranno essere comminate ai deputati che commettono lo specifico crimine di accedere a soldi stranieri (e qui appare evidente il timore che i soldi sauditi, iraniani o di altre monarchie del Golfo possano destabilizzare il sistema sociale e politico giordano). La riforma approvata fornisce anche ulteriori garanzie come l'inviolabilita' delle sedi dei partiti e dei documenti o comunicazioni prodotte nell'esercizio delle loro funzioni.

Il Parlamento e' stato modificato passando da 120 a 140 membri (di cui 123 eletti a livello di distretto e 17 a livello nazionale) con una quota di seggi garantiti ad una rappresentanza femminile (15 seggi adesso contro 12 nel passato). Se la nuova legge, almeno teoricamente, concede maggiori spazi alla rappresentanza politica e sembra danneggiare i margini di discrezionalita' delle prerogative reali, nella realta' Abdallah e' sostanzialmente riuscito a bloccare le aspirazioni del maggiore e piu' pericoloso movimento politico, rappresentato dallo IAF dei Fratelli Musulmani (il voto distrettuale favorisce i candidati tribali - quelli piu' favorevoli alla monarchia - ed impedisce alla Fratellanza di pilotare i consensi a livello nazionale dove e' sicuramente piu' influente).

Inoltre il sovrano ha introdotto un nuovo elemento a suo favore : la nuova legge adesso concede (prima non era previsto) il diritto di voto anche alle forze di sicurezza che quantitativamente rappresentano il 10% della popolazione e le cui simpatie sono ragionevolmente orientate a favore della casa reale.

Che questa mossa di Abdallah sia stata strategicamente efficace lo dimostra il fatto che l'IAF ha boicottato le recenti elezioni parlamentari del 23 gennaio scorso che invece, contrariamente alle aspettative dei Fratelli Musulmani, hanno avuto un'affluenza piu' che soddisfacente (56,6% addirittura superiore a quella del 2010 dove l'IAF aveva partecipato). Nei fatti quindi uno scacco matto alle velleita' politiche della Fratellanza in Giordania in una congiuntura regionale che vede i Fratelli Musulmani governare in Egitto, avere un ruolo centrale in ambito palestinese (con Hamas) e costituire una potenziale leadership in Siria in un prossimo futuro.

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Il monarca giordano dialoga oggi con un Parlamento pieno di conservatori ed esponenti tribali e la piu' qualificata rappresentanza islamica e' costituita dai 17 seggi vinti dal "Muslim Center Party" (Hizb Al-Wasat Al-Islamiya) che e' - guarda caso - una fazione dissidente dei Fratelli Musulmani. La Fratellanza ha cercato di sobillare le piazze con manifestazioni in tutto il Paese, ma questa prova di forza si e' poi tramutata in una dimostrazione di debolezza. Tuttavia, il pericolo islamico non deve essere sottovalutato.

Piccole altre concessioni come quella sulla Legge della stampa per cui i giornalisti non subiranno detenzioni per quello che scriveranno, ma multe pecuniarie (ovviamente esclusi quei reati che si configurano contro la sicurezza dello Stato) aumentano sicuramente il livello delle liberta' civili e poco possono produrre contro la stabilita' della monarchia.

Anche sul piano delle riforme costituzionali (sono stati proposti ed approvati 41 emendamenti) il sovrano ha saputo muoversi con perizia: da un lato concedere, dall'altro controllare. Il controllo e' determinato dalla creazione di una Corte Costituzionale (che sostituisce una precedente "Alta Corte per l'Interpretazione della Costituzione) art. 28 della neo-Costituzione che avra' il compito di verificare la costituzionalita' delle leggi proposte dal governo o approvate dal Parlamento. Ma - ed e' questo il punto qualificante della mossa reale - i 9 membri della Corte che dureranno in carica 6 anni, non rinnovabili, sono tutti di nomina reale. Quindi il re concede, ma controlla.

Inoltre, ed e' un dettaglio da non dimenticare, il sistema legislativo giordano e' bicamerale ed il Senato e' formato da 60 membri tutti di nomina reale. Ogni legge deve essere votata dai due rami del Parlamento e poi ratificata dal sovrano. E questa procedura, a fronte di tante altre modifiche di facciata, non e' stata cambiata.

Sul piano esterno

La Giordania confina con una Siria dilaniata dalla guerra civile, un Israele percorso politicamente da aspirazioni interventiste, un Iraq ancora instabile e dagli assetti politici precari, si trova coinvolta (socialmente) e contigua (fisicamente) alle vicende palestinesi irrisolte, sull'altra sponda del mar Rosso l'Egitto di Morsi e' ancora percorso da fermenti sociali, c'e' un Iran che minaccia con il suo programma nucleare l'egemonia militare di Tel Aviv e solleva lecite preoccupazioni nelle varie monarchie del Golfo, c'e' un Islam radicale che sovvenzionato dal wahabismo sta prendendo piede in tutto il Medioriente.

Queste sono tutte situazioni che potenzialmente mettono in pericolo la stabilita' del regno hashemita, un piccolo Stato dipendente dai sussidi internazionali e dal petrolio saudita che si trova nell'epicentro di una tempesta sociale, politica e militare dagli sviluppi imprevedibili.

Il problema piu' immanente e' quello siriano. Ci sono oltre 340.000 profughi accampati sul territorio giordano (80.000 e forse piu' nel solo campo di Zaatari, 30.000 in un altro vicino a Zarqa) e c'e' il rischio che il conflitto siriano possa travalicare i confini comuni (visto che l'area confinaria e' parte in controllo dei ribelli e parte in mano ai lealisti), c'e' il rischio terrorismo e c'e' il rischio che l'arsenale chimico siriano possa entrare nelle disponibilita' di mani sbagliate.

Ne e' la riprova la recente visita di Benjamin Netanyahu ad Amman per incontrarsi con re Abdallah

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e discutere della questione. Gia' ai primi di dicembre Israele aveva chiesto l'autorizzazione ad attraversare lo spazio aereo giordano per colpire i depositi chimici di Assad. Sul problema siriano Abdallah mantiene un atteggiamento equidistante non molto gradito a Qatar e Arabia Saudita, ma i circa 380 km di confine comune costituiscono per il regno hashemita un elemento di pericolo. Tuttavia, nel contempo la Giordania permette agli americani di addestrare in una base segreta i ribelli siriani.

C'e' anche il problema della nazionalita' dei profughi che vengono dalla Siria: quelli di origine palestinese non trovano facile accoglienza nel regno. C'e' anche l'aspetto finanziario perche' il sostegno ai profughi siriani rischia di costare, in base alle stime, circa 1 miliardo di dollari quest'anno.

Ma se queste circostanze quantificano il pericolo che circola nella regione danno anche sostanza al ruolo della Giordania e del suo sovrano come interlocutore e parte negoziale in ogni vicenda regionale. E sta qui la forza di re Abdallah: in questa sua ricerca del dialogo, in questo suo ruolo di intermediario e contatto tra Israele (con cui e' stato sottoscritto un accordo di pace nel 1994) ed il mondo arabo. C'e' poi la politica filo-americana che tradizionalmente fa parte della politica estera del Paese, i buoni rapporti con quasi tutti i regimi della regione ed ora, risolte le fibrillazioni sul piano sociale interno, la Giordania appare come un'isola di pace nel mezzo di un mare in tempesta.

Sia sul piano interno che internazionale Abdallah non ha fatto altro che seguire le orme del padre Hussein che risolveva i fermenti interni con avvicendamenti di Primi ministri o con concessioni di facciata e che, sul piano estero, colloquiava con tutti, anche con Israele quando era considerato il nemico numero uno del mondo arabo. E sembra che questo approccio funzioni ancora.

Il ruolo della Giordania nella regione

Bypassato - o almeno sinora circoscritto - il problema delle contestazioni interne, la Giordania ha cosi' riconquistato quel ruolo centrale di Paese moderato e soprattutto stabile nella regione mediorientale. Il ruolo di nazione moderata che Abdallah ha ereditato da suo padre Hussein e che continua ad esercitare nell'area costituisce nei fatti la garanzia di sopravvivenza della monarchia hashemita perche' permette alla Giordania di essere, in questa configurazione, l'unico interlocutore credibile nell'annosa questione israelo-palestinese e punto di contatto per tutte quelle crisi che periodicamente emergono nel Medio Oriente e nella penisola arabica.

La stabilita' e' sempre stata per la Giordania un elemento di complessita' relazionale all'interno ed all'esterno. Questo piccolo paese senza risorse di particolare appetibilita' esterna (salvo i fosfati), circondato da Paesi turbolenti (Siria), prepotenti (Israele), instabili (Iraq) o religiosamente e finanziariamente pericolosi (Arabia Saudita col suo wahabismo ed i petrodollari nonche' la rivalita' storica che divide la monarchia saudita da quella hashemita) ha affinato quel senso di circospezione politica che gli ha permesso di trasformare il suo ruolo di Stato cuscinetto da debolezza geografica in elemento di imprescindibile interlocutore negoziale.

Sul piano interno, invece, l'eterogenea composizione della popolazione tra palestinesi e transgiordani ha creato in passato situazioni di vulnerabilita' (basti pensare al Settembre Nero che vide opposte le milizie palestinesi - poi cacciate - da parte della legione araba di Hussein), ma adesso la questione sembra essersi risolta dal momento che l'Autorita' Palestinese, personificata da

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un moderato come Abu Mazen, trova maggiori punti di contatto con la politica dialogante di Abdallah. Inoltre, il tempo ha amalgamato le differenze sociali tra beduini e palestinesi con questi ultimi che considerano la Giordania sempre piu' una vera patria e non una nazione di transito.

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LA GUERRA DEL MALI : TRA TERRORISMO, CRIMINALITA', RIVENDICAZIONI AUTONOMISTICHE, NEOCOLONIALISMO E VENDETTE

Le operazioni militari francesi nel nord del Mali hanno sicuramente bloccato un'offensiva jihadista verso Bamako ed hanno anche inflitto perdite (seppur limitate) alle milizie islamiche della regione, ma hanno anche dato opportunita' politiche e pratiche a molte parti in causa, terroristi compresi.

Chi ci guadagna

Il primo beneficiario e' sicuramente la Francia che ribadisce il proprio ruolo egemonico, dal vago sapore neo-colonialista, in una parte di mondo che gravita sotto l'influenza di Parigi. E' quel connubio semantico di "francafrique" coniato dall'ex Presidente della Costa d'Avorio Felix Houphouet Boigny che postulava una stretta relazione tra ex Paesi colonialisti e le ex colonie.

L'intervento armato avviene infatti in ex colonie francesi, da' un senso al variegato dispositivo militare transalpino che staziona nella regione e fornisce al Presidente François Hollande la possibilita' di riguadagnare consensi nel suo Paese nel nome di quel "grandeur" di un impero oramai disciolto, ma mai dimenticato nell'immaginario popolare francese. "Grandeur" un po' offuscato dal fallimento del blitz delle forze speciali francesi per la liberazione di un proprio connazionale, membro dei Servizi, in Somalia.

Altro beneficiario e' il Mali, sia sul piano politico che su quello economico. Il colpo di Stato del tenente Amadou Yaya Sanogo nel marzo 2011 aveva sollevato quei dubbi che spesso ricorrono in Africa quando pseudo-democrazie si tramutano fatalmente in dittature oppure vengono fortemente condizionate da e'lite militari. La defenestrazione del Primo Ministro Sheykh Modibo Dialla il 10 dicembre 2012 ad opera di Sanogo aveva posto un'ulteriore ipoteca sulla credibilita' dell'attuale dirigenza maliana. L'intervento francese - avvenuto a seguito di una esplicita richiesta di aiuto internazionale da parte del Presidente del Mali Dioncunda Traore' (nominato dallo stesso Sanogo) - ha pero' nei fatti legittimato le autorita' di Bamako.

Per ironia della sorte, il tenente Sanogo ha fatto il colpo di Stato perche' accusava il precedente Presidente Amadou Toumani Toure' di scarsa determinazione nell'affrontare la ribellione tuareg. Adesso l'intervento francese fa propria la tesi di Sanogo ed indirettamente pone il personaggio in una prospettiva di credibilita' internazionale ben diversa che nel passato.

Poi c'e' l'aspetto economico che per un Paese povero come il Mali ha una forte valenza. L'interesse internazionale che adesso si accentra sulle vicende maliane e' sicuramente portatore di benefici finanziari. Arrivano contingenti militari internazionali, verranno costruite basi, la sovranita' di Bamako verra' sicuramente sostenuta anche da iniziative sociali collaterali, l'Onu ha adesso in priorita' le richieste di Bamako e, se il Paese diventera' il centro di una lotta contro il terrorismo islamico nella regione, questo sicuramente si tramutera' in soldi.

Poi c'e' l'Algeria. Con l'intervento militare contro i ribelli islamici che hanno assaltato il campo petrolifero di In Amenas il 17 gennaio Algeri non solo ribadisce, qualora ce ne fosse bisogno, la propria indissolubile ostilita' ad ogni trattativa con il terrorismo islamico, ma pone anche, come oramai avviene dall'indipendenza e dalla lotta contro il F.I.S. di Madani, al centro di ogni vicenda politica interna l'imprescindibile ruolo del "pouvoir" militare. L'intervento delle forze di sicurezza algerine a In Amenas ha comportato la morte di vari ostaggi, ma anche qui il messaggio che viene da Algeri e' molto chiaro: non esiste una differenza se muore un algerino o un occidentale e, soprattutto, non esistono politiche alternative nei rapporti con il terrorismo.

Quei Paesi che nel tempo hanno pagato riscatti o si sono sottomessi ai ricatti per salvare i propri concittadini (in prima fila l'Italia) sappiano - e' il monito dell'Algeria - che non ci sono margini di discrezionalita'. E siccome anche la forma diventa sostanza di strumentalizzazione politica, Algeri

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ben si e' guardata dal dare comunicazione preventiva del suo blitz a In Amenas ai Paesi che avevano propri cittadini ostaggi nel campo petrolifero. Cosi' facendo gli algerini hanno ribadito la propria sovranita' decisionale, la propria determinazione nella lotta al terrorismo e mandato un messaggio al neo-colonialismo francese. L'Algeria, a differenza di altre ex colonie del Sahel, non ha bisogno di aiuto o di negoziare alcuna concessione o di chiedere autorizzazioni.

Piu' in generale vi sono anche altri vincitori collaterali. Uno e' l'idea che il terrorismo, soprattutto quello islamico, sia diventato oramai una problematica universale che non ha piu' limiti geografici o limiti di intervento. Cio' postula che nel combattere il fenomeno non vi siano piu' limitazioni giuridiche o procedurali. La Francia e' intervenuta direttamente sul terreno per combattere le milizie islamiche senza la preventiva autorizzazione dell'Onu. Il sostegno di altri Paesi e' giunto successivamente quando la comunita' internazionale ha deciso di appoggiare, a posteriori, le operazioni militari francesi. Si e' nei fatti generato il principio giuridico secondo il quale in caso di terrorismo saltano tutti quei rituali che generalmente accompagnano ogni intervento internazionale. Non e' la prima volta che questo avviene da parte francese, come insegna l'intervento militare in Libia, deciso da Nicolas Sarkozy prima che dal Consiglio di Sicurezza dell'Onu.

Bisogna poi anche sottolineare come l'intervento francese abbia nei fatti legittimato, sul piano dell'importanza che l'intervento militare ha determinato, anche quelle milizie islamiche che da tempo controllano il nord del Mali. Se questi gruppi armati precedentemente sopravvivevano grazie alle loro attivita' criminali (brigantaggio, traffico di droga, estorsioni, cattura di ostaggi, traffico di esseri umani) ora sono a tutti gli effetti entrati nel pantheon del terrorismo islamico. I vari Mokhtar Belmokhtar, Iyad ag Ghali (alias Abu al Fadl), Abdulhamid abu Zied, Yahya abu Hammam, Hamada Ould Mohamed Kheirou da noti tagliagole diventano gli alfieri della guerra santa contro gli infedeli.

Si avvera cosi', anche se casualmente, il sogno dell'emiro Abdulmalek Droukdal che trasformando il Gruppo Salafita per la Predicazione e Combattimento (in chiave anti-algerina) in Al Qaeda nel Maghreb Islamico (AQIM) vede realizzato il suo ingresso sul palcoscenico internazionale sulla scia di Bin Laden. Questo avviene nonostante tra Droukdal e Mokhtar Benmokhtar non corra buon sangue. E come avviene oramai in tutte le aree di crisi (Iraq, Libia, Siria, Somalia), anche nel nord del Mali arriveranno a frotte quei professionisti del terrorismo che si spostano da un conflitto all'altro senza sapere nulla delle problematiche locali, ma portatori di quel "nihilisme aveugle" (come lo chiamano gli algerini) come loro unica dottrina. Nei fatti, l'intervento militare francese ha creato i presupposti per la creazione di un ulteriore fronte fra l'occidente e il mondo islamico integralista. La guerra ora in atto non e' solo per la riconquista del nord del Mali e a difesa della sovranita' di Bamako, ma scontro di culture, religioni, tra neo-colonialismo e indipendenza, tra Paesi poveri e ricchi.

Il grande vincitore, soprattutto dal punto di vista mediatico, e' senz'altro Mokhtar ben Mokhtar che con l'operazione di In Amenas assurge da semplice criminale e terrorista al rango dei maggiori personaggi di Al Qaeda. Algerino di Ghardaia con esperienza pregressa in Afghanistan al fianco di Hezb al Islami di Gulbeddin Hekmatyar e' rientrato in Algeria dove ha militato prima nel G.I.A., poi nel Gruppo Salafita per la Predicazione ed il Combattimento ed infine in Al Qaeda nel Maghreb Islamico. Mokhtar si e' rafforzato con i soldi dei vari traffici illeciti e con i riscatti per la liberazione di occidentali. Ora punta ad un ruolo di primo piano nella galassia del terrorismo islamico. Ha sopravanzato Droukdal nella gerarchia di merito di Al Qaeda nella regione ed ha anche vinto la concorrenza delle altre fazioni armate che stazionano nel deserto fra Mali e Niger: AbdulHamid Abu Zied e la sua katiba Tarek bin Zayad, l'Ansar Dine di Iyad Ag Ghali, il Movimento per l'Unita' e la Jihad nell'africa Occidentale (MUJAO) guidato da Hamada Ould Mohamed Kheirou ed infine Yahya abu Hammam (nominato capo della zona sahariana dall'emiro Droukdal dopo la morte dell'emiro Makhlouf) capo della katiba al Furqan. Il suo nome e' oramai nella hit parade del terrorismo islamico tant'e' che si e' guadagnato un posto nella "kill list" americana. Tradotto nella pratica, adesso puo' essere destinatario di un missile sparato da un drone .

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Chi ci perde

I primi perdenti sono i tuareg che rivendicano da tempo una propria autonomia e cultura (non solo in Mali, ma anche in Niger, Ciad, Libia e nella stessa Algeria) e che adesso vedono le loro aspirazioni messe in ombra dal terrorismo islamico e, ed e' l'aspetto piu' negativo, associate (ingiustamente) ad esso. Se e' vero che il Movimento per la Liberazione dell'Azawad (MNLA) e' stato estromesso manu militari dal nord del Mali da parte di Ansar Dine e da AQIM, il solo fatto che operasse in aree sotto il controllo delle milizie islamiche, in contrasto con le autorita' di Bamako, ha portato inesorabilmente ad associare i tuareg al terrorismo internazionale. In prospettiva, le legittime rivendicazioni di questo popolo nomade ne risultano danneggiate.

Il fatto che l'MNLA sia stato solidale con l'intervento francese e che potrebbe nuovamente tornare ad essere l'interlocutore delle istanze tuareg con Bamako non cambia la sostanza di quel rancore che oramai divide i tuareg (ed a loro vengono associati anche le popolazioni di origine araba e i Peuls del nord anteposti ai Bambara del sud) dal resto della popolazione del Mali. La secolare lotta tra neri e tuareg, tra stanziali e nomadi sta adesso portando ad una persecuzione degli sconfitti. I tuareg, che nel loro insieme costituiscono una popolazione di oltre 5 milioni di abitanti divisa tra vari Paesi del Sahel, sono improvvisamente diventati l'obiettivo di tutti quei regimi dittatoriali o pseudo-democratici che affollano la regione e che hanno bisogno di legittimarsi con rigurgiti nazionalistici demonizzando strumentalmente un "nemico". Per i 900.000 tuareg che vivono nel nord del Mali si prospettano momenti difficili. Le organizzazioni non governative non sono autorizzate a raggiungere quella regione per motivi militari.

Altro perdente e' l'Islam moderato, quello prevalente nella fascia sub-sahariana, il sufismo non delle 333 tombe dei santi di Timbuktu, portatore di una cultura religiosa fatta di tolleranza e apertura che ora viene sopravanzato dall'Islam salafita e integralista. E' un fenomeno non autoctono, ma di importazione che adesso si ripresenta con una certa pericolosita' in varie altre aree del continente africano. Questa espansione del radicalismo religioso acquista aspetti virulenti come in Somalia e Nigeria, ma anche aspetti piu' subdoli come in Egitto, Libia e Tunisia.

Perdenti sono anche gli oltre 400.000 profughi che sono scappati dalla guerra civile e rifugiatisi fra Mauritania, Niger, Burkina Faso, Guinea e Togo. Vivono di carita' internazionale, in condizioni igieniche catastrofiche e soprattutto non sanno quando e se potranno un giorno fare rientro nelle proprie case. Nella casistica non compaiono neanche quei maliani che si sono spostati, ma non fanno riferimento a campi profughi. In tutto sono oltre 700.000 persone fra rifugiati e sfollati (IDPs).

La paternita' di questa nuova crisi

L'escalation militare nel nord del Mali e' figlia di tanti padri.In primis la dissoluzione del regime di Gheddafi che ha costretto molti mercenari (armati) che combattevano al fianco dei lealisti a scappare verso il Sahel. A questi mercenari si sono uniti molti libici (armati) in fuga. Alquanto invisi ai Paesi sub-sahariani di appartenenza dove prevalgono regimi che si basano sul consenso delle armi (e che quindi non gradiscono personaggi che sanno combattere ed usarle), questi fuggiaschi sono stati costretti a riposizionarsi nella no-man's land che si estende dal sud algerino al nord del Mali, Niger e Mauritania alla merce' del brigantaggio. Se poi le loro malefatte criminali abbiano potuto beneficiare di un vessillo legittimante come le rivendicazioni tuareg o la jihad tanto meglio. Al pari della Libia, l'insieme delle cosiddette primavere arabe ha creato l'instabilita' che ha concorso a questa risorgenza del terrorismo islamico.Un altro elemento che ha favorito la crisi nella regione e' il commercio di armi che e' passato da livelli artigianali ad un livello industriale. Le varie crisi nazionali nel Nord Africa si sono tramutate in destabilizzazione endemica, mancati controlli delle autorita' centrali, aree confinarie non presidiate, circolazione esponenziale di armamenti. Nella pratica la Primavera Araba e' diventata

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una primavera del traffico di armi. Chi ne voleva o pensava di utilizzarle non ha incontrato difficolta' a reperirne.

E come spesso accade, accanto alle armi con le quali generalmente si prevaricano le idee ed i comportamenti, arrivano anche interessi e culture di analogo contenuto ideologico. Questo e' il caso del wahabismo di marca saudita e qatariota che, approfittando di ogni contingenza locale, ha cercato di affermare la diffusione del radicalismo religioso salafita. E' un fatto oramai matematicamente accertato che laddove si diffonde il wahabismo, questo diventa elemento di espansione ed adesione per l'estremismo ed il terrorismo islamico. E' una circostanza tragica che si e' manifestata la prima volta con Osama bin Laden e che continua a manifestarsi in altri teatri operativi come oggi la Siria e ieri Libia, Somalia e Egitto. Il potere suadente del wahabismo e' anche nei soldi che si accompagnano all'espansione ideologica.

E' ben chiaro, quindi, che la paternita' di questa insorgenza di terrorismo nel nord del Mali e' anche nei soldi che oramai circolano nella regione. Soldi degli ulema wahabiti, soldi dei traffici vari, soldi dei riscatti, soldi derivanti dal commercio della droga che vede oggi la Guinea Bissau come punto di arrivo della cocaina dal cartello di Medellin che transita nel Sahel in direzione dell'Europa. Ed in questo business emergente le varie fazioni islamiche del nord del Mali (AQIM, MUJAO, Ansar Dine) lucrano assicurando il transito della droga nelle aree sotto il loro controllo.

E quando si parla di soldi, bisogna ricordarsi che le tribu' tuareg hanno sempre vissuto una vita di stenti determinata dall'ostracismo dei governi centrali e dall'ambiente senza risorse in cui vivono. Ed ora che i soldi sono arrivati nella loro zona, seppur legati ad attivita' criminale, portano benessere diretto o indiretto anche ai tuareg. E questa circostanza ha fatto si' che i tuareg siano, seppur per interesse, solidali o almeno consenzienti con i vari movimenti terroristici e le loro efferatezze.

L'evoluzione della situazione

L'intervento militare francese per riconsegnare la sovranita' del nord del Mali alle autorita' di Bamako nonche' l'operazione algerina contro i terroristi in In Amenas portano fatalmente quella che fino a ieri era una problematica regionale al rango di questione internazionale. A questo proposito, bisogna ricordare che il terrorismo e' una forma surrogata di guerra che non si conclude o debella con un'operazione militare, ma che tende a riproporsi e a rigenerarsi ogni qualvolta situazioni o condizioni ambientali lo giustifichino o favoriscano.

Quando inizia una guerra e' poi difficile stabilire quando finira'. Nel caso specifico, appare alquanto problematico che al ricontrollo militare del nord del Mali da parte del governo centrale corrisponda la scomparsa del terrorismo nella regione. Questo perche' i confini desertici che dividono il Mali da Algeria (1400 km), Niger (800 km) e Mauritania (2240 km) non sono sufficientemente presidiati e questo permette ai terroristi di spostarsi a piacimento nelle zone e Paesi limitrofi piu' sicuri.

Nella regione la Mauritania non ha sufficiente capacita' di contrasto al terrorismo, la Libia ha adesso altri problemi a cui pensare (ha 200.000 ex ribelli che non vogliono disarmarsi) e il Niger ha piu' interesse a dedicarsi ai propri tuareg che non ai tuareg degli altri. Il peso di un'eventuale lotta ad AQIM, Ansar Dine e MUJAO cade inesorabilmente sulle spalle francesi e - qualora consenzienti - anche algerine. Ma come abbiamo visto, Parigi non ha avvisato Algeri del suo intervento militare nel nord del Mali, altrettanto non ha fatto l'Algeria per l'operazione di In Amenas e quindi non esiste oggi un coordinamento tra i due Paesi. Ed e' anche difficile che questo possa realizzarsi nel prossimo futuro perche' i rapporti tra Algeria e Francia sono un mix di odio-amore sin dai tempi della guerra di liberazione. Essendo l'Algeria il paese maggiormente a rischio terrorismo islamico nella regione, nessuna operazione efficace per combattere questa piaga sociale potra' avere ragionevole risultato senza il concorso di Algeri. Questo e' il principale motivo per cui nessuno Stato, dalla Francia agli USA, ha sollevato critiche all'operato algerino.

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Inoltre, fino all'operazione di In Amenas, le autorita' algerine avevano tenuto nei confronti del terrorismo nel sud del Paese e nella fascia sub-Sahariana un atteggiamento alquanto subdolo tipico di chi sembra accettare una specie di modus vivendi con la controparte fintanto che non vengono toccati i rispettivi interessi. Voci ricorrenti nel passato facevano stato di contatti tra la D.R.S. (De'partment du Reinsegnement et de la Se'curite' ) di Toufiq Me'diene con il capo dell'Ansar Dine , Iyad Ag Ghali e persino con lo stesso Mokhtar Benmokhtar.

Adesso le autorita' algerine hanno schierato circa 10.000 uomini a presidio dei confini con il Mali (i citati 1400 km) e con la Libia (circa 1000 km) a cui vanno aggiunte le guardie della dogana (ora armate), gli elicotteri della gendarmeria e la sorveglianza aerea continua. Tuttavia, l'estensione dell'area da controllare rende insufficiente questo dispiegamento nonostante l'Algeria abbia un esercito di 150.000 uomini (il piu' numeroso in Africa) ed un budget annuale della Difesa di circa 10 miliardi di dollari l'anno.

La concentrazione dei terroristi nel Nord del Mali ha automaticamente diminuito la loro presenza nel sud dell'Algeria e questo ha fatto particolarmente comodo alle autorita' di Algeri. Da parte algerina, l'interesse principale e' rappresentato dagli impianti petroliferi dislocati principalmente nel sud del paese e forniscono la prevalente risorsa finanziaria dell'Algeria. L'attacco di In Amenas ha rotto nei fatti questo armistizio ed ha costretto Algeri ad intervenire.

L'attacco contro l'installazione di In Amenas e' avvenuto nonostante le autorita' del Paese attuino strette misure di sicurezza a protezione degli impianti: ogni cittadino algerino puo' lavorare in queste strutture solo dopo aver ottenuto un nulla osta di sicurezza da parte dei Servizi algerini; ad ogni installazione viene distaccato un reparto di gendarmeria per assicurarne la protezione esterna; i cittadini algerini non possono recarsi nelle zone sud del Paese - che sono quasi sempre off-limits - senza uno speciale permesso. In ultimo, ogni grossa societa' petrolifera ha un proprio sistema di sicurezza all'interno delle installazioni con personale dedicato alla sorveglianza (che pero', come nel caso in questione, non e' autorizzato a portare armi). Questo da' l'idea di quanto fossero impreparate le autorita' di sicurezza algerine ad affrontare un'emergenza del genere e, dall'altro, quanto invece siano stati efficienti i terroristi ad occupare l'impianto con una presumibile assistenza di qualche basista interno.

Le autorita' di Algeri hanno sempre lo stesso approccio nel combattere il terrorismo: poca intelligence, ma molto intervento armato. Modello riconfermato nell'episodio di In Amenas. Anche qui, a parte la volonta' di non voler negoziare niente con i terroristi, la prima risposta di Algeri e' stata di tipo esclusivamente militare con bombardamenti ed attacchi. I reparti di e'lite che generalmente effettuano questo tipo di interventi vengono da un centro di addestramento nei pressi dell'aeroporto della capitale, reparti in passato addestrati dall'Italia.

L'operazione "Serval" non poteva essere misurata nei rapporti di forza fra i due schieramenti in campo. La Francia con i suoi circa 3000 uomini sul terreno (senza contare il supporto che puo' immediatamente acquisire dalle sue tante basi nel continente), l'assoluta supremazia aerea, un esercito (benche' fatiscente) maliano di 10.000 uomini (ma meno di 1/5 in grado di combattere), la presenza di un contingente africano che dovrebbe avere una forza di circa 5-6000 uomini forniti dai Paesi aderenti all'ECOWAS (Nigeria, Togo, Niger, Burkina Faso, Benin, Ghana) a cui aggiungere il Ciad (2000 uomini), il supporto tecnico e di intelligence americano dell'Africom da Gibuti e dal Maryland, il supporto logistico di altri Paesi europei (in primis Germania ed Inghilterra ), l'arrivo dei droni.

Dall'altra parte le katibah dei terroristi a cui alcune stime da verificare attribuiscono una forza di 4-5000 uomini: AQIM sui 2000 uomini, MUJAO un migliaio, Ansar Dine il resto. A questi vanno aggiunti i terroristi da esportazione che convergono dove le crisi si accentuano. Probabilmente non coordinati operativamente tra loro, ma comunque pieni di armi libiche, di soldi qatarioti e

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soprattutto ottimi conoscitori del deserto.

In una guerra asimmetrica, non convenzionale, non vince necessariamente il piu' forte. Il fatto che l'intervento militare francese non sia stato risolutivo lo dimostrano le perdite subite dai terroristi: 200/300 uomini. Gli altri sono scappati in attesa di occasioni migliori. E l'occasione migliore sara' quando i francesi se ne andranno e subentreranno le forze del contingente africano o ONU e quelle fatiscenti dell'esercito maliano.

La forza del terrorismo africano in genere e di quello nel Nord del Mali in particolare risiede oggi in un mutato quadro regionale dove abbondano nuove autorita' legate al radicalismo islamico (basti pensare all'ostilita' espressa pubblicamente dal presidente egiziano Mohamed Morsi nei confronti dell'intervento francese) e proliferano ampie sacche di instabilita' procurate dalle guerre civili. La debolezza degli Stati si trasforma in una forza del terrorismo endogeno. E se si segue questa valutazione dei fatti, l'unica nazione nella regione fortemente laica e quindi ancora non permeabile al dilagante radicalismo islamico (forse perche' gia' vaccinata dalle esperienze del FIS negli anni '90) e' l'Algeria. Che necessariamente, come gia' detto, diventa l'obiettivo di coloro che sognano califfati o la rigida applicazione della sharia. Per onor di storia bisogna anche dire che l'Algeria era fortemente contraria ad un attacco internazionale contro Gheddafi perche' paventava - a ragione - che il tutto avrebbe concesso spazio al terrorismo. Algeri da' oggi ospitalita' ai familiari del deposto dittatore marcando ancora di piu' la propria scelta di campo.

Il terrorismo attecchisce laddove esistono poverta', ingiustizie sociali, limitate aspettative per una vita migliore, liberta' e democrazia. In questo senso il terrorismo svolge sulle masse piu' indigenti un ruolo sociale. L'aggettivo "islamico" e' veicolo di queste istanza sociali non essendoci altre ideologie di riferimento dopo la caduta del comunismo (che nell'area era surrogato piu' dal panarabismo e dal baathismo). Il terrorista delle katibah del Mali non e' portatore di un islamismo ideologico, ma ne utilizza in modo rozzo alcuni - peraltro discutibili - aspetti sociali. E' un islamismo che avanza con la spada e non con la raffinatezza della teologia.

L'unica possibilita' per estirpare il terrorismo dal nord del Mali risiede in un accordo tra i tuareg e le rispettive autorita' centrali possibilmente facilitato da una mediazione e da sussidi internazionali. Questa sembra la strada che vuole seguire Washington. Gli Stati Uniti intendono anche costituire nell'area (probabilmente in Niger) un comando militare integrativo dell'Africom, ora a Gibuti. Questa e' un'iniziativa che gli USA coltivavano da tempo e che non erano mai riusciti a realizzare per l'ostilita' di Gheddafi (secondo l'allora Rais libico la presenza americana nel Sahel invece di cacciare i terroristi islamici li avrebbe richiamati).

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