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Carolly Erickson

La vita segreta di Giuseppina Bonaparte

ISBN 9788852017872

Titolo dell’opera originale

The Secret Life of Josephine – Napoleon’s Bird of Paradise

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Il libro

Giuseppina è ancora giovanissima quando lascia la sua famiglia e la coloniafrancese della Martinica, dove è nata e cresciuta, per sposare l’arrogantearistocratico Alexandre de Beauharnais. Nonostante la nascita di due figli, laloro unione non è felice e, durante i turbolenti anni della Rivoluzionefrancese e del Terrore, Giuseppina conosce la povertà e l’orrore dellaprigionia, rischiando addirittura la ghigliottina.

Il suo fascino esotico e la sua inarrestabile ambizione la sorreggono peròanche nei momenti più difficili, sino all’incontro con Napoleone Bonaparte,che cambierà per sempre il suo destino. Mentre lui domina sulla scenapolitica e sui campi di battaglia, creando un impero sterminato eincoronando se stesso e la moglie imperatori di Francia, lei divienel’incontrastata regina dell’alta società grazie al suo irresistibile magnetismofatto di eleganza, charme, forza e vulnerabilità.

Ma dietro le apparenze si nasconde una realtà ben diversa: il cuore diGiuseppina appartiene a un altro uomo, il misterioso straniero che l’avevaconquistata molti anni prima in Martinica e che lei non può dimenticare.

Carolly Erickson, famosa autrice di saggi e biografie storiche, ritorna conl’appassionante racconto della vita della prima moglie di Napoleone. Scrittoin prima persona, il romanzo segue la protagonista lungo l’intero arco dellasua esistenza, tracciando il ritratto a tutto tondo di una figura estremamentesfaccettata e della sua epoca.

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L’autore

Carolly Erickson, dopo aver insegnato storia medievale alla ColumbiaUniversity, si è dedicata al lavoro storiografico, scrivendo numerosi saggi euna fortunata serie di biografie. Con Mondadori ha pubblicato: MariaAntonietta (1991), La grande Caterina (1995), Elisabetta I (1999), La piccolaregina (2000), Maria la Sanguinaria (2001), Il grande Enrico (2002),L’imperatrice creola (2003), La zarina Alessandra (2005), Il diario segreto diMaria Antonietta (2006) e L’ultima moglie di Enrico VIII (2009).

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dedica

In ricordo della mia cara madreLouise Kiger Bliss (1912-2006)

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Prefazio

Malmaison, marzo 1814

I miei occhi si sono indeboliti, è come se vivessi in un perenne tramonto.Non riesco più a ricamare, i punti sono troppo piccoli perché possa vederli;così, nei lunghi pomeriggi, siedo accanto alla finestra guardando il confusointreccio di colori delle mie rose, mentre Christian – quel caro uomo – milegge le vecchie lettere d’amore che custodisco con cura.

Ho grandi progetti, ma si sono temporaneamente interrotti, il che èsconfortante per me, seduta qui, gli occhi sempre più deboli, il viso rugosobagnato a volte da lacrime involontarie, le guance, un tempo morbide erosate, ora avvizzite e ravvivate dal belletto.

È vero, non posso più vedermi con chiarezza allo specchio, ma sono semprepiù attenta alla cura dell’aspetto. Ho un’esperta parrucchiera che viene ognigiorno a pettinarmi, e quando mi intreccia nastri argentei fra i capelli neritinti l’effetto è affascinante e giovanile, o così mi dicono i miei adulatoriparigini.

Da Parigi i visitatori vengono a centinaia, anche se la primavera è gelida e igiardini non sono ancora pienamente fioriti.

«È sempre bella?» sento che si chiedono mentre passano sotto le miefinestre. «O è appassita ora che non porta più la corona? Ora che l’eximperatore non la ama più? Deve avere una cinquantina d’anni ormai. Avràperduto la bellezza.»

Mi fanno sorridere, quei parigini invidiosi. Non sono mai stata davvero unadi loro: sempre un’estranea; anche al tempo del mio trionfo, quandol’imperatore Napoleone Bonaparte mi mise lui stesso sul capo la corona. Sifacevano segretamente beffe di me, sebbene mi abbiano sempre temuta per il

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potere che esercitavo su di lui. Bonaparte li governava, e io governavoBonaparte.

Posso ancora essere bella, o così mi dicono. E ora sono più celebre di untempo, perché sono stata la moglie dell’imperatore, sono ricca e ho unpassato scandaloso.

Si facciano pure beffe di me, i parigini. Io sono quello che molti di loro nonsaranno mai. Sono me stessa. Nessuno ha autorità su di me. Vivo comevoglio, anche se gli occhi sono sempre più opachi, mi duole la gola e sonotornate le mie emicranie, nonostante le sanguisughe che i dottori miapplicano sul collo, sulle braccia e sui piedi per liberarmi dai veleni.

Non permetto a nessuno di assistere a questi momenti, a eccezione diEuphemia, poiché per lei non ho segreti. I medici mi strofinano la fronte, miapplicano impacchi sugli occhi dolenti, mi lavano e mi inondano di acqua datoletta per coprire i cattivi odori dell’età. Soltanto quando sono usciti e iosono fresca e profumata consento a Christian di entrare, perché mi leggaqualcosa dal mio cofanetto di lettere di tanto tempo addietro.

Mi appoggio ai cuscini di raso rosa, chiudo gli occhi e ascolto quelle careparole d’amore, sempre nuove anche dopo tanti anni.

«“Rosa di tutte le rose, mia bella signorina Tascher”» legge Christian «“ilvostro ricordo mi incanta. Attendo con grande impazienza il momento in cuipotrò stringervi nuovamente fra le braccia. Fino al nostro nuovo incontro, vibacio le mani, gli occhi, le labbra, vi bacio tutta.”»

Il primo biglietto amoroso che abbia mai ricevuto, da Scipion du Roure,l’ufficiale di cui mi innamorai alla Martinica, una notte di maggio in cui laluna era piena. Io avevo quindici anni e lui diciannove. Era promesso a unadonna in Francia, come scoprii in seguito. Ma non aveva importanza. Nullaaveva importanza quella notte, se non l’argentea, morbida luce lunare, ilsuono delle onde che si frangevano sulla sabbia bianca ai piedi della verandain cui noi danzavamo e il profumo inebriante del gelsomino.

Mentre ascolto Christian, mi sento trasportare nuovamente a quella sera, allamusica dei violini, dei flauti e delle chitarre che suonano una ronde

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sentimentale, al canto dei grilli fra i tamarindi e gli ibischi. Scipion, biondo,bello, mi prende la mano guantata e se la porta alle labbra...

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1Quella sera, la sera in cui incontrai Scipion du Roure, riuscivo a pensaresoltanto al ballo, al mio abito di seta giallo pallido e alla ghirlanda diprofumati gelsomini in fiore che Euphemia mi aveva intrecciato fra i capelli.Cantavo tra me mentre mi vestivo, esercitandomi a camminare nella gonnalarga sorretta dalla gabbia di metallo sottile e guardandomi riflessa nelgrande specchio al centro della mia camera.

Alla luce delle candele avevo gli occhi lucenti, la carnagione calda eluminosa. Ricordo di aver pensato che ero bella e che ogni uomo al balloavrebbe voluto danzare con me.

Vivevo con i miei genitori alla Martinica, in una piantagione chiamata LesTrois-Îlets, “I tre isolotti”. L’anno era il 1778. Mio padre, Joseph Tascher,pover’uomo angosciato e tormentato, beveva troppo e si indebitava sempredi più, e mia madre e mia nonna lo ossessionavano continuamente. Iocercavo di non fare caso alle loro discussioni – che avvenivano di frequente– e di pensare soltanto al ballo. Ma le voci adirate non si potevano ignorare.

«Dovete chiedere un altro prestito a vostro fratello» insisteva mia madre.«Non indugiate. Andate stasera stessa a Fort-Royal.»

«Con piacere, mia cara» ribatté mio padre. «Ma so che cosa mi risponderà.Niente più prestiti. Niente fino a quando non accetto di farlo diventarecomproprietario dei Trois-Îlets e di nominare suo figlio mio unico erede.»

«Il vostro solo erede, questa poi» sbuffò mia nonna. «Se foste un verouomo, avreste figli maschi e non figlie femmine.»

Mia nonna, Catherine des Sannois, nata Catherine Brown in una fattoria aDundreary, aveva l’agguerrito temperamento dei suoi antenati irlandesi e nonperdeva mai l’occasione di criticare mio padre, di origine aristocratica.

«E se mia moglie facesse il suo dovere, mi darebbe figli maschi. La colpa èsua.»

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«Come osate parlare in questo modo, sapendo che ho rischiato di morire neldare alla luce la nostra ultima figlia?» Mia madre si alzò dalla sedia e siavvicinò a lui con aria accusatrice. «E come osate mostrare così pocorispetto per la povera Catherine, che giace nella tomba da appena due mesi?»Mia sorella Catherine, sempre debole e malaticcia, era infine morta per unafebbre ed era sepolta nella chiesetta della nostra piantagione.

«Quanto vorrei che anche voi finiste in una tomba» sentii mio padreborbottare mentre si voltava dall’altra parte. «Così potremmo viveretranquilli.»

«Tranquilli? Tranquilli? Parlate di tranquillità quando tutto quello che fate èper noi causa di inquietudine.» Mia nonna continuava nella sua invettiva.«Trascurate le vostre figlie. Nessuna delle due è fidanzata. Trascurate vostramoglie. Quante amanti avete a Fort-Royal? Tre? Sei? E quanti sono i mulattibastardi che vi somigliano? E, peggio ancora, trascurate la piantagione, chemio marito e io vi abbiamo dato, pigro buono a nulla che non siete altro,perché la vostra famiglia non morisse di fame. E ora guardate! Dove sono icampi di canna da zucchero? Tutti inselvatichiti. Dove sono gli schiavi?Quasi tutti fuggiti. Che cosa avete fatto in diciassette anni che ne sieteproprietario? Una bella piantagione finita in rovina! Ecco cosa ne avete fatto!E una famiglia che rischia di morire di fame.»

Mio padre prese la fiaschetta d’argento e bevve, il viso stanco segnato dallerughe, i sottili capelli grigi che sfuggivano disordinatamente dalla parrucca aborsa annodata male. In quel momento, durante una pausa della lite, io mifeci avanti per mostrare il mio vestito.

Camminai lentamente davanti a mio padre, a mia madre e alla nonnaSannois. Vidi che gli occhi di mio padre si erano illuminati nel guardarmi ecapii che il suo era uno sguardo di ammirazione.

Mia nonna annuì. «È tempo che si sposi» disse seccamente. «Più chetempo.»

Mia madre mi esaminò attentamente, dalla ghirlanda tra i capelli fino ai nastrilucenti delle scarpette di raso giallo. «Attenzione agli uomini» si limitò a dire.

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Le strade strette e tortuose di Fort-Royal illuminate dalle torce splendevanodi una luce gialla sotto la luna, mentre la nostra carrozza – in verità uncarretto con un telo per ripararci dalla pioggia – si inerpicava lungo il fiancodella collina verso la casa imponente di mio zio, alta sopra la baia di Fort-Royal. Mio zio Robert Tascher era il comandante del porto e lui e la suafamiglia vivevano negli agi. Circa cinquecento invitati, della migliore società– i Grands Blancs, come venivamo chiamati, i Grandi Bianchi o europei –,avrebbero preso parte al ballo quella sera, e io avevo avuto la fortuna diessere stata invitata.

Mi accompagnava mia zia Rosette, la sorella zitella, tremebonda e discreta, dimio padre e dello zio Robert. Era uno chaperon davvero ideale,silenziosissima e di aspetto sgradevole nel vecchio abito verde con lesbiadite rosette cremisi che indossava sempre ai balli e ai ricevimenti. Nonmi impediva mai di divertirmi. Sapevo che mi ammirava e mi invidiava,perché non era mai stata bella e, appena entrava in una sala, sembrava quasiconfondersi con la carta da parati.

L’aria era umida e il mio abito di seta giallo bagnato di sudore quandoarrivammo all’imponente cancello della dimora dello zio Robert. I riccioliche la mia cameriera Euphemia aveva disposto con tanta cura sulla mia bellafronte mi si incollavano alla pelle.

Appena entrata, bevvi avidamente dal bicchiere di punch al rum che miporse un alto servitore africano e ne chiesi un altro. Sedetti accanto a unafinestra aperta e mi lasciai sommergere dalla musica dell’orchestra, dalmormorio delle voci, dal fruscio degli abiti e dal gradito soffio di vento dallabaia.

Non rimasi seduta a lungo. Venne un giovane a chiedermi di danzare, e poiun altro e un altro ancora. Ricordo che non persi un ballo e, con iltrascorrere del tempo, cominciai a sentire la testa che mi girava mentrevolteggiavo nei passi della quadriglia e del minuetto. Mi rallegrai appena lamusica si interruppe e alcuni ospiti cominciarono a congedarsi.

Poi, all’improvviso, un giovane in una bella uniforme s’inchinò e mi porsela mano. Alzai lo sguardo e vidi i suoi begli occhi grigi che mi fissavano e lelabbra carnose piegate in un sorriso malizioso.

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«Tenente Scipion du Roure, signorina. Volete farmi l’onore di concedermiquesto ballo?»

Fluttuando, volando, mi sciolsi tra le sue braccia, e la danza finì troppopresto.

«Venite a passeggiare con me» mi sussurrò mentre mi baciava la manoguantata nel prendere congedo. «Presso l’albero di mango, tra mezz’ora.»C’era un enorme mango accanto alla veranda della dimora dello zio Robert.Non dubitai che si riferisse a quello. Mi sentii fremere nell’attesa, poichénemmeno per un attimo pensai di rifiutare.

“Attenzione agli uomini” mi aveva ammonito mia madre, ma in quell’istantedimenticai le sue parole di avvertimento. Mi chiedevo soltanto come mi sareipotuta allontanare inosservata. La zia Rosette, il mio discreto chaperon, miaveva guardato danzare tutta la sera mentre mangiava pasticcini alla vaniglia.Quando mi avvicinai a lei, mi accorsi che aveva esagerato e aveva l’aria dinon stare bene. Vedendomi, si affrettò a deporre il piatto e si pulì la boccacon il dorso di una mano non guantata.

«Avete l’aria stanca, zia Rosette. Senza dubbio zio Robert vi troverà un postodove potrete sdraiarvi.»

Lei mi lanciò uno sguardo penetrante. «Sai bene che non posso andarmenefinché sei qui. Non puoi essere lasciata sola senza una parente che tisorvegli.»

«Ma non sarò sola. C’è la zia Louise.» Come padrona di casa, la zia eranaturalmente presente nella sala, anche se tra me e lei si muovevanocentinaia di invitati.

Sul viso della zia Rosette si dipinse un’espressione sofferente, e lei si portòuna mano allo stomaco.

«Dovete bere dell’olio di gaultheria, zia Rosette, subito, senza un momentodi indugio.» Le presi la mano libera e lei si lasciò condurre lungo uncorridoio dove si trovava un gruppo di servitori, invisibili ai ballerini in sala,che osservavano la festa attraverso una porta socchiusa. Tra loro riconobbi

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Denise, la governante.

Vincendo le proteste sempre più deboli della zia, Denise e io laconvincemmo a riposare in una stanza buia e a bere un infuso di olio digaultheria. Abbandonandola alle cure di Denise, tornai in fretta alla sala daballo e uscii dalla veranda in giardino. La pesante sagoma dell’albero dimango, carico di frutti, i larghi rami lucenti all’argentea luce lunare, siinnalzava dalle palme e i tamarindi che lo circondavano. Ai piedi dell’alberoattendeva Scipion du Roure nell’elegante uniforme blu da ufficiale dimarina, appoggiato con aria disinvolta al tronco, le braccia conserte. Sorrisenel vedermi e mi porse la mano quando mi avvicinai.

«Eccovi, mio bell’Uccello del Paradiso.»

Mi tolsi i guanti e presi la mano che mi tendeva. Aveva un sorriso languido,seducente, sebbene a quindici anni non conoscessi quelle parole. Sapevosoltanto che mi emozionava vederlo e che il nostro incontro era tanto piùeccitante perché proibito. Noi due nel giardino buio, con la sola compagniadegli uccelli addormentati e delle rane gracchianti: era una situazionecontraria alle regole di condotta dei Grands Blancs. A me piaceva violare leregole. E mi piaceva il nome che mi aveva dato: Uccello del Paradiso.

Camminammo mano nella mano lungo un sentiero di pietra che conducevaalla spiaggia della baia. Da bambina lo avevo percorso più volte, con le miecugine, diretta alla spiaggia per nuotare. Ma sempre durante il giorno, mai dinotte. Non avevo mai visto prima il sentiero d’argento tracciato dal raggiodella luna sull’acqua, né mai avevo avvertito la carezza della fresca arianotturna sul viso ardente. E non avevo mai sentito così forte il profumo deigelsomini che fioriscono di notte, ai due lati del sentiero, un profumo chespegneva quello della mia ghirlanda.

Rispondendo alle mie appassionate domande, Scipion mi disse che avevadiciannove anni e che era imbarcato come tenente a bordo della fregataIntrépide. Arruolato da tre anni, era stato ferito due volte. Io sgranavo gliocchi mentre lui descriveva una scaramuccia tra la sua nave e il vascelloinglese Orkney a poche miglia dal punto in cui ci trovavamo, e come il suovascello si fosse affiancato all’Orkney e lui e i suoi uomini lo avesseroabbordato con la spada in pugno. Sollevò i capelli per mostrarmi l’orecchio

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destro, segnato da una lunga cicatrice rossa.

«Il fuoco dei moschetti inglesi» disse. «È stata una fortuna che mi abbiasoltanto graffiato l’orecchio. Avrebbe potuto decapitarmi.»

«Ma non siamo in guerra con gli inglesi. L’ho sentito dire da mio padreall’intendente.»

Scipion aveva uno sguardo cupo. «Ma lo saremo, tra non molto. Per questoci spiano dai loro fortini a Santa Lucia. Sanno che è soltanto una questionedi tempo prima che scoppi la guerra.»

Sembrava che avessimo sempre combattuto contro gli inglesi, desiderosi diconquistare le nostre isole, le Isole del Vento. Più di ogni altra, volevano laMartinica.

«Mio padre teme che ci invadano e si impadroniscano della nostrapiantagione.»

«Allora dobbiamo sperare che, se davvero verranno, io e i miei compagniufficiali sapremo difendervi.» Sorrise. «In ogni caso, non credo cheverranno questa notte.»

Mi tolsi le scarpe e le calze e camminammo lungo la riva, nella morbidasabbia bianca, evitando i granchi e tenendoci lontani dalle onde che siscagliavano contro la spiaggia, bianche e spumeggianti. Scipion mi tenevacon leggerezza la mano e io strinsi a mia volta la sua. Chinò il capo e misfiorò la guancia con le labbra.

«Quanti anni avete, Rose?»

«Quindici.»

Si ritrasse, stupito. «Ne dimostrate almeno diciotto. Però, se ne avestediciotto, probabilmente sareste sposata. Qui le ragazze, a quanto ho capito, sisposano presto.»

«Io non ho dote.»

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«Ah. Buona famiglia e niente danaro. Una situazione non insolita. Ma avetela bellezza.»

Mi sentii riscaldare dalle sue parole e improvvisamente desiderai che miopadre non fosse povero. Scipion, mi chiesi, avrebbe voluto sposarmi seavessi avuto una dote di ventimila lire come mia cugina Julie, la figlia dellozio Robert?

Per qualche tempo camminammo in silenzio. Infine giungemmo a unoscoglio roccioso che segnava la fine della spiaggia.

«Dietro queste rocce c’è una caverna» dissi a Scipion. «Dove i vecchi capicaraibici tenevano le loro cerimonie. Offrivano sacrifici di animali ai lorodèi, pregavano per ottenere la pioggia e guarivano dalle malattie.»

«I sacerdoti dicono che queste sono tutte sciocchezze pagane. Soltanto il Diodei cristiani ha questi poteri.»

«Uno dei capi ha guarito il nostro sacerdote ai Trois-Îlets, quando stavamorendo di febbre.»

«Sono state le vostre preghiere, Uccello del Paradiso, a guarirlo.»

Non volli discutere. Sapevo che molti stranieri non credevano ai poteri deglidèi caraibici o di quelli africani venerati dagli schiavi. D’altro canto, tanti,soprattutto in Francia, non credevano più nel Dio dei cristiani. Così avevosentito dire dagli amici di mio padre.

L’ultima parte della passeggiata fu la migliore. Non dimenticherò mai quelloche provai mentre Scipion mi riconduceva lungo la spiaggia e attraverso ilgiardino nella dimora dello zio Robert. Rimanemmo in silenzio, ma i nostrisentimenti parlavano per noi. Come mi batteva il cuore quando mi baciòsotto il mango! E con quanta tristezza ci lasciammo e lui promise di venirmia trovare appena gli fosse stato possibile.

Piansi, gioii, danzai, mi disperai. Cambiavo umore da un momento all’altro.Come avrebbe potuto essere altrimenti, quando ero stordita per l’ora tarda,la stanchezza, l’effetto del punch al rum e, soprattutto, il tocco della sua

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mano e delle sue labbra nel giardino buio, sotto il grande albero di mango?

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2Il pomeriggio successivo mi avviai, da sola, su per l’alta montagna vulcanicachiamata Morne Ganthéaume in cerca di Orgulon, il più temuto tra iquimboiseurs, gli stregoni dell’isola. Era un pomeriggio caldo, ma, appenaentrai nella buia, verde foresta pluviale che ammantava il fianco dellacollina, provai un senso di fresco sotto il suo ombroso baldacchino. Lefoglie bagnate e scivolose sotto i piedi rendevano difficile il cammino e,quanto più mi addentravo nelle verdi oscurità della foresta, tanto più dovevofarmi strada tra liane e rampicanti che mi si impigliavano tra i capelli e miafferravano i vestiti.

Nessuno, con l’eccezione della mia cameriera Euphemia, sapeva dove fossi.Se i miei genitori lo avessero scoperto, mi avrebbero fatto raggiungere daqualcuno degli schiavi e mi avrebbero punito chiudendomi a chiave nellamia camera o proibendomi per un mese intero di cavalcare la mia giumenta.Euphemia aveva cercato di dissuadermi dall’idea di cercare Orgulon,chiamandomi “scioccherella” e “pazza d’amore”.

“Vorrei proprio sapere” mi aveva chiesto mentre mi preparavo per andare“fino a che punto può essere stupida una ragazza. Non lo sapete che Orgulonsaprebbe uccidervi con uno sguardo? Non vi ho parlato di quei malvagiquimboiseurs fin da quando eravate una bambina spaventata dal buio che miteneva stretta mentre io vi cantavo la ninnananna?”

Euphemia era stata sempre al mio fianco, si era presa cura di me, mi avevamesso in guardia contro le presenze che vengono di notte per fare del male.Sembrava molto vecchia e saggia e io l’avevo sempre ascoltata. Non eracome gli altri schiavi della nostra piantagione, perché aveva una pelle moltochiara, color caffellatte, e parlava il francese creolo dei Grands Blancs senzaaccento africano. Si sapeva che era la mia sorellastra, figlia di una delleamanti africane di mio padre. Ora era palesemente in ansia per me e, quandosi sentiva così, mi rimproverava.

“Ho sentito parlare di Orgulon nella piazza del mercato. Ha inaridito il cuoredi un uomo soltanto perché non gli piaceva come quello fischiava.”

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“È un’altra delle fandonie che raccontano al mercato. Quello che si senteraccontare là non è quasi mai vero, Euphemia, e tu lo sai.”

“Oh, a questo ci credo. È accaduto davvero.”

“Anch’io ho sentito raccontare storie terribili. Ma ora ho bisogno dell’aiutodi Orgulon. Gli chiederò un amuleto per farmi amare da Scipion du Roure.Voglio conoscere il mio futuro. Lo sposerò?”

“Quell’uomo che avete incontrato l’altra sera, al ballo. Quello Scipion. È perlui che volete rischiare la vita?”

“Sì.”

“Anche se probabilmente non lo vedrete più.”

“Il cuore mi dice che lo rivedrò e che mi amerà. Ma voglio esserne certa.Devo avere un amuleto. E Orgulon ha i migliori. I più potenti. Lo diconotutti.”

Euphemia aveva alzato le mani al cielo, mormorato qualche parola nellalingua materna, l’ibo, e si era allontanata. Non aveva detto più nulla fino aquando non mi aveva visto uscire.

“Non biasimate me se vi uccideranno lassù, sul Morne Ganthéaume. Io hocercato di fermarvi.”

“Se mi uccidono, non posso certo biasimare qualcuno, non credi?”

Ora, mentre camminavo sotto il baldacchino verde scivolando sulle fogliemarce, cominciai a sentirmi a disagio. Avevo sentito dire che Orgulon vivevain una caverna sulla montagna, in un luogo chiamato il “Crocicchio Sacro”,dove si svolgevano le cerimonie religiose, ma non c’ero mai stata econoscevo il nome soltanto per averlo sentito dagli schiavi mentrelavoravano. Speravo che tutti i sentieri che salivano la montagna portasseroal Crocicchio Sacro. Tuttavia, più il sentiero si inerpicava e il cammino sifaceva difficile, più mi chiedevo se la mia ipotesi fosse esatta.

Il sentiero aveva curve continue, saliva uscendo dalla giungla e girando

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attorno a massi aguzzi, oltrepassando grotte poco profonde in cui l’acquaformava delle pozze. Gli uccelli cantavano nel fitto sottobosco e sui pendiipiù alti vedevo capre di montagna dalle lunghe corna. A tratti, una franaoscurava il sentiero e rendeva così difficile la salita che io stavo quasi pertornare. Ma in quel momento notai qualcosa di strano: una formazionerocciosa con i corpi di molti uccellini sventrati e disposti in circolo.

Doveva essere un segnale, pensai. Il segnale che mi trovavo sul sentiero peril Crocicchio Sacro.

Le mie scarpine erano diventate dei blocchi di fango e a ogni passo le ditadei piedi affondavano nella melma. Anche l’abito era infangato, e i capelli,pieni di rametti, si erano sciolti e mi cadevano sulle spalle e sul viso.Desideravo una bevanda fresca e un bagno, ma non volevo cedere e salivosempre più in alto, incoraggiata dalla scoperta di altre formazioni rocciosecon i corpi di tucani e pappagalli ara uccisi.

Le nuvole nascondevano la vetta del Morne Ganthéaume, e ben prestocominciò a piovere, una pioggia dura che batteva forte sulle foglie marcite,quando sentii per la prima volta il rullio dei tamburi. Era un suono basso,lontano, dapprima poco più che un sussurro, ma, quanto più salivo, tantopiù si faceva forte e chiaro. Avevo spesso sentito di notte, ai Trois-Îlets, glischiavi che battevano sui tamburi e conoscevo bene quel suono. Proseguii,seguendolo, confidando di non essere distante da Orgulon.

Il suono dei tamburi si fece più forte e udii un battere di mani e un canto.L’aria era carica di elettricità, avvertivo la presenza di altre persone, pur nonpotendole vedere.

A un tratto, ai due lati del sentiero scomparve ogni traccia di vegetazione emi trovai ai margini di una grande radura. Ci saranno stati almeno uncentinaio di schiavi, gli uomini in perizoma, le donne in camiciole leggere,alcune con un bambino in braccio, e tutti danzavano al ritmo dei tamburi. Alcentro della radura c’era un grosso tronco d’albero tagliato, sul quale, inpiedi, stava un vecchio alto, esile, con un mantello rosso e piume rosse negliscarmigliati capelli grigi. A dispetto della sua vecchiaia, era un’immagine dipotenza, con la collana di denti di pescecane e pezzi di quella che sembravacarne seccata, la pelle di un nero lucente e le lunghe braccia magre distese, la

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testa china all’indietro in un gesto di estatica attesa.

Rimasi così colpita dalla vista della radura, della gente che danzava esoprattutto dell’uomo con il mantello rosso che non pensai a come dovessiapparire io stessa. Una ragazza spettinata, in un abito di lino infangato e conle scarpe sporche, una dei Grands Blancs che si intrometteva nelle cerimonieal Crocicchio Sacro – poiché ero certa di trovarmi là – non poteva nonsuscitare una reazione.

Ma, con mio grande stupore, i danzatori parvero non vedermi. Erano cosìassorti nel canto e nel ballo, talmente affascinati dal ritmo dei tamburi che ionon costituivo nemmeno una distrazione momentanea. Corsi verso il rifugiodel sentiero e mi nascosi nel folto sottobosco umido.

Non ricordo quanto a lungo vi rimasi. Probabilmente anch’io ero affascinatadai suoni e dai ritmi che mi circondavano e persi il senso del tempo. Il soleera già sceso dietro la vetta del Morne Ganthéaume e il cielo cominciava adaccendersi delle ardenti strisce rosse e rosa del tramonto quando il suono deitamburi cessò e Orgulon (non dubitavo che si trattasse di Orgulon inpersona) cominciò a parlare. A voce alta, salmodiava in un linguaggioafricano, mentre veniva acceso un fuoco in cui si gettavano erbe aromaticheche riempivano l’aria di profumi pungenti.

Venne portata una grossa scrofa, che grugniva e si dimenava, Orgulon preseun coltello e le tagliò la gola. Immediatamente i celebranti corsero avanti perraccogliere il sangue della bestia morente in gusci vuoti di noce di cocco, lobevvero e si bagnarono con quello rimasto che tinse di rosso tutta la radura,o così sembrò a me dal punto in cui mi trovavo.

Da quando ero uscita di casa, ore prima, non avevo mangiato né bevutonulla e cominciavo a sentirmi male. L’odore metallico del sangue della scrofami diede una forte nausea. Ero ansiosa di correre giù per la montagna etornare a casa, ma ero troppo stanca. Mi sdraiai sul terreno impregnato disangue e chiusi gli occhi sperando che il malore passasse.

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3Dovevo essermi addormentata perché, quando compresi dove mi trovavo,era buio, avevo freddo e il cielo era pieno di stelle, le stelle scintillanti dellaMartinica, che non sembrano bianchi diamanti nel cielo, ma appaiono dimolti colori, lampeggiando rosse, giallo vivo, blu lucente. Mi sollevai su ungomito e vidi che la radura era vuota, il fuoco diventato brace. Provavo ilbisogno di avvicinarmi per trarne tutto il calore che potevo. Cominciai adalzarmi, sentendomi rigida e indolenzita, quando una voce mi fermò.

«Non muoverti!»

La riconobbi. Era quella di Orgulon. Parlava in francese, ma non riuscivo avederlo.

«Rimani dove sei, ragazza!»

Rabbrividendo per il freddo e la paura, obbedii per quanto mi era possibile.

Sentii un colpo sordo, poi un altro e un altro ancora. Serrai gli occhi e strinsii denti.

«Ecco. Adesso non c’è pericolo. È morto.»

Aprii gli occhi. Orgulon, nel mantello rosso, mi stava di fronte e teneva perla coda una cosa lunga e penzolante.

«Il fer-de-lance. Voleva prenderti. L’ho sentito venire. Sapevo che nondovevi morire. Così l’ho ucciso.» Si voltò, rientrò nella radura e, passandodavanti al fuoco morente, vi gettò dentro la carcassa del rettile.

Il cuore mi batteva forte e mi sentivo mancare il fiato. Orgulon aveva uccisoil serpente che stava per uccidere me, perché il morso del temuto fer-de-lance è sempre mortale. Orgulon mi aveva salvato la vita. Il grandequimboiseur che avrebbe potuto uccidermi con uno sguardo si era servitodel suo potere per salvarmi.

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Mi alzai in piedi e lo seguii sul lato opposto della radura, dove era statafissata una tenda aperta sul davanti ed era stato disteso un lenzuolo sulterreno bagnato. Una zucca piena d’acqua, un piatto di banane fritte e unfiaschetto di rum erano preparati sul lenzuolo. Orgulon si stirò e cominciò amangiare e a bere.

Mi accostai piano alla tenda. Con un gesto ruvido, impaziente, mi fece cennodi avvicinarmi di più. Notai che aveva le mani ad artiglio, con unghielunghe, giallastre e spezzate. Mi chiesi quanti anni potesse avere. Si dicevache i quimboiseurs vivessero per secoli e non temessero la morte.

«Venerabile signor Orgulon» mi sentii dire con voce tremante «vi ringraziodi avermi salvato la vita.» Compresi che mi stavo ancora riprendendo dalterrore appena provato.

Lui alzò lo sguardo dal piatto e io vidi che era di una bruttezza grottesca,cieco da un occhio e con pochi denti. Emanava un odore rancido, così forteche avrei voluto allontanarmi.

«Credi di essere venuta qui per vedermi. No. Ti dirò io quello che devisapere. La tua vita è oltre le grandi acque. Ti ho salvato perché tu possavivere questa vita. Un demonio aveva mandato il serpente. Attenta a queldemonio! Io ho ucciso il serpente, ma non chi lo ha inviato.»

D’impulso gli chiesi: «Sposerò Scipion du Roure?».

Il vecchio ebbe un gesto di indifferenza. «Lui non conta. Sei tu quella checonta. Sei stata salvata per uno scopo.» Tornò a mangiare e a bere e, benchégli rivolgessi molte altre domande, mi ignorò. Io aspettavo, stringendominelle braccia per scaldarmi, senza sapere che cosa fare. Infine mangiòl’ultima banana e bevve dal fiaschetto, asciugandosi la bocca con il dorsodella mano ad artiglio.

Come se avessero ricevuto un segnale, due uomini con le torce accese siavvicinarono alla tenda, tolsero il piatto e portarono a Orgulon una lungapipa che lui cominciò a fumare. Disse poche parole agli uomini in una linguache non comprendevo. I due si inoltrarono nella foresta e ne uscirono conuna sorta di amaca appesa a due pali. Mi fecero cenno di sdraiarmi

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nell’amaca, e io, esausta, accettai con gioia. Non provavo paura, ma soltantostanchezza, mentre i due uomini, appoggiandosi i pali sulle spalle, in modoche io mi trovassi appesa tra loro, si avviarono lungo il sentiero che portavaai piedi della montagna, sotto le stelle lucenti.

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4Mi aspettavo di trovare grande agitazione ai Trois-Îlets al mio ritorno dalMorne Ganthéaume. Pensavo che mio padre sarebbe uscito a cercarmi consquadre di schiavi e uomini della milizia locale, di cui aveva il comando. Miamadre e mia nonna le immaginavo folli di angoscia. Euphemia avrebbepianto istericamente e anche mia sorella Manette, appena undicenne, sarebbestata sveglia, chiedendosi dove fossi andata e perché vi fossi rimasta tanto alungo.

Invece tutto era tranquillo quando venni deposta sulla veranda dai dueuomini che mi avevano portato giù per la montagna. Gli edifici dellapiantagione erano bui. Entrai nello zuccherificio trasformato in abitazione,dove vivevamo, e raggiunsi la mia camera da letto. Euphemia, avvolta in unalarghissima camicia da notte rosa, sedeva tranquillamente leggendo alla lucedella candela.

«Così siete tornata» disse. «Finalmente. Adesso posso andare a dormire.»

Invece di sentirmi sollevata e felice per essermela cavata indenne dopoquella pericolosa scappata, ero piuttosto indispettita. A quel che sembrava,nessuno si era accorto della mia assenza. Ero davvero così priva diimportanza?

Euphemia rideva tra sé.

«Ho detto che non potevate venire a cena perché avevate mangiato deigranchi andati a male e davate di stomaco dappertutto. Credetemi, sonorimasti alla larga!»

«E mio padre, poi, non è venuto a vedere come stavo?»

Euphemia tirò su col naso. «Vostro padre è a Fort-Royal. Con la sua amantemulatta. Vostra madre era sconvolta. Ha detto di avere il mal di capo e si ècoricata presto.»

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Io sbadigliai e mi distesi sul letto senza scoprirlo, improvvisamente esausta.

«Immagino che non abbiate trovato Orgulon.»

«Oh, sì, l’ho trovato» risposi con voce assonnata «e lui mi ha parlato.»

Improvvisamente attenta, Euphemia si alzò e venne vicino al mio letto.

«Sì? E che cosa vi ha detto? Vi ha spaventato?»

«Un serpente mi ha spaventato. Un fer-de-lance.»

Euphemia sussultò, si fece il segno della croce e mormorò una preghieranella lingua di sua madre.

«Non avere paura. Orgulon lo ha ucciso. Mi ha salvato la vita.»

Euphemia non mi lasciò dormire. Voleva sapere tutto del mio viaggio alMorne Ganthéaume, del mio incontro con il quimboiseur al CrocicchioSacro. Sgranò gli occhi quando le riferii quello che Orgulon aveva detto diScipion du Roure e di me, che ero una persona importante, salvata dallamorte per uno scopo preciso; e quando parlai del demonio e dell’esistenzache avrei condotto oltre le grandi acque.

Mentre la raccontavo, la storia mi sembrava troppo assurda per esserecredibile, ma Euphemia mi prestò fede. Era soltanto la mia immaginazione, oda quel momento in poi si sentì davvero un po’ intimorita nei miei confronti,per quello che Orgulon aveva detto? Mi tolse le scarpe infangate e le calze eportò una coperta per tenermi calda, sedendo accanto al mio letto nella suasedia a dondolo e vegliando su di me, e io mi addormentai.

Dormii fino a mezzogiorno passato e, quando mi svegliai, rimasi immersaore e ore, a quanto mi sembrò, nel grande catino per il bagno, mentreEuphemia continuava a versarmi addosso acqua bollente, per lavare via ilfango e il sudiciume dalle braccia e dalle gambe graffiate. Infine mi sentiipulita e indossai per la cena un abito fresco di lino color lilla.

«Ah, Yeyette» mi salutò mio padre quando andai a tavola. «Stavamo proprioparlando di te. Stai meglio?»

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«Sì, padre.»

«Bene.» Avvertii una certa tensione nella stanza e vidi che mia madre e mianonna tenevano gli occhi chini a terra, fissavano fuori dalla finestra o siscambiavano occhiate, ma non guardavano mai verso di me.

Mio padre si schiarì la voce e bevve un sorso di rum. «Yeyette, abbiamoricevuto un’altra lettera da Parigi, da Edmée.»

La zia Edmée, la bella sorella bionda di mio padre, ci scriveva spesso,insistendo sempre affinché le mie sorelle e io venissimo mandate in Franciaper vivere con lei, frequentare una buona scuola gestita da suore e acquistarel’accento parigino al posto della nostra parlata creola. Dovevamotrasformarci in autentiche francesi, diceva la zia in tutte le sue lettere, perpoter fare un buon matrimonio ed entrare in società. La zia Edmée parlavasempre di noi come delle “tre sorelle”, sebbene ormai fossimo soltanto due.Mio padre rispondeva a quasi tutte le sue lettere dicendo sempre la stessacosa: che non poteva permettersi di mandarci in Francia. Io mi rammaricavomolto della nostra mancanza di danaro. Niente mi avrebbe entusiasmato piùdel viaggio a Parigi.

«Adesso ti leggerò la lettera» proseguì mio padre mettendosi gli occhiali espiegando i fogli.

Caro Joseph,

vi scrivo in fretta per darvi ottime notizie che sono certa sarannovantaggiose per tutta la nostra famiglia. Il nostro caro Alexandre, che haormai diciassette anni ed è sottotenente nel reggimento della Sarre,desidera prendere in moglie una delle vostre figlie. Una volta sposato,riceverà la propria eredità, una rendita annuale di quarantamila lire.Vogliate prendere la prossima nave con una delle vostre figlie. Leordinerò il corredo appena arriverà a Parigi. Non bisogna perderetempo.

Con affetto,

Edmée Renaudin

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«Posso andare, per piacere, padre? Alexandre non mi è mai piaciuto molto,ma sono certa che Parigi mi piacerà.» Incrociai le braccia e trattenni il fiatoosservando il viso di mio padre.

«Non sono certa» osservò mia madre «che dovremmo mandare una di voiragazze a Parigi. Non mi fido di Edmée, è un’intrigante.»

«L’intrigo» ribatté gelidamente mio padre «è chiarissimo, mia cara. Il ragazzovuole il suo danaro. E per averlo gli serve una moglie. Se noi glielaforniamo, passerà sopra alla mancanza di una dote e ci ricompenseràsalvandoci dalla bancarotta.»

«E quale vantaggio trarrà Edmée dall’intrigo?»

«Anche questo non è difficile immaginarlo» rispose mia nonna – ilineamenti grossolani e i capelli grigi – che aveva scarsissima stima dellabella Edmée. «Il suo vecchio amante Beauharnais sta morendo. Quanti anniha? Sessanta? Sessantacinque? Ha la gotta, è debole, a quanto sento dallemie conoscenze nella capitale. Edmée non riceverà un soldo da lui quandomorirà... dopo tutto, è soltanto la sua amante... e così vuole far sposare ilfiglio di lui, Alexandre, a sua nipote. In questo modo sa che avrà la suaparte.»

«Con quanta chiarezza descrivete le cose, signora. E quanta discrezione. Madimenticate quel che è ovvio. Anche noi faremo parte dell’intrigo. E netrarremo maggior vantaggio di Edmée. Yeyette andrà a Parigi, sposerà unufficiale benestante, vivrà negli agi e ogni mese ci manderà una somma didanaro. Non è vero, Yeyette?» Io annuii vigorosamente, non osando parlare.«Potremo vendere i Trois-Îlets e trasferirci a Fort-Royal...»

«Mai!» Mia madre lo interruppe con una tale veemenza che la sua voce mirimbombò nelle orecchie.

Mio padre sospirò, mia nonna sbuffò.

«Se mi lasciate andare a Parigi, vi manderò ogni centesimo che Alexandre mipermetterà di avere. Tanto da comprare una nuova piantagione, se vorrete.»

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«Grazie, Yeyette, ma non credo che tuo marito sarà così ricco.»

Pensai ad Alexandre, biondo e di pelle chiara come Scipion, ma più elegantenei modi, schizzinoso e snob. Non lo vedevo da otto anni, da quando avevalasciato la Martinica a nove; io allora ne avevo sei. Lo ricordavo benissimo.Aveva vissuto quasi sempre con noi, tormentando me e mia sorellaCatherine e subendo a sua volta le angherie di ragazzi più forti e robusti chelo definivano una donnicciola. Mentre agli adulti Alexandre piaceva, perchécon loro era cortese e perché era molto intelligente, noi bambine lodetestavamo perché era dispettoso e arrogante.

Ma che importanza aveva? Sarei andata a Parigi se soltanto mia madreavesse acconsentito. Ma lei naturalmente lo avrebbe fatto, non potevaesimersi. Orgulon non mi aveva detto che avrei attraversato le grandi acquee avrei vissuto sull’altra sponda la mia esistenza importante? Ora ne avevol’occasione.

Dopo tre giorni di discussione, nel corso dei quali io ed Euphemiapreparammo silenziosamente i bagagli, perché eravamo entrambe certe chesarei andata in Francia, mia madre cedette e mio padre ottenne quello chevoleva. Si informò a Fort-Royal e trovò una nave diretta al porto di Brest. Iopiansi pensando a Scipion e mi preparai, emozionatissima, a imbarcarmi.

Ma il giorno in cui dovevamo partire sentimmo improvvisamente il rombodei cannoni nella baia di Fort-Royal. Apprendemmo che la flotta ingleseaveva conquistato la vicina isola di Santa Lucia e intendeva invadere laMartinica. Mio padre, di solito molto indolente, montò in fretta a cavallo perradunare la milizia. La nostra famiglia si barricò in casa. La flotta franceseaffrontò quella inglese mentre io pregavo per Scipion.

Non potevo andare in Francia e sposarmi. Ero intrappolata sulla nostra isolae nessuno, nemmeno Orgulon, poteva liberarmi.

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5La guerra durò mesi, e proprio in quei mesi ebbi una serie di singolariesperienze delle quali non ho mai parlato con nessuno. Esperienze che mirivelarono a me stessa.

Un ragazzo veniva alla piantagione al crepuscolo e mi aspettava. A volte lovedevo nascondersi nell’ombra o nei cespugli vicino allo zuccherificio. Unavolta mi parve di scorgerlo in una lunga serie di galeotti incatenati, chepercorrevano un sentiero di fianco a uno dei prati incolti. Spesso venivasulla spiaggia ai Trois-Îlets, la più bella delle spiagge di sabbia bianca doveEuphemia portava Manette e me a nuotare nell’acqua celeste e a guardare idelfini che si tuffavano e saltavano lontano da noi verso le isole della baia.

Il ragazzo non si rivelava mai appieno; quasi sempre rimaneva in disparte,ma faceva in modo che io riuscissi a scorgerlo e a incuriosirmi e sembravacomprendere che ero lieta della sua presenza. Come lo sapesse, non potreidirlo.

Non assomigliava a nessun altro. Voglio dire, non era un contadino né unodei Grands Blancs (sebbene indossasse i brandelli di un panciotto ricamatoda gentiluomo e di un paio di calzoni al ginocchio) e non aveva l’aspetto diun cittadino di Fort-Royal. Mi chiedevo se potesse essere l’erede ripudiato diuna nobile famiglia francese (ce n’erano alcuni sull’isola, esuli da tuttoquanto era loro familiare, stranieri tra noi e quasi sempre terribilmenteinfelici) o un soldato disertore o perfino un pirata o un contrabbandiere. Maun pirata sarebbe stato lontano in mare per lunghi periodi di tempo, midicevo, mentre il ragazzo, al crepuscolo, era quasi ogni giorno ai Trois-Îlets,e i contrabbandieri erano ricchi, troppo ricchi per vestire come lui, conquegli abiti smessi.

Era un enigma, e per questo mi interessava tanto di più. E naturalmente mipiaceva il suo aspetto. I lunghi capelli neri lisci erano legati in una coda lentasul collo, con una ciocca bruna che gli ricadeva su un occhio. Il viso,abbronzato per il sole tropicale, era scarno, le labbra piene, gli occhi di uncastano scuro. La camicia stracciata, aperta sul collo, rivelava un petto

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muscoloso. Era agile come una pantera nei movimenti.

Se Euphemia lo avesse visto, lo avrebbe scacciato urlando, perché non erauno della nostra proprietà e, per quanto ne sapevo, poteva avere intenzionedi introdursi in casa e rubare il danaro (molto poco, a dire il vero) che miopadre custodiva in un cofanetto in camera sua. Ma il ragazzo era astuto: nonsi lasciava vedere da Euphemia. Avevo la sensazione che si rivelasse soltantoa me.

Mi sorpresi ad aspettarlo, ogni giorno al crepuscolo, trovando pretesti variper sedere vicino a una finestra con il ricamo, o addirittura, quando misentivo particolarmente audace, sulla veranda, fingendo di ammirare iltramonto, mentre in realtà aspettavo quel ragazzo che mi incuriosiva.

Naturalmente in quei mesi pensavo molto a Scipion, sebbene fosse quasisempre preso dai suoi doveri militari, sulla nave a proteggere il porto e avolte impegnato in una scaramuccia con la flotta inglese. Di quando inquando, però, scendeva a terra e mi veniva a trovare, e, tra una visita el’altra, mi mandava lettere d’amore e piccoli pegni avvolti in quadrati di setae legati con nastri di raso bianco. Le sue visite erano intense, appassionate.Cavalcavamo sul terreno della proprietà, o ci incontravamo a casa di mio zioe passeggiavamo nei giardini; una volta al mese, Scipion mi portava a unacena o a un ballo offerto da uno degli ufficiali di grado superiore a Fort-Royal. Spesso eravamo soli, e allora mi prendeva tra le braccia e mi baciava.

Scipion era angosciato al pensiero che presto, appena si fosse ristabilita lapace, avrei lasciato la Martinica per la Francia.

“Come potete pensare di sposare quel bellimbusto di Alexandre deBeauharnais quando potreste rimanere qui e sposare uno dei GrandsBlancs?” Scipion conosceva un poco Alexandre, perché il suo squadrone eradi stanza a Brest, come il reggimento di Alexandre.

“È stato deciso dalle nostre famiglie” rispondevo. “Io non posso dire nulla inproposito. E inoltre voi non resterete sempre alla Martinica. E noi duepotremmo incontrarci a Parigi.” Mi avvicinavo a lui e gli sorridevo in unmodo che gli addolciva sempre il viso in un’espressione di desiderio. OrmaiScipion mi aveva detto di essere promesso alla figlia di un marchese, un

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impegno preso quando erano entrambi bambini. “E poi, a voi nonpiacerebbe qualsiasi uomo sposassi, qui alla Martinica o altrove.”

“Sarò geloso, certamente. Forse sfiderò a duello il vostro Alexandre e loucciderò.”

“Vi avverto che è un ottimo tiratore. Questo almeno è quanto dice la zia.”

A quelle parole tutti e due ridevamo e ci baciavamo, e io provavo una fitta didolore sapendo che i nostri incontri non sarebbero potuti continuare persempre. Eppure una parte di me, anche quando ero con Scipion, pensava alragazzo che mi aspettava ogni giorno al crepuscolo e che senza dubbiosarebbe venuto pure quella notte.

Una sera cercai invano il ragazzo bruno. Andai alla finestra della mia camerada letto e guardai fuori, ma lui non c’era. Uscii sulla veranda e scrutai tra ilfogliame buio, tra le palme e verso la spiaggia. Ma la sua figura familiare eraassente. Aspettai, un minuto dopo l’altro, fino a raggiungere mezz’ora e poiun’ora. Non lo vidi.

Dov’era? Che ne era stato di lui? Aveva avuto un incidente? Gli avevanoteso una trappola e lo avevano aggredito? Sapevo che sull’isola c’eranobande di schiavi fuggiti, e ladri e borsaioli in quantità a Fort-Royal. Eracaduto vittima di qualche criminale?

Ero preoccupata, così tornai a cercarlo dopo cena, sebbene fosse troppobuio per vedere qualsiasi cosa, tranne il prato che circondava la casa.Aspettai fino al sorgere della luna, ma vidi soltanto la luce argentea che sirifrangeva dalle larghe fronde dei banani e delle palme; una luce che, senzala sagoma del ragazzo, a me sembrava un vuoto argenteo.

Il mattino successivo Euphemia e io andammo con il carretto a Fort-Royal acomprare della batista per la biancheria di mia madre e di Manette. Miamadre evitava la città per timore di incontrare una delle amanti di mio padree non si fidava delle cameriere che non conoscevano i suoi gusti. Diconseguenza mandava noi.

Mi piaceva andare a Fort-Royal. La città era piena di movimento e io venivo

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attratta dai colori e dalla vita delle strade polverose, non pavimentate, pienedi buche e crepe che nessuno si preoccupava mai di sistemare. Le grida deivenditori ambulanti, il ragliare degli asini e il pigolare dei pulcini riempivanol’aria umida, immobile, e ogni tanto un gruppo di ubriachi che passavavacillando si metteva a cantare. Odori forti indugiavano tra i banchettipericolanti che esponevano polli e conigli vivi, anatre e barili di granchi,rum e fiori, cesti e vasellame da pochi soldi. Come ovunque nell’isola, eraforte l’odore dello zucchero, insieme a quelli dello sterco di maiale e delcuoio, di corpi non lavati, di rose, cannella e aglio.

Lasciai Euphemia a scegliere il tessuto e a fare i suoi acquisti (aveva undebole per la liquirizia) mentre mi avviavo da sola nella strada dei venditoridi amuleti. Vedevo passare donne africane, in larghe camicie di cotonescollate e gonne strette, che esaminavano e assaggiavano i prodotti invendita. Avevo sempre ammirato l’aperta sensualità del loro passoondeggiante, il modo in cui tenevano gli acquisti in equilibrio sui fianchi e ilportamento fiero della testa, con i capelli neri trattenuti da larghe fasce. Lastrada dei venditori di amuleti era piena di donne così, che si fermavano adascoltare mentre i commercianti indicavano le loro boccette e i loro cesti edescrivevano minuziosamente la merce.

“Questa pozione lo riporterà a te!” “Metti questo amuleto sotto il cuscino esognerai il tuo amore!” “Ecco del tè per curarti il cuore spezzato!” “Succod’amore per renderti madre!”

Si vendevano medicinali per il raffreddore di testa e il mal di stomaco,feticci per riacquistare la virilità e rimedi per il mal francese, maledizione deisoldati e dei marinai che dormivano con donne di strada (a Fort-Royal cen’erano molte, spesso belle donne esotiche, di razza mista, orgogliose delloro lignaggio).

Comprai un amuleto contro il mal di capo per mia madre, e per mio padreuno che assicurava la ricchezza, decisa a metterglielo sotto il letto al mioritorno a casa. Acquistai anche una pozione d’amore e la nascosi nellaborsetta. Stavo uscendo dal negozietto per tornare da Euphemia quando lovidi.

Mi era vicino, appoggiato al fianco di un edificio basso, le braccia conserte e

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lo sguardo fisso su di me con tanta intensità che quasi barcollai vedendolo.Non dubitavo che fosse il ragazzo bruno visto tante volte ai Trois-Îlets. Icapelli spettinati gli ricadevano sulla fronte allo stesso modo, indossava glistessi calzoni e lo stesso panciotto e suscitava in me la medesima emozionemista a paura che avevo provato alla piantagione.

Reagii in fretta, allontanandomi da lui e camminando il più rapidamentepossibile lungo la strada piena di buche nella direzione opposta. Continuai acamminare incespicando, con le scarpe che urtavano oggetti sconosciutilungo la strada. Mi seguiva? Ero certa di sì, sebbene non osassi voltarmi aguardare. Camminavo, correvo su e giù per vie strette e tutte curve e infinevoltai in una strada in cui si era rovesciato un carretto attorno al quale si eraradunata una folla. C’era una gran confusione, mentre alcuni cercavano diraddrizzare il carretto e altri accorrevano per raccogliere i frutti e i barili dicarne rotolati a terra.

Intrappolata in quella baraonda, non potevo andare né avanti né indietro. Inquel momento sentii che un braccio mi circondava la vita. Era un tocco difuoco, come non ne avevo mai provati. Trattenni il fiato e un istante doposentii la sua bocca sul mio orecchio. Avvertivo il suo alito caldo, e unbrivido mi percorse la schiena. Poi, con la velocità con cui mi aveva toccato,mi lasciò. Vidi la sua schiena mentre si allontanava abilmente tra la folla espariva alla vista.

Era il ragazzo, naturalmente. Mi faceva infuriare, mi tormentava. Pensai aquanto era accaduto la sera prima e immaginai che lui mi stesse spiando,tenendosi lontano dalla vista, godendo della mia ansia perché non lo vedevoe le ore passavano veloci. Che lo volessi o no, ero stata presa in un giocoseducente con quel ragazzo, un gioco che lui controllava, ma che a mepiaceva.

Mentre tornavo ai Trois-Îlets, chiacchierando con Euphemia che dividevacon me la sua liquirizia, osservavo il lussureggiante fogliame ai lati dellastrada aspettandomi di vedere un lieve frusciare di foglie, il lampo di unacamicia, il movimento veloce di una mano. Una o due volte mi voltai aguardare la strada da cui eravamo venute, pensando che potesse seguirci acavallo. Ma era vuota, con l’eccezione di qualche carretto trainato da unasino come il nostro o di un cavaliere che montava un purosangue,

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galoppando verso il Morne Mirande o uno dei forti sulla parte settentrionaledell’isola. Non vi era traccia del ragazzo, soltanto il segno della sua manosulla mia fusciacca rosa pallido e il ricordo che non svaniva del suo fiatocaldo nel mio orecchio, un ricordo che continuava a suscitare il miodesiderio.

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6Euphemia accompagnava me e Manette alla spiaggia quasi tutti i pomeriggi,quando non pioveva. Facevamo una lunga nuotata, poi ci stendevamoall’ombra delle palme e sonnecchiavamo. Amavo quei lunghi pomeriggipigri, nuotare nella calda acqua limpida, osservando i pesci gialli, blu e verdiche sfrecciavano e mi passavano attorno e sotto. Lo scintillio del sole, comeuno schizzo dorato sulla superficie azzurra, il calore della fine sabbia biancatra le dita dei piedi e la deliziosa stanchezza che mi coglieva facendomiabbassare le palpebre.

La prima volta che vidi il ragazzo alla spiaggia rimasi sconvolta. Euphemia eManette dormivano sulle loro amache e io ero distesa su una coperta sottouna palma. Non c’era nessun altro. Euphemia russava piano e Manette non simuoveva. Mi svegliai di colpo e vidi il ragazzo che si incamminava a passodeciso verso le leggere onde. Ignorandomi, giunse quasi sulla riva, quindi sitolse in fretta i vestiti e balzò su uno scoglio. Rimase immobile, nella suasnella nudità, come si preparasse a tuffarsi.

Avevo già visto schiavi nudi, mai un uomo bianco nudo, o un ragazzo dellamia età. Mi dissi che era bello, mentre se ne stava là, i muscoli tesi, le spalleben modellate, la pancia piatta e il membro virile simile a quelli che avevovisto nelle copie della statue greche che lo zio Robert aveva nel giardino aFort-Royal.

Si lasciò ammirare per parecchi minuti prima di immergersi nella baianuotando verso una delle isole, dove scomparve, e non lo vidi più per tuttoil pomeriggio. Mi assopii nuovamente e sognai il suo corpo; quell’immaginemi tornò spesso in mente nei giorni successivi.

In quel periodo molte cose richiedevano l’attenzione della mia famiglia ecreavano un’atmosfera inquieta in casa. I combattimenti fra la nostra flotta equella britannica, le notizie di Scipion (ferito in una scaramuccia al largo diSanta Lucia), i suoi ansiosi messaggi indirizzati a me e le sue visiteoccasionali, oltre all’assenza di mio padre che comandava la milizia: tuttocreava una situazione di incertezza. Dalla zia Edmée arrivavano sempre

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nuove lettere che insistevano sul vivo desiderio di Alexandre per lacelebrazione delle nostre nozze e sulla vitale importanza della partenza perParigi mia e di mio padre con la prima nave disponibile.

Rispondevo come meglio potevo alle lettere di mia zia, spiegando che nonpotevamo imbarcarci mentre continuavano i combattimenti e che la nostraisola sarebbe forse stata catturata dagli inglesi. Comprendevo, mentrescrivevo così, che Alexandre avrebbe potuto decidere di rinunciare a me e discegliersi un’altra sposa. La possibilità per me di andare a Parigi potevasfumare, così come l’occasione per mio padre di rimettere in sesto le suefinanze e non vendere i Trois-Îlets.

Inquieta per tutti questi pensieri, progettai di tornare al Crocicchio Sacro aconsultare Orgulon. Ma i giorni passavano e io non salivo al MorneGanthéaume. Andavo invece sulla spiaggia con Manette ed Euphemia, edimenticavo le mie ansie mentre nuotavo, mi riposavo e mi assopivo...attendendo il ragazzo.

Un caldo pomeriggio in cui stavo dormendo, venni destata dal dolce contattodelle sue labbra sulle mie. Non provai paura, il mio corpo si abbandonò alsuo e il bacio divenne un abbraccio. Indossavo soltanto una camicia leggerae potevo sentire il suo fisico forte e muscoloso contro il mio. Mi persi nellesue braccia, dimenticando gli altri, dimenticando tutto quanto non fosse lasensazione di lui accanto a me, sopra di me, avvinto a me. La sua boccasapeva di birra di canna e di spezie e lui odorava di acqua salata e sudore.

Quando mi prese, lo fece con dolcezza, senza brutalità o violenza. I nostricorpi si fusero spontaneamente come se fossero fatti per quel momento.Tutto quanto avevo sentito dire dell’unione tra un uomo e una donna svanìnell’oblio, sostituito dal piacere del suo tocco, dalla facilità con cui citrasformammo da estranei in amanti.

Giacemmo così sotto il sole caldo, in un silenzio interrotto soltanto dalnostro respiro e dallo sciacquio delle onde sulla sabbia, fino a quandoEuphemia si girò nell’amaca e il ragazzo alzò la testa per ascoltare. Allora,bruscamente e senza una parola, si alzò e si allontanò. Non si voltò aguardare. Ero sola. Rabbrividii. Poi mi addormentai.

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Più tardi, sentii Euphemia e Manette che si muovevano e parlavano tra loro.Mi misi a sedere, stordita, e mi avvolsi una coperta leggera attorno allespalle, come facevo sempre quando tornavo a casa dalla spiaggia. Euphemia,che stava ripiegando la sua amaca, mi guardò.

«Dei topi vi hanno fatto il nido nei capelli mentre dormivate, Yeyette.»

Io feci del mio meglio per allontanarmi i lunghi capelli neri dal viso esciogliere i nodi peggiori con le dita. Mi chiesi se avessi un’aria diversa. Erocambiata? Avevo la bocca gonfia per i baci e i muscoli stanchi per lo sforzodell’amplesso. Dentro di me, non sarei mai più stata la stessa,indipendentemente dal mio aspetto.

Perché quel lungo pomeriggio scoprii di essere fatta per l’amore. Desideravoardentemente essere accarezzata, baciata, toccata. Essere amata fisicamente enon solo con i sentimenti e le emozioni. Amavo Scipion con tutto il cuore,ma avevo amato quel ragazzo, quell’estraneo, con il mio corpo. E, dei duegeneri di amore, l’amore del corpo era il più forte e il più ricco edesiderabile. Compresi allora che a quell’amore avrei sempre ceduto, perquanto cercassi di resistere.

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7Naturalmente ero in ansia al pensiero di poter essere incinta. Ma il flussomensile arrivò regolarmente, e io ne provai un enorme sollievo. Nello stessoperiodo tutta la Martinica provò un grande sollievo, perché la flotta inglese sispostò verso Santa Lucia e, per la prima volta da mesi, le navi francesipoterono entrare nel porto di Fort-Royal e uscirne. Mio padre colse taleopportunità per assicurarsi il passaggio sulla piccola nave Île-de-France,parte di un convoglio diretto a Brest.

Tutto avvenne rapidamente e ci imbarcammo presto, sebbene mio padrefosse stato ammalato nel corso della primavera e mia madre ci pregasseall’ultimo momento di cambiare i nostri programmi e rimanere a casa. I baulierano pronti da molto tempo; dovevamo soltanto indossare i mantelli daviaggio, riempire di cibo i cestini e andare dalla piantagione al porto. Scipionci venne incontro sulla banchina, nella sua uniforme di capitano di fregata.Mi rallegrai con lui per la promozione.

«Capitano du Roure al vostro servizio» disse con un profondo inchino.«Sono stato assegnato all’Île-de-France.»

Appena aveva appreso che saremmo partiti per la Francia, aveva fatto inmodo di venire assegnato all’Île-de-France. Mi disse che voleva essermivicino, in quel lungo viaggio, per proteggermi.

«Potreste venire attaccati, sapete. Il viaggio per mare sarà pericoloso. Ilconvoglio trasporta un ricco carico di oro e gioielli, tutti gli oggetti di valoreche i coloni vogliono mandare ai loro parenti in Francia perché licustodiscano. Ma non dovete temere. Farò in modo che non vi accada nulladi male.»

Ci condusse alla nostra cabina, molto piccola, con il soffitto così basso chepotevo a malapena stare in piedi, e mio padre doveva chinare il capo. Nonriuscivo a immaginare come avremmo potuto vivere tutti in quello spazioristretto; perché eravamo in quattro, mio padre e io, Euphemia e la ziaRosette, oltre ai bauli e agli scatoloni. Non ero mai stata a bordo di una nave

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– a dire il vero, non avevo mai lasciato l’isola – e non sapevo che cosaaspettarmi. Avremmo dovuto imparare a adattarci, ma come?

Eravamo in mare da appena due giorni quando ci colpì la prima tempesta. Ilrollare e il beccheggiare della nave ci facevano rivoltare lo stomaco.Sconvolti dalla nausea e sofferenti, ci stringemmo nella cabina, avviliti,continuando a vomitare, senza poter dormire o mangiare. Non mi ero maisentita tanto male. Il medico di bordo venne a visitarci, ma disse che nonpoteva fare nulla: era mal di mare, di cui soffrivano quasi tutti. Ci saremmosentiti meglio una volta passata la tempesta.

Ma la tempesta durò tre giorni, seguita da altre tempeste, senza una tregua fral’una e l’altra. Stringevo la borsetta di erbe e ossa di pollo che portavo alcollo – un amuleto contro la morte per annegamento – e cercavo diinghiottire il brodo caldo che Euphemia mi portava più volte al giorno.Mentre bevevo, però, la nave beccheggiava furiosamente, e il brodoschizzava sul pavimento mescolandosi all’acqua di mare sempre presente.Era inutile. Potevo mangiare poco e quello che riuscivo a mandare giù nonmi rimaneva dentro. Dimagrii. Non osavo guardarmi allo specchio temendoquello che avrei visto.

La quarta settimana di viaggio una fregata inglese attaccò la fregata checostituiva la guardia del nostro convoglio, la Pomona. Eravamo allaretroguardia della lunga linea di vascelli francesi, molte miglia dietro la naveammiraglia, ma sentimmo ugualmente il rombo dei cannoni e vedemmoall’orizzonte il fumo giallognolo. La fregata inglese si allontanò; tuttavia,come mi spiegò Scipion, il nostro convoglio dovette cambiare rotta perevitare di scontrarsi con altri vascelli britannici. Il cambiamento ci portò alatitudini dove le tempeste erano ancora più frequenti. La pioggia e il ventosferzavano la nave, e mio padre, che aveva avuto bisogno di cure costantisin dall’inizio del viaggio, assunse un aspetto mortalmente malato.

Gli misi il mio amuleto intorno al collo, mentre Euphemia mormorava unapreghiera nella lingua africana di sua madre.

«Toglietemi di dosso questa cosa orribile» protestò debolmente mio padreafferrando l’amuleto appeso alla cordicella. «E smettetela con questepreghiere vudù. Se è la mia ora, lasciatemi morire in pace senza riti pagani.»

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Sul petto splendeva la medaglia di san Cristoforo che portava sempre e gliocchi erano ardenti di febbre.

Avrei voluto aiutarlo, ma riuscivo a malapena ad afferrarmi al mio lettostretto e duro, rabbrividendo sotto la coperta bagnata e cercando disopportare la mia nausea e il mio malessere.

Finalmente arrivò una giornata di mare calmo e cielo limpido; la naveacquistò stabilità e alcuni tra i passeggeri più coraggiosi salirono sul ponteper respirare aria fresca. Mentre uscivo barcollando dalla stiva, afferrandomialla ringhiera, mi sembrava di essere stata morta, chiusa in una bara oscura,e di tornare soltanto ora alla vita e alla luce.

Scipion era al suo posto sul ponte, con l’uniforme stirata di fresco, bello esano come non mai. Scrutava l’orizzonte con un cannocchiale.

«Con un po’ di fortuna dovremmo arrivare a Brest fra sei settimane» midisse. «Sempre che non ci si imbatta in altre tempeste che ci spingano fuorirotta. Ditemi, che cosa farete, una volta sbarcata?»

«Immagino che ci saranno ad aspettarci Alexandre e la zia Edmée. Mio padreha scritto avvertendo che stavamo per imbarcarci.»

«E allora vi sposerete.»

«Sì.»

Scipion sospirò. «Dovrà rinunciare a molte cose quando sarà sposato, ilvostro Alexandre. Si sa che ha numerose amanti.»

«Non siete tutti così, voi giovani ufficiali?»

«Alexandre de Beauharnais ci supera tutti.»

«Allora perché ha dovuto cercare una moglie alla Martinica?»

«Perché, mia cara Yeyette, come moglie voleva una fanciulla innocente.Molte delle sue conquiste sono donne sposate. Inoltre, è bene che ungiovane aristocratico si sposi all’interno della famiglia, con una lontana

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cugina o nipote. È tradizione.»

La nostra conversazione venne interrotta dalle grida entusiaste dei passeggeriche avevano avvistato alcuni delfini mentre saltavano e giocavano lungo lanave. Rimanemmo a guardarli, felici della fresca aria marina e del soleabbagliante, camminando avanti e indietro sul ponte per rimettere in moto legambe rimaste a lungo immobili. Per settimane avevo indossato abitibagnati. Soltanto sentirsi asciutti era un gran conforto.

Ci furono altre giornate di sole, ma la pioggia e il vento non si feceroattendere costringendoci a rinchiuderci nuovamente nella cabina. Ritornòanche il mal di mare, sebbene meno forte di prima. Ci sopportavamo amalapena. La nostra buona educazione si affievoliva, litigavamo, ciurtavamo e ci comportavamo come bambini dispettosi. Avevamo semprefame, perché ci nutrivamo di carne avariata e biscotti pieni di vermi. Tutto ilcibo fresco presente sulla nave era stato già mangiato o era andato a male.Per la continua umidità, le pareti della cabina si ricoprirono di una muffaverde, che ci cadeva addosso ogni volta che la nave rollava, peggiorando ilfetore da cui eravamo circondati.

Finalmente, dopo quattro mesi in mare, avvistammo la costa francese. Ilporto era avvolto nella nebbia. Un faro mandava un raggio luminososull’acqua, ma inviava soltanto bagliori intermittenti, e le onde erano alte,troppo perché potessimo sbarcare sulle piccole scialuppe e andare a terra. Sidecise di aspettare la mattina successiva per lasciare la nave.

Quella notte, sdraiata nella cabina maleodorante e buia, a disagio sul lettinostretto, giurai di non passare mai più una sola notte in mare.

Il mattino dopo, tuttavia, non potevo trattenere l’emozione. Presto sarei stataa Parigi! Con l’aiuto di Euphemia indossai l’abito meno stropicciato emacchiato, e mi feci pettinare nel migliore dei modi, per quanto era possibilecon un pettine bagnato. Avevo perso tanto peso che l’abito era troppo largo.E quando mi guardai nel piccolo specchio che mi porgeva la zia Rosette, nonriuscii a trattenere lo sgomento. Il viso era color cenere, le guance, un temporosate e piene, apparivano scavate e scarne. Avevo gli occhi pesantementecerchiati e il petto non si arrotondava più in modo provocante.

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«Sembri sopravvissuta a un naufragio» disse la zia Rosette con un sorrisofurbo.

«In fondo è proprio così. Lo siamo tutti.»

La zia Edmée e Alexandre ci aspettavano sulla banchina. Lei, bella e riposata,i lucenti capelli biondi pettinati in un nodo alto ed elaborato, ornato di fruttie fiori, l’abito di seta lilla disteso su ampi paniers, ci sorrideva dandoci uncaloroso benvenuto. Alexandre invece, rigido e impeccabile nellaimmacolata uniforme bianca e nel cappello a tricorno nero, una lungasciabola al fianco, sembrava indispettito.

«Joseph, Rose, o dovrei chiamarvi Yeyette? Finalmente siete arrivati. Comesiamo felici di vedervi!» La zia Edmée si fece avanti e ci abbracciò concalore, cercando garbatamente di vincere il naturale disgusto verso i terribiliodori che ci portavamo addosso e che il suo profumo non riusciva a coprire.«E anche voi, Rosette. Vedo che indossate ancora il solito abito. Bene, cara,dovremo trovarvene un altro. A Parigi ci aspettano le sarte per il corredo diYeyette. Potranno fare un abito anche per voi.»

Edmée salutò Euphemia con un brevissimo cenno del capo, riluttante ariconoscere un qualunque legame con lei, sebbene Euphemia, figliaillegittima di mio padre, fosse in realtà sua nipote. Nella Martinica parenteledi quel tipo fra Grands Blancs e gente di sangue misto erano molto frequentie venivano riconosciute. Evidentemente in Francia non era così.

Ricambiai l’abbraccio della zia Edmée e mi voltai verso Alexandre che miguardava fisso.

«Dov’è il vostro cappello?»

«Il mio cappello?»

«Nessuna signora cammina sotto il sole senza cappello. Il sole rovina lacarnagione. La vostra è già stata rovinata abbastanza.»

Guardai la zia Edmée, che non sapeva cosa dire. Tra i vari ornamenti dellasua complicata pettinatura si scorgeva in effetti un piccolo cappellino di

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paglia decorato con lillà finti.

«Alexandre, ho appena trascorso quattro mesi nella cabina buia di una nave,soffrendo il mal di mare. Vi assicuro che un cappello era l’ultima cosa di cuiavevo bisogno.»

«Forse avevate maggior bisogno di imparare le buone maniere,Mademoiselle. Non sono abituato a sentirmi rivolgere la parola con tantainsolente franchezza.»

Io lo guardai infuriata. Era quale lo ricordavo, il ragazzo freddo, altezzoso,che criticava sempre gli altri bambini e che tutti detestavamo. Ma c’era unanotevole differenza. Questo Alexandre era alto e molto bello, e lo sdegnonon faceva che aumentare il suo fascino virile. Era difficile credere cheavesse soltanto diciannove anni.

«Tuttavia» aggiunse prendendo la mia mano e portandosela alle labbra senzabaciarla «poiché siete la mia promessa, farò del mio meglio per ignorare lavostra mancanza e mi auguro che vi correggerete presto, così come spero inun miglioramento della vostra carnagione.»

Alexandre chiamò una carrozza e ci condusse a una locanda, dove trascorsiun’ora meravigliosa in un catino di rame pieno di acqua saponata e mangiaipollo fresco e pagnotte di pane bianco senza un solo verme in vista. Gli agi,che meraviglia! Rinfrescata, nutrita e pulita, accolsi Alexandre nella stanzache dividevo con la zia Rosette. Appena entrato, cominciò a passeggiareavanti e indietro, le mani dietro la schiena, il tricorno sotto il braccio.

«La cerimonia si svolgerà domani mattina alle dieci. Tutti i documenti sonopronti. Consumeremo il primo pasto come marito e moglie alla mairie, poipartiremo per Parigi dove ci attendono i banchieri.»

«Non credo che mio padre sarà in grado di viaggiare. Sta molto male.»

«Allora possiamo lasciarlo qui con la vostra cameriera perché si prenda curadi lui. Ci raggiungerà poi quando starà meglio.»

«Non intendo lasciarlo solo.»

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«Farete quello che vi dico.»

«Non sono ancora vostra moglie, Alexandre. Non cercate di darmi ordini.»

La zia Rosette, seduta accanto a me sul divano, tossì e mi diede di gomito.

«Sono certa che tra uno o due giorni mio fratello starà bene» disse cercandodi mettere pace tra Alexandre, sempre più alterato, e me.

«Ah, sì? E se dovesse morire?» Guardò con rabbia la povera Rosette, che sifece piccola piccola sotto quello sguardo duro.

«Come osate parlare in questo modo? È mio padre, che amo profondamentee che vi ha accolto alla Martinica quando eravate bambino. Avete un grandedebito nei suoi confronti. Ora è malato e ha bisogno del vostro aiuto. Nonavete pietà?»

«Perdonatemi, Rose, se vi ricordo che proprio vostro padre era ansioso divederci sposati. Conosce quanto me l’importanza di sistemare il più prestopossibile le questioni legali. È seriamente indebitato e io ho accettato diprestargli diecimila franchi per tacitare i suoi creditori. Ma non posso farlofinché non saremo sposati e non avrò portato il certificato di matrimonio aibanchieri di Parigi.»

Il lungo, imbarazzato silenzio che seguì a quella tirata venne interrotto dallazia Rosette.

«Alexandre, assaggiate un sorso di questo ottimo cognac che il locandiere haportato per noi. Vi calmerà e vi darà forza.»

Lui sollevò la mano in un gesto di rifiuto e si avviò in fretta alla porta. Primadi uscire si voltò verso di me.

«Alle dieci. Saint-Luc-sur-Mer. Manderò la carrozza a prendervi.»

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8Se mio padre non avesse insistito che io eseguissi gli ordini di Alexandre,forse non sarei mai andata nella chiesa di Saint-Luc-sur-Mer e non avrei maisposato Alexandre Beauharnais, risparmiandomi molta sofferenza.

Mio padre tuttavia insistette e mi disse francamente che, senza il prestito diAlexandre, la nostra famiglia sarebbe andata in rovina. Aveva gli occhi pienidi tristezza, e io non riuscii a esimermi dal fare quello che mi chiedeva.Dopo tutto, eravamo venuti in Francia proprio perché potessi sposareAlexandre.

Così indossai il semplice abito bianco che la zia Edmée aveva portato per meda Parigi e il velo di pizzo che mia nonna mi aveva dato prima chepartissimo dalla Martinica, lo stesso che lei aveva indossato molti anniprima, quando era soltanto Catherine Brown di Dundreary e sposaval’aristocratico francese che sarebbe diventato mio nonno. Alexandre mi fecemandare un mazzo di rose di serra alla locanda, perché avessi un bouquetdavanti all’altare.

Ma una cosa la feci da sola, sorprendendo tutti. Mandai un biglietto permezzo del figlio del locandiere all’Île-de-France chiedendo a Scipion divenire al matrimonio. Quando arrivai in chiesa, mi confortò molto vederlo,unico ospite a parte la zia Edmée, la zia Rosette (mio padre stava troppomale per essere presente) e alcuni ufficiali compagni di Alexandre.

Riuscii a resistere durante la cerimonia pensando a mio padre e a quanto loavrebbe addolorato veder fallire gli accordi finanziari stipulati conAlexandre. La voce mi si incrinò mentre pronunciavo i voti nuziali e nonriuscii a guardare Alexandre che pronunciava i suoi. La zia Edmée mi disseche ero bella e che il suono della mia voce nel ripetere la formula era cosìbasso, giovane e dolce che lei aveva pianto.

«Ascoltandoti, non ho potuto non pensare alla tua povera sorella Catherine»mi disse. «Morta così giovane. Era stata lei la nostra prima scelta come sposadi Alexandre. Per età, era molto più adatta di te. Un uomo dovrebbe avere

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almeno cinque anni più della moglie, come dico sempre, e tu ne hai soltantotre meno di lui. Sì, avrebbe dovuto esserci Catherine, qui, oggi. Ma, poichénon ha potuto essere lei, cara Yeyette, sono contenta che sia tu invece. Unasposa così cara e innocente. Un viso così bello. Sono certa che tu eAlexandre avrete molti bei figli.»

Io ero accanto ad Alexandre mentre i suoi amici ufficiali venivano acongratularsi. Uno ebbe la cortesia di chiamarmi “un soffio delle isole” e dibaciarmi la guancia, ma gli altri facevano osservazioni salaci e miguardavano da capo a piedi valutandomi apertamente.

«Spero che ne valga la pena» sentii dire da uno di loro. «Ha un’aria piuttostostanca e nervosa.»

«Per quarantamila l’anno, avrei sposato la figlia del cocchiere!» ribatté unaltro, senza darsi la pena di abbassare la voce.

«È un tesoro inestimabile.» Questo era Scipion, che accorreva in mia difesa.«Posso assicurarvelo. Inoltre è una gentildonna che merita la più grandecortesia.» Mi si mise al fianco e guardò a uno a uno tutti gli ufficiali,fissando infine il viso serio di Alexandre.

«Come potete sapere che mia moglie è un tale tesoro?» gli chiese Alexandrea voce alta, in tono di sfida. «Ne avete fatto l’esperienza personalmente?»

Sentii il gridolino della zia Rosette a quell’osservazione offensiva. La ziaEdmée si avvicinò a noi.

«Signore» disse Scipion «dimenticate chi e dove siete.»

«La mia memoria è perfetta.»

«Ma non la vostra condotta.»

«Vi chiedo di nuovo: avete fatto esperienza personalmente di mia moglie?»

La zia Edmée ci aveva raggiunti.

«Alexandre, calmatevi. Sapete benissimo che vostra moglie è una fanciulla

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casta e innocente.»

«Ho avuto l’onore di conoscere Mademoiselle Tascher alla Martinica» disseScipion. «E il privilegio di offrirle la mia protezione durante il lungoviaggio.»

«Il capitano du Roure ci è stato di grande aiuto» intervenni. «Gli siamodebitori.»

«È così» aggiunse Edmée. «Senza l’assistenza del capitano, il loro viaggiosarebbe stato molto più difficile.»

Alexandre ci guardò tutti a turno scuotendo la testa in un gesto sdegnoso.

«Gente delle colonie!» disse. «Provinciali. Che errore ho commesso!» Siallontanò con eleganza e uscì dalla chiesa, lasciandomi con Edmée, Rosette,Scipion e il mazzo di rose che appassiva tra le mie mani.

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9Alexandre non tornò quel giorno, né il giorno successivo, né quello dopoancora.

«Spesso è petulante» mi disse la zia Edmée. «Gli uomini molto sensibili eintelligenti lo sono. Verrà quando si sarà calmato.»

Il quarto giorno Alexandre entrò con un passo deciso nella nostra cameraalla locanda, cogliendoci alla sprovvista.

«Ho provveduto per il nostro viaggio a Parigi» disse seccamente. «Lacarrozza arriverà a mezzogiorno.» Baciò la zia Edmée sulle guance ma evitòdi guardarmi. «Confido che quell’ufficiale – du Roure, credo? – sia tornatoalla sua nave e che non ci darà più alcun disturbo.»

«Scipion ci ha accompagnate qui dopo che voi ci avete lasciate» risposi.«Gliene sono stata grata. Non mi aspettavo di venire abbandonata il giornodelle mie nozze.»

«E io non mi aspettavo una moglie così deplorevole» fu la gelida risposta dimio marito, che sembrava parlare all’aria mentre si muoveva nella stanza,raccogliendo gli oggetti e gettandoli nel baule aperto della zia Edmée.

«Lasciate stare, Alexandre, lo farà la cameriera» disse Edmée.

«La cameriera tornerà alla Martinica. Non voglio bastardi tra la mia servitù.»

«Come?» La mia domanda riecheggiò nella stanza. «Euphemia non è unabastarda, come dite voi, è mia sorella.»

«Sorellastra» mi corresse Edmée a mezza voce. «E in Francia, nella buonasocietà, non parliamo di queste cose.»

«So benissimo chi è, e deve tornare da dove viene.»

«Allora» mi sentii dire «io vado con lei.»

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«Niente mi farebbe più piacere, credetemi, ma mi è necessario che voirimaniate qui, almeno fino a quando i notai di Parigi avrannodefinitivamente sistemato gli aspetti legali della mia eredità. In seguito poteteandare al diavolo.»

«Non andrò a Parigi, non firmerò alcun documento e non avrò più niente ache fare con voi se mandate via Euphemia.»

Alexandre mi guardò per la prima volta e, per un momento, sulle labbra glisi disegnò un sorriso leggero. Poi scrollò le spalle e lasciò la stanza.

All’avvicinarsi del mezzogiorno, ci preparammo per partire. La zia Edmée miassicurò che Alexandre non mi avrebbe privato dalla compagnia diEuphemia.

«Lo conosco» disse. «Ha parlato senza riflettere. Ma ci ripenserà. Non tiseparerà dalla tua cara Euphemia, in parte perché sa bene quanti guai potresticreargli se lo facesse, e in parte per comprensione. Inoltre, le sue radici,come le tue, sono nella Martinica. Per tanti anni della sua infanzia ha avutouna bambinaia mulatta a cui era molto affezionato. Ha un suo ritratto inminiatura nascosto nel cofanetto dei gioielli, insieme a quello della madre.»

Non vennero rinnovate le minacce di rimandare Euphemia nella Martinica, eio cominciai a prepararmi per il lungo viaggio in carrozza fino a Parigi. Lacittà portuale di Brest era lontana dalla capitale e sapevo che ci sarebbevoluto molto tempo per arrivarci. Ogni giorno faceva più freddo: il mattinol’erba era ghiacciata e il pomeriggio un vento forte scendeva dalle montagne.Ero in ansia per mio padre. Avrebbe avuto la forza di sopportare i continuisbalzi della carrozza durante il tragitto, il cibo scadente e i letti duri dellelocande lungo la strada? Non si era più alzato dal giorno delle mie nozze egiaceva inquieto, senza reagire alle tisane che gli preparava Euphemia perabbassargli la febbre.

Mi sedetti accanto al suo letto. Dormiva, il viso voltato dall’altra parte, e leguance scarne con la rada barba grigia gli davano l’aspetto emaciato di chi èstato ammalato a lungo. Avrei voluto poterlo riportare a casa alla Martinica,dove si sarebbero presi cura di lui fino alla sua guarigione, ma sapevo cheprobabilmente non sarebbe sopravvissuto al viaggio in mare. E inoltre il mio

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desiderio era egoista: volevo tornare alla Martinica per me stessa, perliberarmi di quell’uomo freddo e sprezzante che avevo sposato, per ritrovarela mia vita di un tempo.

Quando arrivò l’ora della partenza, ci arrampicammo sulla grande carrozzapresa a nolo con gli otto cavalli agili e forti, i muscoli saettanti sotto ilmantello lucente, gli zoccoli che battevano sulle pietre fredde del selciato.Guardai mentre Alexandre faceva cenno a Euphemia di non entrare insiemea noi, ma di salire sull’imperiale con i bauli e il suo servitore turco acido erobusto, Balthazar. Lei guardò tempestosamente Alexandre, tuttavia salì contutto il suo peso sul tetto, facendo oscillare pericolosamente la carrozza.

Edmée, Rosette e mio padre, che tremava tutto, si sedettero sui sediliimbottiti e partimmo. Prendemmo la strada di Morlaix, e viaggiavamo daun’ora o due quando mio padre svenne e cadde dal sedile, Alexandre gridòal cocchiere di fermarsi. Qualche sorso di cognac sembrò ridargli forza, masubito vomitò tutto quello che aveva bevuto, insieme con molto sangue.

«Dobbiamo tornare!» esclamai. «Dobbiamo portarlo da un medico!»

«A Milizac» disse Alexandre. «È molto vicino.»

«No!» La forza della protesta della zia Edmée mi stupì.

Interrogai con lo sguardo Alexandre. «È una proprietà qui vicina» risposelui. «So che c’è un medico. Ha curato... qualcuno che conosco.»

«Non fatelo, Alexandre» disse Edmée, con una durezza che non le avevo maisentito.

Alexandre guardò mio padre, il cui sangue macchiava il velluto giallo delsedile. Abbassò il finestrino e si sporse per chiamare il cocchiere.

«Fai scendere la cameriera. Poi portaci a Milizac, più presto che puoi. Uno dinoi è malato. In fretta!»

La carrozza si inclinò da un lato quando Euphemia scese e salì all’internocon noi, sedendo accanto a mio padre per dargli tutto l’aiuto possibile.Piangeva vedendolo così grave, e anch’io ricominciai a piangere.

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La carrozza balzò in avanti e lo slancio dei cavalli mi spinse contro il sedile.Cercai l’amuleto che portavo al collo e lo strinsi. «Ti prego, non lasciare cheil papà muoia» mormorai. Vidi che le labbra della zia Rosette si muovevano,che aveva la testa china e gli occhi chiusi, e compresi che anche lei stavapregando. Euphemia sosteneva il capo di mio padre e gli tamponava lelabbra insanguinate con il fazzoletto. La zia Edmée continuava a guardarecon furia Alexandre, e lui distolse il viso.

Non capivo perché la zia fosse così contraria a recarsi in quel luogo, Milizac,dal momento che Alexandre era certo che ci sarebbe stato un medico. Nonera quello di cui soprattutto mio padre aveva bisogno?

Lasciammo la strada principale per un sentiero di campagna e i cavallidovettero rallentare il passo. La carrozza oscillò e io mi afferrai al sedile perevitare di cadere. Eravamo tutti scossi. La strada si faceva più stretta e siaddentrava in un bosco. I rami graffiavano i fianchi del veicolo e citrovammo ad attraversare un ruscello. Mio padre tossì, poi rimase insilenzio. Aveva gli occhi chiusi e non vedevo alcun battito delle palpebre.Per un terribile momento pensai che potesse essere morto.

«Il cuore batte» mormorò Euphemia in creolo. «Il suo cuore forte batteancora.»

Dovevamo aver viaggiato un’altra mezz’ora, sebbene il tempo scorressemolto lentamente, nella crescente oscurità. Infine uscimmo dal bosco e ciavvicinammo a una grande dimora dalla facciata di pietra, con le finestreilluminate. Quando entrammo nella corte, Alexandre aprì la portiera dellacarrozza, e, balzando agilmente a terra, chiese aiuto. Vennero dei camerieriche portarono in casa mio padre. Sembrava seguissero gli ordini diAlexandre senza fare domande: era chiaro che lo conoscevano ed eranoabituati a obbedirgli.

Ci condussero dentro, dove ci accolse con molta cortesia un servitore inlivrea che ci accompagnanò a una suite invitandoci a metterci a nostro agio.

«Madame si è già coricata, data l’ora tarda e poiché è stata indisposta negliultimi giorni. Mi ha detto tuttavia di dirvi che siete i benvenuti qui questanotte mentre il medico si occupa di Monsieur Tascher. Gli chiederò di venire

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a parlarvi dopo che avrà visitato il paziente.»

Non vedemmo più Alexandre né mio padre, e ci sistemammo accanto alfuoco nella stanza calda, bevendo e mangiando dai vassoi di cibo che cierano stati portati. La zia Rosette si addormentò sulla sedia. Io ero in ansia,preoccupata e a disagio in quella casa estranea. Ero curiosa e volevochiedere alla zia Edmée dove ci trovassimo e chi fosse Madame, ma il suoatteggiamento inquieto, turbato mi trattenne. Inoltre, desideravo sapere comestava mio padre e che cosa avrebbe detto il medico.

Finalmente, dopo un po’, bussò alla porta e ci spiegò che mio padre soffrivadi consunzione ai polmoni e che gli sarebbe stato necessario un lungoperiodo di riposo.

«Nessuna emozione, cibo nutriente e serenità di spirito: ecco di che cosa habisogno il vecchio signore» disse.

«Mio padre non è un vecchio signore. Ha soltanto quarantasei anni» ribattei.

«Davvero? Lo avrei detto un uomo di almeno cinquantacinque o forse dipiù.»

Per alcuni minuti parlammo della vita di mio padre alla Martinica, delle suepreoccupazioni finanziarie e familiari, del rum che beveva in abbondanzaper consolarsi. Quando descrissi il lungo viaggio per mare, il medico annuì.

«Ah, ora capisco. Gli si sono indeboliti i polmoni per l’umidità marina, e ilrum gli ha corroso lo stomaco. Forse con il tempo sarà possibile riparare almale fatto. Adesso voi signore sembrate molto stanche. Dovete riposare.» Loringraziammo e lui si congedò.

Ma dov’era Alexandre? Era la prima notte che passavamo sotto lo stessotetto, come marito e moglie. Eppure mi aveva nuovamente abbandonato,come aveva fatto il giorno delle nostre nozze. Confusa ed esausta, nonsapevo che cosa pensare o che cosa aspettarmi. Nella suite che occupavamoc’erano un salotto e parecchie camere da letto. Ne scelsi una e mi preparaiper la notte. Ma quando mi sdraiai sotto la morbida coperta e chiusi gliocchi, il sonno non venne. Il crepitare del fuoco languente, il soffio del

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vento fuori e soprattutto i miei sentimenti inquieti mi turbavano. La ziaEdmée non voleva che Alexandre ci portasse qui, sebbene, per il suo carofratello, questo significasse avere l’aiuto necessario. Come mai? E dove eraandato Alexandre? Perché non era con me?

Dov’era mio padre? Come stava? Se lo avessi trovato, avrei potuto sedere alsuo capezzale per essergli di aiuto, se ne avesse avuto bisogno.

Alla fine, non riuscendo a dormire e incalzata dalle domande che miassillavano, mi alzai dal letto, e, prendendo la candela, uscii piano nelsalottino e poi nel corridoio.

Era un luogo buio, freddo e silenzioso. Le candele nelle nicchie alle pareti sistavano consumando e davano poca luce. Non vidi un solo servitore mentrecamminavo tra le pareti dai pannelli in legno, sul pavimento irregolare. Tuttoin quella casa mi era estraneo e non assomigliava a quello che avevoconosciuto alla Martinica. Nessuna brezza esterna rinfrescava l’aria viziata.Nessun colore vivace ravvivava l’oscurità dei pannelli di legno. Non c’eranoveloci lucertole che correvano su per i muri né insetti sui tappeti. Soltantobuio e silenzio.

Poi, debolmente, sentii il pianto di un bambino.

Seguii quel suono, che si fece più forte quando mi avvicinai a una porta dacui usciva sul pavimento un raggio di luce dorata. Doveva essere unanursery, pensai. Ci sarebbe stata certo una bambinaia che si occupava delpiccolo. Forse avrebbe saputo dirmi dove potevo trovare mio padre.

Aprii la porta e, con mio grande stupore, vidi Alexandre, in camicia da notte,sdraiato in un grande letto accanto a un bambino che piangeva e a unadonna bionda in camicia da notte di pizzo.

«Rose, che cosa fate qui?»

Per un momento non trovai le parole. «Cerco mio padre» dissi infine.

«Non è con noi. È nella camera accanto.»

Deglutii. «Chi è questa donna? Perché siete nel suo letto?» Avevo parlato

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con voce debole.

«È il mio letto, Rose. Lei è Laure de Girardin, la donna che amo. Mi haappena donato un figlio.» Prese in braccio il bambino piangente. «Eccolo.Tanto vale che voi lo conosciate. Porta il mio nome: Alexandre. Oggi ha tregiorni. Ditemi, Rose, avete mai visto un bambino più bello?»

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10Attraversai correndo i lunghi corridoi fino alla mia camera, e, una volta alsicuro, diedi di stomaco nel catino per l’acqua.

Ero in preda alla nausea e avevo il mal di capo. Mi distesi sul tappeto davantial fuoco e aspettai che il dolore e la nausea passassero.

Allora mi invase la collera. Volevo trovare un coltello, un grosso, lungocoltello da canna da zucchero e fare a pezzi sanguinanti Alexandre e quelladonna odiosa, Laure. Volevo ucciderli con uno sguardo come unquimboiseur. Volevo avvelenare il cibo che senza dubbio prendevano da unsolo piatto, mentre indugiavano nudi nel grande letto.

Immagini di morte mi attraversavano la mente mentre giacevo sul tappeto ele lacrime mi scorrevano lungo le guance. Mi avevano umiliato, mio marito ela sua amante. Non avevano alcun rispetto per me. Non avevano esitato arovinarmi la vita, purché Alexandre potesse avere la sua eredità.

Il pensiero che, per gran parte dell’anno trascorso, quella donna biondaaveva portato in grembo il figlio di Alexandre mi rendeva furiosa. Lui laamava – lei era incinta di un figlio suo – e intanto trattava cinicamente conmio padre per sposare me. Mio padre sapeva di Alexandre e della suaamante? La zia Edmée sapeva. Per questo aveva protestato quandoAlexandre aveva detto al cocchiere di portarci a Milizac. Chi altri sapeva?Mia madre? Mia nonna?

La nausea mi passò ma la rabbia no. Quando Alexandre entrò nella miacamera la mattina successiva, prima che avessi finito di fare toletta, diedilibero corso alla mia collera.

«Come avete osato ingannarmi in merito a quella donna? Come avete osatosposarmi in chiesa, davanti a Dio e ai suoi santi, quando avete già unamoglie, che è tale in tutto salvo che nel nome? Aspettate che lo dica a miopadre! E a Scipion! Mi vendicheranno!»

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Mi strinsi alla vita la veste da camera trasparente, improvvisamenteconsapevole di essere vestita soltanto a metà. Alexandre non mi aveva maiveduto svestita, o con i capelli sciolti che mi ricadevano in lunghe onde sullespalle. Arrossii furiosamente quando lui cominciò a parlare e sentivo diavere le guance in fiamme.

Alexandre si appoggiò a un tavolo, osservandomi freddamente con gli occhigrigi.

«Do la colpa a Edmée» disse. «Avrebbe dovuto prepararvi.»

«Prepararmi a cosa? A essere una moglie legittima e non voluta mentre voiavete già una famiglia con la vostra amante? A venire umiliata?»

«Al vostro ruolo come viscontessa de Beauharnais.»

Non avevo mai sentito pronunciare il mio nuovo nome. Mi colpì.

«Sarò dunque io a istruirvi, poiché nessun altro ha giudicato necessariofarlo. Lezione numero uno: la viscontessa è sempre garbata, di buon umore,con un carattere dolce.»

Si raddrizzò e cominciò a fare lentamente il giro della camera, le bracciaconserte, come se riflettesse, rivolgendosi a me con voce calma.

«Lezione numero due: la viscontessa non fa nulla che possa suscitarediscordia. Non si lamenta. Non critica. È garbata e gentile con tutti,soprattutto con suo marito, che ammira e a cui è grata per il titolo importanteche le ha dato.»

Allora imprecai, ripetendo una volgare esclamazione che avevo sentitospesso al mercato di Fort-Royal.

Alexandre continuò, imperturbabile. «Lezione numero tre: la viscontessanon insudicia mai le sue labbra con un linguaggio volgare. E lezione numeroquattro...» Si avvicinò a me e cercò i nastri che legavano la veste da camera,sciogliendoli finché questa si aprì. Sotto la veste ero assai poco vestita. Misentii come ipnotizzata, incapace di resistere. Mentre lui agiva così, io michiedevo: “Perché gli permetto tanta intimità? Perché non gli urlo di

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smettere?”.

Lui valutò freddamente il mio corpo, poi riaccostò i lembi della veste dacamera.

«A dispetto dei vostri modi rozzi, non siete priva di attrattive. A volte dovròsepararmi da Laure. E, per quanto affetto provi per il bambino avuto da lei,non può ereditare il mio titolo o le mie proprietà. Devo avere un altro figlioe voi dovete essere sua madre. Ecco» concluse «che cosa avrebbe dovutospiegarvi Edmée.» Tacque e alzò un sopracciglio in un’espressioneinterrogativa, come se volesse avere conferma che avessi compreso quantoaveva detto.

Io fremevo ancora di rabbia, ma non era più una collera cieca, furente.Mentre ascoltavo Alexandre, quella collera furiosa era diventata una gelidarabbia.

«Ora vedo» dissi quietamente «che il ragazzo arrogante e odioso che hoconosciuto alla Martinica è diventato un uomo egoista e senza morale. Unuomo che non potrò mai amare e onorare. Mi sono legata a voi, ma lorimpiango. Oh, quanto lo rimpiango! E se un giorno dovessi darvi un figlio,pregherò ogni ora del giorno perché non diventi come voi!»

Alexandre scrollò le spalle e uscì. Io tremavo, rabbrividendo. ChiamaiEuphemia, che mi riscaldò le lenzuola e mi mise a letto con una vescicapiena di acqua calda. Le dissi quello che era accaduto e lei ascoltò roteandogli occhi e facendo schioccare la lingua.

«Gli uomini credono di dominare il mondo» disse scuotendo il capo.«Soprattutto i Grands Blancs.» Rifletté un istante. «Perché non potevatesposare quel bravo Monsieur du Roure, che è stato così gentile con noi sullanave? Forse, dopo tutto, avreste dovuto chiedere un filtro d’amore aOrgulon. Che ne dite?»

«Dico, Euphemia, che non avrei mai dovuto lasciare la Martinica.» Ecominciai a piangere, perché la collera si era mutata in dolore.

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11Quella terribile mattina a Milizac avevo desiderato con tutto il cuore di nonaver mai lasciato la Martinica. Ma poche settimane dopo, quando infinegiungemmo a Parigi e io mi trovai in mezzo alle strade vibranti, chiassose,affollate della città che avevo sognato tanto a lungo, non riuscii a nonsentirmi felice.

Finalmente eravamo a Parigi, percorrendo in carrozza rue Saint-Martin e ruePontchartrain, oltrepassando grandiose dimore o attraversando stradine buie,mentre Edmée e mio padre (la cui salute era migliorata appena eravamoarrivati in vista della capitale) indicavano con grande orgoglio i monumentipiù belli. Ricordo che faceva molto freddo. Dai tetti sgocciolava la pioggia el’acqua scorreva al centro delle strade strette. Edmée disse cheprobabilmente avremmo presto avuto la neve. Non avevo mai visto la neve,essendo sempre vissuta in una calda isola tropicale. Ma sapevo che aspettoaveva dalle illustrazioni dei libri.

Fiancheggiammo la Senna, superando il Pont Neuf e il Pont au Change.Decine di piccole imbarcazioni affollavano il fiume, alcune cariche dicarbone, grano e vino, altre con ceste di biancheria e donne dal viso rossoche battevano vigorosamente i panni umidi contro i fianchi della barca.C’erano mercati zuppi di pioggia in cui si vendevano abiti usati, frammentidi ferro e fiori, e strade piene di bei negozi dove uomini e donne elegantiscendevano da carrozze dorate per entrare a far compere.

Parigi era una città vasta, molto più grande di Fort-Royal: le stradesembravano non finire mai, giravano continuamente, fiancheggiate dapensioni e taverne, bagni aperti tutta la notte e botteghe artigiane, chiese,monasteri e bische. Spesso dovevamo fermarci perché i carrettieri siinfuriavano l’uno contro l’altro o era necessario sgombrare la strada dalletracce di un incidente. Marciavano soldati della Guardia Reale, bagnati dipioggia, le piume dei cappelli afflosciate. In place de Grève era in corso unaesecuzione capitale e si era formata una folla che osservava un uomosottoposto al supplizio della ruota. Il poveretto pendeva inerte dallostrumento di tortura, mentre dal selciato vicino un cantante di strada

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intonava una luttuosa canzone.

«Ecco rue Thévenot» annunciò Edmée mentre entravamo in una stradafiancheggiata da grandi case in rovina. «Il marchese de Beauharnais ha quiun appartamento in affitto.»

«Che cos’è questo odore?» chiesi. L’aria era impestata dal fetore dello stercodi animali e da un altro, fortissimo, che non avevo mai sentito. Era cosìintenso che non avvertivo quello della fogna a cielo aperto al centro dellastrada, o quello della spazzatura ammucchiata in stradine adiacenti.

«Viene dalle concerie» disse Alexandre. «E dalla macelleria non lontano daqui. Non preoccupatevi. Si sente soltanto quando il vento sale dal fiume,vale a dire quasi sempre.»

Tenendomi il fazzolettino profumato sotto il naso, entrai nella casa dovevivevano la zia Edmée e Alexandre, insieme al marchese malato.Un’anticamera poco illuminata portava a una scala di marmo che un tempoera stata grandiosa, ma ora era scolorita, con il marmo scheggiato e ilcandelabro appeso al soffitto sporco e pieno di cera. Una dozzina di servitoridall’aria acida stavano in fila per accoglierci; le donne fecero l’inchino, gliuomini chinarono il capo. Mi sembrava strano vedere servitori bianchi: nonmi abituavo all’idea che in Francia la servitù fosse pallida come i GrandsBlancs. A casa, alla Martinica, tutti i servitori erano africani. E c’era un’altradifferenza. La servitù in Francia non sorrideva, mentre alla Martinica idomestici africani erano calorosi e simpatici, spesso allegri.

Edmée mi portò nel salotto per incontrare il marchese. Sedeva su una grandepoltrona, sorretto da una pila di cuscini, con una gamba distesa che riposavasu uno sgabello. Era grosso in modo grottesco, la testa rotonda quasi calva,con poche ciocche di capelli bianchicci attorno alle orecchie. Gli occhi,quando si posarono su di me, erano penetranti, occhi ai quali non si potevanascondere nulla. Cercò gli occhiali e li inforcò.

«Così giovane» mormorò «così giovane. Venite, ragazza.»

«Ha sedici anni, François, quasi diciassette.»

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Lui annuì. «E che cosa pensate della nostra città, Rose? Non è un luogogrande e imponente?»

«Penso che continui sempre e non si fermi mai. Penso che sia stupefacente.»

Volevo sembrare di buon umore, ma confesso che la cupa casa del marchesemi scoraggiava, ricordandomi che la mia vita come moglie di Alexandresarebbe stata probabilmente infelice. La tristezza doveva essere palese sulmio volto, perché il marchese mi guardò a lungo, poi disse: «Venite asedermi accanto» indicando una sedia bassa. «Edmée, andate ad aiutarevostro fratello e vostra sorella a sistemarsi mentre io faccio conoscenza conmia nuora.»

La gentilezza nella voce del marchese e il suo evidente interesse per mefecero crollare le mie difese. Guardai il vecchio gentiluomo, con il desideriodi aprirgli il cuore.

«Vedo che siete infelice, bambina. Ditemi perché.»

«A causa di Alexandre. Mi umilia, signor marchese. Mi critica sempredicendo che sono ignorante e provinciale.»

«Questi difetti possono venir corretti, mia cara, imparando e conoscendo ilmondo della cultura. Temo tuttavia che l’arroganza e la scortesia di miofiglio non possano venir guarite. Sono troppo radicate in lui. Ma voi aveteconosciuto Alexandre da ragazzo. Sapevate com’era.»

Annuii chinando il capo. «Nessuno, però, quando ho accettato di sposarlo,mi ha parlato di Laure de Girardin, o del bambino.»

«La follia di un ragazzo. Niente di più.»

«Dice che Laure è l’amore della sua vita.»

Il marchese sbuffò. «L’amore della sua vita! Ancora non sa che cos’èl’amore. Se è come me, avrà molti amori, ma soltanto una moglie. Unapresenza affettuosa, stabile, per dargli una casa. Per dargli dei figli. E questamoglie tanto apprezzata sarete voi.» Mi prese una mano. «Venite a dirlo a mese Alexandre è scortese con voi. A me, non a Edmée. Lei lo vizia.»

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«Lo farò, signor marchese.»

«Chiamatemi padre, cara. Voglio essere un secondo padre per voi.»

«Vi ringrazio... padre. Vi sono grata.»

Lui sorrise. «E io vi ringrazio, cara, per essere entrata a far parte della miafamiglia. Per la vostra istruzione dovete parlare con mia cognata Fanny.Scrive. Versi, romanzi, canzoni. Apre il suo salotto ogni giovedì sera a casasua, in rue Montmartre. Io non sopporto di andarci. Troppi poetucoli che sipavoneggiano e si guardano continuamente allo specchio. Ma voi dovresteandare. Imparereste molte cose.»

«Lo farò.»

Alexandre non perse tempo, appena tornato in casa del padre, nel reclamarela propria eredità. Ora che era sposato aveva diritto di ricevere il danaro, chegli sarebbe stato pagato ratealmente ogni anno. Faceva di lui un uomo ricco,e si mise subito a spendere senza economia la sua recente fortuna. Uniforminuove, una bella spada di acciaio di Toledo, una coppia di pistole da duellodecorate in argento inciso e calzoni e panciotti di seta pesante con bottoni dirubino furono tra i suoi primi acquisti, oltre a una nuova parrucca a borsa.Era molto bello quando usciva tutte le sere con la carrozza del marchese perrecarsi a balli e ricevimenti nelle dimore dei suoi amici aristocratici.

Non includeva mai me in queste uscite.

«Siete troppo giovane, Rose» disse nel suo tono più condiscendente quandogli chiesi se potessi andare con lui. «Troppo poco esperta del mondo. Viporterò forse quando sarete più adulta, capirete meglio e avrete più daoffrire.»

«Laure de Girardin viene a questi balli?»

«La cosa non vi riguarda.»

«Al contrario, mi riguarda, e molto da vicino, che voi e Laure siate vistiinsieme. È un’offesa per me.»

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«Come ho detto, siete troppo inesperta per la società parigina.» Si voltò perandare, poi tornò a guardarmi. «Non ha alcuna importanza, ma Laure è aMilizac. Non ama Parigi in inverno. È stata allevata nei Tropici, come voi eme, e la trova troppo fredda.»

Che Laure non accompagnasse mio marito nelle sue visite serali mi diede uncerto conforto, ma rimanevo sempre sola tutte le notti, distraendomi soltantocon lunghissimi giochi di carte in compagnia di Edmée e Rosette. Durante ilgiorno, però, trovai un nuovo delizioso passatempo.

Un pomeriggio Alexandre mi sorprese dandomi del danaro per comprarmiun corredo. Cercai di fingermi abituata a ricevere grosse somme, ma in realtàero emozionata ed eccitata alla vista di tante monete d’oro. Non avevo maiavuto una tale ricchezza. Rimasta sola, scoppiai a ridere e mi divertii agettare in aria le monete, a riprenderle e a farmele tintinnare in mano.

Chiesi a Edmée di portarmi in banca e mandai una parte del danaro a miamadre e mia nonna alla Martinica. Con il resto andai a far compere.

I negozi di rue Desjardins, vicina alla casa del marchese, mi divenneropresto familiari. Nella bottega di biancheria comprai camicie, adattate sumisura per me, ornate di pizzo e ricamate a piccole rose sul corpetto. Nonavevo mai avuto calze fini come quelle che acquistai nel negozio accanto:morbide, sottili, aderivano in modo lusinghiero alle mie gambe ben tornite.Rinunciando a ogni idea di economia o prudenza, comprai scarpette a taccoalto – come quelle che indossava la regina, mi venne assicurato – manicottidi pelliccia per scaldarmi le dita gelate (quell’inverno fu molto freddo) escialli dell’Estremo Oriente in sfumature tenui di verde, beige e crema.

«La signora viscontessa ha un ottimo gusto» mormoravano i commessimentre io sceglievo. «È un piacere servire la signora viscontessa.» Alcuniproprietari erano umili e garbati, altri mi rivolgevano sguardi predatori,calcolando senza dubbio quanto profitto avrebbero tratto dai miei acquisti.Spendevo senza riflettere, senza prudenza, e lo sapevo. Trascinata dallemonete d’oro nella borsetta, continuavo a comprare, senza guardare la cifracomplessiva. Quando le monete finirono, continuai, chiedendo di mandare iconti a mio marito.

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Le meritavo quelle belle cose, mi dissi. Ne meritavo anche di più, comericompensa per il mio matrimonio infelice. Alexandre mi disprezzava e mioffendeva, dunque doveva pagare. Non rinunciavo forse alla mia giovinezzae alla mia libertà? Non sacrificavo la speranza di una vita felice soltanto perlui? Sì, era così. Dunque, lui mi doveva... tutto.

Non posso dire nulla a mia discolpa, se non che ero furiosa e non avevoancora diciassette anni. Mi divertivo a drammatizzare le cose.

Una mattina portai la zia Rosette da una sarta e scegliemmo insieme tre nuovivestiti per lei; uno di seta color crema con una gonna spumeggiante e unafusciacca di raso blu, uno di impalpabile mussola lilla con una scollaturabassa e ruche sulle maniche e uno blu pallido.

«Niente verde» disse con fermezza. «Non voglio mai più indossare il verde.»

Per me ordinai una dozzina di abiti, sebbene ne avessi già molti nuovi. Poiportai la zia dalla modista dove comprammo ognuna un cappello nuovo.Rosette scelse lo stile chiamato “drago”, un cappello rotondo conpassamaneria dorata e piume di pavone. Io volevo un cappellino alla turca,come quelli che, a quanto si diceva, indossava la regina, un cappellinostravagante, simile a un elmo militare, con tre lunghe piume rossicce. Loacquistai e lo indossai nel ritorno a casa, attirandomi molti sguardi curiosi.

Soddisfatta di me e del nuovo cappello, lo misi a cena. Appena mi vide,Alexandre reagì con forza.

«Toglietevi immediatamente quella cosa orribile. Non avete un po’ digusto?»

«Mi piace. Voglio indossarlo.»

«Vi fa sembrare un doccione, con quei vostri occhi sporgenti e il naso privodi finezza. Toglietevelo!»

Io guardai il marchese, seduto a capotavola, sperando che accorresse in miadifesa. Ma si era addormentato. Edmée sembrava a disagio e si agitava sullasedia. Rosette fissava la tovaglia e non alzava lo sguardo.

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«Una tale tragedia per un cappellino» mormorò mio padre.

«La regina ha un cappello come questo» dissi sfidando Alexandre. «Pensateche non abbia gusto?»

«Tutti sanno che la regina getta via i soldi in stupide sciocchezze. Stamandando in rovina la Francia, come voi state mandando in rovina me! Hosulla scrivania i vostri conti della sarta e del mercante di stoffe e tutti gli altriancora da pagare. Non voglio altre testimonianze delle vostre folli spese.Toglietevi subito quel ridicolo cappello.»

Mi alzai da tavola. «Cenerò nel mio soggiorno» dissi, e mi avviai alla grandedoppia porta della sala da pranzo, con le piume che ondeggiavano. Prima diuscire, l’ultima frase che sentii fu quella di Alexandre, pronunciata con vocerabbiosa. «E spero che vi strozziate.»

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12Il giovedì successivo mi recai dalla cognata del marchese, Fanny deBeauharnais, nella sua casa di rue Montmartre. Era una dimora imponente, atre piani, con un portico a colonne e il tetto spiovente. Mi aprì la porta unvalletto in livrea rossa e venni introdotta in un vasto salone decorato contanta ricchezza da darmi quasi le vertigini.

I muri erano tappezzati e le finestre drappeggiate in velluto rosso. I divani egli sgabelli erano ricoperti di un ricco broccato rosso e l’enorme tappetoturco disteso su tutto il pavimento era rosso e oro. Le sovrapporte e ilsoffitto erano ornati da piccoli cupidi in legno dorato, e su ogni tavola ostipetto si trovavano altri cupidi, vasi, statue e scatole ingioiellate. In unangolo del salone troneggiava una grande arpa dorata.

Quell’ostentazione di rosso e oro era così ricca e vivida che io mi sentiiquasi fuori luogo nell’abito di un rosa pallidissimo, fino a quando non mi siavvicinò una donna alta, robusta, avvolta in un velo rosso.

«La piccola Rose, vero? Come siete graziosa! Entrate, entrate, lasciate che vipresenti.»

Fanny de Beauharnais era fantasiosamente vestita in una sorta di costume daodalisca, con una tunica ampia e pantaloni larghi raccolti alla caviglia. Unagiacchetta di un intenso color vino bordata da campanelline dorate chetintinnavano a ogni suo passo completava la sua toletta. Aveva i capelli neritinti, un viso largo, mascolino, dai lineamenti pesanti, e un sorrisocontagioso.

«Rose, ecco Séraphin Lamblin, che questa sera ci leggerà brani del suopoema epico Le coeur sauvage.» Séraphin, alto e snello, si inchinòcompitamente, ma aveva un’aria tormentata, i sottili capelli chiari tuttiscomposti e gli occhi azzurro slavato pieni di ansia.

«Ho smarrito il volume» mormorò a Fanny. «Sono affranto.»

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«Improvvisate, improvvisate» lo incoraggiò calorosamente lei, prendendomiil braccio e guidandomi in un’altra direzione. Due uomini, vestiti entrambi inpanciotto e pantaloni color argento, sollevarono l’occhialino e miguardarono.

«Henri e Bernard» disse Fanny. «Li chiamiamo gli “Inseparabili”. Entrambipoeti, pensate un po’. Non apprezzati al loro giusto valore, mi duole dire.»

«Non credo, Fanny» rispose uno dei due uomini con un’aria piccata.«Hanno parlato di noi nella “Revue des Inconnus”.»

«Recensioni poco lusinghiere, se non ricordo male» ribatté bruscamenteFanny. «Ma forse le prossime saranno più favorevoli.»

Continuò a condurmi per il salone, che diventava sempre più affollato,presentandomi a questo e a quello, indicandomi critici e accademici,romanzieri e qualche musicista. Gli uomini, osservai, erano molto piùnumerosi delle donne e vestivano modestamente, a eccezione di qualchearistocratico che si distingueva per l’abito costoso, i bottoni gioiello e laparrucca elegante, appena uscita dalla bottega del parrucchiere.

Mi unii a una cerchia di persone che stavano parlando di teatro.

«Qualcuno ha visto Vestris l’altra sera?» chiese una donna in un abitosemplice, tutto bianco, con una corona d’alloro tra i capelli. Attorno al colloaveva un gatto d’angora bianco. «È caduto in mezzo al palcoscenico! Tuttisono rimasti turbati, si intende. Ho visto una donna svenire. Hanno dovutoportarla fuori. Poi lui naturalmente si è ripreso. Ma hanno dovuto sostituirlo.Non si dica mai che il teatro a Parigi non è drammatico!»

«Io preferisco Talma a Vestris» disse con voce strascicata un uomo cheFanny mi aveva indicato come un importante critico. «Qualcuno di voi havisto il suo Bruto? L’interpretazione migliore della stagione.»

Continuarono parlando di questo o di quell’interprete, citando nomi che mierano ignoti. Sembravano concordi nell’affermare che i testi teatrali delgiorno erano mediocri.

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«E questo che importanza può avere» chiese un nuovo venuto «quando tantagente muore di freddo quest’inverno? Negli ospedali non c’è posto per tutti imalati, anche se ne ricoverano perfino sei in un solo letto. E sesopravvivono al freddo e alla malattia, muoiono di fame. C’è la carestia aParigi quest’inverno.»

«È un bene che le arti sopravvivano, per quanto dura diventi la vita» disse ladonna con il gatto.

«Per voi è facile affermarlo» ribatté un uomo con il panciotto strappato e icalzoni consunti che rivelavano chiaramente il suo personale stato dipovertà. «Voi avete tanta legna da durarvi per tutto l’inverno e la dispensaben fornita. Probabilmente io vivrei l’intero inverno con quello che date alvostro gatto. Ma migliaia di persone non sanno dove andare! A loro l’arte diche utilità può essere?»

«La bellezza fortifica lo spirito» disse qualcuno.

«La bellezza è inutile fino a quando un governo corrotto e un re fannullonesoffocano ogni tentativo di riforma.»

Mentre ascoltavo la conversazione, che si faceva sempre più accalorata,aspettavo l’occasione per prendervi parte. Questa si presentò quando unodegli uomini cambiò argomento, dicendo che stava cercando di pubblicareun romanzo, Anime tormentate.

«Vorrei sapere se ho anche soltanto una piccola probabilità» disse con ariamalinconica.

«Ve lo possono rivelare i tarocchi» intervenni prendendo dalla tasca del mioabito il mazzo che portavo sempre con me. «Volete che li legga per voi?»

Lui esitò. Gli altri tacquero, sorpresi e incuriositi.

«Sì, d’accordo» disse il romanziere.

Sedemmo a un tavolo da gioco e io cominciai a distribuire le carte. Siradunò una piccola folla. Da anni leggevo la fortuna. Euphemia mi avevainsegnato a interpretare i tarocchi quando ero bambina e avevo spesso

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osservato gli indovini nella piazza del mercato a Fort-Royal.

«Questa è la carta di un nuovo inizio» dissi. «State iniziando la ricerca di uneditore. Però incontrate forti opposizioni. Forse un autore rivale. Sì. Vedo unrivale geloso, qualcuno che agisce alle vostre spalle per togliervi ognipossibilità. Qui vedo un’altra figura.» Continuai. «Qualcuno che ha moltainfluenza. Forse una donna. Conoscete qualcuno così?»

«Ho incontrato la cognata del re. Ama i romanzi.»

«Potrebbe aiutarvi?»

«Forse.»

«E vedo soldi. Molti soldi. Che vi fluttuano attorno. Non vedo se vengonoverso di voi o se siete voi a pagare molto danaro.»

«Potrebbe darsi» chiese una voce sardonica che veniva dalla piccola folla diosservatori «che vediate una grossa somma pagata a voi per leggere lecarte?» Il commento provocò grandi risate alle quali mi unii.

«Io non predico il futuro per danaro. Questa lettura è finita. Buona fortuna,signore. Chi altro vuole farsi leggere le carte?»

La mia offerta venne subito accettata. A uno a uno gli ospiti sedettero altavolo chiedendomi di trovare la risposta alle loro domande. Metteranno inscena il mio dramma? Tornerà da me il mio amante? Avrò presto la miaeredità? Come alla Martinica, le carte venivano interrogate in meritoall’amore, al danaro, al successo.

Andai avanti fino a quando Fanny annunciò che era tempo per SéraphinLamblin di leggere il suo poema epico. Mi rimisi in tasca il mazzo e sedettiad ascoltare. La stanza si fece silenziosa mentre lo smunto Séraphin, convoce tremante, leggeva i suoi alessandrini. Allora non sapevo valutare lapoesia – neppure adesso la giudico con particolare acume – ma sono certa,ripensandoci, che Le coeur sauvage non fosse un’opera di valore. Gli ospitiseduti attorno a me soffocavano educatamente gli sbadigli e si lanciavanosguardi di malcelata noia. Dopo una mezz’ora Fanny si alzò, interrompendo

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Séraphin, e diede il via agli applausi. Altri si unirono a lei, battendo le maniper un senso di sollievo, forse, più che di ammirazione.

Era ormai tardi e gli ospiti cominciavano a prendere congedo, ringraziandoFanny della serata e promettendo di tornare per la successiva. Decisi cheanch’io dovevo andare. Tuttavia, mentre indossavo il mantello e i guanti emi preparavo a uscire, molti di quelli ai quali avevo letto le carte vennero dame e, ringraziandomi, mi fecero scivolare in mano delle monete.

«Non è un pagamento, soltanto una testimonianza di gratitudine» sussurròuno di loro. «Vi prego, vogliate accettare questa piccola somma» disse unaltro. Tutti accompagnavano il danaro con una frase garbata. All’iniziovolevo restituirlo, perché non avevo mai pensato di farmi pagare per leggerei tarocchi. Poi però mi dissi: “Perché non accettare? Posso mandare i soldialla mia famiglia alla Martinica o darli a mio padre perché paghi i debiti”.Così, ringraziavo con un sorriso garbato e facevo scivolare le monete nellatasca dell’abito, insieme al mazzo di carte.

«Avete avuto molto successo questa sera» mi disse Fanny, mentre misalutava. «Quando François mi ha parlato di voi, non mi ha detto cheavevate dei talenti nascosti.»

«Non lo sa. Non ho letto le carte per nessuno nella famiglia di Alexandre. Soche Alexandre sbufferebbe e mi criticherebbe se mi vedesse predire ilfuturo.»

«Noi mogli dobbiamo sopportare molte cose» disse Fanny. Aveva parlatocon leggerezza, ma negli occhi si leggeva la sofferenza. «Io ho deciso già damolti anni di non sopportare più e mi sono separata da mio marito. Da allorasono stata ben più felice.»

Non sapevo che cosa rispondere, perciò rimasi in silenzio. Da quando erovenuta a Parigi, avevo sentito parlare spesso di coppie separate. Il marcheseera separato dalla moglie. La zia Edmée dal marito. Molte delle sue amicheerano separate o stavano chiedendo una separazione. L’elenco era lungo.

«Spero di rivedervi il prossimo giovedì» disse Fanny. «Verrete?»

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«Con piacere. Sarà una gioia aspettare quel momento.»

La settimana successiva ero nuovamente nella casa di rue Montmartre all’orastabilita. Indossavo l’abito più colorato che avevo, un modello elaborato inbroccato rosa ricamato d’oro, con la scollatura molto bassa, e un paio diorecchini che mi aveva prestato la zia Edmée, con grandi diamanti gialliscintillanti a ogni mio movimento.

Molti si voltarono a guardarmi quando entrai nel salotto di Fanny, equell’attenzione mi fece piacere. Gli ospiti che avevo conosciuto nella serataprecedente vennero a salutarmi e a chiedermi, con molto riserbo, se avessicon me il mazzo di tarocchi. Lo presi dalla tasca e sentii sospiri di sollievo.Dopo aver trascorso qualche tempo conversando, andai al tavolo da giocodove mi ero seduta la settimana precedente e chiesi: «Chi vuole farsi leggerele carte?».

Ancora una volta ottenni grande successo. Per più di un’ora lessi le carte erisposi alle domande, diedi suggerimenti e feci commenti in merito a quelloche vedevo nel futuro dei diversi ospiti. La cerchia di quanti osservavano sifece più numerosa. A volte si levava una voce scettica, ma in generale mitrattavano come un oracolo, un essere dotato di poteri speciali. Quando fecisapere che avevo acquistato quel talento alla Martinica, il rispetto che micircondava aumentò.

«La Martinica!» disse qualcuno. «Dove sono tutti ricchi.» «Ma non sono tuttiafricani là? Non hanno la seconda vista? Non è là che di notte passeggiano idemoni?»

Scoprii che un’aura di mistero circondava il mio paese natale. Bastavasoltanto pronunciare il nome “Martinica” e negli occhi della gente siaccendeva una luce di rispetto e timore. Si credeva che i coloni francesi chevivevano là fossero favolosamente ricchi e che l’isola stessa fosse un luogodi magia e di meraviglie.

Avevo appena finito di leggere le carte quando sentii una voce familiare.

«Può mai trattarsi del mio piccolo Uccello del Paradiso?» Alzai lo sguardo...e incrociai gli occhi grigi di Scipion.

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Balzai in piedi e lo abbracciai. Sembrava fosse passato un secolo da quandoci eravamo visti l’ultima volta, il giorno delle mie nozze, sebbene fosserotrascorsi in realtà soltanto pochi mesi. Abbandonando la lettura dei tarocchi,trovai un angolo tranquillo dove Scipion e io potessimo parlare indisturbati.

Avevo tante cose da dirgli, su Alexandre e Laure de Girardin, sulla miamonotona vita in rue Thévenot, su quanto rimpiangevo di aver sposatoAlexandre. Lui a sua volta mi parlò del suo matrimonio imminente, della suapromozione e di un posto che conosceva, vicino al Pont Neuf, dove sipotevano incontrare i veri parigini e osservare di prima mano l’autenticacapitale.

«Venite, Yeyette, lasciate che vi conduca là. Da quanto tempo non vidivertite?»

Da troppo tempo. Accettai di andare con lui. Ridendo come bambini ribelli,salimmo nella carrozza di Scipion e ordinammo al cocchiere di portarci alfiume.

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13«Notte, dolce notte, sii propizia agli amanti» cantava Scipion mentre lacarrozza ci conduceva lungo le antiche strade buie e i viali illuminati dalletorce, verso i quais della Senna. Quell’anno la canzone era molto popolare,la sentivo intonare dai cantori di ballate per le strade e anche i camerieri delmarchese la canticchiavano. Quando giungemmo al Pont Neuf, scendemmodalla carrozza e Scipion mi condusse, giù per una vecchia scalinata, a unpiccolo caffè sulle rive del fiume.

All’interno c’erano chiasso e risate. Uomini con il camiciotto dei pescatori elavoratori del porto sedevano a lunghi tavoli bevendo. L’orchestrina suonavauna vivace musica campagnola e alcune coppie danzavano. La saletta erailluminata fiocamente, l’aria era piena di fumo e io non riuscivo a vederebene. Urtai contro qualcosa mentre ci avviavamo a una panca per sederci.Voltandomi, vidi di avere toccato con il piede la gamba tesa di un ubriaco,che giaceva bocconi sotto un tavolo.

Si sentì una gran confusione a un tavolo vicino, dove un uomo si era alzatocon una fiasca in mano. Gridava qualcosa in una lingua che non capivo.Altri al suo stesso tavolo accolsero le sue grida con grandi applausi eagitando le fiasche.

Guardai Scipion. «Che cosa stanno dicendo?»

«Non lo so. Non conosco il fiammingo. Sono barcaioli delle Fiandre chefanno la spola tra Parigi e i Paesi Bassi. Hanno le barche attraccate propriosotto di noi. Appena la marea sale, ripartiranno. Calvados!» ordinò alcameriere che si avvicinava. «Vi piacerà» mi disse. «È grappa di mele. Moltodolce. Molto forte.»

Intorno a noi i tavoli e le sedie venivano spinti contro il muro per fare postoalle danze. Ci portarono una bottiglia di un liquido dorato e levammo i calicialla “notte, la dolce notte”.

«Arrivano i cosacchi!» esclamò qualcuno e subito entrarono cinque o sei

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uomini biondi, robusti, in lucenti camicie bianche, larghe fusciacche rosse estivali neri. Tutti li salutarono con grida di entusiasmo. «Cantate, ballate pernoi!» gridavano i clienti, e i russi, dopo aver bevuto, si misero al centro dellasaletta e iniziarono a cantare e battere le mani.

I musicisti tacquero quando i russi iniziarono una melodia lenta, triste.Avevano voci forti e dolenti, con una nota di nostalgia. Progressivamente ilritmo della canzone accelerò e tutti nella sala battevano ormai le mani atempo, mentre i russi intrecciavano le braccia tra loro e cominciavano adanzare, gli stivali neri che si alzavano e ricadevano all’unisono. Non avevomai visto tanto roteare e scalciare e curvarsi e saltare. Contorcevano il corpoin modi impossibili, si tenevano in equilibrio appoggiati soltanto suicalcagni, lanciando in alto le gambe al ritmo della musica. Infine, dopoun’ultima selvaggia esplosione di danza acrobatica, gridarono forte el’esibizione finì.

Gli applausi furono tali che mi parve di sentire oscillare la saletta, benchépotesse trattarsi dell’effetto della grappa di mele. Guardai Scipion, cherideva.

«È così tutte le sere» disse cercando di farsi sentire in mezzo al chiasso dellevoci e agli applausi. «C’è sempre qualcosa di eccitante. Ci vengono attori eanche cantanti dell’Opéra. E si esibiscono se la folla lo chiede. Una sera c’eraqui Vestris e ha ballato per i barcaioli e i cocchieri.»

«Come si chiama questo posto?»

«Café Lestrigal. Il nome è dipinto a grandi lettere blu all’esterno, ma non sivede bene nel buio.»

Scipion e io rimanemmo a lungo al Café Lestrigal. Era eccitante quel mondodi follia e amicizia chiassosa. Scoppiò una rissa e dovettero portare fuoriuno degli uomini, con la testa e una mano sanguinanti. Prostitute in vistosiabiti di poco prezzo passeggiavano davanti all’ingresso, benché nessunaentrasse. Il proprietario non lo permetteva, disse Scipion. Tra i canti degliubriachi e le risate e gli scambi di insulti ferveva anche la conversazione.Sentii molti uomini che parlavano delle condizioni del mondo.

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«Tutto va a rotoli» diceva uno. «La fine è vicina.»

«Non essere sciocco. Non c’è una fine. Sono soltanto frasi nella Bibbia.»

«Quando Mercurio è in trigono con Giove e Saturno è opposto al Leone, èun segno sicuro della fine. Guardati attorno. Le cose vanno meglio opeggio?»

«Per me, meglio. Ho una nuova amante, succosa come una pera matura.»

Scipion e io ridemmo di questo scambio di frasi e bevemmo ancora un po’del delizioso calvados.

«Non riesco a immaginare Alexandre che si diverte in un posto così» dissiinfine. «È troppo schizzinoso. Questa gente rozza lo disgusterebbe.»

«Alexandre si trova molto meglio con le donne che con gli uomini, comecredo di avervi detto una volta.»

«Avevate ragione.» Mi colpì improvvisamente un pensiero. «Scipion, nonpotreste nascondermi a bordo di una delle vostre navi e riportarmi allaMartinica? Alexandre dice spesso che non gli importa dove vado o che cosafaccio. Dice che posso anche andare al diavolo. Certo posso andare almenoalla Martinica.»

«E che cosa fareste una volta arrivata? Non credo che Alexandre vimanderebbe una rendita mensile. Sareste sposata, questo sì, ma non avresteda vostro marito nulla con cui vivere. E senza dubbio esigerebbe che vostropadre gli restituisse tutto il danaro che gli ha prestato. Probabilmente siimpadronirebbe della piantagione. E allora voi dove vivreste?»

Scossi la testa. «Se soltanto potessi vivere in una capanna sulla spiaggia emangiare pesce, granchi e i frutti della giungla...»

«E predire il futuro.»

«Sì.»

«No, cara, siete troppo bella per tornare alla Martinica e invecchiare sulla

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spiaggia. Pensate se venisse una tempesta!» Sapevo che si burlava di me. Masubito negli occhi si accese una luce più seria. «Mi chiedo, Yeyette, secomprendete come eravate attraente questa sera, nel salotto di Fanny deBeauharnais. Eravate una boccata d’aria fresca in mezzo a quei poeti daquattro soldi e a quei cinici snob. Avete qualcosa di grande valore da offrirequi a Parigi, qualcosa di raro. Siete autentica. Portate con voi i forti ventidell’isola. Credetemi, avrete molto successo.»

«È quello che mi ha detto Fanny.» E anche quello che mi aveva dettoOrgulon, ricordai. Che il mio futuro era oltre le acque. Che un giorno sareistata una persona importante.

«Ascoltate Fanny. È una grande osservatrice. Non le sfugge nulla.»

Era quasi l’alba quando Scipion mi accompagnò alla casa del marchese inrue Thévenot. Gli uccelli non erano ancora svegli, ma i primi carri dicarbone e legna si trascinavano nelle strade.

«Buonanotte, cara Yeyette. Pensate a quello che vi ho detto.»

«Buonanotte, Scipion.»

Mi diede un rapido bacio sulle labbra, poi mi accompagnò alla porta, chevenne aperta da un valletto assonnato.

Non avevo pensato che restare fuori così a lungo avrebbe potuto avere delleconseguenze. Il marchese e la zia Edmée sapevano che ero andata nel salottodi Fanny e approvavano la cosa. Alexandre non chiedeva mai dov’ero o checosa facevo e, dal momento che lui stesso rimaneva in genere fuori tutta lanotte, non avevo pensato che potesse essere a casa, ad aspettarmi, quandotornai alle cinque di mattina.

Ma ero appena entrata in anticamera quando lo vidi, furibondo, ancora inabito da sera, appoggiato allo stipite della porta che conduceva nel salone.

«Sapete che ore sono, signora?»

«No, a essere sincera, non lo so» mi sentii rispondere e compresi dipronunciare male le parole.

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«Vedo che avete bevuto troppo vino.»

«Era calvados, in realtà, e davvero delizioso.» Cominciai a salire le scale, perandare nella mia camera, ma Alexandre mi fermò.

«Entrate là» disse indicando il salotto. «Non ho finito di parlarvi.»

«Sono stanca. Potete parlarmi domani mattina.»

Lui si avvicinò e mi prese per un braccio. «Mi ascolterete adesso.» Parlava adenti stretti.

Sospirando, lo seguii nel grande salotto dove il fuoco si stava spegnendo.

«Sedete.»

Obbedii sentendomi di colpo stanchissima.

«Dove siete stata?»

«Al Café Lestrigal, vicino al Pont Neuf.»

«Un caffè da barcaioli?»

«Sì, penso si possa dire così. C’erano molti barcaioli.»

Alexandre strinse gli occhi. «Eravate sola?»

«Avevo una scorta. Qualcuno che conoscete. Scipion du Roure.»

«Il vostro amante.»

«Scipion e io non siamo mai stati amanti.»

«Non dovete vederlo mai più. E non dovete mai più disonorare questafamiglia andando in posti malfamati.»

«Come fate voi.»

«Dove vado io non vi riguarda.»

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«Adesso vado a coricarmi.» Mi alzai, ma ancora una volta Alexandre miprese per un braccio. Sentivo l’odore del vino che aveva bevuto. I suoiocchi erano iniettati di sangue e respirava a fatica.

«Ci coricheremo insieme. È tempo che diventiate mia moglie. Se il vostroamante du Roure si diverte con voi, perché non dovrei farlo anch’io?»Parlava di amore, ma il tono della voce era furioso.

Tenendomi sempre per il braccio, mi portò nella sua camera, dove non eromai stata prima. Alte librerie incorniciavano il camino, piene di libri rilegatiin cuoio, con i dorsi decorati in oro. Su un’altra parete era appesa unapanoplia all’antica: spada, corazza, guanti ed elmo, intarsiati di argento ebronzo. Su una terza parete si trovava il ritratto di una giovane donnabionda, che immaginai fosse Laure de Girardin, con un bambino in braccio.

Alexandre mi spinse nella camera e chiuse la porta a chiave. Poi, togliendosiin fretta la giacca, il panciotto e la camicia e sfilandosi gli stivali, ringhiandoe faticando perché erano molto stretti, cominciò a strapparmi i vestiti. In unistante il bell’abito rosso giaceva a brandelli ai miei piedi, la sottogonnastrappata mi era rimasta appesa alla vita, la camicia era aperta. Mi spinse sulletto e mi tenne ferme le braccia, perché io lottavo per liberarmi, mentrefiniva di svestirmi.

Tutto questo non assomigliava all’amplesso piacevole, naturale con ilragazzo bruno alla Martinica. Quella di Alexandre fu una conquista, unarabbiosa conquista. Mi aprì le gambe e mi penetrò fino a farmi gridare didolore. A occhi chiusi, attento soltanto al suo piacere, consumò in frettaquella barbarie. Con un grugnito animalesco si sollevò da me e crollò sulletto, esausto per lo sforzo.

In lacrime, sofferente, furiosa al punto che avrei voluto strappare dal muroquella vecchia spada e trapassare Alexandre, mi alzai dal letto e corsi versola porta. Era chiusa. Alexandre mi aveva intrappolato. Ma non era statoattento alle chiavi. Le trovai sul tappeto, accanto agli stivali, il metalloscintillante alla luce del fuoco. Le presi, poi tirai la coperta del letto finchénon venne via. Avvolgendomela addosso, aprii la porta più in fretta chepotei e corsi per il corridoio, oltrepassando una cameriera stupefatta chepuliva le scale, inginocchiata.

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Trovai la mia camera e mi rifugiai là dentro con un senso di gratitudine.Ansante, spaventata e piena di dolore, andai al bacile e lo riempii di limpidaacqua fresca della brocca. Avrei voluto fare un bagno. Liberarmi di ogniricordo di Alexandre, anche dell’odore del vino che mi si era incollato alcorpo. Ma non osavo svegliare Euphemia perché mi portasse il catino diferro e l’acqua calda dalla cucina. Non volevo doverle dire che cosa eraaccaduto. Non ancora. Avevo bisogno di tempo per riprendermi. E perprogrammare la mia vendetta.

In quel momento riuscivo a pensare soltanto alla vendetta. A come punireAlexandre per avermi brutalmente stuprato, per il suo disprezzo e per averdistrutto il mio sogno d’amore. Perché mi aveva mostrato, in pochi orribilimomenti, come la preziosa unione di due corpi potesse diventarevergognosa e come la dolcezza dell’amore potesse venir mutata, con la forzae il terrore, in un temibile inferno.

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14Non accettavo l’idea di affrontare Alexandre dopo quello che mi aveva fatto.Rimasi nella mia camera tutta la mattina, dormendo e immergendomi in uncatino di acqua insaponata. Poi lessi fino a metà pomeriggio e infine, quandonon potevo più ragionevolmente rimandare il momento, scesi, sperando dinon dover vedere mio marito. Quando la zia Edmée mi disse che Alexandreera partito per raggiungere il suo reggimento a Brest, mi sentiiprofondamente sollevata, soprattutto quando aggiunse che non sarebbetornato prima di un mese, forse di più.

In capo a un mese, ebbi la certezza di portare in grembo il figlio diAlexandre. Euphemia non aveva dubbi. Appese un ditale a una cordicella eme lo tenne sopra la pancia.

«Se gira verso sinistra sarà un bambino, verso destra una bambina» disse.Affascinata, io guardavo il ditale d’argento che girava e vorticava, come sefosse incerto sul segnale che doveva dare. Infine, cominciò a girare in uncerchio ampio, verso sinistra.

«Un bambino, dunque» sentenziò Euphemia. «Bene. Se date un maschio adAlexandre, probabilmente vi lascerà in pace.»

Dissi a Euphemia della brutalità che avevo subito da Alexandre. Lei scosse ilcapo.

«Gli uomini sono così, soprattutto quando hanno bevuto troppo. Ciconsiderano i loro giocattoli. Si servono di noi come vogliono. Noi nonabbiamo alcuna importanza per loro.»

Ma sapevo che le sue parole non erano vere per tutti gli uomini. Non eranostate vere per il ragazzo bruno, o lo erano state? Aveva giocato con me, miaveva portato a desiderarlo. E poi mi aveva rubato la verginità.

«Non voglio vederlo mai più, Euphemia.»

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«Lo volete morto? Ho un incantesimo per questo.»

«Non voglio ucciderlo, semplicemente non voglio più vederlo.»

«In ogni caso, non lo vedrete per qualche tempo. Ho sentito dire da vostrazia che forse andrà in un paese lontano, chiamato Italia.»

Infatti Alexandre partì per l’Italia e vi rimase molti mesi. Non tornò neppurein tempo per assistere alla nascita di nostro figlio. Lo chiamai Eugène-Rose,felice della sua forza e della sua salute. Era un bambino robusto, vivace, conle guance rotonde e colorite e gli occhi luminosi. Sembrava accogliere congioia il mondo e sentircisi perfettamente a suo agio. Lo amavo con tutto ilcuore e mi sentivo sollevata vedendo che assomigliava a me e non adAlexandre.

Mio padre e la zia Rosette erano entusiasti dell’arrivo del piccolo Eugène esembravano pensare che ormai, dopo la nascita del bambino, ogni lororesponsabilità fosse cessata. Potevano tornare alla Martinica. Li abbracciai ilgiorno in cui partirono per la costa, in attesa della nave che li avrebbe portatinel lungo viaggio per mare. Sentivo di avere perso qualcosa di moltoprezioso e soffrivo. Sebbene nessuno di noi esprimesse un tale pensiero,sapevamo bene che forse non ci saremmo mai più rivisti.

«Cerca di compiacere Alexandre, Rose» mi disse mio padre. «Sii come luivuole. Quando vedrà che madre affettuosa sei, forse avrà una miglioreopinione di te.»

La zia Rosette pianse e mi accarezzò la guancia. «Mandami delle riviste dimoda, cara» disse soltanto. «Voglio sapere che cosa si porta a Parigi.» Lepromisi che le avrei mandato i modelli più recenti. Poi salì in carrozzaaccanto a mio padre e partirono.

Alexandre era lontano da tanto tempo che cominciavo a chiedermi sesarebbe mai tornato. Il marchese prese in affitto un appartamento in unquartiere migliore, vicino alla chiesa di Saint-Philippe du Roule, e cisistemammo là, felici di non dover vivere giorno e notte con il fetore dellaconceria. La nuova casa, poi, non era lontana dall’abitazione di Scipion, cheogni tanto veniva in visita da me. Il vecchio marchese aveva molta simpatia

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per lui, e anche a zia Edmée piaceva.

La vita scorreva in modo abbastanza piacevole mentre Alexandre eralontano. Il mattino la bambinaia mi portava Eugène e io lo conducevo ingiardino, ben coperto per ripararlo dal freddo. Il pomeriggio andavo a fareacquisti o mi recavo da Fanny, che era diventata un’amica molto cara espesso ospitava gente interessante, anche quando non era la sera del suosalotto. Qualche volta uscivo in carrozza. Il marchese mi permetteva di usarela sua. Mi piaceva mettermi un bel vestito e andare nei parchi alla modadove, il pomeriggio, si riunivano le persone importanti della società parigina.Ero molto audace e cavalcavo da sola senza chaperon o scorta, ma Edméeera contraria. Io mi limitavo a ridere e a dire che, se mio marito miabbandonava per andare in Italia, doveva aspettarsi che io mi abituassi avivere da sola.

Eugène aveva quasi un anno quando Alexandre ritornò. Con me era gelido,ma del bambino era molto felice, e il piccolo gorgogliava, balbettava e giàdiceva le prime parole.

Alexandre prese in braccio Eugène e gli fece fare il giro della casa,dichiarando che era un bellissimo bambino e gli assomigliava molto. (Sisbagliava in questo, ma io non lo smentii.) Mentre lo guardavo con nostrofiglio, non potevo non interrogarmi sull’altro bambino, il figlio di Laure deGirardin. Dov’era ora? Si sarebbero mai incontrati lui e il nostro Eugène?

Alexandre aveva portato con sé bauli interi di opere d’arte italiane. Statue dimarmo di fauni e ninfe per il giardino, un antico busto di Pompeo, ritrovatoin un luogo chiamato Ercolano, e un mosaico di delfini danzanti provenienteda una villa di Roma antica. C’erano poi molti dipinti, anneriti dal tempo ebisognosi di restauro. E infine un altro oggetto, il più importante:un’antichissima corazza di cuoio che, sosteneva Alexandre, era stataindossata da Giulio Cesare in persona.

«Come sapete che è stata indossata da Cesare?»

«Perché me lo ha assicurato l’antiquario, che ha una reputazioneimpeccabile. Ha venduto importanti opere d’arte antica a collezionisti moltonoti e, tra questi, al duca de la Rochefoucauld.»

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Il duca aveva introdotto Alexandre nel reggimento della Sarre e lo avevaspesso ospitato nella sua proprietà. Agli occhi di Alexandre era una sorta didivinità, un uomo che andava imitato in tutto.

«Immagino l’abbiate pagata molto» osservai indicando quelle strisce dicuoio grigiastro.

«Posso dirvelo: quasi cinquemila lire.»

Sbarrai gli occhi. Non sapevo che quegli oggetti della Roma antica potesserovalere tanto. Naturalmente era il nome di Cesare a dargli valore, era la suaaura di grandezza, non contava la vecchia corazza di cuoio in se stessa.

«Tanto! Con quella cifra ci saremmo potuti comprare una casa tutta per noi.»

«Io sono felice di vivere con mio padre e con Edmée.»

Ma compresi benissimo, poco tempo dopo il suo ritorno, che non era felice.Era inquieto, camminava in continuazione nelle stanze della nostra suite,alzandosi spesso, la notte, e tenendomi sveglia, mentre se ne stava sedutocon aria imbronciata davanti al fuoco, fino all’alba, quando usciva acavalcare. Scriveva molte lettere, ma quando gli chiedevo a chi le scrivessesi rifiutava di dirmelo. Grazie all’influenza del duca de la Rochefoucauld erastato promosso maggiore, e immaginavo che questo comportasse nuoveresponsabilità e forse la necessità di scrivere lettere agli altri ufficiali. Maquando gli rivolgevo qualche domanda, rispondeva seccamente e non midiceva nulla.

Sotto un certo aspetto il nostro matrimonio adesso era diverso e, così misembrava, migliore. Alexandre e io dormivamo nello stesso letto, e lui nonfu mai più brutale come la notte in cui Eugène era stato concepito. Non eraun amante tenero e non pronunciava mai parole affettuose. Ma, almeno, nonmi si imponeva con la forza, e io traevo un certo piacere dai nostri amplessi.

Mi sembrava piacere, forse era soltanto sollievo. Dopo aver subito la suabrutalità, che adesso fosse meno brutale mi appariva un dono.

E ci fu un altro, maggiore vantaggio. Concepii una seconda volta.

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Pensavo che Alexandre sarebbe stato felice di sapere che ero nuovamenteincinta, ma la notizia ebbe il risultato opposto. Diventò irritabile e semprepiù inquieto. Mi ero appena abituata all’idea di diventare la madre di duefigli quando, una mattina, al risveglio, trovai che Alexandre se ne era andatoportando con sé quasi tutte le sue cose.

Allacciandomi la veste da camera, cercai Edmée, che sapeva sempre tutto diquanto accadeva in casa. Quando la trovai, vidi che era sconvolta.

«Dov’è Alexandre, zia Edmée? Perché mancano tutte le sue cose?»

Lei scosse il capo. «Le sue partenze e i suoi arrivi sono un mistero per me.Ma so che qui non era felice. Dice che non ama la casa, che lo rendemalinconico.»

«Forse gli manca il fetore delle concerie.»

Lei non sorrise, ma mi tese una lettera.

«L’ho trovata sotto la porta quando mi sono svegliata. È indirizzata a te.»

La aprii in fretta.

“Rose” iniziava – non “Mia cara Rose” o “Mia cara moglie” – “parto oggi.Non possiamo vivere insieme in pace. Sono stato assegnato allo statomaggiore del generale Burel, che comanda le nostre forze alla Martinica.Laure, io e nostro figlio Alexandre c’imbarcheremo presto sulla Vénus,diretta alle Isole del Vento.”

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15Non intendo parlare troppo a lungo delle sordide conseguenzedell’abbandono di Alexandre. Dirò soltanto che, giunto alla Martinica, cercòdi infamare pubblicamente il mio nome. Disse che ero infedele, affermandoche la mia amata Hortense, la nostra seconda figlia, non era sua. Diffusemenzogne sulla mia condotta negli anni precedenti il matrimonio,raccontando che avevo avuto decine di amanti e che ero una vergogna per lamia famiglia e la sua. Dichiarò a chiunque voleva sentirlo che non sarebberimasto un solo altro giorno sotto lo stesso tetto con me. E infine mi scrisseuna lettera, ordinandomi di lasciare immediatamente la casa di rue Neuve-Saint-Charles se non volevo affrontare la sua collera.

Ancora prima di ricevere quella lettera malvagia, avevo deciso diandarmene. Ne avevo più che abbastanza di Alexandre, dei suoi malumori edei suoi capricci. Il veleno che ora mi sputava contro superava tutte le suecritiche precedenti. Fortunatamente, secondo quanto mi scrisse la zia Rosettedai Trois-Îlets, quello che diceva non veniva in genere creduto.

Da tempo invidiavo Fanny de Beauharnais per la libertà di cui godevaessendosi separata dal marito. Ora decisi di avere anch’io quella libertà.

Andai dal giudice e gli chiesi una separazione legale da Alexandre, che, conil tempo, mi venne accordata.

Avevo così quello che volevo. Ero sempre la viscontessa Beauharnais, masenza il peso di un marito che mi maltrattava e mi calunniava. Mi rallegròmolto vedere che Alexandre, quando tornò dalla Martinica, era solo. Laurede Girardin lo aveva lasciato per un altro uomo. Di quando in quandoricevevo notizie di Alexandre. Appresi che aveva avuto un altro figlioillegittimo, che aveva molti debiti, avendo sperperato la sua eredità, e che erastato promosso nuovamente. Ero molto felice di essermi liberata di lui.

La zia Edmée e il marchese mio suocero presero in affitto una casa aFontainebleau, dove risiedevano il re e la regina Maria Antonietta insiemealla corte, per la stagione autunnale di caccia. Avendo pochissimo danaro,

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andai con loro, emozionata all’idea di essere così vicina ai sovrani e allacorte.

Vendetti i miei ultimi gioielli per una somma sufficiente a farmi confezionaredue abiti da Leroy, il sarto alla moda. Uno era di tessuto d’argento con unasottogonna di raso rosa e l’altro di un blu pallidissimo, con il corpetto ornatodi pizzo d’oro.

Con quei vestiti e qualche lettera di presentazione che mi aveva dato Fannyper le sue conoscenze a corte, ero pronta a entrare nel mondo dei reali.

Euphemia e io andavamo tutti i giorni ai cancelli del palazzo diFontainebleau quando passava la carrozza della regina. Ero ansiosa divederla, avendo molto sentito parlare di lei, spesso in tono fortementenegativo.

Ma quando una mattina vidi il suo cocchio dorato, i pannelli dipinti a piccolicupidi grassocci, le portiere fantasiosamente intagliate, i postiglioni inpanciotto e calzoni di velluto color lavanda, rimasi senza fiato. Attraverso ilfinestrino della carrozza, potei appena scorgere la regina, il suo bel viso diprofilo, senza gioielli, ma con un semplice abito di broccato rosso e bianco. Icapelli biondi erano leggermente incipriati e pettinati con eleganza, e quandosi voltò per guardare noi che la aspettavamo, notai che il viso, dall’incarnatochiaro, era privo di rughe e gli occhi di un blu porcellana. Mi sembrò moltopiù giovane dei suoi trent’anni.

«Non è bella, Euphemia?» esclamai. «Credo sia una delle donne più belleche abbia mai visto.»

«Bella o non bella, è una donna cattiva» brontolò Euphemia. «Lo sapete checosa dicono: spende tutti i soldi del re. Manda in rovina il paese. E ha unaquantità di amanti, uomini e donne.»

«Non posso credere che una donna con un viso così angelico sia cattiva. Chidice cose tanto malvagie di lei deve essere invidioso.»

Vidi nuovamente la regina a un ballo offerto dalla contessa de Rancy.Indossavo l’abito d’argento ed Euphemia mi aveva acconciato i capelli in

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modo semplice, come quelli di Maria Antonietta, aggiungendovi una piumacolor crema. Il ballo era iniziato alle nove e mezzo e verso le dieci nella salasi avvertì un fremito di attesa. L’usciere batté il bastone sul pavimento dilegno e annunciò la regina.

Lei entrò nel salone fluttuando, in una nuvola di seta rosa pallido. La gonnaera a pieghe morbide, il seno fiorente era stretto da un corpetto di setaintrecciato di fiori bianchi. Fui nuovamente colpita dalla dolcezza del suosguardo e dalla delicatezza delle mani e delle braccia. Si muoveva nella salacon una grazia squisita. Il re non era con lei. Si diceva si fosse stancatotroppo galoppando nella foresta per inseguire una preda. Dopo una cenaabbondante, aveva preferito coricarsi.

Non riuscivo a distogliere lo sguardo dalla regina, fino a quando non sentiiuna voce al mio fianco.

«Viscontessa Beauharnais, posso avere l’onore?»

Abbassai lo sguardo. Accanto a me c’era un uomo basso e davvero brutto,con folti capelli neri che gli sfuggivano dalla parrucca color cenere. Avevagrandi occhi scuri e curiosi, il naso largo e le labbra carnose. L’abitoricamato era verde pallido, i larghi polsini di pizzo gli ricadevano sulle manipiccole e alle dita portava diversi anelli costosi. Io sono alta circa un metro ecinquanta e quell’uomo era assai più basso di me. L’orchestra stavasuonando il Monaco, una danza che allora amavo molto, e battevo il piedeseguendo il ritmo della musica.

Dissi di sì e presi la mano di quell’ometto.

Mentre danzavamo, si presentò come Henri, barone Rossignol, originariodella Piccardia e amico del primo maggiordomo della regina.

«Gli presto danaro» mi confidò in punta di piedi, mettendo le grosse labbraquanto più possibile vicino alle mie orecchie. «Dice che serve a lui, ma soche in realtà è per qualcun altro. Qualcuno molto importante.»

«Intendete la regina?» chiesi.

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«Silenzio! Volete che tutta la corte possa sentire?» Il barone mi rivolse unosguardo accusatore, poi strizzò l’occhio. Compresi di avere indovinato.«Ditemi, viscontessa, potrebbe esservi utile un prestito?»

La franchezza sfrontata di quella domanda mi lasciò stupefatta. Dei soldi siparlava discretamente fra amici, ma non con gli estranei.

«Sono probabilmente una delle poche persone a Parigi che non ha bisognodi un prestito» mentii. «Se mi serve danaro, predico il futuro. La gente miripaga generosamente per questo.»

Il barone si fermò.

«Devono fidarsi di voi le persone a cui predite il futuro.»

«Sì. Sono abile nel leggere i tarocchi.»

«Forse potremmo aiutarci a vicenda. Se me lo permettete, vorrei farvi visitafra pochi giorni.» La danza finì e il piccolo barone mi ricondusse al mioposto. «Arrivederci» disse baciandomi la mano.

Quella notte danzai fino a essere esausta, fino a quando quasi tutti gli ospitise ne erano andati, poi tornai a casa e dissi a Euphemia che avevo visto laregina e avevo ballato quasi sempre. Per giorni e giorni mi esercitai a imitarei movimenti aggraziati di Maria Antonietta e i suoi gesti, la spontanealentezza con cui si alzava e si sedeva, la sua espressione benevola. Non leassomigliavo; lei era una donna imponente con il viso lungo, mentre io sonopiccola e ho il viso rotondo e pieno. Eppure, in quei giorni a Fontainebleau,cercai di imitarla quanto più potevo, tanto forte era l’impressione che avevaprodotto su di me.

Il barone Rossignol venne a trovarmi pochi giorni dopo, come avevapromesso, e quando sedette sul divano nel salotto della casa che il marcheseaveva preso in affitto, rimasi nuovamente colpita da come fosse piccolo ebrutto. Edmée, che era con me nella sala, non nascose quanto le fossesgradita la sua vista. Chiesi a mia zia se potessi parlare da sola al barone, elei uscì sbuffando forte in segno di disapprovazione.

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Il barone rise del suo disprezzo, poi volse verso di me i suoi occhidardeggianti.

«Viscontessa» cominciò «sento che noi due siamo... come potrei dirlo?... dueuomini d’affari, soltanto che uno di noi è una donna. Voi siete ansiosa difarvi strada, e io posso aiutarvi traendone io stesso un vantaggio.

«Permettetemi di dirvi chi sono. Il mio lignaggio è altolocato. Discendo daUgo Capeto, il primo re capetingio di Francia.» Si drizzò in tutta la suastatura, aggiungendovi forse qualche centimetro. «La mia famiglia ha avutoproprietà in Piccardia per secoli. Mio padre, tuttavia, non ebbe fortuna. Uncugino avanzò pretese sulle sue terre, si rivolse ai tribunali e ottenne tutto.Non riuscimmo a salvare nulla. Non avevamo altre risorse, perché lafamiglia di mia madre era impoverita da molte generazioni. Avevano ilrango, i titoli e poco altro. Dalla nascita ero stato destinato alla carrieramilitare, ma, come potete vedere, il mio fisico me lo impedisce. Nondesideravo farmi prete. Così ho trovato il modo di guadagnare. Prestodanaro a interesse.»

Tutti quelli come lui dei quali avevo sentito parlare erano italiani o ebrei.Che un aristocratico potesse prestare danaro a interesse mi sembrava strano.Ascoltai con crescente attenzione mentre il barone continuava.

«Naturalmente non ho danaro mio da prestare. La mia fonte è un riccoinglese. Trasferisce grosse somme nel mio conto alla banca e io prelevo isoldi per fare i prestiti. Ma, mia cara viscontessa, quelli che prendono danaroin prestito cominciano ad avere paura. Temono che il governo possa crollaree tutte le banche chiudere. In questo caso ogni loro ricchezza andrebbeperduta.»

Io rabbrividii, perché avevo avuto spesso quel timore.

«Quanto vi chiedo, viscontessa, è di rassicurarli. Quando leggete i tarocchi,direte: “Siete in difficoltà finanziarie, ma presto verrà in vostro aiuto unosconosciuto”. Io sarò quello sconosciuto. Penseranno che il mio arrivo siaprovvidenziale. Si fideranno di me e faranno affari.»

«E se io li rassicuro, che cosa ci guadagno?»

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«Cento lire per ogni mille che io darò loro in prestito.»

Riflettei un minuto. Mio padre mi aveva sempre detto che quanti prestavanodanaro a interesse erano tutti furfanti. “Sono ladri, dal primo all’ultimo” miripeteva. “Ebbene” pensai “se sono ladri, cercherò di ottenere il massimo daloro.”

«Duecento» dissi.

«Centocinquanta.»

«Centosettantacinque.»

«D’accordo.» L’ometto mi rivolse un sorriso radioso. «Ah, viscontessa, sieteun uomo d’affari migliore di me. Mercanteggiate come una pescivendola conun cesto di anguille. E temo che siate anche sfuggente come un’anguilla, contutta la vostra eleganza e i vostri sorrisi. Dovrò tenervi d’occhio.»

«E io voi. Frattanto, non dubito che ci sia da guadagnare.»

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16Facemmo ottimi affari, il barone e io. Io continuai a predire il futuro e aconvincere uomini e donne disperati ad attendere uno sconosciuto cheavrebbe prestato loro danaro. Il barone faceva i prestiti e mi ricompensavacon quelle che a me sembravano ricche somme in contanti. Io custodivo lemonete in una cassetta nella cantina del marchese, nascosta dietro mobilipolverosi e cataste di legna.

Di mese in mese la nostra impresa cresceva. Una parte delle mie nuovericchezze la mandai a mio padre e alla zia Rosette, alla Martinica. Ilrimanente lo investii, insieme al barone, in terreni e immobili. Molticostruivano la propria dimora nella zona più ricca di Parigi e non erano poiin grado di permettersi quelle grandi case. Il barone Rossignol e ioacquistavamo le ville abbandonate a basso prezzo e le rivendevamo a nuovispeculatori, che in seguito, molto spesso, si trovavano a loro volta indifficoltà finanziarie e le abbandonavano.

Noi ci arricchivamo, ma in tanti fallivano. Uno zio di Alexandre, Étienne deBeauharnais, bevve una dose massiccia di laudano e morì, lasciando unalettera al marchese in cui gli confessava di essere vicino alla bancarotta e dinon poter sopportare la vergogna.

Andai al funerale, che si svolse alla chiesa delle Orsoline a Fontainebleau.Erano con me Eugène e Hortense. Eugène era un bel ragazzo nell’uniformedel collegio che assomigliava a quella delle guardie di palazzo; Hortense,tranquilla e silenziosa nella sua vestina di velluto nero. Al termine dellamessa funebre, Alexandre venne da noi e baciò i bambini, che furono felicidi vederlo. Mi sentii sollevata osservando che era affettuoso con Hortensecome con Eugène. Speravo significasse che non aveva più dubbi sulla suapaternità.

«Ho letto il vostro nome sui giornali» gli dissi. «Affermano che parlatespesso della necessità di riforme politiche. Che siete un oratoreconvincente.»

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A quelle parole assunse un’aria orgogliosa e soddisfatta di sé. «Ho opinionimolto precise e le esprimo apertamente. La Francia deve cambiare se vuolesopravvivere, e il cambiamento non può venire dal nostro timido sovrano. Ilpopolo deve costruire il proprio futuro.»

«Come?»

«Unendosi, come ha fatto secoli fa, quando il suo parlamento, gli Statigenerali, si riuniva e si consultava. Soltanto gli Stati generali possonoimpedire al re di fare bancarotta come mio zio Étienne.» Alexandre apparivaesaltato, tanta era la passione con cui parlava della necessità di avviare delleriforme. Sembrava che tutta la passione di un tempo per le donne e idivertimenti fosse stata incanalata nella politica, con il risultato che era unuomo diverso. Forse anche un uomo più nobile. Ero felice di vedere cheaveva trovato uno scopo degno in cui mettere la sua energia. Quanto meno,alcuni consideravano quella delle riforme politiche una causa degna. Altri lacondannavano e la definivano un tradimento.

«Ho avuto una lettera dalla Martinica» mi disse Alexandre quando la nostraconversazione stava per finire. «Da un colonnello che conosce bene vostropadre.»

«Davvero? E come sta?»

«Malato e debole, sempre più debole. Ha avuto una febbre. Il colonnellodice che è deciso a riscattare i Trois-Îlets dalla rovina a dispetto della cattivasalute. Lavora nei campi insieme agli schiavi, senza camicia, sotto il sole.»

«Il mio povero padre. Non vivrà a lungo se agisce così. Deve essere lamamma a costringerlo a lavorare. Non gli ha mai perdonato la sua pigrizia e isuoi vizi.»

La conversazione con Alexandre accrebbe in me l’ansia per mio padre e lanostalgia per la Martinica. Quando una lettera della zia Rosette mi informòche la nonna era morta, compresi che dovevo tornare a casa.

Trovai una nave che sarebbe partita entro poche settimane e mi preparai aimbarcarmi. Eugène rimase in collegio, ma Hortense venne con me, e

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naturalmente anche Euphemia. Portai regali per tutti: un nuovo bastone dalpomolo d’oro per mio padre, una grande gabbia dorata per i pappagalli dellazia Rosette, una collana di topazi e un’arpa per mia madre, un’edizionerilegata in cuoio delle opere di Montesquieu per lo zio Robert e altri piccolidoni per le cugine e le amiche.

Non mi rallegrava l’idea di un altro viaggio per mare e tremavo al pensierodi dividere una piccola cabina con Hortense, Euphemia e l’arpa di miamadre. Essendo stati gli ultimi a volerci imbarcare, ci diedero la cabina piùpiccola e scomoda.

«Ma dico!» esclamò Euphemia quando la vide. «È poco più di un buco!»

Con il passare del tempo, i muri umidi e marci della cabina sembravanosoffocarci, mentre il clima diventava sempre più caldo e afoso. Sul soffitto sivedevano formazioni di muffa che ci cadevano addosso mentre dormivamo.Hortense si sentì male subito e non riusciva a tenere niente nello stomaco; isuoi strazianti conati ci svegliavano spesso durante le lunghe notti. Appenalei si riprese, Euphemia diventò pallida e cominciò a vomitare. Dopo unasettimana di cattivo tempo venni colpita anch’io dal mal di mare.

Eravamo proprio un bello spettacolo: noi, le parigine, con i vestiti macchiatie stropicciati che odoravano di acqua marina, con i capelli spettinati e il visotirato e scarno. Ma, appena ci sentimmo un po’ meglio, salimmo sul ponte,ansiose di aria fresca e compagnia, e io feci subito la conoscenza di duepiantatori che tornavano alla Martinica dopo un lungo soggiorno a Parigi.

«Vi dico la verità, io vendo» dichiarò il più anziano dei due, che si presentòcome Felix Houlier. Il suo viso segnato dal tempo era pieno di rughe per glianni trascorsi al sole e gli occhi, profondamente infossati, esprimevano unagrande amarezza. «Subito dopo il prossimo raccolto di canna, ritorno inFrancia. Mi sono costruito una casa vicino a Chambord. Venderò il raccoltoe pagherò i banchieri. Con un po’ di fortuna mi resterà di che vivere.»

«Io non posso permettermi di vendere» spiegò il suo compagno, BarthélemyAriès, un uomo elegante, dai lineamenti spigolosi, che mi sembrò suitrentacinque. «Ogni anno, ho più debiti. Se soltanto mio padre morisse e milasciasse i soldi! Ma non lo farà, è un vecchio robusto, ancora forte e avaro a

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sessant’anni.»

Tutti e due conoscevano mio padre. Quasi tutti i Grands Blancs si conosconoperché la Martinica è piccola. Ne parlavano con rispetto, e questo mi stupìperché lo avevo sempre considerato un fallito. L’avevo sentito dire tantospesso da mia madre e mia nonna che l’idea si era ormai radicata in me.

«Tascher non dovrebbe avere problemi» disse Houlier asciugandosi lafronte. «Ma non ha avuto la vita facile, dopo tutto. Ho sentito che una metàdei suoi schiavi è fuggita per unirsi a quell’esercito straccione sulle colline.»

«Quale esercito straccione?»

«Quelli che si definiscono “Amici della Libertà”» disse con disprezzo Ariès.«Amici, questa poi! Quello che davvero vogliono è uccidere i GrandsBlancs. L’estate scorsa hanno cercato di avvelenarci tutti mettendo in venditaal mercato carne guasta. Ci rubano il bestiame e rapiscono i bambini.Minacciano le nostre donne e terrorizzano gli schiavi domestici. Ci voglionotutti morti o in fuga, per potersi impossessare dell’isola e governare da soli.»

Rimasi turbata da quelle parole. La zia Rosette, nelle sue lettere, non avevamai parlato di un esercito di schiavi o di minacce contro i Grands Blancs.Eppure era una donna incredibilmente timorosa. Se avesse avuto paura, nonme lo avrebbe detto?

Quando infine sbarcammo alla Martinica, avvertii la tensione nell’aria. Ipasseggeri scendevano in fretta dalla nave, e gli amici e i parenti in attesasulla banchina li salutavano rapidamente prima di farli salire sui veicoli eportarli subito via.

Provai sollievo quando vidi lo zio Robert che ci aspettava, alto, grosso, unafigura rassicurante. Abbracciò me ed Euphemia, poi tese le braccia aHortense che gli corse incontro.

«Guardate, zio Robert, ho imparato la danza della cornamusa.» E si mise aballare e a fare giravolte sulla banchina, ripetendo i passi che le avevanoinsegnato i marinai quando era guarita dal mal di mare.

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«Brava piccolina!» esclamò lui. «Che esperta ballerina sei.»

«Forse» dissi scherzando «potrebbe danzare e guadagnare qualche soldosulla piazza del mercato.» Ma lo zio Robert non sorrise e il suo viso si fecesevero. «Non sulla piazza del mercato» disse prendendo tra le bracciaHortense e stringendola con forza. «Non in questi giorni. Ora, Yeyette, potetesalire tutti sulla mia carrozza. Joseph voleva venire ad accogliervi, ma vostramadre glielo ha proibito. Comprenderete la ragione quando saremo ai Trois-Îlets.»

Attraversando in carrozza la piazza del mercato, mi resi conto di che cosaintendeva mio zio. La piazza un tempo vivace e affollata era deserta, lepoche bancarelle riunite tutte in un angolo offrivano merce scarsa e i rariclienti stringevano le loro borse come se avessero paura. Ai margini dellapiazza c’erano guardie armate, che facevano oscillare pesanti bastoni, con uncoltello infilato nella cintura.

«C’è stato un incidente qui mercoledì scorso» mi sussurrò lo zio Robert. «Èstato trovato un Grand Blanc appeso per i piedi, macellato come un animale,le viscere e il sangue sparsi sui ciottoli, scorticato a metà; credetemi, Yeyette,è stata la cosa più orribile che abbia mai visto.»

«Ma chi è stato?»

«Aveva un cartello appeso ai piedi: “Gli amici della Libertà”.»

Rabbrividii immaginando quella scena orrenda.

«Da allora ogni notte ci sono pattuglie nelle strade di Fort-Royal chearrestano fuggiaschi e ribelli. Hanno pagato un prezzo molto alto per quelloche hanno fatto. Guardate.»

Seguii il dito puntato dello zio Robert e vidi, appesa a un fanale, la formaripiegata su se stessa di un africano, nudo eccetto un perizoma, con unaspessa corda attorno al collo. Mi affrettai a coprire gli occhi di Hortense.Non volevo che vedesse il viso spaventoso del morto, la lingua sporgente egli occhi fissi.

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«Là e là.» Lo zio Robert indicò altri cadaveri, quasi tutti molto scuri, alcunipiù chiari come Euphemia.

«Abbiamo dovuto impiccare anche i poliziotti. Si univano ai ribelli.»

«Ma senza dubbio non tutti!»

«Molti. Gli altri sono fuggiti nelle grotte della montagna.»

Per tutto il percorso fino ai Trois-Îlets tenni la mano di Hortense e cercai didistrarla perché non guardasse fuori dal finestrino. Ogni viso africano chevedevo lungo la strada mi sembrava minaccioso. In ogni gruppo di schiaviche lavorava nei campi scorgevo un pericolo. Le folte piantagioni di canne,le larghe foglie degli alberi di banano non mi attiravano più con la lorobellezza. Mi apparivano luoghi di rifugio per i ribelli, nascondigli checelavano eserciti di neri infuriati, in attesa di ucciderci tutti.

Cercai di dirmi che non pensavo con chiarezza, che nella mia stanchezza,esausta per la fatica del lungo viaggio in mare, mi lasciavo trascinare dallapaura. Ero cresciuta fra gli africani, li avevo amati come compagni di giochi,servitori carissimi, amici. La mia sorellastra Euphemia mi era vicina più diogni altro, a eccezione forse di mio padre. Come potevano costituire unpericolo quei compagni familiari della mia vita?

Quando giungemmo ai Trois-Îlets, e lo zio Robert ci lasciò, affrettandosi adallontanarsi nella sua carrozza, avvertii subito un senso di gelonell’atmosfera, una tensione dalla quale comprendevo che mio padre e miamadre erano in lite fra loro. La tristezza mi vinse, poiché tutto quantovedevo nello zuccherificio trasformato in casa mi riportava il ricordo di mianonna. Non ci saremmo più riviste. La mia diletta nonna! Se soltanto fossestata qui, con la sua mente lucida e razionale e la sua lingua impertinente,non mi sarei sentita così triste, confusa, spaventata.

Mio padre, dando prova di un vigore che mi sorprese, dal momento cheavevo tanto sentito parlare della sua debolezza, venne nella stanza cheserviva da anticamera e ci salutò. Aveva una luce negli occhi e una sicurezzanel tono della voce che non gli avevo più sentito da quando ero bambina.

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«Yeyette! Sei una vera parigina!» Guardò con ammirazione il mio abitocostoso, ignorando le macchie di acqua salata sul tessuto fine, e vide anche imiei anelli e gli orecchini. «Senza dubbio, la Martinica ti sembrerà tediosadopo i piaceri della capitale. E la cara piccola Hortense! Bambina mia, vienia dare un bacio al nonno.» Lei gli andò vicino sorridendo e lo baciò sullaguancia. «E dov’è Eugène, il giovane guerriero?»

«Ancora in collegio, papà; si prepara a entrare all’Accademia militare.»

«Sì, capisco. È un ragazzo devoto, vero? E bello, anche, a giudicare dallaminiatura che ci hai mandato.»

Mio padre continuava a parlare e a parlare in tono di voce energico. Infine lointerruppi.

«Papà, dov’è la mamma? Dov’è la zia Rosette?»

«Hanno deciso di trasferirsi nella casa del vento.»

«La casa del vento? Ma è poco più che una grotta nella roccia.»

Lui scrollò le spalle. «Lo hanno deciso loro.»

«No, padre, non riesco a crederlo. È accaduto qualcosa. C’è forse unrapporto con la selvaggia aggressione di cui ci ha parlato lo zio Robert,l’assassinio di quel poveretto nella piazza del mercato?»

«Non parliamo di queste cose di fronte alla bambina. Euphemia, portaHortense di sopra e mettila a letto.»

Dopo un attimo di esitazione lei si voltò a guardarmi. Io feci un cennod’assenso. «Sì, Euphemia, ti prego, porta Hortense in camera mia e lascialariposare.»

«E ora, padre» dissi quando furono uscite «raccontatemi che cosa staaccadendo.»

Ma non gli fu necessario dire altro. Entrò una donna nella stanza e gli siavvicinò, con passo sinuoso, un gran sorriso sul viso bruno. Indossava un

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abito rosso e oro che aderiva ai fianchi ben torniti e le copriva appena ilseno fiorente, un abito che nessuna donna rispettabile, Grand Blanc oafricana, avrebbe portato. Aveva orecchini d’oro e la pelle color ramesplendeva come se fosse stata unta d’olio. Si avvicinò a mio padre conun’aria di innegabile seduzione e lui la trasse a sé in un abbraccio così intimoda non permettere di dubitare che fossero amanti.

Rivelavano la loro intimità con tanta sfrontatezza che mi sentii quasiimbarazzata, come se assistessi a una scena troppo privata per essere veduta.Mi voltai, provando una collera improvvisa al pensiero di mia madre.Cominciai a raccogliere le mie cose con l’intenzione di uscire. Tuttavia,prima che potessi farlo, la donna parlò, con un forte accento creolo, la voceroca morbida e piena.

«Yeyette, non mi riconoscete?»

Mi voltai a guardarla. «Gli schiavi si rivolgono a me chiamandomi signoraviscontessa.»

«Selene non è una schiava, Yeyette. Le ho concesso da tempo la libertà. Misembrava un peccato che un così bel corpo si rovinasse lavorando neicampi.» Accarezzò con la mano le curve sinuose della donna, dalle spallenude al seno, verso la vita sottile, poi sulla curva dei fianchi e fino allegambe.

«Quando ero molto giovane, appena arrivata dall’Africa, sono stata al vostroservizio» mi disse la donna. «Sedevo sul pavimento mentre voi dormivate etiravo la corda che metteva in moto il ventilatore. Vi tenevo fresca. Voi nonmi avete mai parlato. Non una sola volta. Non avete mai detto: “Selene, haicaldo anche tu? Hai sete?”. Non mi avete mai guardato. Per voi non esistevo.Ero come un fantasma, uno spirito. Sì, uno spettro evocato da unquimboiseur.»

Guardai la donna, offesa dalla sfrontatezza di quel discorso e ancora piùoffesa dal gesto con cui teneva una mano sulla spalla di mio padre.

«No, non ti parlavo. Eri una bambina schiava che eseguiva un compitonecessario. Non c’era ragione che ci parlassimo, come non c’è ragione che ci

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parliamo ora.»

«Oh, credo che ci sia, Yeyette. Vedete, siamo parenti, voi e io, ed Euphemia.Siamo tutte imparentate grazie a Joseph, abbiamo tutte in noi il suo sangue.Voi ed Euphemia siete figlie sue. Anche il bambino che porto in grembo saràfiglio suo.»

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17Era stato catturato un ladro, accusato di avere rubato patate dolci dalgiardino e di essere fuggito.

Tutti gli schiavi dei Trois-Îlets vennero chiamati a raccolta dal suono dellagrande campana che riecheggiava sui campi di canna. Dovevano assisterementre lo schiavo veniva punito, come ammonimento, in quel tempo diconflitti sempre più profondi e di ribellioni, che anche loro avrebbero subitola stessa sorte se non avessero obbedito al padrone.

Io stavo con mio padre sulla veranda, aspettando che il ladro ricevesse ilmeritato castigo.

«È una buona cosa che la mia famiglia sia con me in tempi come questi»disse mio padre. «Per ricordare a tutti che noi Grands Blancs siamo i padronie lo saremo ancora per molte generazioni.»

Per una volta, non c’era Selene aggrappata al suo braccio: non si sapevadove fosse. La pancia cresceva in fretta. Mio padre mi confidò che lalevatrice africana di Fort-Royal pensava potesse trattarsi di due gemelli.

«Che cosa ne diresti, Yeyette?» mi chiese con orgoglio. «Pensa un po’. Duemaschi. Alla mia età.»

«Non vi aspettate certo che io accetti i gemelli di Selene nella nostra famiglia.Non con mia madre chiusa nella casa del vento, umiliata e privata dei suoidiritti.» Avevo detto tutto quanto potevo sull’argomento, ma non avevoottenuto nulla.

Gli schiavi si avviavano lentamente nello spiazzo situato sotto la veranda.Guardai i loro volti. Alcuni erano impassibili, altri pieni di rancore, moltiapertamente ostili. Era impossibile non vedere le loro cicatrici. Cicatrici dellaprigionia, segni della frusta sulle ampie schiene, vesciche dovute a percosserecenti, mani e dita tagliate, occhi e nasi mancanti.

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«Con il danaro che mi hai mandato ho comprato cinquanta africani» dissemio padre. «E ho assunto un nuovo sorvegliante. Ora non ci saranno altrefughe.»

Un uomo alto, snello, camminava davanti agli schiavi riuniti, con un passosicuro, né troppo affrettato né troppo lento. Indossava i calzoni di cuoio, lacamicia di lino e la giacca scura del piantatore. I capelli bruni, lunghi, eranolegati sul collo. Il viso scarno, abbronzato, era bello, l’espressioneimperscrutabile.

Fece cenno di portare lo schiavo e rapidamente – molto rapidamente –lanciò uno sguardo sulla veranda e incrociò i miei occhi. L’intensità di quellosguardo furtivo era inconfondibile. Era il ragazzo bruno!

Lo riconobbi subito e sentii che il mio corpo reagiva alla sua presenza.

Il ragazzo bruno era diventato un uomo bruno, il potere del suo sguardoreso dieci volte più intenso dalla maturità. Vedendolo, sentendo che ildesiderio di lui mi invadeva come tanti anni prima, dovetti sostenermi allaringhiera per non vacillare.

«Chi è?» chiesi a mio padre mentre ritrovavo il controllo. Gli feci segno cheintendevo riferirmi al sorvegliante, il quale legava le mani del ladro con unacorda.

«È Donovan, Donovan de Gautier. Era un soldato, a quanto dice. Non hafamiglia, o non una famiglia che sia disposto a riconoscere. È il migliorsorvegliante che abbia mai avuto.»

Dunque il ragazzo bruno aveva un nome. Donovan. Non un nome creolo.Un nome inglese. O forse irlandese, come mia nonna?

Non riuscivo a togliergli gli occhi di dosso. Ricordavo il suo corpo snello emuscoloso il giorno in cui si era tuffato in mare quando ero una ragazza.Ricordavo tutto di lui. L’aspetto, l’odore, il tocco delle sue mani. La gioiaassoluta provata durante il nostro amplesso.

Sentii che stavo sorridendo e mi costrinsi a un’espressione severa. Il

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sorvegliante indicava una catasta di legna sulla quale stavano mettendo unagrata di metallo. Dietro suo ordine, il ladro, un giovane terrorizzato che sidibatteva e piangeva, venne sollevato bruscamente e disteso bocconi sullagrata di metallo. Furono portate delle torce e avvicinate alla legna.

Dalla folla degli schiavi si alzò un mormorio.

«Sì, lo capite tutti che cosa accadrà a questo ladro» disse Donovan. «Verràbruciato vivo. Arrostito fino a quando la pelle si staccherà dal corpo come lapelle di un pollo si stacca dalla carne. Da questo momento in poi, saràquesto il castigo per il furto: essere bruciati vivi.»

Il mormorio si fece più forte. Era ormai una protesta.

«E chiunque abbia obiezioni» proseguì Donovan «verrà arrostito insieme alladro.»

«No!» sentii mio padre esclamare piano. «No! Questo è troppo.»

Compresi che il sorvegliante era un uomo crudele. Ma questa constatazionemi entrò appena nella mente. Avvertii, con grande turbamento, che l’orroredel momento presente impallidiva di fronte alla promessa che recava, lapromessa che Donovan, l’uomo bruno, potesse nuovamente essere mio.

Le torce vennero avvicinate ulteriormente alla legna. Da un momentoall’altro, ormai, il fuoco sarebbe divampato e avrebbe consumato quelragazzo che tremava e singhiozzava. Ancora una volta, mi sentii stordita esopraffatta. Temetti di svenire.

Donovan alzò un braccio. L’orrore incombeva su di noi.

Poi, di colpo, gridò: «Aspettate».

La pausa sembrò eterna.

«Aspettate» ripeté Donovan. «Credo che questo ladro vivrà. Il prossimoladro catturato verrà arrostito vivo, lo giuro. Chi sarà il prossimo ladro? Tu?O tu? O tu?» Si avvicinò al gruppo degli schiavi puntando a turno un indiceaccusatore verso molti di loro.

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Ognuno fece un passo indietro, abbassò la testa e disse: «No, signore».

Sentii mio padre ridere. «Li ha spaventati a morte.»

Donovan ordinò che lo schiavo venisse frustato e portato via. Ma il ragazzosi liberò dai due uomini che lo tenevano e si inginocchiò ai piedi delsorvegliante. Con mio grande stupore, baciò le punte polverose degli stivalidi Donovan.

«Questo è il modo giusto per tenerli a freno» disse mio padre. «Trattarlicome bambini ribelli, spaventarli. Poi essere clementi. Quell’uomo è ungenio.»

Gli schiavi vennero congedati perché tornassero al loro lavoro. Donovan siavviò verso le scuderie. Io lo guardai allontanarsi, senza poter distogliere gliocchi dalla sua ampia schiena e dalle lunghe gambe. Prima di girare l’angolodell’edificio, tornò a guardare verso di me, le labbra piegate appena all’insù,nel vago accenno di un sorriso.

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18Quando ci saremmo incontrati? Quando lo avrei rivisto? Come mi sareidovuta comportare quando ci fossimo trovati insieme? Nella mia menteansiosa, turbata, i pensieri si affollavano. Era sposato? C’era un donna nellasua vita? Forse una Selene? Che cosa sapeva di me? Dei miei anni inFrancia, delle mie difficoltà, delle mie delusioni? Erano importanti per lui?

Quella notte dormii, ma il viso e il corpo agile di Donovan si intrecciavanoai miei sogni turbati. E, all’alba, mi ripromisi di cercarlo. Mi sarei messa inqualche modo sul suo cammino, per dargli la possibilità di avvicinarmi.

Ma non lo vidi, né quel giorno né il successivo. Proteggendomi lacarnagione con un grande ombrello, passeggiai lungo i bordi dellapiantagione, aspettandomi di scorgere la sua figura alta fra le canne chematuravano. In passato era stato elusivo, scherzoso. Avevamo preso parte aun continuo gioco a nascondino. Ora che eravamo adulti, il gioco sarebbecontinuato? O ero sciocca nel pensare che il piacere del passato potesserivivere?

Dopo tre giorni trascorsi senza che io vedessi l’uomo bruno, chiesi di lui amio padre.

«Ho mandato Donovan a Les Plages. Una piccola proprietà sul pendio delMorne des Larmes. Tuo zio Robert l’ha acquistata l’anno scorso. Sarà diritorno tra una o due settimane.»

«Perché è andato là? Che cosa lo avete mandato a fare?»

Mio padre fece un grande sospiro. «Tanto vale che te lo dica, Rose:crediamo che si stia preparando una rivolta degli schiavi. Tutti noi GrandsBlancs prendiamo ogni misura possibile per proteggere noi stessi e le nostreproprietà. Siamo in guerra. Donovan deve organizzare una milizia a LesPlages: raccoglie armi da fuoco e si accerta che ognuno sappia che cosa faree dove andare quando l’emergenza si verificherà.»

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«Certo intendete dire se l’emergenza si verificherà.»

«Oh, si verificherà, Rose, e tra non molto tempo. Ma possiamo fronteggiarla,come fronteggiamo le grandi tempeste di vento e le inondazioni. Siamocreoli. Siamo forti per natura.»

Una sera mio zio Robert e un certo numero di proprietari di piantagioni siriunirono ai Trois-Îlets, nella sala più grande della nostra residenza. Tra loroc’era anche Donovan insieme con molti ufficiali della milizia e con il capodella polizia di Fort-Royal. Furono serviti rum, caffè e piatti di dolci e fruttamatura. Ma il cibo venne appena assaggiato. Gli uomini erano troppopreoccupati.

«Questa settimana dovrebbe arrivare Le vengeur da Brest» disse mio zio.«Porta un centinaio di moschetti, polvere e munizioni.»

«Se potessero essere cinquecento...!» ribatté un altro uomo. «Soltanto unamassiccia forza di fuoco potrebbe fermarli, se si scatenano.»

Si valutò ogni milizia dell’isola, quanti uomini vi fossero arruolati, quantearmi avesse in deposito.

«Tutte le donne e i bambini devono condividere uno stesso dormitorio, bensorvegliato di notte, e gli uomini devono fare continui turni di guardia.»

«Chi sente suonare la campana d’allarme del vicino deve suonareimmediatamente la propria.»

«Ascoltate attentamente ogni variazione nel suono dei tamburi. Sappiamoche rappresentano un codice. Ma cambia continuamente. Lo capisconosoltanto i ribelli.»

«Perché non imprigionare tutti gli schiavi fino a quando potrà arrivarel’esercito dalla Francia a occuparsi di loro?» chiese un proprietario.

«Perché sono troppi» rispose seccamente un altro. «Per ogni Grand Blancc’è un centinaio di africani. E la Francia, come forse avrete osservato, non sicura molto della sorte delle sue colonie.»

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«Se ne preoccuperà quando non verrà più inviata canna da zucchero e nonsaranno più pagate tasse.»

Mentre gli uomini discutevano e litigavano, io sedevo ascoltando; nessunosembrava accorgersi di me, se non Donovan, che mi guardò il viso e il corpopiù di una volta.

«Una cosa dobbiamo sempre tenere presente» stava dicendo mio zio Robert.«Non ci prepariamo ad affrontare una guerra come tutte le altre. Siscateneranno potenti forze africane. Si dice che Orgulon, il quimboiseur,abbia predetto un bagno di sangue.»

Questa affermazione venne accolta con indifferenza.

«Potete riderne quanto volete, ma sa farsi obbedire da molti dei nostriafricani. Ha tenuto riunioni al Crocicchio Sacro sul Morne Ganthéaume. Inostri vanno da lui per offrirgli un tributo. Avvengono cose indicibili, aquanto so. Sacrifici umani. Corpi morti rianimati. Orge con spiriti deidefunti.»

Sì, avrei voluto dire, avvengono cose grandi là dove è presente Orgulon. Iole ho viste. E mi ha salvato la vita quando il serpente stava per colpirmi.

«Orgulon scenderà dal Morne Ganthéaume» disse lo zio Robert «e faremobene a tenerlo d’occhio. Una sua parola, e tutte le nostre piantagionibruceranno.»

«Non siamo bambini» ribatté Donovan alzandosi. «Non abbiamo paura diquello stregone. Sappiamo che Orgulon è un uomo come tutti, un vecchiocon il corpo debole e una mente astuta. Quella che dobbiamo temere, credo,è la paura che ispira agli altri.»

Molti assentirono a queste parole.

«Orgulon ha convinto i suoi deboli, sciocchi seguaci di poter uccidere unuomo con lo sguardo, impedire al vento di soffiare o conversare con gliantichi dèi africani attraverso riti pagani. Dobbiamo preoccuparci di quelloche la gente crede. Della fede nella magia. Nell’occulto.»

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«Sì, è questa la vera nemica. La fede pagana. La falsa fede» disse un altro, evi furono mormorii di assenso.

O forse, mi chiedevo, il vero nemico era la forza del cambiamento. Il poteredi un’idea, l’idea che il tempo dei Grands Blancs fosse finito.

La mattina successiva andai alla casa del vento dove mia madre e la ziaRosette trascorrevano le loro giornate solitarie. Dovevo avvertirle dei pianiper l’emergenza, dell’insurrezione che si attendeva, delle precauzioni chedovevano prendere.

«Sarebbe meglio se tornaste a casa per qualche tempo, maman» dissi. «Voi ela zia Rosette sareste al sicuro.»

«Per me in quel luogo c’è soltanto umiliazione» ribatté rabbiosamente lei.«Fino a quando quella donna non se ne sarà andata, non metterò piede incasa.»

Compresi che mia madre era diventata più ostinata. La vita in quell’esilio chesi era imposta era la roccia su cui costruiva il suo orgoglio, il rispetto di sé.Lasciare la casa del vento sarebbe stato come abbandonare la parte piùpreziosa del suo essere e riconoscersi sconfitta.

«Teneva sempre le sue puttane a Fort-Royal, sai» disse dopo qualche tempo.«Stavano al loro posto.» Mi addolorava sentire mia madre accennare contanta indifferenza alle continue infedeltà di mio padre; non ne aveva maiparlato prima in mia presenza. «Le odiavo tutte» continuò «ma là dov’eranonon potevo toccarle. Così lasciavo che avessero la città e mio marito, e iomantenevo l’ordine ai Trois-Îlets.»

Si passò una mano sulla gonna, lisciandola, distendendo con l’unghia delpollice una piega lungo una cucitura. Non era mai stata bella, ma avevasempre avuto il viso fresco e colorito, e gli occhi erano di una delicatasfumatura azzurra, più chiari dei miei. Ora aveva un aspetto slavato epallido, i capelli di un grigio sbiadito, l’incarnato color cenere, gli occhi blughiaccio e pesantemente cerchiati. Non dichiarava mai la sua età, maimmaginai dovesse avere superato i quarantacinque anni.

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«Tenevo l’ordine qui» ripeté «fino a sei mesi fa. Allora tuo padre ha sceltoquella ragazza come sua nuova amante... una ragazza che era stata una nostraschiava domestica!... e ha cominciato a vivere con lei, insieme con tutti noi.Ho cercato di cacciarla via, ma lui l’ha difesa.

«“Sto morendo, vecchia mia” mi ha detto. “Non vedete che sto morendo?Non potete lasciarmi godere i miei ultimi mesi di vita?”»

Sbuffò in segno di disprezzo e si passò una mano sulla gonna come pertoglierne un insetto o un granello di polvere.

«Naturalmente non sta morendo più di quanto stia morendo io, o tu, Yeyette.Vivrà ancora molti anni, soltanto per farmi dispetto.»

«Ma non potete continuare a stare qui. È lontano da tutto. Dovete tornare acasa, dove sarete protetta. E se doveste ammalarvi o avere un incidente?»

«Ho con me Rosette, tre schiave e Jules-sans-nez che ci porta il cibo dallacucina di casa quasi ogni giorno.» Jules-sans-nez, Jules-senza-naso, avevaguidato i carri ai Trois-Îlets per molti anni. Era un vecchio africano con deilunghi capelli grigi pettinati a treccine e il viso segnato dal tempo, checantava sempre mentre guidava i carri, con la voce stranamente fischiante acausa del viso sfigurato. Si diceva che il naso gli fosse stato tagliato quandoera ancora un bambino da un sorvegliante crudele. Conoscevo Jules da tuttala vita.

La zia Rosette sedeva in un angolo di quella stanza simile a una grotta, gliocchi bassi, le mani in grembo. Vidi che aveva il viso bagnato di lacrime. Miguardò.

«Non capisci, Yeyette, che non possiamo tornare finché c’è Selene?»

«Non voglio sentir pronunciare il nome di quella ragazza!» esplose miamadre.

La zia Rosette continuò, senza lasciarsi intimorire dal rimprovero di miamadre. «Trasferirci qui è stata la nostra unica possibile protesta contro lacondotta di Joseph. Ma tu, Yeyette, puoi fare in modo che si liberi di

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Selene.»

«Silenzio, ho detto! Non voglio sentire quel nome.» Mia madre lanciò unosguardo furioso a Rosette, tremando per la collera.

«Joseph ti rispetta» riprese Rosette. «Hai tenuto testa ad Alexandre. Haiavuto la forza di separarti da lui. A te non lo direbbe mai che per questo ti haammirato, ma io so che è così. E ti ammira perché riesci a guadagnare, cosache lui non sa fare. Fai ragionare Joseph perché trasferisca la ragazza a Fort-Royal.»

Vedere mia madre e mia zia in quella casa sul fianco della collina miriempiva di tristezza e di dispetto. L’orgoglio di mia madre e la devozionedella zia Rosette per lei le isolavano. Ma nella loro ostinazione noncomprendevano quali pericoli corressero. In qualche modo bisognavapersuaderle, nei giorni a venire, della necessità di tornare a casa.

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19Venne da me, come ero certa avrebbe fatto, in una notte calda e profumata,con l’odore del gelsomino nell’aria. Batté alla mia finestra, stando sullaveranda, e quando io andai alla porta per farlo entrare mi prese dolcementela mano e mi condusse fuori. Ero a piedi nudi e indossavo soltanto unaleggera camicia da notte di lino. Avevo i capelli sciolti che mi ricadevanosulla schiena in onde scure.

Mi portò in una stanza vuota dove a volte si conservava la canna appenatagliata, il cui odore zuccherino era fortissimo. Aveva ammucchiato dellecoperte sotto una finestra aperta e ci abbandonammo tutti e due in quel lettomorbido.

Quando cominciò ad accarezzarmi la guancia, sentii che il nodo che avevonel petto e nello stomaco si scioglieva, e la mia mente piena di ansie sidistendeva. Ero al sicuro, il tempo era sospeso e tutto era dimenticato, tuttosalvo il piacere reciproco che provavamo.

Restammo insieme tutta la notte. La nostra passione si accendeva e sispegneva, raggiungeva altezze indescrivibili, sprofondava in abissi che eranoun seducente invito a ricominciare. Mi persi in lui, e il mio desiderio di lui sifaceva più intenso nell’istante in cui i nostri corpi si univano. Era undesiderio che superava il desiderio, una brama della carne, incalzante comela fame o la sete. Era stato un bel ragazzo, ma la sua bellezza virile era moltosuperiore, e io reagivo con tutti i sensi, aprendomi a lui come un fiore alsole.

Mi si diede pienamente e completamente. Poi, all’alba, si alzò dalle copertedisfatte, si rivestì, si chinò a baciarmi un’ultima volta e si allontanò.

Mi lasciò a respirare il suo odore pungente, che rimase a lungo, il gusto fortedello zucchero e il ricco odore muschiato del nostro amore, un odore cheapparteneva solo a noi. Non avevo null’altro di lui, se non i ricordi e lasperanza di rivederlo.

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Ma qualcosa era cambiato. In passato era stato il ragazzo bruno. Ora era ilsorvegliante di mio padre, un uomo tra altri uomini. E aveva un nome,Donovan de Gautier.

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20Nell’autunno del mio ventiseiesimo anno, il 1789, cominciarono ad arrivarenotizie stupefacenti dalla Francia. Ogni nave che attraccava a Fort-Royalportava nuove informazioni, narrava di eventi sorprendenti.

Dapprima apprendemmo che il re aveva inviato migliaia di militari a Parigicon grande spavento di tutti. Poi ci dissero che una grande folla armata dilavoratori disoccupati e di accaniti radicali aveva marciato alla vecchiafortezza della Bastiglia e l’aveva presa d’assalto, uccidendo i soldati diguardia. E che tutti i parigini erano entusiasti della cosa e andavano a buttaregiù le mura della vecchia fortezza, come se fosse una roccaforte importante enon un’anticaglia ormai in disuso.

Da anni si parlava di riforme. Ora, a quanto sembrava, le riforme eranoarrivate, e nessuno ne aveva la responsabilità, nessuno poteva impedire cheprocedessero troppo velocemente. Apprendemmo che tutti i nobili avevanorinunciato ai loro titoli e che Alexandre era stato fra i primi a rinnegare ilsuo! Non ero più la viscontessa de Beauharnais, ma soltanto Rose Tascher,cittadina Beauharnais. Ora in Francia tutti i cittadini di sesso maschile eranouguali. Le parole d’ordine a Parigi erano “Libertà, Uguaglianza, Fraternità”.

Sembravano parole belle e nobili, se non si rifletteva a che cosa avrebbepotuto portare una simile filosofia. Non tutti avevano una mente elevata.Non tutti erano altruisti. Non mi sorprese venire a sapere che in ogni partedella Francia ladri saccheggiavano le case dei signori, pretendendouguaglianza nella ricchezza.

Le notizie degli improvvisi cambiamenti sociali in Francia aggravarono ilconflitto fra schiavi e padroni alla Martinica. C’erano molti schiavi liberati aFort-Royal, e dalle loro file venivano oratori che parlavano con eloquenzadel diritto di tutti gli schiavi all’uguaglianza con i loro padroni. Non dovevaesserci più schiavitù, proclamavano. Mai più asservimento. Tutti gli uominidovevano essere liberi.

Il risultato immediato furono alcune sommosse su una scala mai vista prima

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nella Martinica (o così mi assicurava Jules-sans-nez, che si diceva avesse piùdi ottant’anni). I lavoratori dei campi fuggivano, gli schiavi domesticirifiutavano di lavorare. La canna, pronta per essere raccolta, non venivatagliata e marciva sul posto. Le barche da pesca rimanevano ferme, lebancarelle al mercato vuote. Il bestiame gemeva nelle stalle, attendendoinvano di venire abbeverato e nutrito.

Esplodevano rivolte di schiavi, si sentiva parlare di Grands Blancs castrati eimpiccati e delle loro donne stuprate e strangolate. Si vedevano nelle stradedi Fort-Royal schiavi fuggiti che portavano collane fatte con le pallideorecchie dei Grands Blancs. In tutta l’isola si sentiva il battito dei tamburiche trasmettevano messaggi. E non dubitavamo che quei messaggicostituissero una minaccia per noi.

La tensione cresceva giorno dopo giorno, notte dopo notte, fino a una seradi luna piena in cui il ritmo selvaggio dei tamburi raggiunse una più precisacadenza minacciosa. Euphemia, accigliata, andò alla finestra a sentire.

«Stanno venendo» la sentii dire tra sé. E aggiunse altre parole in lingua iboche senza dubbio erano preghiere e incantesimi. Poi baciò la statuina dellaDea Rossa degli Ibo che portava al collo e agì rapidamente. Prese in braccioHortense, e, dicendomi di seguirla, corse con lei in cantina, una grandestanza buia e fresca piena di casse di patate dolci e di bottiglie di rum.

Un’altra mezza dozzina di persone ci seguì; tra queste Jules-sans-nez eSelene, gli occhi sbarrati dalla paura, che scese a fatica le scale appesantitadalla pancia.

«Rimanete qui qualsiasi cosa accada» ci disse Euphemia prendendo ilcomando. «Mettete il catenaccio quando sarò uscita. Vado ad avvertire ilpadrone.»

Euphemia non usava mai il nome “padre”. Né mai lui l’aveva chiamata“figlia”. Immaginavo che l’abisso sociale tra loro fosse troppo grande,sebbene avessi sentito dire che mio padre aveva amato la madre diEuphemia più di tutte le altre amanti. Fino a ora, vale a dire. Fino a Selene.

Euphemia salì le scale e noi mettemmo il catenaccio.

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Aspettammo, mentre il suono dei tamburi si faceva sempre più insistente,accompagnato da un clamore di voci. Voci di uomini.

Mi chiedevo dove fosse Donovan. Si recava spesso a Les Plages. Era làanche questa notte, per riunire la milizia?

Aspettavamo, nell’oscurità, tesi per l’ansia e la paura. Euphemia nontornava. Era stata catturata? Temevo per lei.

A un tratto sentimmo battere alla pesante porta. Nessuno si mosse. Il battitosi fece più forte.

«Fateci entrare, fateci entrare!» Era una voce di donna. Una voce chericonobbi, quella della zia Rosette.

Lasciai andare Hortense, che mi sedeva in grembo.

«Zia Rosette!» chiamavo mentre salivo le scale. «Vengo, zia Rosette...» Apriiil catenaccio e vidi mia zia, il viso annerito dal fumo, l’abito strappato e ipiedi nudi infangati. Accanto a lei stava mia madre, nelle stesse condizioni.

«Avete del cibo?» furono le sue sole parole. Era debole e con gli occhispenti.

«Sono tre giorni che non mangiamo» disse la zia Rosette in tono incolore.«Ci tenevano chiuse nella casa del vento, dietro quelle pesanti porte. Erano amigliaia, cantavano e battevano le mani. Era orribile! Abbiamo pensato chesaremmo morte.»

Mia madre aveva sceso le scale e stava frugando in una cassa di patate dolci.Ne mangiò una, affamata come un cane. Anche Rosette scese e cominciò adivorare le patate crude, dimentiche entrambe di ogni decoro.

Attraverso l’alta finestra sbarrata della cantina vedevo una livida luce rossa.“Torce” pensai. “Bruciano i campi di canna.” Subito dopo sentii l’odore delfumo e lo scricchiolio delle canne che si accartocciavano.

Un grido lacerante sovrastò il clamore esterno. Era Selene. Si era appoggiataal muro di pietra e si stringeva il ventre, con gli occhi stralunati. La paura

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aveva anticipato il momento del parto.

«Dobbiamo portarla fuori» dissi. «Non può avere qui il bambino.»

«I bambini» mi corresse la zia Rosette. «Jules-sans-nez ci ha detto che èincinta di due gemelli.»

Mia madre alzò lo sguardo dalla patata dolce che stava mangiando il temponecessario per dire: «Che muoia pure».

Aprimmo una cassetta di rum e cercammo di farne bere un poco a Selene,per calmarla. Ma lei scagliò lontano la tazza di legno e il liquido scuro caddea terra allargandosi in una pozza.

«La levatrice» dissi. «Dobbiamo portarla dalla levatrice africana a Fort-Royal.»

Mia madre mi guardò, le guance piene di cibo.

«Rose, ti proibisco di mettere a rischio la tua incolumità per salvare questasgualdrina! Chi lo sa quale confusione potrà esserci a Fort-Royal?»

«Per salvare anche i suoi bambini, madre.» Non era necessario cheaggiungessi: “Quei figli maschi che tuo marito ha sempre desiderato”.

«Non dovrà correre dei rischi.» Era la voce di Euphemia. Si trovavaall’angolo opposto della stanza, all’interno del vano di una porta che nonavevo notato prima. Mentre guardavamo, la porta sbarrata si spalancòaprendosi su una buia oscurità. Euphemia fissava Jules-sans-nez cheaccennò di sì.

«I Grands Blancs non sanno nulla di questa galleria» disse Euphemia. «Portaalla chiesa del villaggio, a una botola sotto la cripta. Il prete aiuta ifuggiaschi.»

«Padre Herault aiuta gli schiavi a fuggire?»

Euphemia annuì. «Crede nei cambiamenti che avvengono a Parigi. Libertà,Uguaglianza, Fraternità. Ha aiutato a costruire la galleria. È stata completata

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un mese fa.»

Parlava in fretta, a voce alta, per farsi sentire nel crescente tumulto cheveniva da fuori e arrivava fino a noi attraverso la finestra.

Mentre ascoltavo Euphemia, scuotevo la testa stupefatta. Padre Herault,pesante e anziano, che diventava rosso al minimo sforzo, aveva aiutato acostruire una galleria sotterranea perché i nostri schiavi potessero fuggire.Senza dubbio si stava verificando un cambiamento stupefacente, se il pretedel nostro villaggio aiutava gli schiavi fuggiaschi. La Chiesa aveva sempreaccettato e difeso il dominio dei Grands Blancs sugli schiavi. Tutto quelloche avevamo alla Martinica, il nostro modo di vivere dipendeva dall’alleanzatra i proprietari e la Chiesa, che insegnava agli schiavi a obbedire ai padroni.Che cosa avrebbe detto mio padre quando avesse saputo della galleria?

Il grido di Selene mi riportò all’urgenza del momento.

La guardai, i lineamenti stravolti dal dolore, gli occhi chiusi, le mani che siafferravano al ventre. Sapevo bene quanto potessero essere intensi,lancinanti e, soprattutto, angoscianti, i dolori del parto. Avevo lottato molteore prima di dare alla luce i miei due figli, in particolare Eugène, chesembrava volesse rifiutarsi di nascere. E Selene avvertiva quel dolore equella paura nel pieno del terrore ancora più grande che tutti provavamovedendo le fiamme dei campi bruciati che gettavano una vivida luce rossasui muri della cantina e sentendo il clamore esterno sempre più forte.

Andai a inginocchiarmi accanto a lei.

«Riesci a camminare?» le chiesi, rendendomi conto che erano le primeparole gentili che le rivolgevo.

Lei annuì ed Euphemia e io la aiutammo ad alzarsi. Selene non ci guardò, silimitò a prenderci le mani. Ci avviammo alla porta della galleria, mentreHortense ci correva dietro.

«Anch’io voglio essere di aiuto, maman» disse, e io la abbracciai e le dissiche era una bambina buona e coraggiosa e che saremmo andate tutte a vivereun’avventura.

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Sentii mia madre e la zia Rosette che protestavano, ma non mi fermai perrispondere. Prendendo la torcia accesa che Jules-sans-nez staccò dal muro emi porse, respirando un’ultima volta l’aria rancida e umida della cantina,entrai, timorosa ma piena di spirito d’avventura, nell’oscurità della galleria.

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21Il caldo ci assalì immediatamente.

Appena entrammo nella stretta galleria, dal soffitto alto giusto quantobastava perché potessimo camminare dritte, la temperatura salì, e continuò asalire mentre avanzavamo. Il sudore mi colava sul viso e la mano che tenevaquella di Selene diventò presto scivolosa.

Eravamo sotto i campi che bruciavano. Immaginai che la terra stessa sopra lenostre teste ardesse, e il calore penetrava nel suolo inaridendolo fino a farloscricchiolare. Cercai di non pensare a che cosa sarebbe accaduto se il soffittodella galleria avesse ceduto, intrappolandoci. O se il fumo avesse invaso lagalleria, soffocandoci.

Selene camminava piano, trascinandosi, a testa bassa, gemendo. I gemitidiventavano grida quando i dolori le attanagliavano il ventre, e lei eracostretta a fermarsi. A volte sembrava che strisciassimo come lumache e ilcuore mi batteva dalla paura. Per calmarmi cercavo di calcolare quanto fosselontana la chiesa del villaggio, ma, sebbene avessi compiuto quel percorsomolte volte all’aperto e conoscessi ogni metro, ogni svolta del sentiero tra icampi, non riuscivo a valutare a quale distanza si trovasse.

Non camminavamo da molto quando sentii l’odore del fumo. L’odore dolce,avvolgente del fumo di canna, così intenso che mi stordì, rischiando di farmicadere di mano la torcia.

Quel fumo soffocante portò Selene sull’orlo di una crisi di nervi. Tossendo epiangendo, agitava la testa con violenza e urlava che non poteva andareavanti.

Feci la sola cosa che mi venne in mente per indurla a continuare.

«Serpenti!» gridai. «Ci sono serpenti in questa galleria.»

Con un urlo penoso, Selene si precipitò avanti, superando la sua riluttanza a

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muoversi.

L’odore rimaneva insopportabile, ma l’aria non divenne più pesante, erespiravamo, ansando, mentre continuavamo a camminare, gli occhi fissi alpavimento diseguale, attente a vedere forme sinuose o lingue guizzanti.

Selene si fermava sempre più spesso e gridava per il dolore.

«Sta arrivando il momento del parto» mi sussurrò Euphemia. «Quei bambininasceranno molto prima di arrivare a Fort-Royal.»

Quando giungemmo all’ultimo tratto della galleria e vedemmo una porta nelmuro davanti a noi, comprendemmo che per Selene era arrivato il momento.Crollò a terra, esausta, mentre noi battevamo alla porta.

Sentimmo dei passi. Poi una voce. Padre Herault.

«Chi è?»

«Rose Tascher, padre» dissi usando il nome con il quale mi aveva sempreconosciuto. «Ho con me mia figlia e altre due donne. Una delle due sta perpartorire.»

Sentimmo il catenaccio scivolare all’indietro e la porta si spalancò. L’odoredi incenso si sostituì a quello delle canne bruciate. Eravamo nella buia criptadella chiesa, dove erano sepolti mio nonno des Sannois, la mia cara nonnaCatherine, le mie sorelle e molti altri Grands Blancs. Le fredde bare di pietrascintillavano flebilmente alla luce della torcia.

«E gli altri ai Trois-Îlets?» chiese padre Herault. «Ci sono feriti?»

«Abbiamo lasciato mia madre e la zia Rosette al sicuro nella cantina. Non sodove sia mio padre. E gli schiavi...» Non potei finire la frase. Non sapevonulla.

«Vostro padre e il sorvegliante erano qui. Sono andati a chiamare la milizia.Vostro zio è stato catturato dai ribelli. Si sono impossessati di Fort-Royal.»

Padre Herault portò dalla chiesa dei cuscini ricamati da inginocchiatoio, e

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noi vi adagiammo Selene. Aveva cominciato a emettere suoni animaleschi,grida soffocate che le rimanevano in gola, poi esplodevano in urla di dolore.

Euphemia le mise in mano la statuina della Dea Rossa e Selene la strinse. Iodissi a Hortense di aspettare in chiesa e di pregare per Selene.

«Le donne ibo mettono al mondo i figli dove stanno lavorando, tra le file dicanne, vero?» chiesi a Euphemia. «Senza la presenza di una levatrice.»

«E molte di loro muoiono» rispose seccamente Euphemia.

Io ricordai il mio parto, come l’ostetrico si tenesse puntigliosamente adistanza dal mio letto, mentre io giacevo contorcendomi a ogni nuovadoglia, ansiosa che lui facesse qualcosa, qualsiasi cosa, per abbreviarmi iltravaglio. Mi sembrava che il sistema africano fosse migliore.

«Cerchiamo di sollevarla» dissi a Euphemia «di farla stare accovacciata.»

Dopo molte proteste di Selene, riuscimmo a metterla in quella posizione,sistemandole sotto i cuscini.

Ora le doglie si succedevano veloci, in lunghe ondate di straziantesofferenza. Euphemia mormorava una preghiera africana. Padre Herault, nonso se per rispetto o per non sentirsi male, aveva lasciato la cripta.

«Ora, Selene, devi spingere molto forte appena senti la prossima doglia. Sì,lo so, è dolorosissimo. Ho avuto due figli. So che vorresti morire. Ognidonna pensa così nel travaglio del parto.»

Continuai a parlare a Selene in tono incoraggiante, sperando di distrarla dallaviolenza dei suoi dolori.

«Spingi, spingi» la incalzavo, e da come stringeva i denti comprendevo chefaceva il possibile, per quanto debole, per obbedirmi. Dalle sue gambeschizzava acqua, un tiepido liquido che odorava lievemente di mare.

Lei ansimò, singhiozzò e urlò, ma, mentre urlava, emerse una testolinabruna.

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«Spingi ancora, più forte, più forte» gridai, eccitata non meno che ansiosa.

Euphemia prese il bambino e lo immerse nella bacinella dell’acqua benedetta– la sola disponibile – per lavarlo.

«Hai una figlia, Selene» dissi «del colore del cioccolato.»

Trascorsi pochi minuti, le doglie ripresero, e questa volta, dopo l’estremosforzo di Selene, ormai distrutta, nacque un bambino. Ma, a differenza dellabambina, il maschietto non piangeva e non muoveva le gambine. Aveva lelabbra livide, gli occhi chiusi.

Né Euphemia né io avevamo il coraggio di dire a Selene che il suo bambinoera morto. Ma non importava. Niente importava ormai, perché lo sforzo leera costato la vita. Scivolò a terra, diede in un ultimo straziante gemito emorì.

Distrutta, addolorata, svuotata, guardavo il corpo senza vita di Selene, poi labambina. Euphemia l’aveva lavata e la stava avvolgendo in una striscia dilino che si era strappata dalla gonna. Come Euphemia, quella piccolina era lamia sorellastra. Carne della mia carne e sangue del mio sangue. Eppure erasenza madre, e sapevo che mio padre non l’avrebbe voluta. Aveva sempredetto che le figlie per lui erano una maledizione. Sapevo altrettanto bene chemia madre avrebbe fatto il possibile per evitare che la figlia di Selene venisseallevata nella sua casa.

Tesi le braccia e presi la bambina da Euphemia.

«Coco» dissi a voce alta, quasi senza pensarci. «Ti battezzo nel nome delPadre, del Figlio e dello Spirito Santo.» Avevo sentito tante volte quellaformula che la conoscevo a memoria. “Ora, se la piccola muore” pensai “lesaranno almeno risparmiate le pene dell’inferno.”

Dalla chiesa venne un fracasso tremendo. Udii un bambino gridare.

“Hortense” pensai e corsi su per le scale che portavano alla chiesa, con lapiccola Coco tra le braccia.

Ma, prima di aver salito uno o due scalini, sentii le urla di gioia selvaggia di

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uomini scatenati. Colpi, oggetti che andavano in frantumi, rumore di vetroinfranto e di mobili gettati a terra. E il grido terribile di un uomo tormentatodal dolore.

Gli invasori scesero nella cripta spingendo padre Herault con la punta deicoltelli. Era ferito. Era stato colpito alla testa. Il sangue gli scorreva sullafronte e sul viso e gli macchiava la vecchia tonaca nera.

«Maman, maman!» Hortense scese correndo le scale, oltrepassando il preteferito, e si nascose nelle pieghe della mia gonna. Tenendo la neonatanell’incavo del braccio, mi strinsi Hortense contro le gambe con la manolibera, nel vano tentativo di nasconderle la scena che aveva davanti.Euphemia e io arretrammo contro il muro della cripta, ignorando il corpo diSelene che giaceva dimenticato vicino a noi.

“Ci uccideranno tutti” mi dissi. Poi il terrore cancellò ogni pensiero.

Padre Herault incespicò e cadde. Appena a terra, la folla di uomini impazzitigli fu sopra. I coltelli gli trapassarono il corpo più e più volte, e il sanguesgorgava in una decina di piccoli rivoli. Con un grido inumano uno degliaggressori gli tagliò la testa e la sollevò in alto con un sorriso di tragicotrionfo.

Mi sentii male, stravolta per l’orrore di cui ero testimone. Vedevo i coltelli,sentivo l’odore del sangue. Avvertivo mani crudeli che si tendevano verso dime, ma, prima che potessero toccarmi, esplose un colpo di arma da fuoco,secco e nitido.

Un colpo di moschetto. Poi un secondo.

Altri uomini correvano giù nella cripta. Questa volta erano Grands Blancs.Seguirono combattimenti, grida. Io stringevo le bambine. Riuscivo appena arespirare tanto ero terrorizzata.

Attorno a me, gli uomini urlavano e imprecavano. Si sentivano gemiti disofferenza, colpi e la confusione di una rissa.

Avvertii che qualcuno mi prendeva il braccio.

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«Venite subito, Madame, porterò voi e i bambini al sicuro.»

La voce era di un Grand Blanc, che si esprimeva in creolo. Parlava confermezza, autorevolmente. Dovevo fidarmi di quella voce.

«Gérard de Sévigné al vostro servizio, Madame. Della milizia di Les Plages.Vi prego, venite in fretta.»

Venni condotta, in mezzo alla folla di uomini in lotta, alla parte superioredella chiesa, quindi all’esterno, dove erano riuniti decine di uomini acavallo, carri e vagoni.

L’alba stava spuntando. Nella prima luce del mattino vidi molti africani,ammanettati, che venivano portati via. Immaginai fossero i ribelli che eranovenuti ai Trois-Îlets e avevano dato fuoco ai campi di canna.

Chiesi al mio salvatore, Gérard de Sévigné, dove fosse mio padre e mivenne detto che era andato a Fort-Royal con la milizia locale.

«Noi di Les Plages siamo stati incaricati di trovare i ribelli rimasti e diarrestarli. Non possiamo sapere quanti siano né dove si trovino. Cosìabbiamo cercato in ogni piantagione, in ogni proprietà. È stata una fortunache siamo venuti qui nel momento giusto.»

Fece cenno a un altro della milizia e gli chiese di portare uno dei trofei presiai ribelli la sera prima.

Era un lungo palo di legno sormontato da una bandiera di un giallo vivace.Al centro di essa spiccava il disegno rozzo di un bambino dalla pelle biancainfilzato sulla punta di una spada.

Strinsi Coco, che cominciò a piangere: il pianto acuto, stridulo dei neonati.

“Ma Coco è bruna” pensai. “Non bianca. Senza dubbio è salva, anche tra lebraccia di una donna bianca come me.”

«Yeyette!» Euphemia veniva accompagnata fuori dalla cripta da un altroufficiale della milizia, e abbracciò me e i bambini.

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Vedendola, mi sentii sopraffatta. Di colpo le ansie e la tensione di quellalunga notte paurosa si impadronirono di me e mi lasciarono esausta. Ricordoche mi condussero a un lettino duro e mi diedero da bere e da mangiare. Poicaddi in un sonno turbato, pieno di incubi.

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22Fu Donovan a svegliarmi. Mi accostò le labbra all’orecchio e mi parlò contenerezza, piano, come faceva quando eravamo soli.

«Vieni, non puoi restare qui» disse. «Devi lasciare l’isola. Nel porto c’è unanave, la Sensible. Da quanto so, a bordo c’è un tuo amico, il capitanoScipion du Roure. Sta portando molti Grands Blancs in Francia.»

Donovan era venuto al villaggio insieme ad altri della milizia di Les Plages.Gérard de Sévigné gli aveva parlato della mia fuga dai Trois-Îlets e dellabattaglia nella cripta della chiesa. Al nome di Scipion, provai una fitta dinostalgia.

«Non posso andare senza Hortense ed Euphemia.»

«Ci sarà posto anche per loro. Insisterò.»

«E...» cominciai a dire. «E Coco», ma subito mi fermai. La piccola di Selenenon era figlia mia, eppure provavo affetto per lei. Non potevo lasciarla.

Donovan comprese i miei pensieri.

«Mentre dormivi, Euphemia ha trovato una balia per la neonata. Una ragazzacon un figlio suo. Sarà a bordo della Sensible.»

«E tu?»

Donovan mi baciò.

«Io devo restare qui, fare quello che posso per evitare altri spargimenti disangue.» Il suo viso si irrigidì. «Non possiamo arrenderci al caos.»

Mi afferrai a lui. «Ma io voglio che non ti accada nulla. E non ho intenzionedi lasciarti.»

“È carne della mia carne” pensai. “Siamo uniti. Come fusi insieme. Ho

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bisogno della sua presenza.”

Lui mi strinse con foga. «Presto. Prendi le tue cose.»

Fort-Royal era sotto attacco. Mentre Donovan ci conduceva lungo le strettestrade verso il porto, eravamo circondati dalle continue esplosioni del fuocodei moschetti e dal rombo dei cannoni. I fortini sulle alture che sovrastavanola città erano nelle mani dei ribelli al comando degli Amici della Libertà. Miozio Robert era stato rapito. Non sapevo nulla di mia zia e dei miei cugini.

Il carro su cui viaggiavamo oscillava pericolosamente, con i cavalliterrorizzati che nitrivano e si impennavano quando Donovan lottava pertenersi lontano dagli edifici in fiamme e dal suono delle esplosioni. Hortensepremeva le mani sulle orecchie e chiudeva gli occhi. Euphemia, la Dea Rossaappesa al collo con una cordicella, aveva in braccio Coco addormentata.

Infine giungemmo al porto affollato e ci precipitammo a bordo dellaSensible, mentre i marinai ci tendevano le mani per aiutarci a salire sullapasserella improvvisata. Donovan e io potemmo scambiarci soltanto unbrevissimo abbraccio.

«Ricordami» sussurrò. Poi io mi affrettai, tenendo per mano Hortense, sulleassi irregolari e sul ponte della nave. Quando mi voltai, non riuscii più adistinguere il carro di Donovan dalla massa di veicoli e cavalli e gente chegridava, perché l’aria era densa di polvere e fumo dei cannoni.

Quindi partimmo seguendo la marea, le vele che si gonfiavano al vento, laprua che si tuffava e si impennava nelle onde alte.

Il viaggio verso la Francia richiese otto settimane, e in quelle lunghesettimane trassi conforto da Scipion.

Si era irrobustito da quando lo avevo visto l’ultima volta a Parigi, e il corpoforte, solido non era più snello come lo ricordavo, gli occhi grigi eranomeno penetranti e aveva baffi biondi. Quando venne ad accogliermi, lo fececon calore e cortesia, ansioso di sapere che cosa fosse accaduto ai Trois-Îletse di sentirmi confermare quello che aveva sentito dire della mia pericolosaavventura nella notte in cui avevano bruciato i campi.

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«Siete un’eroina, sapete» disse mentre mi abbracciava. «Tutta Fort-Royal saquanto siete stata coraggiosa a fuggire in quella galleria salvando la schiava ela sua bambina.» Rideva, ma gli occhi erano pieni di ansia. «Sono felice chenon vi sia accaduto nulla, Rose.»

La sua premura era molto importante per me. Mi invitò a cenare alla suatavola e non dimenticò di far mandare altro cibo nella mia cabina perEuphemia e Hortense. Quando il tempo era bello, mi accompagnava apasseggiare sul ponte e a volte, la sera, giocavamo a carte insieme con altripasseggeri.

A poco a poco la nostra calda, tranquilla amicizia si trasformò in amore, masi trattava dell’amore affettuoso, confortante di due amici devoti, non dellapassione intensa, divorante che avevo conosciuto con Donovan. Nellebraccia di Scipion cercavo rifugio. Questo era chiaro a entrambi, come erachiaro che, non appena la nave avesse attraccato a Brest, io sarei scesa a terracon la mia famiglia e Scipion avrebbe assunto il comando di un’altra nave.Quando venne il momento, ci separammo teneramente.

Nulla avrebbe potuto prepararmi allo stupefacente cambiamento avvenuto aParigi durante la mia assenza. La vecchia Bastiglia, naturalmente, nonesisteva più, le rovine erano un tempio alla libertà. Erano spariti anche lebelle carrozze e gli abiti costosi e le gemme della nobiltà, le dimore bentenute e le immense schiere di servitori, i negozi eleganti nei quali un tempoavevo speso con tanta prodigalità suscitando la collera di Alexandre.

Parigi era sempre stata sporca, ma ora lo era molto di più, con alti mucchi dispazzatura maleodorante, di rifiuti delle cucine e delle stalle al centro di ognistrada, e tutti i viali pieni di sudiciume e infestati dai topi. Le strade eranoancora affollate, ma i visi erano scarni e divorati dall’ansia, non felici ospensierati. Dopo un breve soggiorno nella capitale mi resi conto che lapopolazione soffriva per i prezzi sempre più alti e la scarsità di cibo. Scopriiche anche la mia ricchezza era stata confiscata dall’Assemblea Costituente, ilgoverno attuale. Come viscontessa Beauharnais ero stata ricca; ora che erosoltanto la cittadina Beauharnais ero povera.

Ovunque sorgevano monumenti alla Rivoluzione: statue della dea Libertà,altari al Cittadino, manifesti che esaltavano la fine della tirannia e l’inizio di

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una nuova era. Ma tutti erano tesi, come se l’instaurazione dei nuovi ideali liinnervosisse e li spaventasse. Gli avventori nella piazza del mercatoandavano da un banco all’altro, contando in fretta i loro assegnati (la nuovacartamoneta emessa dal governo) e nascondendo furtivamente le comperenelle tasche o sotto la giacca. Nessuno sembrava fidarsi di nessuno, e delfuturo.

Presi in affitto una stanza modesta in una pensione per me, Euphemia e lebambine, ma finii in questo modo tutto il danaro che mi restava. Andai acercare il mio ex socio d’affari, il barone Rossignol – il cittadino Rossignolora – e seppi che era stato arrestato dal Comitato di salute pubblica e portatovia.

Allora mi sentii rabbrividire, un brivido di terrore. Chi erano questi nuovigovernanti, che si arrogavano il diritto di confiscare il danaro dei cittadini edi arrestare chi volevano?

Quando andai a trovare la mia più vecchia amica a Parigi, Fanny deBeauharnais, scoprii che il suo salotto non somigliava in alcun modo aquello che era stato prima della caduta della Bastiglia e dell’ascesa del nuovogoverno. Il velluto rosso era stato sostituito dai colori della Rivoluzione, imuri, i tappeti e i mobili ricoperti di patriottiche strisce rosse, bianche e blu.La stessa Fanny era la Libertà personificata, nel semplice abito simile a unatoga con le coccarde rivoluzionarie nei capelli.

«Ora compongo soltanto inni alla Rivoluzione» mi disse la prima sera cheandai da lei. «Non si sa chi potrebbe ascoltare.» Tutti si sussurravano che laCostituente aveva spie dappertutto, le quali riferivano quanto la gente dicevae faceva.

I colleghi letterati di Fanny erano altrettanto prudenti in quello chescrivevano. Séraphin Lamblin, l’alto, esile poeta dai capelli scarmigliati cheavevo incontrato molte volte nella casa di Fanny, mi disse che stavalavorando a un nuovo poema epico, La Bastiglia, e i due uomini che Fannycontinuava a chiamare gli Inseparabili, Henri e Bernard, avevano scrittoinsieme un rabbioso sonetto intitolato Gli aristocratici devono morire.

«Ma siete tutti e due di nascita nobile» protestai. «Avete rinunciato ai vostri

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titoli. Lo abbiamo fatto tutti. Dunque, chi dovrebbe morire?»

Henri inarcò le sopracciglia. «I nostri oppositori. I ribelli. E quelli che siriuniscono ai confini, preparandosi a invadere la Francia, per cercare disoffocare la Rivoluzione.»

Sapevo che alcune zone dell’Ovest del paese erano rimaste fedeli all’anticoregime, opponendosi ai cambiamenti apportati dalla Rivoluzione.Combattevano contro gli eserciti rivoluzionari. E sapevo che molti nobilierano fuggiti dalla Francia verso l’Austria, l’Italia, la Svizzera.Raccoglievano armi, reclutavano soldati e si costituivano in eserciti, conl’intenzione di invadere la Francia e di riportare la situazione alle condizioniprerivoluzionarie.

La gente parlava sussurrando di quelle rivolte e di quei pericoli, guardandosiattorno furtiva. Non volevano essere uditi, non volevano si pensasse cheprovavano simpatia per i ribelli o per gli eserciti degli emigrati.

Quali fossero le nostre paure e i nostri timori, dovevamo agire tutti come sefossimo pronti a difendere la Rivoluzione fino alla morte. Indossavamo lecoccarde tricolori e rinunciavamo a ogni bottone gioiello, a ogni fibbia dascarpa d’argento. Accusavamo il re e la regina, imprecavamo contro laChiesa e i preti (il governo rivoluzionario rifiutava la religione), giuravamofedeltà al popolo francese e ci chiamavamo “cittadino” e “cittadina”.Cercavamo di essere coraggiosi, ma in realtà eravamo codardi.

Non gridammo a gran voce “Basta!”.

Non protestammo quando la violenza crebbe.

Non difendemmo la Francia da se stessa.

Una calda sera di agosto mi svegliò un forte suono di campane che venivada ogni parte della città. Si sentirono grida nelle strade e il rumore di corse edi cavalli al galoppo. Subito udii mormorii di rabbia e, guardando fuori dallafinestra del mio appartamento, vidi centinaia di persone che si affollavano ingruppi chiassosi agitando torce e cantando canti rivoluzionari. Hortense eCoco dormirono per tutto il tempo – Eugène non era con me, bensì alla

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scuola militare –, ma Euphemia mi venne accanto alla finestra, scuotendo latesta e parlando tra sé in lingua ibo.

Quella notte non riuscimmo a dormire, e quando cercammo di riposarci ilgiorno seguente, il nostro sonno veniva interrotto da vicini e strilloni cheannunciavano le terribili notizie. La folla aveva invaso il palazzo reale delleTuileries, uccidendo e mutilando le guardie e i servitori che cercavano diproteggere il re e la regina. Si narravano storie agghiaccianti, di pariginiimpazziti che tagliavano teste, mutilavano gambe e braccia, colpivano con laspada il seno delle donne, senza risparmiare nessuno. Avevamo paura diuscire, o soltanto di mandare la nostra unica cameriera o la balia di Coco almercato per acquistare cibo.

Ma era solo l’inizio dei giorni bui. Tremo mentre scrivo queste parole,perché sto arrivando a quella parte della storia che mi causò un terrore taleda farmi temere di perdere la ragione. Si stavano avvicinando per me iGiorni dell’Incubo.

Da chissà dove arrivavano uomini selvaggi, in berretti rossi e grembiuli damacellaio, che percorrevano le strade di Parigi uccidendo ogni prete cheincontravano. C’erano ancora molti preti a Parigi, in quei giorni, e venneroassassinati a uno a uno, al punto che le strade erano piene del loro sangue.Gli assassini dal berretto rosso non si accontentarono di uccidere i preti chetrovarono; urlando che Parigi era sotto attacco, assaltavano le carceri etiravano fuori i poveri prigionieri, pugnalandoli, bastonandoli e mutilando leloro membra tremanti.

Vivevamo vicinissimi alla prigione dell’abbazia e io sentivo gli uomini cheurlavano e imploravano pietà. Cinque poveretti vennero trascinati in cortileper essere fatti a pezzi praticamente davanti ai nostri occhi, e il sangueschizzò sul muro del giardino.

Che odore terribile! Ogni volta che lo respiravo sentivo le grida degli uominimorenti e dei torvi, spietati assassini che li uccidevano. Per una settimanacercai di lavare via il sangue, gettandovi sopra catini di aceto e strofinandocon tutte le mie forze. Ma la macchia rossa rimase, a dispetto di ogni miotentativo. Anche oggi ci sono molti muri rossi a Parigi.

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Indossando il mio più vistoso abito a strisce bianche, rosse e blu, e sperandodi avere un’aria patriottica, andai a cercare Alexandre. Era membro delnuovo governo, la Convenzione, che aveva appena dichiarato la Francia unarepubblica senza più un re e una regina. Non potevo non sentire pena per ilpovero re Luigi e la sua bella moglie Maria Antonietta. La gente diceva coseterribili su di loro, ma io pensavo: “Sono soltanto una famiglia, hanno deifigli e vogliono metterli al sicuro, proprio come faccio io”.

Trovai Alexandre nella grande sala in cui si riuniva la Convenzione: parlavacon altri delegati del nuovo esercito repubblicano. Era ancora bello, ma ilviso era più magro e segnato dalle rughe. Indossava pantaloni neri larghi, dacontadino, rozzi zoccoli ai piedi e una giacca rossa da pochi soldi con unacravatta blu macchiata. Un berretto nero con una coccarda gli copriva icapelli biondi, che cominciavano a diventare grigi.

All’inizio, il suo aspetto mutato mi colpì. Sparita ogni tracciadell’aristocratico ricco e arrogante, al suo posto c’era un uomo del popoloappassionato e dal linguaggio forbito, il cittadino Beauharnais.

«Cittadino» lo chiamai cercando di ignorare gli sguardi degli altri uomini.«Mi chiedo se potrei dirvi una parola. Si tratta dei nostri figli.»

Per un breve istante sembrò allarmato, poi riprese il suo contegnoimpassibile e si allontanò dagli uomini con cui stava discutendo.

«Che cosa c’è? Come vedete, ho affari urgenti. Gli affari del popolo.»

«Voglio mandare Hortense ed Eugène al sicuro. Un vecchio amico, ilprincipe di Salm, si è offerto di portarli con sé a Coblenza. Parte fra duegiorni.»

Gli occhi di Alexandre si fecero subito cupi. Mi trasse da parte, il più lontanopossibile dai delegati. Rispose a denti stretti.

«Non avete un po’ di buon senso? Non fate mai il nome di un aristocraticoin questa sala. In particolare di un austriaco traditore!»

«L’austriaco traditore, come lo chiamate, potrebbe essere la nostra sola

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speranza di portare i nostri figli via da Parigi.»

«E che bella figura farei, Rose! Un delegato della Convenzione come me, unuomo che è stato fra i capi di quanti hanno abolito la monarchia e dichiaratola repubblica francese, che manda i suoi figli lontano dal paese come sefosse un codardo.»

«Fareste la figura di un buon padre. Dunque, ho il vostro aiuto in questo odovrò sistemare tutto da sola?»

«Non vi sarà facile.» Aveva un tono distaccato, brusco. «I cancelli di Parigiverranno chiusi. Nessuno potrà entrare o uscire. Ci aspettiamo l’arrivo di unesercito di invasione tra poche settimane. Io prenderò il comandodell’armata del Reno.» Si inorgoglì tutto nel pronunciare quelle parole.«Eugène verrà con me come aiutante di campo.»

«Ma ha soltanto dodici anni!»

«Conosco l’età di mio figlio, cittadina. E conosco il suo patriottismo e il suodesiderio di servire la Francia.»

«E Hortense?»

Alexandre scrollò le spalle in modo eloquente. «La Francia ha bisogno ditutti i suoi figli. Può cucire. Può coltivare verdura. Può preparare pallottole.Le mani piccole sono sempre utili.»

Compresi che era inutile discutere con lui. Mi preparavo a prendere congedoinfilando i guanti bianchi, rossi e blu. Ma dovevo dire ancora una cosa.

«Pensate davvero, Alexandre, di comandare l’armata del Reno contro vostrofratello François, con il suo esercito austriaco dei Veri Patrioti?»

Con gli occhi di fuoco, Alexandre mi si fece vicino e mi mise brutalmenteuna mano sulla bocca.

Sottovoce, mi rivolse una sfilza di insulti.

Facendo il nome del fratello di Alexandre, François de Beauharnais,

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intendevo in verità toccargli un nervo sensibile, ma la violenza della suareazione e la paura evidente che vi era sottesa mi stupirono. La Comunerivoluzionaria, che ora determinava tutto quanto diceva o faceva laConvenzione, aveva cominciato ad arrestare chi aveva parenti emigrati. Ilfratello di Alexandre non era soltanto un emigrato e un tenace sostenitore deldeposto re Luigi, ma aveva ottenuto un importante comando nell’esercitoaustriaco.

«Se pronunciate un’altra volta questo nome vi farò pentire di avermi maiincontrato» sussurrò Alexandre. «Con la vostra insulsaggine ci fareteuccidere tutti.»

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23Proprio mentre i soldati cominciavano a battere seccamente sui tamburi,sentii il peso di un tacco di legno sul mio alluce. Gridai, ritraendo il piede,ma nessuno mi sentì. Non sapevo chi mi avesse pestato il piede. Ero insiemea centinaia di altre persone nella piazza della Rivoluzione, affollatissima,dove era quasi impossibile muoversi. Come gli altri, guardavo l’alto patibolodove le guardie in giacca blu, le spade sguainate e le baionette inastate,circondavano sull’attenti la temuta ghigliottina.

Era stata la zia Edmée ad avvertirmi che dovevo assistere a quel terribilespettacolo, o rischiare di essere sospettata come nemica della repubblica.Dovevo unirmi alla folla entusiasta e chiassosa che si radunava ogni mattinanella piazza per assistere alle esecuzioni e mostrare al mondo – e inparticolare alle molte spie che riferivano tutti i nostri movimenti al tribunalerivoluzionario – che ero un’ardente patriota, felice di vedere fatta giustizia.

Erano tante le spie, tante. Ci tenevano d’occhio tutti, si diceva, ma inparticolare le persone come me, che un tempo avevano portato un titolonobiliare.

Un grasso braccio nudo mi urtò, rischiando di farmi perdere l’equilibrio. Eraun braccio di donna, che batteva le mani e cantava, incurante di quanti lacircondavano. Una cucitrice, pensai. O una fiorista o una lavandaia. Eraavanti negli anni, il viso pesantemente incipriato e imbellettato, le labbra diun vivido color cremisi, i vistosi capelli biondi striati di grigio.

Vedova rossa, vedova rossa,

uccidi, uccidi, uccidi!

Sangue rosso, sangue rosso,

zampilla, zampilla, zampilla!

Il canto veniva ripreso, molte voci si innalzavano superando il fragore dei

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tamburi.

«Eccoli che arrivano!» gridò qualcuno, e subito mi sentii ancora piùsoffocata da quanti mi circondavano, mentre la folla si divideva.

Una semplice carretta di legno avanzava attraverso la folla, verso il patibolo.Trasportava sei poveracci, dall’aspetto più sventurato che mai avessi visto.Neppure gli schiavi alla Martinica, dopo essere stati frustati e privati di cibo,erano così desolati e strazianti come quelle tre donne e quei tre uomini,magri, sporchi e con gli occhi sbarrati, le mani legate, le cuffie sudicie delledonne messe di sghembo.

Una di loro, notai, era poco più che una ragazza. Era delicata, esile, con unviso che era stato un tempo grazioso. Chi poteva essere? La figlia di unaristocratico come me? O una ragazza di strada? Al collo aveva un lembo dipizzo, un pegno, immaginai. Un piccolo ricordo della sua vita precedente. Siguardava attorno, fissava la folla che cantava e batteva le mani con il terrorenegli occhi, come una cerbiatta che stesse disperatamente cercando difuggire dai cacciatori.

Il canto finì, sostituito da un mormorio di acclamazione. Il boia, un uomoenorme con il fisico muscoloso di un lottatore, che indossava un grembiulemacchiato di sangue, si preparava a prendere posto accanto alla macchinaverticale la cui lama, affilata come quella di un rasoio, pendeva sospesa, amezz’aria. Il suo viso era nascosto dietro una maschera nera, che lo facevasembrare non umano, privo di espressione. La folla lo applaudì.

Il suono dei tamburi cessò. Dalla carretta venne portata la prima vittima, unadonna anziana. Le sputarono addosso, insultandola. Incespicò, mentre latrascinavano su per i gradini della ghigliottina, e sembrò sul punto disvenire.

«Vigliacca!» gridò qualcuno.

«Maledetta aristocratica!»

«Traditrice!»

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Venne risollevata in fretta e messa su una rozza asse sotto la lama lucente. Ilrullio dei tamburi riprese. Il boia sistemò la parte che teneva fermo il collo eazionò la leva che liberava la lama.

Con un colpo secco la testa venne tagliata e una fontana di sangue rossovivo zampillò bagnando la piattaforma di legno, schizzando sugli spettatoriin prima fila che applaudivano.

Il corpo della donna morta era appena stato gettato a terra quando la vittimasuccessiva, un uomo, venne trascinata avanti, urlante e ribelle.

«È l’orologiaio» si udì una voce dalla folla «il cittadino Carteret. È tardi perte, Carteret, farai meglio a guardare il tuo orologio. Non ti rimane piùtempo.» Seguirono altri motti di scherno e risate, mescolati al brivido diorrore e di eccitazione che percorse gli astanti quando la testa dell’orologiaiovenne tagliata e il suo corpo gettato oltre il patibolo.

Cominciai a sentirmi male. La nausea mi saliva in gola e lottai per impedirmidi vomitare. L’odore del sangue, insieme a quello dei corpi non lavati che micircondavano, mi stringevano, mi intrappolavano, aveva un effetto moltoforte.

Mi resi conto che gli altri mi guardavano, osservando la mia reazione.Avrebbero messo in dubbio il mio patriottismo? Deglutii.

«Vive la sainte guillotine!» gridai, e vidi con soddisfazione che la gentevicino a me rideva e applaudiva e ripeteva il mio grido. Ero nuovamente unadi loro.

Ma quando la ragazza venne trascinata via dalla carretta e data al boia nel suocappuccio nero, riuscii a malapena a guardare. Mi costrinsi a tenere gli occhifissi su di lei, sebbene fossero appannati dalle lacrime mentre la giovaneimplorava pietà in ginocchio, supplicando l’implacabile macellaio dalgrembiule sporco di risparmiarle la vita.

Non ci fu nessuna pietà, nessuna misericordia. La ragazza venne gettatasull’asse, tra fischi, chiasso e volgari suggerimenti. La lama cadde in fretta,in fretta il sangue schizzò, macchiando nuovamente il grembiule sporco.

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Velocemente, l’esile carcassa venne gettata via.

Ora il patibolo era intriso di sangue, che colava dalle assi di legno sullabruna terra assetata, tingendola di un color ruggine. Mi sembrava di vederesangue ovunque guardassi, sui volti della gente attorno a me, sulla facciata dipietra del palazzo delle Tuileries che fronteggiava la piazza, sulle mie mani.

«Vedova rossa, vedova rossa» cantavo con gli altri «uccidi, uccidi, uccidi!»

Era davvero la mia voce? Non ero diversa dagli altri con la loro grottescabramosia di morte, la loro ansia di sangue?

Erano ancora affamati, ma, più la mattinata avanzava, meno acuta si facevala loro smania. Avevano cominciato a gridare al boia di fare in fretta, ditagliare due teste alla volta. Toglievano ai corpi gettati via i loro poveri abitiinzuppati di sangue e se li lanciavano, applaudendo quando ogni capo diabbigliamento veniva preso, fischiando quando qualcuno cadeva. Ora nonavevo più la nausea, ma una sete bruciante. Accanto a me un uomo stavaparlando.

«Arriverà presto una ghigliottina più grande» diceva. «Una con quattro lame.Pensate come lavorerà in fretta! Taglia, taglia, taglia!» E fendeva l’aria con lamano.

Dalla carretta venne portata l’ultima vittima. Un uomo basso, dai capelli neri,con le labbra carnose e il naso largo, un viso familiare.

«Barone Rossignol!» cominciai a dire, e subito mi ripresi. «Il cittadinoRossignol, l’usuraio. Ha prestato danaro alla vedova Capeto!» L’ex reginaMaria Antonietta veniva chiamata “vedova Capeto” da quando il marito erastato decapitato dalla vedova rossa parecchi mesi prima.

Il barone si scrollò di dosso le guardie mentre saliva gli scalini. Persel’equilibrio e scivolò, ma si riprese. Mi accorsi che non aveva le mani legatecome gli altri prigionieri. Aveva corrotto le guardie per farsele lasciarelibere? Era astuto, sebbene non abbastanza per evitare la sorte che oradoveva affrontare. Oppure sì?

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Si aprì la camicia e il colletto, poi, con grande stupore di tutti, venne sulbordo del patibolo e cominciò a parlare.

«Sono Henri de Rossignol, discendente di Ugo Capeto, il primo re diFrancia. Nelle mie vene scorre sangue reale. Uccidermi è un regicidio. Unregicidio!»

A un cenno dell’ufficiale al comando delle guardie, i tamburi cominciaronoa rullare, seppellendo le parole del barone. Due soldati lo afferrarono, ma luiera agile. Cominciò ad arrampicarsi sulla ghigliottina, le gambe corte cherimanevano fuori dalla portata dei suoi inseguitori.

Evitando la lama, appesa vicino alla cima della struttura di legno, si issò sullapesante asse orizzontale che sormontava la macchina e rimase là, gridando,sebbene i tamburi sovrastassero le sue parole.

Ora la folla era incuriosita. Qualcuno sosteneva il barone, ammirando il suocoraggio. Ma la maggioranza, infiammata dal suo accenno alla monarchia eal proprio sangue reale, lo voleva morto.

«Prendetelo! Afferratelo! Non lasciate che quell’aristocratico ci sfugga!»

Uno dei soldati cercò di arrampicarsi sulla ghigliottina, ma si fermò a metà,spaventato dalla lama. Un ufficiale a cavallo spinse l’animale sul patibolo ecercò di colpire il barone con la sua spada, che però non era abbastanzalunga per raggiungerlo. L’ometto era salito troppo in alto e rideva dei suoiinseguitori.

Mentre guardavo, pensai che quello era il suo momento di gloria.Nonostante la scomoda posizione in cui mi trovavo e il rinnovato agitarsidella folla inquieta, non riuscii a reprimere un sorriso.

Poi diedero un moschetto a uno degli ufficiali. Questi prese la mira e tirò. Ilbarone si fermò, scosso dalle convulsioni, e cadde pesantemente ai piedi delboia. Il suo corpo venne gettato a terra.

Dalla folla si alzò un grido; battevano le mani, applaudivano, qualcunocantava.

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«Lunga vita alla nazione!»

«Potere ai sanculotti!»

«Beata santa ghigliottina, prega per noi!»

Osservai, tuttavia, mentre la folla cominciava a disperdersi, che alcuni diquanti erano venuti a guardare lo spettacolo, a godersi il castigo dei traditoridella Rivoluzione, si facevano strada nel punto in cui giaceva il corpo delbarone Rossignol e furtivamente bagnavano il fazzoletto nel sanguedell’ultimo dei Capeti.

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24Vennero a prendermi una mattina di aprile del 1794, il cittadino Lacombe e ilcittadino George. Bussarono alla mia porta con un mandato di arresto.

«Cittadina Beauharnais» annunciò il cittadino George, alto e con gli occhi dagufo «con la vostra condotta e le vostre conoscenze vi siete dimostrata unapartigiana della tirannia. Siete nemica della Rivoluzione. Dovete essereincarcerata per ordine del Comitato di salute pubblica.»

Svenni, ed Euphemia dovette farmi rinvenire con i sali prima che potesseroportarmi via.

«I bambini...» le mormorai mentre mi si chinava sopra.

«Non preoccupatevi, sappiamo dove andare.»

Avevamo spesso discusso tra noi su che cosa dovesse fare Euphemia se miavessero arrestata. Avevamo deciso che avrebbe dovuto portare Eugène,Hortense e Coco nella casa dove avevano vissuto la zia Edmée e il marcheseprima di emigrare in Italia. La governante aveva promesso che avrebbetrovato posto per loro.

Per molti mesi, da quando l’ex regina era stata decapitata ed era stata votatala legge sui sospetti, avevo avuto via via più paura di venire arrestata.Portavo con me il mio certificato di civismo ed ero molto cauta riguardo ailuoghi in cui andavo e a quello che dicevo, nel timore di essere accusatadalle spie, ma ogni giorno venivano imprigionati sempre più aristocraticicome me, in attesa dell’esecuzione, e io temevo sempre più di esserearrestata.

Soltanto poche settimane prima Alexandre era stato portato alla prigione deiCarmini, a dispetto dei servizi resi alla Rivoluzione. Il fratello François,emigrato, vinceva battaglie contro l’esercito francese, mentre Alexandre, alcomando dell’armata del Reno, le perdeva tutte. Era stato accusato ditradimento e arrestato. Quando lo avevo saputo, avevo compreso che anche

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a me rimaneva poco tempo.

Pensai a un tentativo di fuga, a travestirmi e a scappare per la campagna,perfino a nascondermi su una nave diretta alle Isole del Vento. Le cose, midicevo, non potevano essere peggiori là che a Parigi. Avrei cercato rifugiopresso la popolazione che conoscevo meglio, gli africani e i Grands Blancsdella Martinica.

Ma non potevo fuggire, per la stessa ragione per cui non avevo abbandonatola Francia mesi prima: i bambini. Alexandre aveva negato il suo consensoalla partenza di Eugène e Hortense e, senza il consenso scritto del padre, nonpotevano varcare il confine. Non sopportavo il pensiero di andarmene dasola, senza di loro. Così aspettavo, sperando e temendo nello stesso tempo.E infine quello che temevo più di ogni cosa si verificò con un colpo battutoalla mia porta.

Sin dall’inizio ero certa di morire, e presto. Il ritmo delle esecuzioni sullacrudele ghigliottina era in aumento. Le prigioni di Parigi erano soltanto saled’attesa, stalli per bestiame che aspettava di venire macellato.

Insieme ad altre decine di persone arrestate quel giorno, venni ammassatanell’ex monastero dei Carmelitani, dove sapevo essere imprigionatoAlexandre, un luogo tristemente famoso per il massacro dei monaci che viaveva avuto luogo soltanto pochi mesi prima. Le macchie di sangue eranovisibili sugli spenti muri di pietra grigia, non più di un colore rosso vivo, madi un cupo color magenta. Fummo portati lungo stretti corridoi bui erinchiusi in stanze piccole, dal soffitto basso, che erano state le celle deimonaci. Nella cella in cui mi trovavo io eravamo in sei, sei persone chedividevano un solo materasso di paglia, sottile, sporco, pieno di cimici, seipersone che dividevano lo stesso secchio per i bisogni corporali.

«Non preoccupatevi» ci dissero le guardie quando ci portarono il solo pastodella giornata, una tazza di semolino e una pagnotta di pane nero «nondurerà a lungo. Ve ne andrete presto da qui.» Sghignazzavano dicendolo,perché naturalmente intendevano: “Presto verrete messi a morte”.

Quanto presto? Era la domanda che ci ossessionava tutti, giorno e notte.

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Ogni sera veniva letto un elenco di nomi. I nomi di quelli che dovevanomorire il giorno successivo. A ogni nome, si sentiva un grido, un sussulto,un urlo: una reazione da parte del condannato. Quando l’elenco era statoletto, quelli di noi che non avevano sentito il proprio nome provavano unenorme sollievo. Un altro giorno di vita! Ma anche un altro giorno di terrore,perché ci saremmo potuti benissimo trovare sull’elenco della serasuccessiva.

Ansiosi, insonni, affamati, camminavamo come spettri spauriti nei corridoi evenivamo spinti nelle braccia di estranei.

Poiché dovevamo tutti affrontare la morte, provavamo un incontrollabiledesiderio di affermare la vita ed esprimere amore. O, piuttosto, di esprimerelussuria. Ci cercavamo ciecamente, istintivamente, bramosi del confortodella carne. Non so quanti amanti abbia avuto nella prigione dei Carmini, sosoltanto che non ero sola e davo e ricevevo piacere e conforto. L’amore, nonla Rivoluzione, era il vero livellatore in quei giorni sanguinari; l’amore univaaristocratici e borghesi, ricchi e poveri, ex padroni ed ex servi.

Una notte trovai Alexandre in un corridoio buio e, dimenticando tuttoquanto era accaduto un tempo, giacemmo insieme su una coperta sporca,mentre l’acqua gocciolava sul muro accanto a noi. Essendo stato in prigionepiù a lungo di me, aveva sofferto maggiormente; quando strinsi il suo corponudo, sentii le costole, tanto era magro. Aveva il viso coperto da una barbaispida, i capelli lunghi e sporchi e puzzava di sudore e fango.

Quella notte non vi fu alcun gesto violento da parte sua, alcun senso dipossesso. Sembrava che, di fronte alla morte, lo avesse lasciato anche la piùpiccola traccia di arroganza.

«Sarò ghigliottinato presto, Rose» mi disse mentre giacevamo insieme.«Promettimi che non sarai triste quando verrà la mia ora. Sono felice di darela mia vita per il mio paese, per la repubblica.»

«Ma è insensato! Tutta questa carneficina, il sacrificio di tante vite, per checosa?»

«Per la purezza. Per ripulire il paese dai traditori.»

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«Ma tu non sei un traditore, e neanch’io!»

«Per eliminare gli autentici traditori, è necessario sacrificare alcuni cittadinileali.»

«È assurdo. L’Alexandre di un tempo, quello che ho sposato, avrebbe riso diquesta folle logica.»

«Da allora ho imparato molto.»

Abbandonai la testa sul suo petto scarno e lui mi accarezzò i capelli. Piansi,in parte per l’estrema stanchezza, in parte per il dolore. Non c’era più verità,non c’era più senso. Soltanto illusioni e sofferenza e un mondo da cui erastata strappata ogni umanità.

In quella follia, mi afferravo a una speranza: rimanere incinta. Le prigioniereincinte non venivano ghigliottinate, ma inviate in un’altra prigione adattendere il momento del parto. Se avessi concepito un figlio, mi sarebbestata risparmiata la ghigliottina per nove mesi e a quel punto, speravo, laFrancia avrebbe forse ritrovato la ragione. O avrebbe potuto essere invasada un esercito straniero, e la monarchia sarebbe stata restaurata. Re Luigi eramorto, ma il figlio, si diceva, era vivo in qualche prigione. Avrebbe potutoregnare su di noi. Tutto sarebbe potuto tornare come prima.

Il flusso mensile si era fermato e sperai di essere davvero incinta. Dissi allaguardia che sorvegliava noi sei che mi sentivo male, stringendomi lostomaco e fingendo di essere sul punto di vomitare. Dapprima mi guardòcon sospetto, poi sparì lungo il corridoio. Molto tempo dopo tornò con undottore biondo e ricciuto che mi sentì il cuore, mi visitò e mi guardò consimpatia.

«Sarei felice di mandarvi con le altre future madri» disse. «Ma non possoessere certo della vostra condizione. Quando una donna non mangia asufficienza, il flusso mestruale si interrompe. Qui succede molto spesso.Verrò a visitarvi di nuovo tra qualche giorno.»

«Se sarò ancora viva» sbottai.

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Tornò davvero e appresi che si chiamava Karel Osnolenko e veniva daCracovia. Fu molto gentile con me, addirittura premuroso, con una cortesiagarbata che mi sembrò dolce e commovente. Mi teneva la mano e laaccarezzava mentre mi parlava, in un gesto paterno. Mi calmò i nervi tesi.

Mi confidai con lui. Sentendo la morte vicina, gli narrai la storia della miavita, e lui ascoltò con interesse e partecipazione, interrompendomi seraccontavo cose tristi e facendomi rimanere in silenzio fino a quando ilcuore non mi si era calmato.

Persi il senso del tempo. In prigione un giorno era uguale all’altro. Eravamosempre al buio, se si escludevano le torce alle pareti. Giorno o notte, nonfaceva differenza per noi, se non perché la terribile lettura dell’elencoarrivava con il pasto serale. Mi sentivo sempre più debole, priva di vita. Duedonne nella mia cella si ammalarono e morirono prima di venireghigliottinate. Lungo i corridoi sentivamo sempre tossire e dare di stomaco evoci che chiedevano acqua.

E arrivò le notte peggiore della mia vita, la notte in cui stavo per cedere alladisperazione.

Mi ero sentita male e, sebbene il dottor Osnolenko facesse quello chepoteva, mi sembrava di sprofondare irrimediabilmente. L’estate era moltocalda e sudavamo nella cella priva d’aria. Come avrei voluto averedell’acqua fresca per bagnarmi il viso! Giacevo sul materasso di paglia,inebetita dal dolore e dalla debolezza, la mente sconvolta, immaginando avolte di trovarmi alla Martinica e di vedere le mie sorelle morte che venivanoverso di me sulla veranda di casa, o di essere a Fontainebleau dove la reginapassava nella sua carrozza. Tutto era confuso, immagini e suoni che siintrecciavano.

Sentii però con chiarezza una voce, quella del capocarceriere, in quella notteterribile, che leggeva il temuto elenco.

«Cittadino Beauharnais» lesse, e poi: «Cittadina Beauharnais».

Mi è stato detto che il mio urlo echeggiò per tutta la prigione e giunse fino instrada.

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Ricordo di avere gridato, protestato, benché la voce mi diventasse subitorauca e cominciassi a tossire in modo incontrollabile. Caddi in unadisperazione terribile, una disperazione così profonda e dolorosa che avreivoluto annullarmi, soltanto per essere liberata da quel peso atroce. Che nottenera e paurosa. Quanto dolore, quante lacrime versai per i miei figli.

Quasi rispondendo alle mie cupe emozioni, scoppiò un temporale e per oreil vento sibilò attorno ai muri del vecchio convento e la pioggia batté sultetto come il fatale suono dei tamburi dei soldati di guardia al patibolo.

Dovevo essermi addormentata, perché venni svegliata dalle guardie cherivoltavano il materasso e mi gettavano sul pavimento di pietra della cella.Era una delle sevizie che precedevano l’esecuzione. Quando un prigionierodoveva venire ucciso, si toglieva il materasso dalla sua cella.

Ma, con mio grande stupore, ne portarono un altro e io vi venni distesasopra, con una coperta pulita. Ero senza parole. Che cosa stava accadendo?

Entrò il dottor Osnolenko, accompagnato dal capocarceriere.

«Non può vivere ancora più di uno o due giorni» sentii dire al dottore. «Hala febbre delle prigioni. Tanto vale che la lasciate morire qui. Poteteaffrettare la morte di un altro traditore dandogli il suo posto. Fareterisparmiare tempo e danaro alla repubblica.»

«Sì, questo fa sempre piacere al Comitato di salute pubblica.» Una pausa,poi il carceriere aggiunse: «Chi è? Non che mi importi, ma devo cancellare ilsuo nome dalla lista di oggi».

«La cittadina Beauharnais.»

«Qual era la sua colpa?»

«Credo avesse un parente acquisito emigrato. Lei non ha colpe personali. Diquesto sono certo.»

«Nessuno di noi è senza colpe, dottore. Tutti hanno peccato contro larepubblica e non hanno saputo raggiungere la gloria di Robespierre.»

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Le sue parole invasate mi fecero sorridere, per la prima volta dopo molteore. Il mio sorriso diventò più deciso quando il carceriere uscì e il dottorOsnolenko sedette sul materasso e mi prese la mano.

«Non abbiate paura. Non state davvero morendo e non verrete giustiziataoggi.»

Pensai ad Alexandre con una fitta di dolore.

«E mio marito?»

Il dottore scosse la testa. «Non posso salvarlo. Deve essere lasciato al suodestino. Voi, al contrario, avete qualche speranza. Dovete fare una sola cosa:avere l’aria moribonda quanti più giorni potete.»

Feci del mio meglio per sembrare mortalmente malata. Le guardie miignoravano. Il dottor Osnolenko mi portò del cibo e io mangiai di nascostoquando tutti gli altri dormivano. E, dopo una settimana di quel sotterfugio,seppi, con mio grande stupore, che il regno terribile della vedova rossa, ilperiodo che sarebbe poi stato chiamato il Terrore, era finito. Un nuovogruppo di rivoluzionari aveva preso il potere. Le esecuzioni erano cessate,quanto meno per il momento.

Ero libera di tornare a casa.

Non sono mai stata tanto felice come il giorno in cui venni rilasciata dallaprigione dei Carmini. Ero ancora debole e dovetti appoggiarmi al braccio deldottor Osnolenko mentre uscivo dal corridoio buio alla luce della libertà.

All’inizio, la luce esterna mi sembrò troppo forte, poiché non ero piùabituata a vedere il sole o a sentirne il calore sul viso. Sbattei le palpebre, poichiusi gli occhi, poi sbattei nuovamente le palpebre. A poco a poco la vistami si schiarì e vidi la cosa più gradita che si possa mai vedere: i volti ridentidei miei amati figli, che mi tendevano le braccia per darmi il benvenuto, gliocchi pieni di lacrime.

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25Con quanta gioia vivemmo quell’estate, dopo la fine del Terrore, quandoquelli di noi tanto fortunati da essere ancora vivi vennero liberati! Moltierano morti. E non sapevamo che cosa ci avrebbe portato il futuro, forse ciattendevano altri terrori. Così ci scatenammo, cogliendo ogni giorno ilpiacere a piene mani e facendo di ogni notte una festa per tutti i sensi, unbanchetto da assaporare fino a esserne sazi.

Quanto ci divertimmo, andando al Café Lestrigal (ora rinnovato eingrandito, con un palcoscenico e un’orchestra russa) e all’Élysée Nationalper ascoltare l’orchestra di Black Julien, danzando sulle tombe il balloZeffiro nel cimitero di Saint-Sulpice, rendendo omaggio all’Altaredell’Amore da Wenzel, dove i ricevimenti erano così affollati che dovevamodanzare nelle strade. I teatri erano pieni e i biglietti costavano carissimi,benché allora molte strutture, va detto, fossero poco più che bordelli perchéil foyer era gremito di prostitute a seno nudo e i posti nei palchi eranooccupati da costose cortigiane in cerca di ricchi clienti. Si diceva che alVariétés un uomo potesse scegliersi una donna diversa ogni sera per un annointero, tante erano le etere in vendita.

Ci abbandonavamo a sciocchi capricci e impazzivamo per follie da nullacome indossare parrucche verdi o viola, pantaloni da uomo e cappelli dacocchiere. Inventavamo stupidi modi di parlare, pronunciando le parolesenza la “r” o balbettando come bambini. Ci davamo reciprocamente buffinomi. Io ero Bombolone perché avevo i seni abbondanti, la mia amicaThérèse Tallien era Bignè, Julie Récamier Profiterole. Spesso andavamo nelparco guidando un gregge di capre o cavalcando dei pony o dando il ciboalla gazzella addomesticata che Scipion mi aveva portato dall’Africa.

In quei giorni, subito dopo essere stata liberata, imparai a guidare unphaeton che utilizzavo per andare ai giardini il pomeriggio, fermandomi perfare visita a qualche amica o recarmi dalla sarta, dalla modista e dallabustaia. Compravo senza pensare e mi indebitai parecchio. Oltre all’affittodella casa, all’accademia militare di Eugène, alla scuola di Hortense e allagovernante per la piccola Coco, bisognava pagare la servitù, il cibo e la

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legna. Tutto costava moltissimo, ma, come altri sopravvissuti, mi sembravache niente fosse abbastanza per me. Meritavo tutto.

E, inoltre, avevo qualcuno che pagava. Paul Barras.

“Lo sapete che cosa dicono di lui” mi aveva chiesto Scipion la sera in cui cieravamo incontrati al ballo dei Carmini (proprio la mia ex prigione).“Dicono che sia l’uomo più ricco di Parigi.”

“Il più ricco di Francia” lo avevo corretto. “Dovreste vedere la sua dimora.Vive come un principe.” Barras non viveva soltanto come un principe;sembrava un principe, con la sua bellezza bruna, un po’ troppo matura, ilsuo fascino e la sua cortesia naturale, la sua imperturbabilità, i costosissimianelli e i vestiti di raffinata eleganza. Era un guascone di piccola nobiltà, suiquarantanove anni, a quanto credevo.

“Era nell’esercito, sapete” mi aveva detto Scipion. “Molto prima dellaRivoluzione. Lo hanno buttato fuori accusandolo di perversione. Nientescandali, soltanto un’uscita in sordina.”

“Quale perversione?”

“Sembra che a letto gli piacciano gli uomini e le donne.”

“Contemporaneamente?”

Scipion aveva riso. “Non so. Dovrete chiederglielo.”

Paul e io eravamo diventati amanti una notte, dopo un ballo dato dall’exduca de Lorgne, una mia vecchia conoscenza dagli anni di Fontainebleau, inrue Saint-Germaine. Ero stata presentata a Paul e avevamo ballato insieme lanuova danza alla moda, il valzer. Alla fine della serata, ci eravamo trovati auscire nello stesso momento, e lui si era offerto di accompagnarmi nella suacarrozza.

La carrozza, come avevo scoperto presto, era un veicolo fatto per laseduzione. I sedili si piegavano creando un morbido letto; c’erano cusciniprofumati e una coperta in uno stipetto vicino alla portiera. Il cocchiere, cheindubbiamente aveva ricevuto istruzioni, sapeva di dover andare piano e i

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cavalli procedevano lentamente, al passo. Mi ero abbandonata con passionealle mani di Paul, abituata com’ero, dopo la prigione, a fare l’amore conestranei. Non ero rimasta delusa.

Paul era generoso. Attingendo alla sua larghissima fortuna, ottenutavendendo vino acido, grano marcio e fucili arrugginiti come fornitoredell’esercito, mi mandava ricchi assegni e mi aveva comprato il phaetondecorato in foglia d’oro e i due cavalli ungheresi neri che lo tiravano. Inbreve tempo ero entrata a far parte della sua cerchia più intima, il seguito diun uomo potente. Paul non era infatti soltanto il mio protettore e difensore.Era anche la figura più importante nel nuovo governo.

“Dovreste essere prudente con lui” mi aveva seccamente messo in guardiaScipion. “È corrotto. E cinico.”

“Non siamo tutti corrotti e cinici in questi giorni?” Volevo provocareScipion, che sapevo retto e onesto. Ma le mie parole erano in massima partevere: il governo, gli affari, l’esercito erano infestati dalla disonestà eovunque si trovavano corruzione, inganno e piccola criminalità.

Scipion mi aveva preso il viso tra le mani e mi aveva guardato con autenticatenerezza. “Ci conosciamo da tanto tempo, Yeyette” aveva detto. “Soffrirei avedervi scendere la china.”

Ma naturalmente non avevo prestato ascolto alle parole di Scipion. Mi erotuffata nella vita indolente, alla ricerca del piacere, in cui mi aveva condottoPaul, con la facilità con cui un tempo, alla Martinica, avevo indossato ilarghi abiti drappeggiati. Sempre più dimentica delle mie responsabilità,lasciando sempre più la cura dei miei figli a Euphemia e alle altre cameriere,dormivo fino a mezzogiorno, consumavo una colazione e poi dedicavo imiei pomeriggi al piacere. Paul veniva da me alle cinque ogni sera,passavamo pigramente molte ore a letto, cenavamo tardi, poi trascorrevamola notte, annaffiata di vino, nella grotta artificiale di Paul, nel giardino dellasua dimora.

Una notte dopo l’altra danzavo nella grotta, nuda, dietro una tenda di velo,mentre Paul e i suoi ricchi amici guardavano. La mia danza era soltanto unadelle molte attrazioni: ermafroditi, uomini enormi e dalla virilità ancora più

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gigantesca che defloravano giovani donne, gente che raccontava storieaudaci. Venivano assunti ragazzi e ragazze di eccezionale bellezza perdecorare la grotta e offrire un nuovo passatempo. Molto prima che la nottefinisse, ci si liberava dei vestiti e iniziava un’orgia.

Spesso dormivo nella grotta, ubriaca, e mi svegliavo con gli occhi gonfi e ipostumi dell’ebbrezza, affrontando lo sgradito mezzogiorno. La loscaammirazione degli uomini lusingava la mia vanità, perché allora avevo giàpassato la trentina ed ero fiera che la mia figura voluttuosa fosse ancoraattraente. Barras si divertiva a vedere altri uomini che facevano l’amore conme, e io ero compiacente. Alcune delle cose che avvenivano alla grotta miripugnavano, e scoprii presto che Scipion aveva avuto ragione su Paul: siportava a letto uomini e donne e mescolava il piacere e il dolore in modi chetrovavo perversi e ripugnanti. Ma ero sempre libera di andarmene se non mipiaceva quello che succedeva. Paul aveva altre amanti a cui rivolgersi e unharem di bei ragazzi.

Fu una stagione di eccessi, di audacia, in cui non si distingueva il bene dalmale. Danzavamo, bevevamo, ci concedevamo tutto. Avevamo vissuto tantoa lungo all’ombra della ghigliottina da aver dimenticato che cosa fosseun’esistenza normale. Eravamo sopravvissuti, quanto meno per il momento.Fino a quando sarebbe durata non avremmo saputo dirlo.

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26La verità, credo, è che io pensavo al matrimonio.

Conducevo una vita eccessiva, e lo sapevo. Cominciavo a non essere piùgiovanissima. Non era dignitoso che mi esibissi nuda dietro una cortina divelo o che fossi una delle amanti di Paul, ma non la principale.

Mi piacevano il danaro e i doni che mi faceva Paul – soprattutto il danaro –,ma avevo imparato l’importanza di essere in grado di mantenermi. Mentretrascorrevo tante notti nella grotta di Paul, non mi ero limitata a danzare.Avevo conosciuto altri uomini ricchi: banchieri, finanzieri, uomini d’affari.E, ispirata dal grande successo di Barras, mi ero lanciata anch’io in misuramodesta nell’affare degli approvvigionamenti, fornendo beni all’esercito.Non ero Paul Barras, si intende, non mi facevo illusioni in merito. Ma da luiavevo imparato e cominciavo a riuscire bene nel mio nuovo commercio.

La mia rete di conoscenze mi aiutava a scoprire, per quanto possibile, di checosa avesse bisogno ognuno dei reggimenti, poi, servendomi della miaintelligenza (e di altre conoscenze), individuavo dove si trovava la mercerichiesta e la vendevo a caro prezzo ai colonnelli e agli ufficialidell’Intendenza. Accanto a me lavoravano giovani esperti, ambiziosi, alcunimiei ammiratori. Ero sempre in cerca di altri ragazzi così.

C’era un piccolo ufficiale bruno, dall’aspetto bizzarro, che vedevo spessocon Barras. Era basso, quasi gracile, con un’espressione malinconica sul visogiovane, gli occhi fieri e rabbiosi. Sebbene i suoi abiti fossero di buon taglio,li indossava senza eleganza e aveva un portamento sgraziato. Palesemente sisentiva timido e in imbarazzo quando era in compagnia di gente menogiovane e più esperta di lui.

Mi divertiva guardarlo mentre stava accanto a Barras, cercando invano diassumere un’aria noncurante. Si mordeva le unghie. Prendeva unatabacchiera dalla fascia alla cintura e ne traeva un pizzico di tabacco, che poicadeva quasi tutto sul costoso tappeto prima che lui riuscisse ad annusarlo.Si grattava i polsi e il collo così spesso che mi domandavo se avesse una

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malattia. A differenza degli altri giovani che circondavano Barras – quelliche erano attratti dalle donne, intendo –, quello strano ufficialetto nonavvicinava mai le donne per parlare o amoreggiare con loro. Mi chiedevoperché.

Una sera mi avvicinai io a lui, in parte per curiosità, ma soprattutto sperandopotesse essere una buona fonte di informazione sulle esigenze del suoreggimento.

Sorrisi, attenta a non mostrare i denti, che erano diventati gialli; ne avevoanche persi parecchi perché mangiavo troppo zucchero di canna. Gli diedi lamano da baciare.

«Generale Buonaparte, al vostro servizio» mi disse, e bruscamente si chinò emi sfiorò le nocche con le labbra. Parlava con un forte accento italiano. Nonmi guardò. Profumava di acqua di colonia.

«E voi sapete chi sono io?»

«Tutte le persone importanti lo sanno. Una volta eravate la viscontessaBeauharnais. Si dice siate una delle donne più desiderabili di Parigi, adispetto dell’età.»

«Non so se ringraziarvi o darvi uno schiaffo.»

Lui rimase impassibile. «Mi limito a ripetere quello che si dice.» Sollevò unamano per grattarsi il collo. «Una città molto sporca, Tolone» mormorò abassa voce.

«Che cosa avete detto?»

«Tolone. È una città sporca. Ero di stanza là. Tutti in caserma hanno preso lascabbia.»

«Credo ci siano delle pillole per curarla. Conosco un ottimo medico polaccoche...»

«Non ha importanza» mi interruppe bruscamente. «Detesto tutte le medicinee tutti i medici. Penso che l’acqua d’orzo, la limonata forte o, se proprio è

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necessario, i salassi curino ogni malattia. E una volontà forte, naturalmente.»

«Davvero? E se uno si rompe una gamba?»

Scrollò le spalle. «Le ossa rotte, le ferite in battaglia: per quelle chiamiamo imacellai. I chirurghi, intendo.» Sorrise, e sembrò che il cielo si schiarisse e ilsole apparisse tra le nuvole. Aveva un sorriso gaio e affascinante. Chiavrebbe potuto resistergli?

A un tratto si aprì il colletto alto della giacca di velluto, con tanta violenza dastrapparsi uno dei bottoni dorati. Si grattò la gola e vidi che portava unamuleto appeso a una catenina d’oro.

«Un amuleto per propiziare la buona sorte, generale?»

«Tutti i militari sono superstiziosi.»

«Forse vi farebbe piacere che io vi predicessi il futuro. Leggo le carte.»

«Vi risparmio la fatica. La mia sorte...» cominciò. Gli occhi grigio azzurripresero uno sguardo lontano e la voce si fece più bassa. «La mia sorte èquella di rivaleggiare con Alessandro Magno. Andare in guerra tra i guerrieriturchi e impossessarmi di Costantinopoli. Conquistare l’India. Con unmilione di uomini e centinaia di migliaia di elefanti.»

Continuò a parlare, come si rivolgesse a se stesso, talmente assorto nella suafantasticheria da dimenticarsi della mia presenza. Infine riportò la suaattenzione sulla sala e su di me. Gli chiesi se il suo reggimento avessebisogno di uova o di tela per le tende o di collari per i cavalli.

Lui sembrò trovare divertente la mia domanda.

«Uova? Mi state chiedendo se io o i miei uomini abbiamo bisogno di uova?»

«Tra le altre cose.»

«Se abbiamo bisogno di uova, andiamo nelle fattorie.»

«Le fattorie vendono a me, o ai miei rappresentanti, e io vendo all’esercito.»

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«Intendete dire che imbrogliate l’esercito. Mi dispiace sentire che una donnacosì attraente abbia un cuore tanto venale.»

«Non è venale ottenere un onesto profitto, generale. Né aiutare a nutrirel’esercito della repubblica.»

«Sciocchezze! Voi profittatori, voi e Barras e tutti gli altri come voi, viarricchite mentre noi ufficiali e le nostre famiglie facciamo la fame.»

«Mi sembrate piuttosto ricco» ribattei guardando i costosi ricami d’oro delsuo panciotto di velluto rosso.

«Qualsiasi ricchezza possa avere, credetemi, è molto recente. Per anni sonostato un ufficiale che non poteva permettersi un paio di stivali decenti, emeno ancora di mandare danaro a mia madre vedova e ai miei fratelli esorelle.»

Continuò a parlarmi dei suoi parenti e delle sue speranze per loro, dellamadre bella e coraggiosa, del padre che era morto giovane, del suo serviziomilitare durante la Rivoluzione. Uscimmo sulla terrazza mentre parlavamo,perché la sera era calda.

«Ho dato prova di me stesso a Tolone. Le mie batterie hanno tenuto lontanala flotta inglese. Mi hanno nominato generale a ventiquattro anni.» Anchealla luce della luna vidi che arrossiva di piacere pronunciando queste parole.

«E adesso?» gli chiesi infine. «E adesso?»

«Sto pianificando un’invasione dell’Italia. Comincerò appena sgela, alla finedell’inverno.» Le sue parole diventarono nette, brusche. Conl’immaginazione era già sul campo di battaglia e dava ordini ai suoi uomini.Trovavo affascinanti i mutamenti repentini della sua mente e delle sueemozioni.

Continuammo a parlare sulla terrazza, nella sera estiva. Con il passare delleore, sentii nascere qualcosa di speciale tra noi. Un’intimità che non eraamicizia e non era infatuazione. Una vicinanza a cui non sapevo dare unnome.

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Pure, sentivo di dover stare in guardia, come non mi era mai accaduto conScipion o con lo stesso Paul. Quel giovane generale, con il forte accento e iltono brusco, le opinioni appassionate e il sorriso attraente, mi affascinava emi spaventava a un tempo. Non avevo conosciuto nessuno come lui.

«Barras si ingannava su di voi» concluse prima che ci congedassimo. «Mi hadetto che siete dura. Ma non è vero. Siete morbida. Dolce, in realtà. Credoabbiate un cuore buono, a dispetto della vostra natura venale.»

«Spero che ci incontreremo di nuovo, generale» riuscii soltanto arispondere. Ma pensavo che il giovane generale Buonaparte, sebbene ancorainesperto, fosse in verità un uomo molto determinato. Forza di volontà,entusiasmo, ambizione gli scorrevano nelle vene e la sua mente era sempreal lavoro. Gli mancava la raffinatezza, ma possedeva qualcosa di benmaggior valore: la fierezza. Non alterigia, come Alexandre, o soddisfazionedi sé, come altre decine di uomini che avrei potuto ricordare, o un’assolutafiducia nel proprio potere come Paul. Bensì la fierezza per quello che era eper quello che sentiva di poter fare. In questo eravamo simili, perché,quando incontrai il giovane generale, anch’io mi sentivo fiera di quello cheero diventata e del traguardo a cui ero giunta con la mia sola abilità. Eropronta ad andare oltre, se ne avessi avuto la possibilità.

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27Ma naturalmente la vita intervenne e accadde l’inaspettato.

Ero nel salotto della mia casa in rue Chantereine, arredato di fresco in rosa eoro, e consumavo tè e biscotti serviti da una delle mie cameriere quandoun’altra cameriera mi annunciò che un gentiluomo era venuto in visita.

In quel momento entrò Donovan.

Era passato molto tempo da quando lo avevo visto, nel ruolo di sorvegliantedi mio padre ai Trois-Îlets e al comando di una milizia locale. Mi sembrò piùalto e più snello, con la mascella più pronunciata e la bocca decisa. Labocca! Ricordavo ancora il contatto di quella bocca sulla mia, le labbracalde, piene, il respiro ardente, il modo in cui mi riempiva tutti i sensi fino astordirmi.

Vedendolo, sentii un’eco di quei lontani incontri. Provai un brivido sullapelle, un sussulto lungo la spina dorsale. Venne presso di me sul divanoaccanto al camino. Si chinò e mi baciò, non sulla guancia ma sulle labbra.C’era un senso di possesso in quel bacio.

Mi sedette accanto, aprendosi la giacca.

«È bello vederti.» Le mie erano parole banali, ma sincere. Il mio corporeagiva alla sua vicinanza, non soltanto con il desiderio ma con un senso disicurezza. Mi rilassai.

Poi mi prese la mano e io compresi subito che aveva qualcosa di triste dadirmi. Voleva confortarmi. Perché?

«Rose, sono a Parigi per due ragioni, una dolorosa e una, spero, felice.»Tacque e mi guardò negli occhi. «Rose, mi rattrista molto doverti dire chetuo padre è morto. Sono qui per cercare di sistemare la sua eredità. Ha moltidebiti con gli usurai e con le banche. La piantagione è finita nelle mani deicreditori. Sto cercando di salvare qualcosa per tua madre e tua zia.»

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«Ho inviato danaro alla Martinica, molto.»

«Lo so, Rose.»

«Ma non ho saputo nulla da nessuno della mia famiglia per tanto tempo.» Imiei occhi si riempirono di lacrime e Donovan mi tenne fra le braccia fino aquando riuscii a riprendermi.

«Mi dispiace tanto, Rose» mormorò mentre mi accarezzava i capelli. «Lelettere varcavano difficilmente l’oceano. Eravamo sotto blocco e, anchedopo il blocco, arrivavano poche navi a Fort-Royal. Non sono riuscito afarti avere notizie.» Tacque un istante, poi aggiunse: «Tuo padre è statobuono con me. Mi ha accolto e mi ha dato una casa quando non ne avevonessuna. Lo rimpiango».

Ci consolammo a vicenda per qualche tempo, quindi lui riprese.

«La Martinica è rimasta in uno stato di confusione per anni. La campagna eranel caos. Fort-Royal è stata per molti mesi nelle mani dei ribelli. Nessunosapeva di chi fidarsi. Era troppo duro per tuo padre. È morto maledicendo lasua vita.»

«Dove sono ora mia madre e la zia Rosette?»

«Vivono con i tuoi cugini in una proprietà vicina al Morne des Larmes.Quando sono partito erano in buona salute. Ti mandano il loro affetto.Vogliono che torni a casa. È quello che voglio anch’io.»

E mi baciò, il bacio di un amante, e io sentii quanto il mio corpo avesse famedel suo, con forza, profondamente, una fame insoddisfatta tanto a lungo.Quando mi toccò, il desiderio si fece più intenso, l’appetito represso siscatenò. Fummo un banchetto l’uno per l’altra, un banchetto per tutti i sensi.Ci abbandonammo al piacere, ci divorammo fino a saziarci, e allora, colmidi desiderio e del desiderio appagato, giacemmo sui cuscini di seta del mioletto intagliato, soddisfatti e felici.

Mi sentivo fatta d’aria, senza più dispiaceri, senza alcun fardello, il corpoleggero e libero. Giacevo, paga soltanto di stargli accanto, i nostri corpi così

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vicini che sembravano formare un corpo solo.

Quando venne il momento, riuscii appena a salutarlo, benché lui mipromettesse di tornare molto presto.

In realtà ci incontrammo quasi ogni giorno, ora che Donovan era a Parigi.Lo invitavo a casa. Lo vedevo nel parco quando guidavo il phaeton alpomeriggio. Andavamo insieme a fare compere, io acquistavo morbidabiancheria di seta e lui cappelli e guanti e un bel paio di pistole da duello.

E sempre, con il più delizioso abbandono, facevamo l’amore. Non potevacancellare il mio lutto, ma lo alleggeriva, e gliene ero grata.

«Vieni con me alla Martinica, Rose» mi disse mentre giacevo tra le suebraccia. «Le cose là stanno migliorando. Le piantagioni ricominciano aprodurre canna e gli americani la comprano. Ho acquistato una proprietà,l’ho chiamata Bonne Fortune. Ci lavorano un centinaio di africani e penso diassumerne altri.»

«Chi se ne occupa per te?»

«Ho un buon guardiano.» Sorrise al pensiero, lui che un tempo era statosorvegliante. «E c’è Jules-sans-nez.» Mi accarezzò la guancia mentre parlavae io chiusi gli occhi. «Vieni con me» ripeté. «Porta i ragazzini. Lascia questoluogo di dissolutezza e crimini, questa Parigi sconvolta. Avrai una completalibertà a Bonne Fortune e ognuno di noi avrà l’altro.»

«Vedo che non si tratterebbe di una... sistemazione permanente» dissi dopouna lunga pausa. «Niente promesse, niente impegni.»

«Non sono uno che fa promesse.»

Sapevo che lo avrebbe detto, lo sapevo bene. Non mi offriva il matrimonio.Non poteva. Soltanto l’estasi, fino a quanto sarebbe durata.

Era sempre più chiaro ai miei occhi che la mia vita si trovava in un momentodi transizione. Paul si stava stancando di me e sembrava fare il possibile perspingermi verso il generale Buonaparte. Alle cene mi faceva sedere accanto alui e me ne parlava bene quando eravamo soli, il che accadeva sempre più di

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rado.

«Sapete, Rose, non sarebbe poi un male per voi sposare quel piccolo corso,Buonaparte. So che vi ammira.»

Consideravo la proposta una vera follia, ma mi creava ansia. Era un altrosegno che Paul mi voleva fuori dalla sua vita. Eppure dipendevo dagliassegni che mi mandava. I miei guadagni con le forniture all’esercito nonbastavano per la casa e i conti.

Un mese dopo l’arrivo di Donovan a Parigi, diedi un ricevimento a casa mia.Paul non c’era, Donovan sì. Era senza dubbio il più bell’uomo presente.L’occasione era la partenza di Eugène, che tornava all’Accademia militare.Aveva quattordici anni ed era uno degli allievi più promettenti della suaclasse, un ragazzo serio, devoto, sempre estremamente gentile e affettuosocon me. Aveva un’aria aristocratica che mi ricordava Alexandre, ma nonaveva lo snobismo del padre né la sua alterigia. E fortunatamente non era unintellettuale! La vita militare gli era sempre piaciuta, e lo emozionava la miaamicizia con il generale Buonaparte, l’eroe di Tolone. (Perché il generale aTolone non si era limitato a contrarre la scabbia: aveva dato una splendidaprova di sé come ufficiale di artiglieria, riportando un’importante vittoria.)Su richiesta di Eugène, lo avevo invitato al ricevimento.

Donovan fu tra i primi ad arrivare, accolto con calore dai miei figli. Portòdel marzapane per Coco, una collana da adulta, di corallo rosa, per Hortense(che era palesemente la sua preferita) e un lungo, minaccioso coltello perEugène.

«È affilato come una sciabola» disse a Eugène. «Alla Martinica lo usiamo pertutto: tagliare la canna, farci strada nella foresta e, naturalmente, perdifenderci.» Vibrò la larga lama, che sibilò nell’aria. «All’Accademia militarenon ti insegneranno nulla su questo coltello. Ma, se mai dovessi andare inguerra, lo troveresti utile.»

«Se mai andassi in guerra! Vorrete dire quando andrò in guerra! Mio padrediceva sempre: “Figliolo, devi difendere la repubblica dai suoi nemici”. Iomi batterò per la Francia. Acquisterò gloria per lei!»

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Rabbrividii sentendo le parole di Eugène. Temevo per lui.

«Combattere attaccando non è il modo migliore per vincere» disse Donovan.«Lo so. Sono stato soldato. Ho guidato gli uomini in combattimento. Ilmodo migliore per vincere è sembrare così forti, così temibili nella difesa,che il nemico non oserà attaccarti.»

Eugène sembrava perplesso.

«E se il nemico ha molta fiducia in se stesso e attacca ugualmente?»

«Allora bisogna aspettare, e all’ultimo momento difendersi.»

«Aspettare? Aspettare? Che cosa mi tocca sentire?» Era la voce penetrante,insistente del generale Buonaparte, che si tolse il mantello entrando nelsalone, reggendo un grande astuccio di cuoio sotto il braccio. «Chi dice alcoraggioso Eugène di aspettare e non dare battaglia? No, devi sempreavanzare. Portare la battaglia verso il nemico. Conquistarlo con la tuaaudacia.»

Lui stesso avanzava mentre parlava, camminando con un passo vigorosonella stanza, portando l’astuccio di cuoio a Eugène e mettendolo su untavolo vicino a lui.

Eugène si raddrizzò e fece il saluto militare, ridendo. Io notai che mio figlio,appena quattordicenne, era alto quasi come il generale.

«Qui c’è qualcosa da portare con te all’Accademia militare. Un piccoloricordo.»

Eugène abbandonò il coltello da canna e aprì l’astuccio. Dentro c’era unaspada lucente, l’elsa di argento e bronzo, la lama in condizioni perfette, senzaalcun segno lungo il filo, come non fosse stata mai usata.

Gli occhi di Eugène splendevano. Passò la mano sul piatto di quella lamaperfetta.

«Generale» dissi «vi presento il mio amico della Martinica, Donovan deGautier.» I due uomini si salutarono con un cenno del capo. Il contrasto fra

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loro era stridente. Donovan era molto più alto e bello. Feci le presentazionicon gli altri ospiti che cominciavano ad arrivare.

Tra loro c’era Fanny de Beauharnais. Quando le venne presentato Donovan,lo accolse con un sorriso di approvazione. (Le avevo confidato tutto quelloche c’era tra noi, o quasi tutto.) Quando invece le venne presentato ilgenerale Buonaparte, si ritrasse con sdegno.

«L’eroe di Tolone» disse gelidamente. «L’uomo che salta quando ildisprezzabile Paul Barras schiocca le dita.»

«E voi, credo, siete Fanny de Beauharnais, la donna che si veste male escrive versi esecrabili.»

«Quanto meno, non uccido innocenti.»

«No, soltanto la lingua francese.»

«E siete voi a parlare di uccidere la lingua francese, voi che riuscite appena aparlarla?»

«Ma quando la parlo, le mie parole hanno valore.»

«Vi prego, generale, Fanny» intervenni «ricordiamo che questo è unricevimento in onore di Eugène, siate cortesi.»

«Perdonatemi, cara signora» disse il generale Buonaparte prendendomi lamano e baciandola «sono stato provocato.»

Fanny aprì la bocca per replicare, ma vide il mio sguardo implorante ecambiò idea.

«Ma certo, cara, non raccoglieremo gli insulti di irritanti ometti.»

Con mio grande sollievo, l’attenzione si spostò verso la magnifica spada, cheil generale Buonaparte stava sollevando dalla custodia.

«Questa apparteneva a tuo padre» disse a Eugène. «L’ho salvata dai suoieffetti personali, confiscati quando è stato arrestato. Il disprezzabile Paul

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Barras, come qualcuno lo ha appena definito, mi ha aiutato molto aottenerla. Te la offro con gli auguri del signor Barras e miei. Tuo padre haservito bene la repubblica.»

Poi, con un gesto che fece commuovere tutti nella sala, il generale siinginocchiò e offrì la spada a Eugène.

Calò il silenzio quando Eugène, lottando per mantenere il controllo, prese labella spada e ne baciò l’elsa.

Che scena emozionante! Anche Donovan era commosso e si unì agli altridurante il lungo applauso. Andai da Eugène e lo baciai, poi ci recammo tuttia cena.

Dovevano esserci almeno venti ospiti alla mia tavolata quella sera, ma ilgenerale Buonaparte era quello che parlava di più, accentrando l’attenzionecon la sua conversazione divertente e intelligente. Non insultò nuovamenteFanny, e lei evitò di provocarlo. L’avevo fatta sedere vicino a Donovan edero felice vedendo che andavano d’accordo.

Il generale parlava di un argomento che conosceva molto bene: l’artiglieria, icannoni da assedio, le pallottole, i tiri.

«Gli artiglieri non sono soldati come gli altri, credetemi» concluse. «Oh, no,sono artisti! Devono essere maestri nella strategia, nella matematica, nellameccanica, nell’arte stessa della guerra. Vieni con me in Italia, Eugène, e tifarò diventare un artigliere. Sei abbastanza grande per essere addetto allepolveri. Poi diventerai un servente e poi un puntatore e infine un capopezzo.È bello essere un capopezzo, è una cosa di cui andare orgogliosi. Al tuocomando ci sono ventiquattro uomini, dieci guidatori, una dozzina di cavalli,falegnami per riparare le ruote, e tutti prendono ordini da te.»

Eugène era radioso. «Porterò con me la spada di mio padre. E il miocoltello» aggiunse con un sorriso a Donovan.

«Tornerai all’Accademia» dissi con fermezza. «Non voglio sentir parlare diandare in guerra.»

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«Ah, ma se ne parlerà, signora» ribatté il generale. «Gli inglesi stanno ancoracercando di mantenere la loro posizione in Bretagna e gli austriaci sipreparano a muovere contro di noi. Non possiamo più indugiare perscatenare un’offensiva. Dobbiamo avanzare, andare all’attacco! Mostrare ainemici della repubblica che l’ora della vittoria per noi è vicina.»

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28I parigini, in quell’estate del 1795, erano inquieti e ribelli. Anche la sera dellamia cena per Eugène sentivamo gruppi di gente che si radunavano nellestrade, urlando per ottenere il ribasso dei prezzi e perfino (non riuscivo acrederlo) il ritorno del re. Il re naturalmente era morto da tempo. In realtàvolevano pensare di avere una certa influenza e di poter migliorare le lorocondizioni forzando il governo a operare cambiamenti.

Erano esasperati, stanchi di venire ignorati dai nuovi politici senza scrupoli edai ricchi sfruttatori saliti al potere. Sapevo che Paul Barras era uno deipeggiori sfruttatori. Non ero fiera del mio rapporto con lui. Ma che altroavrei potuto fare? In quale altro modo avrei potuto vivere, in quei giorniturbolenti e pericolosi, senza il suo danaro e il suo aiuto?

Fino all’autunno di quell’anno le agitazioni crebbero e si giunse a unaterribile notte in cui sentimmo suonare gli allarmi e rullare i tamburi in tuttala città. Nessuno riusciva a dormire. Eravamo troppo ansiosi. Sapevamo,certo, che alcuni estremisti volevano rovesciare nuovamente il regime ederano pronti a prendere le armi e a distruggere il palazzo delle Tuileries dovesi riunivano gli attuali governanti. Da mesi si parlava di una nuova diffusarivolta. Quella notte ebbe inizio.

Chiudemmo tutte le porte, sbarrammo le finestre e ci preparammo al peggio.

Tutto era confuso in quella notte terribile, ma Paul, come mi disse in seguito,era deciso a non permettere alla marmaglia parigina di distruggere quello cheera stato creato in sei lunghi anni di Rivoluzione: un’autentica repubblica,imperfetta ma passibile di miglioramenti. La folla, disse, era decisa a scavarela fossa alla Rivoluzione. Doveva essere fermata.

E chi poteva fermarla meglio dell’eroe di Tolone, il generale Buonaparte?

Barras lo mandò a chiamare e gli ordinò di disperdere l’immensa folla cheminacciava il palazzo delle Tuileries. C’era un temporale quella notte e lapioggia cadeva a scrosci. Un fango nero invadeva le strade. I ribelli erano

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certi di non incontrare resistenza, qualsiasi cosa avessero fatto. Pensavanoche i soldati non potessero sparare con i moschetti a causa della pioggia.

Ma il generale Buonaparte agì con grande intelligenza e rapidità. Dispose chequaranta cannoni venissero portati in città e messi in batteria intorno alpalazzo. Quando la folla lanciò l’assalto, ordinò di fare fuoco.

Nessuno si aspettava una reazione così spietata. Fu una carneficina terribile: icorpi riempivano le strade, ovunque scorreva il sangue.

«È finito tutto in pochi minuti» mi disse Paul. «Buonaparte ha fattoesattamente quello che era necessario. Ci ha salvato. Ha salvato laRivoluzione.»

L’eroe di Tolone diventò l’eroe di Parigi e fu promosso generale del corpod’armata dell’interno, con la paga triplicata e un prestigioincommensurabilmente accresciuto. Tutti lodavano Buonaparte, tranne lecentinaia di uomini e donne uccisi da quello spietato cannoneggiamento e iloro parenti e amici. Ma quelli non contavano. Appartenevano al passato.Buonaparte era il futuro.

E avrebbe potuto essere mio, se lo avessi voluto.

A casa, in rue Chantereine, cominciarono ad arrivare ogni giorno mazzi difiori. Grandi mazzi di rose, gigli e fiori di serra esotici che vivevano soltantoun giorno. Erano sempre accompagnati da biglietti amorosi.

“Mi consumo per voi. Bramo la vista del vostro dolce viso.”

“Non posso attendere fino a questa sera. Oh, se voi foste accanto a mementre scrivo perché potessi baciare quelle labbra simili a boccioli di rosa.”

“Mi incantate. Vi prego, non liberatemi mai dall’incantesimo.”

Aveva una penna fertile, non c’è che dire, il generale Buonaparte. Era coltoper essere un ufficiale. Sapeva scrivere una garbata lettera d’amore.

Ma quando ci incontravamo in privato, come cominciammo a fare, eraimpacciato, timido, un ragazzo innamorato. I suoi tentativi di

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amoreggiamento erano goffi. Mi stringeva rudemente, mi piombava addossocome un uomo affamato che si getta su un piatto di pollo arrosto. Non avevaraffinatezza né il senso dell’erotismo. Non avrebbe avuto alcuna importanzase io avessi ricambiato la sua infatuazione. Ma non la ricambiavo. Nonpotevo. E, in ogni caso, ero impegnata con Donovan, che continuava ainsistere perché facessi i bagagli e tornassi con lui nelle Isole del Vento.

Un pomeriggio mi venne portato un biglietto con un grande cesto di fiori ederbe di serra: lavanda, timo, anemoni, garofani.

“Mia cara” diceva il biglietto “devo vedervi questa sera per una questioneimportantissima. Aspettatemi alle nove.”

Erano circa le undici quando arrivò. La servitù si era quasi tutta già coricatae anch’io stavo per farlo, pensando che il generale fosse stato trattenuto daqualche inatteso affare urgente. Poi sentii il rumore di una carrozza e ilbattere insistente e inconfondibile dei suoi stivali sulle pietre all’ingressoprincipale.

Gridò quasi il mio nome, quando lo fecero entrare, e corse nel mio salotto.

«Rose! Rose! È accaduto! Mi è stato ufficialmente affidato l’incarico diinvadere l’Italia. Rallegratevene con me.»

Quella sera lo vidi come non lo avevo mai visto: sembrava trasformato,completamente fuori di sé. Se fosse stato un prete o un monaco, avrei dettoche aveva scorto per un istante la visione beatifica. Gli occhi erano luminosi,la fronte distesa e serena.

Ci abbracciammo e io mi felicitai calorosamente con lui per il suo successo,senza dir nulla del suo ritardo né del fastidio che mi aveva creato.

«Devo ringraziare voi, Rose, perché mi avete dato fiducia in me stesso e loslancio per preparare i piani di battaglia e sottoporli al Direttorio.» Avevamoun governo nuovo, guidato da cinque direttori, il più importante dei qualiera Barras. «Mi avete ascoltato e incoraggiato e mi avete dato speranzaquando ero quasi disperato..»

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«Sono stata lieta di fare quanto potevo per voi, generale» risposi reprimendouno sbadiglio. Non sbagliava, naturalmente. Negli ultimi mesi avevotrascorso molto tempo ascoltandolo pazientemente mentre mi esponeva isuoi piani per guidare un esercito in Italia e rassicurandolo quando era diumore depresso, come gli accadeva non di rado.

Mi sedette accanto e mi prese la mano. Non potei non osservare che le suemani, come sempre, erano fredde e sudate, le unghie mangiate fino allapelle.

«Avevo già deciso di parlare con voi di una questione importante, Rose,ancor prima di sapere che il Direttorio avrebbe approvato la mia campagnad’Italia. Si tratta di questo. Devo avere una moglie.»

Mi guardò intensamente aspettando che dicessi qualcosa.

«Oh» dissi infine.

«Devo avere una moglie, Rose. Ho bisogno della rispettabilità di una moglie,di figli, di una famiglia.»

«Capisco.»

«E deve essere francese, non corsa. Mia madre ha scelto per me una sposacorsa, e io le darò una delusione, ma non c’è nulla da fare. No, mia mogliedeve essere francese, perché anch’io devo sembrare francese. Stocambiando il mio nome da Napoleone Buonaparte a Napoléon Bonaparte.Mi sto francesizzando.

«E, poiché stiamo parlando di nomi, cara Rose, io preferisco chiamarvi conil vostro secondo nome. Credo mi abbiate detto di essere stata battezzataRose-Joseph.»

«Sì.»

«Io preferisco il vostro secondo nome. Vi si addice molto di più del sempliceRose. Quindi d’ora in poi vi chiamerò Giuseppina.»

«E se a me piacesse di più il mio primo nome?»

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«Potete pensare a voi stessa come volete, ma il vostro nome ufficiale saràGiuseppina.»

Stavo per rifiutare, ma riflettei meglio. Rose era un nome molto semplice, eio in realtà mi ero sempre considerata Yeyette. Giuseppina aveva un suonoelegante, più adatto alla donna che ero diventata. Dopo tutto, potevo ancoraessere Yeyette per la mia famiglia. Non protestai.

In quel momento, lo compresi più tardi, mi ero arresa al generale. La suavolontà prese a reggere la mia vita, sebbene ancora non ne fossiconsapevole. La mia stessa identità apparteneva a lui.

Continuò a parlare elencando tutte le caratteristiche della moglie adatta a lui.Doveva essere di sangue nobile e avere magnifiche conoscenze, dovevasaper ricevere, non poteva essere più alta di lui.

«E naturalmente deve essere ricca come voi, mia Giuseppina.»

Vi fu un silenzio imbarazzato. Confesso che avevo lasciato credere algenerale Bonaparte di essere ricca. Non era stato difficile. Come ho detto, sipensava che tutti i creoli fossero ricchi, e il mio orgoglio mi imponeva dimantenere una parvenza di agiatezza. Non di una grande ricchezza,naturalmente, ma almeno di un ampio benessere, paragonabile a quello deipiù facoltosi tra i Grands Blancs della Martinica o dei mercanti parigini disuccesso.

Non dissi nulla.

Sul viso del generale apparve un sorriso imbronciato. “Riesce davvero aessere attraente” pensai.

«Sapete che cosa sto cercando di dirvi, carissima Giuseppina. Vi stooffrendo di sposarmi. Di dividere con me il mio futuro.»

Allora mi alzai e mi avvicinai al camino. Dunque ecco cosa significava quelburocratico elenco delle caratteristiche di una moglie. Quella logica cosìpriva di romanticismo. Tale era la sua idea di una proposta di matrimonio!

Ero più divertita che offesa dalla stranezza della cosa, così tipica del suo

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carattere. Era un originale. Ma l’idea naturalmente era assurda.

«Se avete bisogno di una moglie, dovete senza dubbio cercarne una.Conosco molte donne adatte a tale ruolo, non tutte ricche, ma più vicine allavostra età e in grado di aiutarvi socialmente.»

«Io non voglio nessun’altra, voglio voi.»

«È impossibile.» E avrei voluto aggiungere: “È impossibile a causa diDonovan”, ma non lo feci.

«Perché? Niente è impossibile se due persone dalla volontà forte lodesiderano. Voi non siete impegnata con nessun altro.» Era un’affermazione,non una domanda.

«No. Non proprio.»

«Barras dice che non lo siete. Certo non vi aspetterete che lui chieda lavostra mano?» Rise. «Sappiamo entrambi che il vostro rapporto con lui sista affievolendo già da qualche tempo. È stato molto franco con me inproposito. Inoltre, lui non vi ha mai amato. Io invece sì.»

Mi venne vicino e mi prese tra le braccia, con un ardore tale da farlotremare.

«Dite che mi amate un poco, mia bella, mia unica Giuseppina. Rendetecompleta la felicità di questo giorno.»

«Dovrò riflettere» replicai soltanto. Ero troppo stanca per discutere con lui edavvero non volevo rovinare il suo giorno trionfale. Non potevo accettarlo,ma non riuscivo a distruggere le sue speranze. Era così ingenuo, cosìgiovane. Come non lasciarsi intenerire?

«È passata mezzanotte e sono assonnata. Dovete lasciarmi riposare.»

Vidi la delusione attraversargli il viso appassionato e quasi rimpiansi diaverla causata.

«A domani, allora, mia cara.» Mi baciò nuovamente, poi si voltò e uscì. La

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stanza sembrò vuota senza di lui.

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29Gli assegni di Paul Barras si facevano più rari e le sue visite iniziarono ascemare. Cercai di aumentare la mia rendita con le commesse per irifornimenti all’esercito e feci del mio meglio per sfruttare il rapporto con ilgenerale Bonaparte, le cui truppe si preparavano per la campagna d’Italia.

Ma in verità, per mantenere la casa e la servitù che avevo allora e permandare i miei figli in scuole costose era necessario trovare un’altra fonte diguadagno. Dovevo sposarmi o prendere un altro amante ricco, oppure – e cipensavo sempre di più – tornare con Donovan alla Martinica.

Il mio affetto per Donovan mi incalzava, e desideravo rivedere le isole, cheerano la mia patria. Sognavo di tornare alla Martinica di un tempo, quelladella mia adolescenza, al fianco di Donovan. Ma ero anche convinta che,come il generale Bonaparte, dovessi sposarmi. Dovevo avere un rapportofisso. Un patrigno rispettabile per i miei figli. Eugène, in particolare, sentivala mancanza di un uomo forte nella sua vita. Sapevo che a Hortense ilgenerale non piaceva, soprattutto quando andava da lei e le tirava le orecchiefino a farla piangere. Lui rideva mentre lo faceva, e per questo le riuscivaancora più sgradito. Ma Hortense, essendo una ragazza, non era la miapreoccupazione principale. Lo era Eugène. Bonaparte si era offerto diportarlo con sé in Italia, e io pensavo che, se avesse promesso di tenerlolontano dai combattimenti più seri, forse avrei dovuto permettergli diandare. Era così ansioso di iniziare la sua carriera militare e idolatrava ilgenerale.

Inoltre, cominciavo a capire che Bonaparte era ben più di un ufficiale diartiglieria rozzo, precoce, un giovane comandante di uomini. Aveva unaqualità che attirava la gente a lui, che attirava me. Poteva essere spietato eaveva massacrato molti innocenti parigini per ordine di Barras, ma lo vidianche, in quel freddo inverno del 1795, distribuire pagnotte dell’esercito aparigini tremanti di freddo e affamati in rue Sainte-Nicole e sapevo concertezza che aveva un elenco di famiglie bisognose (molte di loro corse) e siaccertava che venissero aiutate con cibo e combustibile fino all’arrivo dellaprimavera.

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E non dovevo dimenticare che era una stella in ascesa.

Lo dicevano tutti, e io ascoltavo quello che si diceva. Ascoltavo, e infinedecisi di accettare la sua proposta di matrimonio.

Non lo feci ciecamente o in modo disonesto, o così almeno mi parve. Invitaia casa il generale e gli parlai con franchezza.

«Non posso fingere che i miei sentimenti per voi siano forti quanto i vostriper me» cominciai quando sedette accanto al camino nel mio salotto. Iocamminavo mentre parlavo e sentivo, con profondo disagio, quanto fosseropompose e formali le mie parole, come i dialoghi dei romanzi da quattrosoldi che leggeva Euphemia. «Tuttavia, dopo aver riflettuto, ho deciso diaccettare la vostra proposta di matrimonio.»

Prima che potessi aggiungere altro, lui balzò in piedi e corse adabbracciarmi, baciandomi ripetute volte il viso e dicendo: «Giuseppina!Giuseppina! Oh, mia diletta, adorabile Giuseppina!».

Io lo allontanai con dolcezza e continuai a dire quello che mi sembravanecessario, invitandolo a sedere e ad ascoltarmi fino in fondo.

«Voglio sappiate che non sono ricca e non posso portarvi alcuna dote.»

«Oh, lo so bene. Sono già stato dai vostri banchieri, so esattamente quantodanaro avete. E so che Barras non vi manderà più assegni quando saremosposati.»

«Dovrei dirvi anche che sono andata a letto con molti uomini.»

«Tutti lo sanno a Parigi.»

«E che ho avuto un’altra proposta.»

In qualche modo era vero. Donovan voleva che vivessi con lui,presumibilmente a lungo. Ma senza anello e senza promesse formulatedavanti a un prete. In ogni caso, mi sentivo forte rivelando al generale cheaveva un rivale.

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Le mie parole ebbero su di lui un effetto inatteso. Balzò nuovamente inpiedi, ma con il viso irrigidito dalla collera.

«Chi è?»

«Preferisco non dirlo. Intendo rifiutare.»

«Devo sapere chi è.»

Rimasi in silenzio.

«Non posso battermi contro un nemico invisibile!» esclamò avvicinandosi ame.

Ero spaventata. Risposi, per quanto potevo, a voce bassa e controllata. «Nonè necessario battersi. Come ho detto, intendo rifiutarlo.»

Lo guardai mentre la sua collera cedeva il passo all’esasperazione, poi a unosguardo di acido disprezzo, quindi a un senso di sconfitta e infine dimalinconia. Quanto poteva essere mutevole quell’uomo!

«Non urtiamoci nel giorno più felice delle nostre vite» disse infine. «Purchévoi promettiate di essere mia.»

«Sì, vi sposerò» ripetei.

Lui fu tenero e pieno di parole affettuose; io, gentile. Uscì e tornò a portarmimazzi e mazzi di fiori e un anello che era appartenuto a sua nonna con unaminuscola pietra in un castone semplice, all’antica. Lo misi al mignolo,perché era troppo piccolo per l’anulare.

«Non mi meraviglia che non vi entri all’anulare» disse accarezzandomi lamano che teneva fra le sue e baciandola. «Mia nonna era una donna piccola,poco più alta di una bambina. La sua famiglia era molto povera e mi ha dettoche, da ragazza, non mangiava mai a sazietà. Ma era forte e piena dicoraggio. Si dice che abbia ucciso un lupo con un coltello perché avevaaggredito uno dei suoi agnelli.» Sorrise. «Noi corsi siamo selvaggi.»

«Lo so.»

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Allora mi prese con impeto dando sfogo a tutta la sua passione, e io feci ilpossibile per goderne.

Bonaparte parlava spesso e a lungo del suo fato, di come fosse destinato afare grandi cose, su vasta scala. Ora io legavo la mia sorte alla sua. Neimomenti di riflessione pensavo a Orgulon e a quello che mi aveva detto delmio futuro. La mia era stata una scelta che avrebbe approvato? Credevo disì.

Si avvicinava il giorno della partenza dell’esercito per l’Italia e Bonapartetrascorreva ogni ora del giorno a preparare gli uomini e a leggere messaggidei suoi informatori negli Stati italiani. Quando era con me, spessodiventava ansioso, camminando avanti e indietro e parlando tra sé initaliano.

Voleva che ci sposassimo prima della sua partenza. Voleva che tutto fossedefinito fra noi.

Io avevo predisposto che il matrimonio avvenisse nella chiesa di Saint-Sermin, molto elegante, e avevo compilato un lungo elenco di invitati.Ordinai un abito nuziale da Madame Despaux e una torta enorme allapasticceria Terlay, che allora era la migliore della capitale. I miei programmierano già molto avanzati quando ricevetti un biglietto da Bonaparte.

“Giuseppina, anima della mia vita, venite alle sette di stasera al municipio inrue d’Antin. Portate i testimoni.”

Il biglietto era accompagnato da un regalo, un medaglione su cui eranoincise le parole “Al destino”.

Ahimè! Tutti i miei preparativi dovettero essere abbandonati. Nientematrimonio elegante, niente regali, niente invidia dalle altre donne mentre midirigevo all’altare nell’abito di Madame Despaux.

Ero desolata. Piansi sull’ampio petto di Euphemia e lei mi accarezzò la testaper consolarmi. In capo a un’ora mi ripresi e mandai veloci messaggi allamia amica Thérèse Tallien e a suo marito, a Paul Barras (pensavo fosse miodiritto che lui fosse presente) e al mio consulente finanziario, Jérôme

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Calmelet, che mi era stato sempre lealmente al fianco nelle fortune e nellesventure della mia vita a Parigi. Chiesi a tutti di trovarsi al municipio allesette e li ringraziai per la loro disponibilità a essere miei testimoni.

Dietro sua richiesta, non portai con me Hortense. Né mandai un messaggioalla zia Edmée o a Fanny de Beauharnais. Sapevo che a Fanny non piacevaBonaparte ed ero certa che la zia Edmée sarebbe stata delusa dalla mia scelta.Per lei, nascita aristocratica e ricchezza erano gli aspetti che contavano in unmarito; senza dubbio si sarebbe vergognata di me vedendomi sposare uncorso di famiglia oscura. Un uomo la cui idea di pulizia era di annaffiarsi diacqua di colonia per coprire l’odore causato dalla scabbia.

Mi guardai allo specchio mentre Euphemia mi aiutava a vestirmi. C’eranorughe sottili agli angoli della bocca e degli occhi e la pelle del collo e delseno non era più morbida come rugiada, ma leggermente secca e segnatadalle vene, color avorio più che bianco latte. Però ero molto gradevole con ilmio perenne sorriso e una benevola tolleranza nello sguardo. Gli occhi,luminosi e graziosamente a mandorla, mi davano un aspetto da ragazzina chenascondeva i miei trentadue anni. Fino a giugno non ne avrei avuti trentatré,mi ricordai. Avevo ancora tre mesi nei quali essere trentaduenne.

Euphemia annodò una fusciacca rossa, bianca e blu attorno alla vita del mioabito bianco e mi porse il dono di mio marito, il medaglione inciso con lacatena d’oro. Me lo infilai dalla testa.

«Possa portarvi fortuna, sorella mia» mi disse usando quel nome familiareche non si permetteva mai di adoperare. Poi, per maggior sicurezza, mi fecescivolare nella tasca dell’abito un amuleto. «Per tenere lontani gli spiritimaligni» mormorò, e ci scambiammo un sorriso d’intesa.

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30«Dunque, Madame Bonaparte, spero siate soddisfatta del vostro nuovoruolo. Vedo che siete molto ricercata.» Paul Barras parlava in tono ironico,con un sorriso sarcastico sul viso, guardando la folla che si era riunita nelmio boudoir. Erano venuti quella mattina come venivano sempre: chi avevapetizioni da presentare, chi chiedeva favori, o sperava di assicurarsi il mioaiuto per ottenere una posizione politica per sé o i suoi parenti.

«Grazie all’importanza di mio marito, sì.»

«Ma vostro marito è lontano.»

«È partito due giorni dopo le nostre nozze, come sapete bene.»

Paul prese la tabacchiera, aspirò un pizzico di quella polvere giallognola, tiròsu col naso e starnutì.

«Molto triste per la sposa» proseguì «non avere una luna di miele. Dovetesentirvi sola. La grotta non è la stessa senza di voi.» Mi lanciò uno sguardosignificativo e io ricordai in modo vivido la grande sala fiocamenteilluminata nella quale avevo trascorso tante notti indolenti e ricche dipiacere.

«Non sono sola quando voglio compagnia.»

«Mi chiedo se il vostro nuovo marito sappia dell’elemento principale diquesta compagnia, l’affascinante gentiluomo della Martinica.»

Mi sentii arrossire, ma risposi con noncuranza: «Monsieur de Gautier è unsocio d’affari. E Bonaparte lo conosce, sì. Si sono incontrati».

Donovan aveva rinviato la partenza per la Martinica e ci eravamo associatinell’affare dei rifornimenti per l’esercito, che ora rendeva più che mai. Mispaventai sentendo che le spie di Barras sapevano della mia relazione conDonovan, sia quella d’affari sia quella personale.

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«Non vi preoccupate» stava dicendo Barras «non dirò a Bonaparte di voi edi questo Monsieur de Gautier. Rimarrà tra noi. Dopo tutto, non voglio chenulla distragga Bonaparte dalle vittorie che sta riportando.»

Mio marito aveva ottenuto strabilianti successi militari in Italia, e in quellaprimavera si parlava molto delle sue vittorie.

«Siamo in contatto quotidiano» replicai enigmaticamente, e Barras rise.

«Volete dire che lui scrive ogni giorno. So bene quello che accade tral’ufficio postale e i dispacci militari. Lui vi scrive, voi non lo fate mai.»

Era vero. Bonaparte mi scriveva spesso, a volte tre o quattro volte al giorno.Ma io detesto scrivere lettere e non rispondevo.

«Inoltre, vi conosco, Yeyette. Siete troppo pigra per fare lo sforzo di scrivereuna lettera.» Prese dalla tasca una scatoletta di avorio intagliato. «Guardatedentro» disse porgendomela.

La aprii. Conteneva assegnati di valore alto. Una bella quantità di danaro. Larichiusi in fretta.

«Ora, in cambio del mio silenzio su Monsieur de Gautier, vi aspetto allagrotta questa notte, e per molte notti future. Al vostro solito posto, dietro latenda di velo. Vi attendo con ansia.»

Con una risata tese la mano per darmi una pacca sul didietro. Io mi voltai eparlai a qualcun altro, ma il mio tentativo di indifferenza non potevacancellare l’impatto della sua familiarità. Mi avviliva comprendere che PaulBarras mi possedeva ancora, come possedeva Bonaparte e in pratica tutte lepersone importanti a quel tempo.

Vidi la mia immagine nello specchio. Eccomi, Madame Bonaparte soltanto dinome, ma ancora la viscontessa de Beauharnais, mascherata appena dallamia nuova condizione, in un abito troppo scollato per essere rispettabile, ledita piene di anelli e gli occhi blu scuro scintillanti di avidità; gli occhi,continuavo a ricordare a me stessa, di una donna che non era più giovane.

Ciò nonostante dovevo riconoscere che, esteriormente, la mia vita era

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cambiata. Ovunque andassi venivo accolta con entusiasmo come la mogliedell’uomo del giorno, Bonaparte. Quando uscivo con il phaeton, miapplaudivano. A teatro, tutti si alzavano vedendomi entrare nel mio palco,come una volta, prima della Rivoluzione, si erano alzati per onorare il re e laregina. Grida di “Madame Bonaparte!” mi raggiungevano quando uscivo perstrada, e anche le assistenti della sarta che mi provavano i vestiti, pure con labocca piena di spilli, riuscivano a mormorare la loro ammirazione per miomarito.

Confesso che mi piaceva essere la moglie di Qualcuno, sebbene mi mettessea disagio sapere che ogni mio movimento era attentamente seguito, ogni miaparola ripetuta e discussa. E comprendevo, perché non sono una sciocca,che tutti i complimenti in più che mi venivano rivolti erano soltantoadulazione, privi di sincerità.

Quando mi tagliai i capelli e li pettinai a riccioli morbidi che miincorniciavano il viso, e tutte le donne alla moda imitarono la miaacconciatura, quando tutti i negozianti mi riempivano di complimenti e mioffrivano di far lievitare senza problemi il mio credito, oppure quando lagente mi si affollava attorno appena entravo in un salone da ballo, provavoun senso improvviso di piacere. Mi diede molta soddisfazione trasferirminella casa di Bonaparte, grande, solida, dalla facciata di pietra, in rue desCapucines, e mi piaceva ordinare la sua bella carrozza (usavo molto meno ilphaeton ora) quando volevo uscire. Mi rallegrava poter mandare più soldi amia madre e alla zia Rosette, alla Martinica. Comprai per la zia Edmée un belfilo di perle quando, diventata vedova, sposò il vecchio marchese con unasemplice cerimonia a Fontainebleau. Andai anche dal dentista perchémigliorasse l’aspetto dei denti che mi rimanevano, sebbene continuassi atenere la bocca chiusa quando sorridevo.

Dopo due mesi di soggiorno in Italia, le lettere di Bonaparte diventaronoossessive.

“Siete l’anima della mia vita” scriveva. “Non posso vivere senza di voi. Nonriesco a mangiare o a dormire per l’ansia. Temo che metterò fine alla miaesistenza se non venite e non mi state accanto.”

Gli feci rispondere da uno dei suoi ufficiali che ero ammalata e pertanto non

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potevo partire. Ma il messaggio lo rese solamente più sconvolto e disperato.Infine, con molta riluttanza, accettai di raggiungerlo purché potessi portarecon me il mio socio d’affari e la mia cameriera. Bonaparte era così ansiosodi avermi con lui che non sollevò alcuna obiezione.

“Purché veniate presto, anima della mia vita!” mi scrisse. “Affrettatevi,affrettatevi, sulle ali dell’amore!”

Dicendo che volevo portare con me il mio socio d’affari, intendevonaturalmente Donovan, e volevo anche Euphemia, benché lei rifiutassedecisamente di venire.

«Se pensate che intenda farmi sparare da quei terribili austriaci, Yeyette, sieteuscita di senno» dichiarò quando le parlai del viaggio. «Io rimango qui.»

Per caso, proprio allora venne da me una ragazza che sperava di trovareposto fra la mia servitù. Aveva una lettera di raccomandazione di un’amicadi Bonaparte, Laure Permon. Accettai di assumerla come cameriera e le dissiche saremmo partite per Milano.

Sembrava una ragazza tranquilla, efficiente, riservata e educata, d’aspettoordinario. Si chiamava Clodia. Non mi informai molto su di lei perché erooccupata a preparare il viaggio e anche perché sono per natura fiduciosa,troppo. In seguito avrei scoperto che non era quello che sembrava. Nelvolgere di pochi giorni, Clodia, Donovan e io entrammo nella pesantecarrozza inviata da Bonaparte e partimmo verso sud.

Non ero preparata alle fatiche di quel lungo viaggio. Non sapevo quantofosse lontana l’Italia né quanto ripide e pericolose fossero le montagne chela separavano dalla Francia.

Naturalmente avevamo montagne alla Martinica, alte vette vulcaniche che siinnalzavano oltre le spiagge e le foreste e torreggiavano sul terreno. Sapevoper esperienza diretta quanto fosse imponente uno di questi monti, il MorneGanthéaume, dove si trovava il Crocicchio Sacro. Ma quelle vette non eranonulla paragonate alle Alpi, che sorgevano innanzi a noi in un’impenetrabilebarriera ricoperta di neve, un gelido deserto di ghiaccio e venti impetuosi.

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Appena vidi le prime cime scoscese e frastagliate, decisi di tornare indietro.Ne avevo avuto già abbastanza di viaggiare, in quella carrozza chesobbalzava lungo strade polverose, le ossa indolenzite per le continuescosse, la gola secca e la testa dolorante.

«Io non proseguo» annunciai a Donovan e all’imbronciata Clodia che, eraevidente, detestava viaggiare in carrozza non meno di me.

«Faremo una sosta» disse Donovan gridando al cocchiere di fermarsi allaprima locanda grande e di aspetto dignitoso. «Domani mattina ti sentirai piùforte.»

Ma al mattino le montagne sembravano soltanto più ripide e più temibili, e latesta mi doleva così furiosamente che Clodia dovette prepararmi unapozione per placare il dolore. Appena cominciammo a inerpicarci, i cavalli sistancarono subito e fummo costretti a scendere e a camminare a piedi peralleggerire il peso. Non avevo portato calzature da passeggio e consumai lemie scarpette sulle strade rocciose delle colline, che diventavano sempre piùstrette a mano a mano che procedevamo.

Presto arrivammo a un punto oltre il quale la carrozza non poté proseguire.Prendemmo a nolo delle mule a una stazione di posta, al limitare di una bellavalle verde, e tutto il nostro bagaglio venne trasferito sul dorso di queglianimali pazienti e dal passo sicuro. Io non avevo mai cavalcato una mula.Ero abituata ai cavalli che, come non tardai a scoprire, hanno un’andaturamolto diversa.

Donovan porse due pistole a me e a Clodia.

«Le montagne sono piene di briganti» mi disse. «Non esitate a usarle.»

Sapevo come tirare con una pistola. Me lo aveva insegnato mio padrequando ero ragazza, alla Martinica, perché la piantagione si trovava in unazona agricola isolata e dovevamo difenderci da soli, dal momento che perriunire e armare la milizia ci volevano giorni e i soldati più vicini erano aFort-Royal, a molti chilometri di distanza.

Sui passi alpini, tuttavia, le pistole si sarebbero rivelate inutili a causa delle

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nebbie quasi costanti e del vento gelido sulle cime. Era impossibilemantenere secca la polvere e non credo che la mia arma avrebbe fatto fuoco,se l’avessi usata.

In ogni caso, il pericolo di quei sentieri stava nei sentieri stessi più che nellaminaccia di banditi e ladri. Io trattenevo il fiato quando la mia mula siavviava con passo sicuro lungo una pista larga pochi centimetri. Su un latosi innalzava un nudo muro di pietra, sull’altro si apriva un ripido abisso,profondo centinaia di metri. Non osavo guardare. Dovetti chiudere gli occhie afferrarmi disperatamente alla sella, gridando piano ogni volta che la miacavalcatura incespicava su una pietra o scivolava quando il sentiero eraumido.

Sebbene fossi avvolta in coperte, gelavo. Desideravo ardentemente un po’ dicalore, un rifugio, un bel fuoco scoppiettante. I vestiti erano inzuppati e icapelli incollati al viso sotto il cappello di pelliccia bagnato che indossavo.La notte dormivamo sul nudo pavimento di piccole capanne, mentre imulattieri, più resistenti, dormivano all’aperto. Ogni mattina mi svegliavodolorante e irrigidita, chiedendo quanto tempo ci voleva ancora prima diuscire dalle montagne. Maledicevo Bonaparte per avermi costretto adaffrontare quella fatica e volevo disperatamente gettarmela alle spalle. Maallo stesso tempo sapevo che, giunta in Italia, i miei giorni e le mie notti conDonovan sarebbero finiti, e mi aggrappavo a lui, traendo conforto dalla suavicinanza come facevo sempre e pentendomi a volte di non essere andatacon lui alla Martinica invece di sposare Bonaparte.

Di questo argomento Donovan parlava poco.

«Che siate o non siate sposata per noi non conta» mi disse. «Quello che noidue siamo è molto più forte di qualsiasi voto matrimoniale.»

Era la verità, e io lo sapevo.

Quando infine superammo le montagne e, dopo un’altra settimana diviaggio, arrivammo a palazzo Serbelloni, a Milano, dove Bonaparte aveva ilquartier generale, mi sentii intimorita. I miei amici e io ammiravamo sopratutte le altre l’arte greca e quella romana e cercavamo di imitarle nei vestiti enell’arredamento delle case. Ora, in quel palazzo rosa, armonioso, vedevo

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un’autentica architettura classica divenuta viva: le semplici, nobili colonne, itimpani, le lucenti pareti di marmo e i pavimenti, le belle statue di bronzo e idipinti, tutto incastonato in giardini in fiore e fontane zampillanti.

Bonaparte era lontano con le sue truppe e si preparava a un nuovo scontrocon gli austriaci, ma io mi sistemai benissimo a palazzo, riverita dalpersonale e accolta con grande formalità dai dignitari locali e dalle folleesultanti. Bonaparte era un eroe per i milanesi: di conseguenza io eroun’eroina, e mi stancavano chiedendo udienze, offrendo banchetti in mioonore e presentandosi formalmente e cerimoniosamente. Mi offrivanomerletti e gioielli, pezze di seta e busti antichi, cassette di vino e gustosipasticcini e formaggi.

Donovan trovò un alloggio in città e cominciò a fare affari. Io lo vedevo disfuggita, a molti dei festeggiamenti dati in mio onore, dietro la folla o sedutoin un banchetto a un tavolo lontano, ma con lo sguardo fisso su di me e unmezzo sorriso sulle labbra.

Una mattina, Bonaparte entrò al galoppo nel cortile del palazzo sul suosplendido cavallo bianco da guerra, chiamando forte gli staffieri e balzandoa terra per venirmi a cercare. Io lo guardavo da una balconata e gli andaiincontro per calmarlo mentre lui saliva correndo le scale di marmo, gridandoil mio nome.

«Giuseppina! Dolce, incomparabile Giuseppina!»

Il suo abbraccio fu soffocante e interminabile. Anche dopo avermi baciatoun centinaio di volte e avere trascorso ore con me nell’antico letto abaldacchino della suite di stanze che occupava a palazzo, non riusciva a nonafferrarmi, tastarmi il seno, stringermi a sé. La servitù e gli ufficiali eranoimbarazzati, io ero imbarazzata. Bonaparte si comportava come un ragazzoinnamorato, non come il conquistatore dell’Italia.

«Vi prego, amore, lasciatemi andare, lasciatemi respirare!» Mi allontanaidolcemente da lui, liberandomi dalle sue mani che mi afferravano. Il viso sifece triste, poi petulante, quindi cupo. Alzò le braccia in un gesto esasperatoe uscì a grandi passi, ma ritornò al mio fianco, pentito e affettuoso, mezz’oradopo.

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«Giuseppina, mio dolce amore, non sono riuscito a rimanere lontano. Sesoltanto sapeste quanto ho sofferto tutti questi mesi senza di voi.»

Sembrava così triste che quasi scoppiai a ridere.

«Siete davvero divertente, mio piccolo Pulcinella» dissi fingendo di nonprendere sul serio quelle parole esagerate.

«Voi scherzate, ma le mie sofferenze sono autentiche.»

«Come lo sono state le mie nel valicare quelle paurose Alpi.»

Lui sbuffò. «Che cosa sono le Alpi? Una cavalcata a dorso di mulo per unbambino. Un divertimento in sella. Io sono stato mesi interi senza dormire,guidando i miei uomini in battaglie terribili, mortalmente ansioso perché nonavevano cappotti e stivali e pallottole per i moschetti e carrelli per i cannoni.Ho lavorato tutte le notti con i corrieri e i dispacci. Ho visitato i capezzali deimorenti. Ho calmato dispute, impedendo ai miei uomini di saccheggiare eviolentare. Potete immaginare che pena sia stata dover uccidere i miei stessiuomini che mi amano e mi hanno seguito fedelmente per mesi, perché sisono resi colpevoli di saccheggio?

«Erano uomini per i quali io stesso ho rubato, togliendo stivali e giacche agliufficiali austriaci morti. Razziando oche e galline dalle fattorie perchépotessero riempirsi la pancia. Erano uomini che amavo!»

Gli asciugai le lacrime e feci il possibile per confortarlo. Come potevo nonoffrire sollievo a un uomo che portava appeso al collo un mio grande ritrattoe lo mostrava orgogliosamente ai suoi maggiori?

Diede un ballo a palazzo per celebrare il mio arrivo e io mi vestii con grandecura sapendo che sarei stata al centro dell’attenzione. A Parigi ero arbitra dieleganza e volevo essere tale anche a Milano. Indossai un abito disegnato daLeroy, ancora uno dei sarti più ricercati di Parigi. Era di leggera mussolaindiana, così impalpabile che le calze color carne erano visibili attraverso lemorbide pieghe, come era visibile il fatto che non portavo camicia. La tunicadi mussola non aveva maniche, avevo le braccia nude e non calzavo guanti.Non indossavo gioielli, ma ghirlande di fiori in testa e al collo. Ero Giunone,

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Cerere, Elena di Troia redivive.

Tutti trattennero il fiato quando entrai nel salone da ballo, ma non si trattava,come mi aspettavo, di ammirazione, bensì di scandalo.

Le donne mi guardavano le gambe, gli uomini il seno quasi nudo. Alcunedelle gentildonne più anziane abbandonarono ostentatamente la sala. Altre sicoprirono il viso con il ventaglio e si rifugiarono nel lato opposto a quelloda cui ero entrata. Dopo lo stupore, vi fu un lungo, imbarazzante silenzio.

Poi Bonaparte fece segno all’orchestra di attaccare e si sentirono le note delminuetto alla milanese, mentre io prendevo posto accanto a lui su unapedana ricoperta di velluto scarlatto.

Avvertivo di avere sbagliato qualcosa, ma non comprendevo che cosa. Erosempre stata ammirata. Perché non vedevo ammirazione sul volto di quegliaristocratici italiani riuniti a palazzo Serbelloni? Ero troppo grassa? O troppoesile? (Le signore italiane avevano forme generose.) Erano invidiose, tantoammirate dalla classica bellezza del mio abito da non poter reagire?

I giornali milanesi, il giorno seguente, mi diedero la risposta. Leggendoli,Bonaparte rimase molto offeso.

«“Il generale Bonaparte ha offerto un ballo per sua moglie, un tempo RoseBeauharnais, cortigiana in tutto e per tutto salvo che nel nome e viventeinvito alla lussuria”» lesse a voce alta mentre eravamo a pranzo. «“QuestaRose Beauharnais, che adesso si fa chiamare Giuseppina Bonaparte, harivelato troppo di se stessa per essere decente quando è arrivata al ballo,indossando una camicia da notte trasparente di stile antico con ghirlande difiori nei capelli come una baccante. Le braccia e le mani scoperte larendevano completamente nuda.”»

Bonaparte si alzò e cominciò a camminare piuttosto in fretta intornoall’enorme tavolo da pranzo senza mai smettere di leggere.

«“Esortiamo tutte le signore per bene a evitare le occasioni alle quali saràpresente questa donna immorale e a impedire che le loro figlie seguano ilsuo esempio estremamente negativo.”»

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Levò lo sguardo e gettò il giornale nel fuoco. «Come osano!» gridò. «Comeosano criticare mia moglie?»

«Come osano criticare Leroy?» aggiunsi ironicamente. «Loro, così goffi eineleganti?»

«Questo giornale verrà chiuso» annunciò Bonaparte. «Il direttore sarà gettatoin prigione.»

Ma non bastò mettere a tacere la stampa. Il clero di Milano mi condannò dalpulpito, chiamandomi “sgualdrina”, “strumento del diavolo”, “demonioinviato a corrompere la morale degli italiani timorati di Dio”.

Bonaparte, che non aveva particolare rispetto per i preti, non si curò diquegli attacchi quando gli vennero riferiti, come non si era curato deipettegolezzi che lo raggiungevano da Parigi su di me e Barras, e disse cheavrebbe mandato un messaggio al papa, il quale li avrebbe fatti cessare.Apparentemente il papa aveva meno potere – o meno desiderio di mettere atacere il suo clero – di quanto immaginasse Bonaparte, perché le condannedei preti nei miei confronti continuarono durante tutto il mio soggiorno inItalia, al punto che finii per sentirmi un’intrusa.

Per quanti balli e banchetti si dessero in mio onore, per quanti omaggivenissero resi all’eroina del giorno, venivo sempre evitata dalle personedevote e guardata con sospetto da tutti gli altri. Vedevo la riprovazione negliocchi delle donne e il timore (unito, naturalmente, alla libidine) in queglidegli uomini. Capii di essere stata irrimediabilmente condannata. Ma nonsapevo che mi aspettava un giudizio molto più aspro e molto più doloroso.

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31In estate Bonaparte prese in affitto una villa nei pressi di Milano e là, unpomeriggio, incontrai per la prima volta la mia suocera corsa, Letizia.

Venne a grandi passi verso di me sul prato verde, una figura temibile, tutta innero, che camminava velocemente e vigorosamente, sebbene zoppicasseappena e si appoggiasse a un bastone di legno con il pomolo di ebano.Sembrava un personaggio uscito da un libro illustrato per bambini, unastrega o un demonio, perché la cuffia vedovile che indossava con il lungovelo nero cancellava la sua umanità e la rendeva simile a uno spirito divendetta scaturito dalle profondità dell’inferno.

Io ero sdraiata su una sedia da giardino, con una sciarpa di seta leggeraattorno alle spalle, e sonnecchiavo al sole caldo tra garofani in fiore eforsizie, lillà e cespugli di rose. Sentii da una certa distanza la sua voce forte,stridente.

«Dov’è quella donna? Quella donna svergognata che il mio Napoleonepensa di aver sposato! Dov’è?»

Mi raddrizzai e mi strinsi la sciarpa attorno alle spalle.

«Siete voi?» mi chiese avvicinandosi. «Siete voi dunque quella donna?»

«Buon pomeriggio, Madame Buonaparte» dissi tendendo la mano, attenta apronunciare il nome all’italiana invece di usare la forma francese, cheBonaparte ormai preferiva.

«Alzatevi! Siete davanti a una signora più anziana!» ordinò spingendoindietro il velo nero e mettendo in mostra un viso esile, dai lineamenti aspri,con neri occhi di fuoco, pesanti sopracciglia scure e una bocca come quelladi Bonaparte: piccola e decisa. La carnagione, priva di qualsiasi belletto, eragiallastra e rugosa, sebbene non sembrasse anziana; la sua energia e il suovigore smentivano i suoi quarantanove anni.

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Non prese la mia mano.

«Siete una donna cattiva. Cercate di ingannare il mio Napoleone. Avetedetto: “Aspetto un figlio”. Lo avete ingannato.»

Mi minacciò scuotendo il pugno, un pugno nodoso, dalle vene in rilievo,che sbucava dalla manica aderente dell’abito nero.

«Ma aspettate. Vi sbagliate! Vedrete. Siete in errore.»

Non aspettò che rispondessi, ma si voltò e se ne andò da dove era venuta,colpendo con il bastone il prato ben curato come se volesse ferirlo.

Quella sera a cena si riunì l’intera famiglia Buonaparte. Ogni membro fuaccolto con gioia da mio marito, quindi presentato a me.

«Avete già conosciuto la mamma» disse Napoleone minacciandoscherzosamente col dito Letizia. «La mamma mi ha detto di avervi rivoltoparole cattive. Ma ora è tutto finito. Voglio che vi amiate e vi vogliate bene.Mamma, sarete la nonna dei nostri figli e le nonne sono sempre affettuose,mai in collera.»

Dietro sua insistenza, Letizia mi tese la mano e io la strinsi. Aveva la pelleruvida e secca, le unghie trascurate. Non ricambiò la mia stretta e nonsorrise. Fece soltanto un dignitoso cenno del capo.

«Mio fratello Giuseppe» disse poi, indicando un bell’uomo alto di circatrent’anni, che mi accennò un leggero inchino, ma, come la madre, nonsorrise. Rivolsi uno sguardo interrogativo a mio marito, che compreseperché.

«È avvocato» affermò ridendo. «Non sorride mai.»

«Però si occupa dei tuoi interessi» ribatté Giuseppe. «E ha osservato alcuneirregolarità nelle attività commerciali di tua moglie... e nei suoi soci d’affari.»Giuseppe inarcò espressivamente un sopracciglio.

«Di’ apertamente quello che intendi, Giuseppe.»

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«Lo farò quando saremo soli.»

Rabbrividii. Quali irregolarità? E che cosa sapeva Giuseppe Buonaparte diDonovan e me?

Napoleone rivolse un’occhiata tempestosa al fratello, ma non aggiunse altro.Quindi riprese le presentazioni.

«Purtroppo mio fratello Luciano non è qui. Si è reso colpevole e non puòvenire incluso in questo momento nella cerchia familiare.»

«Ha sposato una sgualdrina» disse Letizia. «Non ci piacciono le sgualdrine.»

Bonaparte mi presentò a una ragazza goffa, grassa, con occhi piccoli emalevoli. Mi lanciò uno sguardo di fuoco, poi si inchinò pesantemente,impacciata dal suo peso.

«Elisa» disse Bonaparte, quindi si affrettò verso un giovane di bell’aspetto,pallido e snello, attraente, con un’espressione teneramente vulnerabile.

«Luigi. Il nostro intellettuale. L’artista.»

«Oh» reagii quando Luigi, con grazia sorprendente, prese la mia mano tesa ela baciò. “Finalmente” pensai. “Un Buonaparte civilizzato.”

«E questa è la nostra Paolina» annunciò orgogliosamente mio maritopresentandomi una bella ragazza di circa diciott’anni, che mi fece unprofondo inchino e, quando il fratello le voltò le spalle, tirò fuori la lingua emi sussurrò: «Non ci piacciono le sgualdrine».

“Eppure tu ne hai l’aspetto” pensai osservando la profonda scollatura dellaragazza, l’abito stravagante ma privo di gusto e la collana scintillante di pocovalore. Era impertinente, sfrontata e provocatoria nel suo atteggiamento, ilseno spinto in fuori, una mano sul fianco pieno.

«Che cosa hai detto?» Bonaparte si voltò nuovamente verso Paolina, cheaveva ripreso la sua condotta gradevole.

«Niente, fratello.»

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«I miei due gioielli» disse allora lui. «La mia adorata Giuseppina e la miapreziosa Paolina. Non sono belle?» Aspettò che dalla famiglia si levasseromormorii di approvazione, ma, non ottenendone, continuò.

«Voglio che voi due diventiate ottime amiche. Paolina ha molti ammiratori eha bisogno della guida di una donna più grande di lei, esperta del mondo.»

«E, come sappiamo tutti, la tua Giuseppina è appartenuta a tutto il mondo.»

Bonaparte fu sul punto di schiaffeggiare la sorella per la sua osservazioneoffensiva, ma si controllò.

«Tieni a freno la lingua, Paolina» disse con voce bassa e minacciosa. «Voglioche ci sia ordine nella mia famiglia.»

«Ora non sei sul campo di battaglia, fratello» osservò la sorella grassa, Elisa.«Non siamo i tuoi soldati a cui puoi dare ordini.»

«Basta così, Elisa.» Fu il rimprovero della madre a farla tacere.

C’erano altri due fratelli che dovevano essere presentati: una ragazza di circaquindici anni e un ragazzo poco più giovane, dell’età di Hortense, avreidetto.

«Mia carissima Giuseppina, vi presento infine mia sorella Carolina e miofratello Girolamo.»

Carolina fece la riverenza e Girolamo si inchinò. Entrambi mi guardaronocon molta curiosità.

«È vero, Madame, che venite da un luogo in cui i morti camminano lanotte?» chiese Girolamo con la sua voce acuta in modo formale.

«Così si dice. Io non ne ho mai visti.»

«Spero di non vederne mai.»

«Gesù!» esclamò Letizia e si fece il segno della croce.

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Bonaparte si chinò e circondò con il braccio le spalle del fratello minore.«Girolamo, non devi mai parlare di spiriti di fronte a nostra madre. Dovrestisaperlo.»

«Nostra madre vede i suoi figli morti» mi sussurrò ingenuamente Carolina.«Ha avuto cinque bambini morti. Li vede nei suoi sogni.»

«Vogliamo pranzare?» Il cordiale invito di Bonaparte mise fineall’inquietante discorso sui fantasmi. Il pranzo fu ricchissimo: dodici portatee un susseguirsi di deliziosi vini locali. Il cuoco che mio marito avevaassunto conosceva bene i gusti del generale e aveva ricordato di includerenel menu un antipasto di calamaretti, il suo preferito, e come dessert ciliegiefresche da immergere nel cioccolato o nel cognac.

Fu un pranzo pieno di tensione e di imbarazzo, nonostante l’abbondanza el’eccellenza del cibo, e, quando si concluse, Bonaparte e Giuseppe rimaserochiusi per più di due ore nella stanza che Bonaparte aveva scelto come suostudio. Quando infine uscì e mi cercò, era pallido. Pensai: “Ha scoperto cheDonovan e io siamo amanti? Vorrà divorziare da me?”.

«Che cosa sapete della società Bodin?» mi chiese.

«Soltanto il nome. L’ho sentito dal mio socio, Monsieur de Gautier.»

«Mio fratello mi ha detto che questa società ha truffato il mio reggimentovendendo alla cavalleria animali zoppi e malati, invece di cavalcature inbuone condizioni, farina ammuffita ai panettieri e scovoli di qualità inferioreper le pistole della cavalleria, così fragili che si incrinano e si spezzano laprima volta che vengono usati. Mi ha detto che ci vendono come fosse Portodel vino rosso scadente mescolato a segatura e con un po’ di mandorle e uvaper dargli gusto.»

«È la prima volta, credetemi, che sento di queste cose orrende.»

«Senza dubbio vi siete lasciata ingannare dalle assicurazioni degli altri.»

«Mi fido della gente con cui lavoro.»

«Siete stata portata su una cattiva strada. È tempo che rinunciate a occuparvi

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di affari. Dedicatevi piuttosto alle faccende domestiche e naturalmente alvostro ruolo pubblico come mia moglie. I giornali continuano ad accusarvi.Dovete cambiare il vostro modo di vestire.»

«Vedrò di farlo.» Palesemente la conversazione con il suo serissimo fratellolo aveva turbato. Si afferrò lo stomaco come faceva sempre quando eraangosciato. «Lasciate che vi porti dell’olio di gaultheria» gli dissi. Tenevosempre con me una bottiglia di quel forte liquido verde. Ne versai un pocoin un bicchiere. Bonaparte lo bevve, poi crollò sul divano accanto a memettendomi la testa in grembo. Sapevo di che cosa avesse bisogno.Cominciai a massaggiargli le tempie, intonando a mezza voce unarasserenante nenia africana che Euphemia mi cantava quando ero bambina.Dopo pochi momenti lui chiuse gli occhi e prese un’espressione più serena.Le labbra gli si piegarono in un sorriso.

«Sento la mancanza di Hortense» dissi. Eugène lo vedevo qualche voltaperché era aiutante di campo di Bonaparte in Italia, con suo inesprimibileentusiasmo. Ero così orgogliosa di lui! Ma Hortense era a scuola nei pressi diParigi e non la vedevo da tempo. «Quando pensate che potremo tornare acasa?»

Bonaparte sospirò sistemandosi meglio sul mio grembo. «La mia casa è ilcampo di battaglia» disse. «Con i miei uomini.»

Sapevo che il solo modo per trattare con mio marito era non discutere conlui, non affrontarlo apertamente, ma placarlo, calmarlo come si potrebbefare con un cavallo inquieto, fino a quando non diventava sereno. Allora, avolte, era possibile convincerlo a fare qualcosa che volevo, sebbene questoaccadesse sempre meno di frequente.

«In Corsica» cominciò in tono un poco salottiero «la nostra famiglia avevavigneti e frutteti, boschi di castagni e ulivi. Mia nonna teneva delle capre. Erauna gran donna. Diceva che, se mai si fosse trovata nei guai, doveva soltantochiamare e duecento parenti sarebbero subito accorsi ad aiutarla.

«La famiglia! La famiglia è tutto» aggiunse guardandomi.

«Lo so. Per questo voglio tornare a Parigi, per essere vicina a Hortense, alla

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zia Edmée, al marchese.»

«Avete qui tutta la famiglia che vi è necessaria. Ma dovete trovare il modo diconquistarli. Parlate con loro. Intratteneteli. Cantate e bevete un bicchiere divino e ridete con loro. A noi corsi questo piace.»

Cercai di avvicinarmi agli spinosi e ostili Buonaparte, soprattutto al garbatoLuigi. Ma ne ottenevo soltanto sguardi acidi e parole gelide. Luigi moltoeducatamente mi evitava. Paolina parlava di me, a voce alta, chiamandomi“la vecchia” ed Elisa imprecava contro di me in corso.

Una sera, a cena, Bonaparte si alzò e levò il bicchiere. «Ho buone notizie»disse con un sorriso radioso. «Questo pomeriggio la mia amata Paolina si èfidanzata con il generale Victor Leclerc, con il mio consenso, e ho concessola mano di Elisa a un grande patriota corso, Felice Baciocchi. Voglio la gioiadi un doppio matrimonio che si terrà qui, alla villa. Cara Giuseppina, comepadrona di casa, avrete la gioia di preparare le due cerimonie.»

La famiglia applaudì e Paolina ed Elisa vennero abbracciate, ricevendocongratulazioni e scherzose frecciate, e festeggiate con ripetuti brindisi.

Io applaudii con gli altri e cercai di rallegrarmi al pensiero delle mie duecognate che facevano un matrimonio felice. Ma il cuore era smarrito. Comeavrei potuto preparare tutto quanto era necessario per quel grandeavvenimento, aiutata soltanto dalla poca servitù della villa? Sentivo già ilpeso delle critiche dei Buonaparte, poiché sapevo che nulla di quanto facevopoteva soddisfarli.

La testa mi doleva parecchio. Non mi sentivo affatto bene e mi coricaipresto. Il giorno dopo non mi alzai. Non volevo affrontare la famiglia di miomarito. Ma la mattina successiva, molto di buon’ora, Bonaparte spalancò laporta della nostra camera da letto, aprì le cortine facendo scricchiolare glianelli di legno e gridò: «Basta con questa pigrizia! Ora non siete allaMartinica! È ora di alzarsi e di mettersi all’opera».

Lo splendore improvviso del sole che entrava dalla finestra mi ferì gli occhie peggiorò il mio persistente mal di capo, come mio marito sapeva bene:soffrivo spesso di emicrania e lui non ignorava quanto questo mi rendesse

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sensibile alla luce e ai rumori. Bonaparte si alzava sempre presto, spessoprima dell’alba, e rifiutava di tollerare o riconoscere in sé qualsiasi malattia.Era uno dei molti aspetti in cui eravamo diversi: lui era dinamico e dotato dienergia inesauribile, mentre io ero placida e sognante e vivevo le miegiornate con calma.

«Vi prego, Bonaparte, la luce mi fa male! Vi prego, chiudete le finestre,lasciatemi riposare!»

Ma lui stava già tirando via le coperte e mi afferrava un braccio,costringendomi ad alzarmi.

La mia cameriera, Clodia, sempre imbronciata e silenziosa, mi portò un abitoda mattino e fece preparare la grande vasca da bagno. Le chiesi polvere dicorteccia di salice per la testa.

«Paolina ed Elisa aspettano. Vogliono sapere perché non avete ancora fattonulla per il loro matrimonio.»

«Non gli avete comunicato che non stavo bene?»

«Nella nostra famiglia, i malesseri non interferiscono con i doveri.»

Clodia mi portò il pacchetto di polvere di corteccia di salice e la mescolò conun po’ di vino. Io bevvi avidamente l’intruglio, pregando che mi liberasse daquel martellante mal di capo. Avevo bisogno di Euphemia. Aveva sempre unincantesimo o una pozione di erbe per curarmi e, a differenza di Clodia, erapiena di comprensione.

Riuscii a fare il bagno e a vestirmi e, dopo aver mangiato una ciotola difrutta, chiesi a Clodia di far entrare Elisa e Paolina nel mio soggiorno.

Entrarono, con un’aria indispettita e offesa.

«Ecco il vestito che voglio» disse imperiosamente Paolina tendendo unfoglio di carta con un abito verde disegnato approssimativamente. «E lovoglio subito.»

«Io voglio un abito coperto d’oro e di perle» esclamò Elisa. «Un abito

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fiabesco, con una tiara. Dovete procurarmelo. Mio fratello dice che è così.»

«Ma vostra madre non preferirebbe che indossaste abiti bianchi per lenozze?» chiesi. Che Letizia fosse tradizionalista era evidente.

«Siamo noi a sposarci» scattò Paolina. «Indosseremo quello che ci piace.»

Mi sentivo in trappola. Se avessi fatto quello che chiedevano le due spose,Letizia mi avrebbe senza dubbio criticato per avere rinunciato alla tradizionee aver sfidato la Chiesa, perché le spose indossavano sempre abiti bianchi.Ma, se le avessi deluse, Elisa e Paolina mi avrebbero odiato per tutta la vita.

Bonaparte era al campo militare, a circa quindici chilometri dalla villa. Nonpotevo rivolgermi a lui perché risolvesse il mio dilemma. Con un po’ ditrepidazione, decisi di cercare Letizia. Era forse lontanamente possibile,pensai, che, se le avessi chiesto aiuto, lei mi avrebbe guardato con occhiofavorevole.

La trovai nella grande cucina della villa, in mezzo alla servitù, chechiacchierava con loro in italiano. Sedeva su una sedia a dondolo, facendolamuovere avanti e indietro con i piccoli piedi calzati di stivaletti neri.

Lavorava a maglia: i ferri sembravano volare, mentre un immenso gomitolodi lana nera si srotolava da un cesto sul pavimento. Mi avvicinaitimidamente, con esitazione, sentendomi in imbarazzo.

«Madame Buonaparte» cominciai, poi mormorai: «Letizia». Lei mi guardò, eil suo sguardo mi fece sentire goffa e a disagio. «Madame Buonaparte, a checosa state lavorando?»

Lei sorrise, un sorriso gelido. «Al vostro sudario» disse soltanto.

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32Con mia grande sorpresa e gioia, Euphemia mi raggiunse proprio in quelperiodo. Le avevo scritto spesso, insistendo perché facesse il viaggio in Italiae rassicurandola che ormai i combattimenti erano quasi finiti e che, se fossevenuta, non avrebbe corso pericolo per i cannoni o i disertori. Ero così felicedi vederla che scoppiai a piangere.

Sedemmo insieme in giardino e lei mi diede tutte le notizie. Mi porse unaminiatura di Hortense: era tanto cresciuta che stentavo a riconoscerla.

«Ormai è una giovane signora. Quasi graziosa. Sente tanto la vostramancanza. Ha uno spasimante, un inglese, mi duole dirlo. Il giovane lordFalke. Molto elegante e alla moda.»

«E Coco? Come sta?»

«Si caccia dappertutto. Una bambina forte. Fa le capriole come facevate voi.Hortense le insegna l’alfabeto.»

«Come un tempo tu hai insegnato a me, Euphemia.» Il pensiero diEuphemia, allora lei stessa una ragazza, che mi insegnava l’alfabeto, miricordò che la mia amata sorellastra cominciava a essere avanti negli anni. Ame sembrava eterna, qualcuno che era sempre stato presente e che ci sarebbesempre stato, ma ora, guardandola, non potevo non vedere che invecchiava.I capelli fittamente ricci raccolti in una crocchia ordinata erano grigi, gliocchi penetranti e dolci circondati da rughe. Si muoveva più piano di quantoricordassi, e le grandi mani brune, esperte, con le palme rosa, non erano piùpaffute come un tempo ed erano diventate nodose, con le nocche gonfie.

La presenza di Euphemia alla villa rese ancora più evidenti la freddezza el’ostilità dei Buonaparte, e irrobustì la mia resistenza nei loro confronti. Lasorella e il fratello più giovani di mio marito, Carolina e Girolamo, lisopportavo, ma gli altri mi indispettivano e mi facevano infuriare sempre dipiù. Luigi, che giudicavo il Buonaparte civilizzato, una mattina mi prese intrappola mentre uscivo dalla camera da letto e mi circondò la vita con il

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braccio.

Stupefatta, mi liberai dalla sua stretta. Lui rise. «Andiamo, cognata» dissecon una voce melata che non aveva mai usato con me «non mi rifiuterete unbacio. Da quello che so, non avete mai rifiutato nessuno.» Si avvicinò, ma iogli sfuggii. In quel momento mi ripugnava.

«Aspettate che lo dica a mio marito!» risposi a denti stretti.

Luigi scrollò le spalle. «Non gli importerà. Io e Napoleone ci siamo divisipiù di una servetta.»

«Io non sono una servetta!»

Luigi fece una smorfia sdegnosa. «No, siete una sgualdrina. Lo dicono tutti.»

Lo schiaffeggiai e scesi al pianterreno dove le Tre Grazie – così avevocominciato a chiamare Letizia, Paolina ed Elisa – mi aspettavano. Letiziasedeva nella sua sedia a dondolo, lavorando a maglia, e alzò lo sguardoaccigliato. Elisa mi lanciò un’occhiata furibonda, con i doppi menti che letremolavano, e mormorò qualcosa sottovoce. Paolina, vidi subito, era andatanel mio guardaroba, aveva preso il mio vestito preferito, un abito da ballolieve come una ragnatela, di una bella seta milanese color pesca, e lo avevaindossato. Si era pettinata come me, con i corti riccioli che le circondavano ilviso e fiori freschi intrecciati fra i capelli. Quando entrai, venne verso di memuovendo i fianchi in modo esagerato, le labbra atteggiate a un bronciocivettuolo, un cagnolino come il mio tra le braccia.

«Oh, Bonaparte» tubò sbattendo le palpebre «non potete per favore lasciarmitornare a letto? Ho un terribile mal di capo, forse non mi alzerò mai più dalletto!» Era una mia caricatura grottesca ma acuta, riconoscibilissima ecrudele. Paolina era intelligente e sapeva ferire.

Elisa rise fino quasi a soffocarsi e anche Letizia sbuffò con aria davverodivertita. Io guardavo impassibile, con un viso di pietra, fino a quandoPaolina incespicò nell’orlo del vestito – troppo lungo per lei di parecchicentimetri – e cadde, strappando la preziosa seta e urtando un tavolino su cuisi trovava una statuetta antica di Afrodite, uno degli acquisti preferiti di

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Bonaparte. La statua andò in frantumi. Clodia comparve all’improvviso, conla scopa e la paletta in mano, e cominciò a spazzare via i traslucidiframmenti. Paolina, che non si era fatta nulla cadendo, si rialzò e riprese lasua imitazione. Aveva appena aperto la bocca che io la interruppi.

«Se pronunciate soltanto un’altra parola, dirò a Bonaparte che avete rotto lasua statua preferita. Poi aggiungerò che avete rovinato il mio abito da ballo,che era un dono della città di Milano, e che i maggiorenti della città e tutti imembri della corporazione della seta si offenderanno perché non potròindossarlo la settimana prossima al ricevimento che offrono in mio onore.»

L’atteggiamento provocatorio di Paolina cominciò a crollare sotto il pesodelle mie parole, ma lei, con il solo movimento delle labbra, articolò“vecchia signora”.

«E poi c’è il problema del vostro matrimonio. Che cosa direbbe il futurosposo se sapesse che vi incontrate con il caporale Trenet in giardino a tardanotte?»

«Cosa?» proruppe Letizia sussultando sulla sedia e fissando la sua bellafiglia.

«Come lo sapete?» chiese Paolina.

«Gesù!» esclamò Letizia e si fece il segno della croce lasciando cadere i ferrisul pavimento di marmo.

«Lo sa tutta la servitù, compresa la mia Euphemia.»

«Quel demonio nero!» esplose Letizia. «Soltanto le streghe hanno diavolineri come cameriere.»

«Strega! Megera! Puttana!» Elisa mi scagliò contro ogni insulto che le venivaalle labbra, ma rimase senza parole quando io trassi dalla tasca un ciondolod’argento da orologio e glielo dondolai davanti agli occhi.

«Ma questo è di Felice» esclamò stupita, senza completare la sua sfilza diinsulti. «Gliel’ho regalato io! Ladra! Lo avete rubato!» Tese la manograssoccia per afferrare il pesante oggetto d’argento, ma io lo ritrassi

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togliendolo dalla sua portata.

«Me lo ha dato il suo servitore insieme a questo biglietto.» Presi dalla tascaun foglio ripiegato più volte su cui era scritta una lettera in una grafia ampia,irregolare. Era firmata, a lettere grandi, “Felice”. Aprii il foglio e lo sollevai.Elisa diede in un’esclamazione a metà fra un sospiro e un gemito.

Paolina cominciò a ridere.

«Devo leggere la lettera?»

«No» ordinò Letizia.

Elisa si era fatta rossa. Sembrava sul punto di piangere. Paolina rideva.

Mia carissima bella signora Giuseppina,

quando vi vedo la luna sparisce e il sole si nasconde dietro una nuvolae le stelle si spengono. Siete voi, luminosa signora, che le fatevergognare. Io, Felice Baciocchi, vorrei tenervi tra le braccia. Credo siaanche il vostro desiderio. Carissima signora, svelatemi il vostro cuore.

FELICE

Quella goffa lettera d’amore del fidanzato di Elisa era così patetica e sincerada essere quasi accattivante, se si escludeva il fatto che il grasso Felice, cheodorava di aglio e si cospargeva i pochi capelli di olio d’oliva, eraripugnante.

«Che cosa pensi adesso del tuo Felice?» chiese Paolina. «Sappiamo tutti cheNapoleone lo ha dovuto comprare per te. Non ti ha mai amato.»

«Mi ha amato! Mi ama!» ribatté Elisa battendo a terra il piede. Ma la voce lesi spezzò.

«Basta!» Letizia si alzò, prese il lavoro a maglia e zoppicò fuori dalla stanzasenza guardarmi. Elisa e Paolina la seguirono.

Avevo trionfato, per il momento. Ma avevo ancora la responsabilità di

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preparare il doppio matrimonio di Paolina con il generale Leclerc e di Elisacon l’infedele Felice Baciocchi. Bonaparte voleva che fosse un eventograndioso, con centinaia di ospiti, un banchetto sontuoso e un fragorososaluto dell’artiglieria, senza dimenticare i fuochi artificiali per concludere laserata.

Fortunatamente avevo Euphemia che mi aiutava nei preparativi. Ma lei,disprezzata ed evitata dai Buonaparte come il “diavolo nero” e sdegnata per icontinui sgarbi che subivo, vedeva la festa imminente come l’occasione perrendere pan per focaccia ai miei dispettosi parenti acquisiti.

«Dovete avere gli spiriti dalla vostra parte» mi disse. «Gli spiriti vivendicheranno.»

In un angolo del mio boudoir costruì un altarino alla Dea Rossa degli Ibo evi trascorreva ogni giorno un po’ di tempo invocandone l’aiuto.

«È in arrivo una grossa tempesta» la sentii dire a bassa voce. «Una grandetempesta la vigilia delle nozze, sicuro come l’oro.» Gli ospiti erano statiinvitati a un banchetto la sera precedente il doppio matrimonio e poi apassare la notte da noi per assistere alla cerimonia la mattina seguente.

Euphemia e io andammo insieme al mercato della città più vicina. Euphemiacercò i fruttivendoli.

«Ricordate le grosse patate dolci che coltivavamo ai Trois-Îlets, quelle che vidavano un gran prurito in tutto il corpo se le mangiavate crude? Devonoavere qualcosa di simile qui in Italia.»

Cercammo nelle bancarelle fino a quando trovammo quello che volevaEuphemia: grandi e belle patate dolci con la buccia spessa. Ne prendemmoqualcuna e la mettemmo in cantina.

Il giorno delle nozze si avvicinava.

Gli ospiti avevano confermato la loro presenza, la cappella della villa erastata decorata con fronde e foglie del giardino e mazzi di rose rosa, gialle erosso vivo. Dieci cannoni trainati da buoi da aratro vennero portati dal

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campo militare alla villa, su per la collina, e collocati nel cortile per spararele salve di saluto. Era stata assunta una squadra di tecnici di fuochi artificialiper approntare uno spettacolo abbagliante. Gli abiti nuziali erano stati cuciti eprovati (abiti bianchi, con grande sgomento delle spose; come sospettavo,Letizia aveva insistito per il bianco).

Il generale Leclerc sfoggiava una nuova uniforme di gala mentre allosventurato Felice Baciocchi, terrorizzato dal suo futuro cognato, aveva presole misure un sarto di Milano per un nuovo abito dal taglio alla moda cheavrebbe, si sperava, reso meno evidenti la pancia prominente e le gamberobuste.

Come aveva predetto Euphemia, alla vigilia delle nozze il tempo si fecenuvoloso e la pioggia cominciò a cadere. Una tempesta di grandinetrasformò la strada per la villa in un pantano fangoso, e gli ospiti, nei loroabiti eleganti, arrivarono bagnati e sconvolti, le acconciature delle signorecon le piume afflosciate e le gonne schizzate di fango, le scarpette di rasoirrimediabilmente rovinate.

Le tavole del banchetto, apparecchiate in giardino sotto tendoni di tela,dovettero essere spostate in gran fretta all’interno, causando la rottura dipiatti e bicchieri. Trattenuti dal temporale che peggiorava, gli ospiti eranoarrivati in ritardo e la prima portata venne servita dopo mezzanotte.

Tutti mangiarono avidamente, soprattutto i Buonaparte. Euphemia si accertòche a Paolina, Elisa e Letizia venissero servite generose porzioni di patatedolci crude, profumate con spezie e guarnite di formaggio di capra, unaspecialità corsa.

Erano quasi le quattro di mattina quando il banchetto ebbe fine e gli ospiti,un po’ alticci, si avviarono alle stanze preparate per loro. Non dormironomolto, perché poco dopo l’alba la quiete della villa venne infranta da gridaacute.

«Le mie braccia! Le mie braccia! Le gambe! Il viso! Oh, povera me, il viso!»

Era la voce acuta di Paolina, che gemeva vedendo i segni rossi simili avesciche che le ricoprivano tutto il corpo. Presto si aggiunse Elisa con grida

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e gemiti e non tardò molto prima che tutti nella villa – ospiti, servitori,inclusi gli staffieri e i giardinieri – sapessero che le future spose erano pienedi vesciche.

Paolina ed Elisa, sconvolte dal panico e dall’umiliazione e tormentate da unprurito che pareva niente potesse calmare, rifiutarono di indossare l’abitonuziale e si chiusero a chiave nella stanza di Paolina. Bonaparte, usando latattica che lo aveva reso famoso a Parigi, trasformò i pesanti mobili dellavilla in macchine da guerra e abbatté la porta della sorella mentre io e gli altriguardavamo quella scena inorriditi.

«Vestitevi subito» ordinò alle sorelle in tono severo. Paolina aprì una finestrae uscì sul davanzale di pietra. Elisa la seguì, ma era troppo robusta perraggiungere il davanzale. Bonaparte afferrò la sorella e la gettò fra le bracciadi uno stupefatto Felice, i cui sforzi per calmarla suscitarono nuove urla eimprecazioni.

«Paolina» continuò Bonaparte «se non ti vesti immediatamente, ordineròl’esecuzione del caporale Trenet.»

Sentendo il nome del suo amante, Paolina si voltò, tremando, e cominciò agemere. Il suo bel viso gonfio, rosso e pieno di bolle, era il ritratto delladesolazione.

Bonaparte fece un passo verso la porta.

«Sì, sì, va bene» singhiozzò lei, e chiamò rabbiosamente la cameriera.

«Aspetto te ed Elisa nella cappella tra un’ora.»

Ci disperdemmo tutti nelle nostre stanze, sapendo che anche noi saremmostati attesi presto nella cappella per assistere alla messa nuziale.

Per quanto facessimo, Euphemia e io non riuscimmo a frenare del tutto lerisate quando, esattamente un’ora dopo, osservammo le due povere sposeche si avviavano all’altare con il viso nascosto dietro pesanti veli, grattandosicontinuamente. Anche Letizia, nel suo banco, si grattava e si agitava. Fuori,la pioggia cadeva e di quando in quando si sentiva il rombo di un tuono.

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«È la Dea Rossa» sussurrò Euphemia. «Si manifesta.»

Appena la messa finì, Paolina ed Elisa corsero nelle loro stanze e non volleroparlare con nessuno, nemmeno con i loro mariti. Bonaparte sollevò le manial cielo e imprecò, ma le lasciò tranquille.

Gli ospiti tornarono a casa. I fuochi d’artificio vennero dimenticati, i doninuziali ammucchiati in una stanza chiusa a chiave. E i dieci cannoni, i cuiartiglieri erano pronti a tirare, vennero lasciati affondare sempre di più nelfango, sotto la pioggia scrosciante, fino a quando Bonaparte ricordò di dareil contrordine.

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33Bonaparte sognava l’Egitto, e io sognavo Donovan.

La grande avventura italiana di mio marito era finita. Lasciammo la villa atornammo a Parigi, dove io ritrovai con gioia Hortense e Coco. Le nostrevite erano cambiate e non sarebbero mai più state le stesse, perché Bonaparteera diventato molto più importante e sempre più popolare e le sue ambizionicrescevano. Voleva conquistare il mondo, a cominciare dall’Egitto.

Io, al contrario, soffrivo e trovavo sollievo soltanto fra le braccia diDonovan. Desideravo ansiosamente essere confortata per il peso del miomatrimonio infelice, liberarmi dai miei ostili parenti. Non amavo il mioruolo pubblico come moglie di Bonaparte e volevo soltanto la quiete el’intimità di un’esistenza vissuta lontana dagli occhi della gente.

Mi sembrava di vivere due vite: una come Madame Bonaparte e l’altra comeme stessa. Nel ruolo di Madame Bonaparte ero garbata, ospitale, dignitosa efalsa. Come amante di Donovan ero aperta, genuina, appassionata: in breve,ero me stessa. Ero Yeyette, creola della Martinica, quello che dovevo essere.

Donovan sapeva sempre come e dove trovarmi, come evitare i cani daguardia di cui mi circondava Bonaparte e scivolare tra le maglie della suarete di spie. Mentre eravamo in Italia, veniva spesso alla villa. Molte notti,quando Bonaparte era assente con le sue truppe, io attendevo il lieve suonoalla finestra che mi annunciava la presenza di Donovan sul mio balcone. Mialzavo, aprivo la finestra, trattenendo il fiato quando mi prendeva tra lebraccia.

Giacevamo insieme nel letto che dividevo con Bonaparte, un immenso lettomatrimoniale tutto di piume. (Mi piaceva l’ironia della cosa: giacere con ilmio amante nel letto che avrei dovuto dividere con mio marito.) Insiemeaffondavamo nel calore morbido, i nostri respiri che diventavano un solorespiro, afferrandoci l’uno all’altra, unendoci in una sola carne. Mi perdevoin lui, lasciando che la sua forza e il suo ardore annullassero tutte le mieansie. Nel suo abbraccio consolante, le mie paure fuggivano e tutta la mia

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tensione si placava. Ero di nuovo me stessa. Ero profondamente felice.

In quelle sublimi ore rubate insieme, non sentivo più il passato o il futuro,soltanto un presente ricco, pieno. Sospiravo, godendo ogni momento,augurandomi con tutto il cuore che ogni attimo della mia vita potesse esserecosì estasiante come quella che adesso stavo vivendo. Esistevo: eraabbastanza.

Nonostante l’insistenza di Bonaparte perché abbandonassi le mie attivitàcome fornitrice dell’esercito e mi dedicassi soltanto alla famiglia, continuavoa coltivare i miei contatti. Come moglie di Bonaparte ero in una posizionesempre migliore per intrattenere buoni rapporti con gli ufficialidell’Intendenza che acquistavano cibo e abiti per i loro uomini, e Donovan,dalle sue stanze in affitto a Milano e poi a Parigi, era mio socio in tuttequeste transazioni. Gli affari ci offrivano la scusa per incontrarci, sebbenespesso trascorressimo insieme più tempo di quanto potesse essere richiestoda un semplice rapporto di lavoro.

Un pomeriggio tardi, mentre uscivo dall’appartamento di Donovan in rueAugereau, mi trovai faccia a faccia con mio cognato Giuseppe.

«Avete di nuovo incontrato il vostro amante?» chiese con un mezzo sorriso.

«Non so che cosa intendiate.»

«Ma certo che lo sapete. Non siamo sciocchi, voi e io. Soltanto mio fratellolo è, perché rifiuta di credere la verità su di voi. Il vostro amante è Monsieurde Gautier, e questo è il suo appartamento.»

«Spero che non inventiate delle bugie su di me, Giuseppe» dissi con assolutacalma. «Mi dispiacerebbe molto dover chiedere a Bonaparte di scegliere tranoi due. Sapete quanto mi ama.»

«So che è infatuato di voi. Avete una sorta di tenebroso potere su di lui chegli impedisce di vedere che donna siete realmente.»

«Non insultiamoci, Giuseppe. Inoltre, sappiamo tutti e due che gli insultisono le sole armi che possedete contro di me. Se aveste la prova che io sono

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infedele a Bonaparte, ve ne servireste. Ma non ci sono prove perché i vostrisospetti sono infondati.»

Cominciai ad allontanarmi da Giuseppe, con l’intenzione di andare allavicina locanda dove mi aspettava la carrozza.

«Ho tutte le prove che voglio. Ho la parola della vostra cameriera Clodia.»

A quella frase mi fermai. Il mio viso avvampò e capii che stavo arrossendo,tradendo così la mia angoscia. Che cosa sapeva Clodia? Ero sempre statamolto attenta a far sparire ogni prova della presenza di Donovan nella miacamera. Non c’erano sue lettere o biglietti che lei potesse avere visto, néregali né fiori. Donovan entrava e usciva nella mia vita come un’ombra,senza lasciare traccia.

«Se Clodia dice di avermi visto con un altro uomo, allora mente» ribatteicon la voce più ferma possibile. «Se la pagate perché menta, Bonaparte loscoprirà e voi perderete la sua fiducia.»

Sorrise. (Era la prima volta! Un sorriso sul viso cupo di Giuseppe!) «Credosappiamo entrambi, Rose Beauharnais, chi sta per perdere la sua fiducia.»Quando voleva essere particolarmente odioso, Giuseppe mi chiamavasempre con il nome del mio primo marito. Insieme a tutta la sua famiglia,continuava a negare che il mio matrimonio con Bonaparte fosse legale,perché era un matrimonio civile non benedetto dalla Chiesa.

«Io sono Madame Bonaparte e non intendo ascoltare ancora le vostrecalunnie.» Mi voltai e mi allontanai. Alle mie spalle sentii la risata senzaallegria di Giuseppe.

Appena vidi nuovamente Donovan, gli riferii quello che Giuseppe avevadetto della mia cameriera. Lui non rispose, ma si accigliò.

«Pensi che ci abbia visto?»

Donovan scosse la testa. «No, se non era nascosta nella camera da letto.»Sembrava perplesso.

«È sempre stata molto discreta, non fa rumore quando cammina. È una spia

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di Giuseppe. E io non le sono mai piaciuta. Sento la sua freddezza.»

«Tutte buone ragioni per licenziarla. Perché non lo hai fatto?»

Scossi tristemente la testa. «Non riesco a licenziare la servitù, mi sembracrudele.»

«Devi mandarla via immediatamente.»

Annuii, ma presi tempo. Dire a una cameriera di andarsene era cosìsgradevole, quasi doloroso. Chiesi a Bonaparte di farlo per me.

Entrai nel suo studio con trepidazione. Non gli piaceva essere interrotto.Sedeva alla grande scrivania di noce lucido, con una mezza dozzina dimappe aperte davanti e una pila di libri accanto. Rifletteva profondamente,le labbra imbronciate, la fronte aggrottata. La sua intensa concentrazioneriempiva la stanza. Infine si accorse della mia presenza. Il suo aspettocambiò immediatamente, con la rapidità che avevo tanto spesso osservato inlui. Sorrise, lo sguardo si schiarì e mi tese la mano.

Io gli andai vicino e la presi.

«Bonaparte, ho un favore da chiedervi.»

«Sì, mia amata?»

«Vorrei che voi licenziaste la mia cameriera, Clodia.»

Lui inarcò le sopracciglia, blandamente sorpreso. «Sì? E perché, mia gioia?»

Ero preparata alla domanda. «Ha rubato.»

«Capisco. Volete che le parli?»

«No, voglio soltanto che se ne vada.»

Il tono deciso della mia voce lo rese curioso. «Vi ha offeso in qualche altromodo?» chiese.

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Esitai per un attimo. «Mi provoca. Perché non abbiamo bambini.»Naturalmente non era vero. Ma sapevo che per Bonaparte era un puntodolente. Appena lo dissi, il suo sguardo si fece cupo.

«Sembra che la nostra incapacità di avere figli sia l’argomento del giorno. Lamia famiglia non fa che parlarmene.»

I Buonaparte si erano divisi. Letizia, Elisa e Felice vivevano a Napoli,Paolina e il generale Leclerc a Marsiglia, Luigi con il suo reggimento in unacittà di provincia, non sapevo quale, e soltanto la mia nemesi, Giuseppe, aParigi, vicino a noi.

«Mia madre mi scrive sempre. Va da un notaio a far scrivere la lettera,perché non ha mai imparato bene, e mi tormenta per la vostra sterilità. Non ècerta se sia a causa della vostra dissolutezza o della collera divina perché nonci siamo sposati in chiesa.»

Sembrava divertito, ma con un fondo di amarezza da cui compresi che anchelui rimpiangeva di non avere figli. Sarei stata lieta di dare un figlio, anchepiù di uno, a Bonaparte, perché ho sempre amato i bambini, ma, più infeliceera il mio matrimonio, e più mi rallegravo che non ci fossero figli acomplicare le nostre vite. Se avessimo avuto un figlio o due, Letizia miavrebbe certamente disapprovato come madre e avrebbe fatto del suo meglioper togliermi i bambini e allevarli lei.

«Forse Letizia ha influenzato Clodia.»

«È probabile.»

«Vi prego, Bonaparte, liberatemi da questo compito sgradevole e licenziateClodia.»

«D’accordo.» Tornò alle sue mappe e ai suoi libri e io mi preparavo a uscire.Poi gli sentii dire: «No, aspettate». Era accigliato. «Clodia è una ragazzacorsa. Credo sia una parente, la figlia di una cugina di mia madre, AdelePermon.»

Mi sentii mancare. Bonaparte non avrebbe mai licenziato una parente. Di

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questo ero certa.

«Forse potrebbe lavorare nelle cucine?»

«Sarebbe una retrocessione per lei, un insulto alla famiglia.»

Ancora una volta, come mi accadeva spesso nel mio matrimonio, mi sentivopresa in trappola. Giuseppe stava per rivelare, attraverso Clodia, che io eroinfedele. Ma Bonaparte si sentiva impegnato a proteggere Clodia e a lasciarlavicino a me, dove poteva spiarmi e tradirmi. Che cosa dovevo fare?

Feci la sola cosa che potevo.

Andai da Donovan e gli dissi che la nostra vita segreta insieme e forseperfino il nostro rapporto di affari sarebbero dovuti finire.

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34Egitto: sentivo parlare soltanto dell’Egitto, sembrava che non ci fosse altroargomento di conversazione. Bonaparte sarebbe andato presto nella terra deifaraoni, e io sarei stata felicemente libera da lui per molti mesi.

Ero ansiosissima di vederlo partire, di vedere caricate tutte e duecento lenavi ed equipaggiati e addestrati per la grande campagna i cinquantamilasoldati. Donovan e io eravamo occupati a comprare tonnellate di fieno eavena dai contadini in posti lontani come Creil e Rozoy, non della qualitàmigliore, si intende, e non i più freschi, ma quelli che avevano messo daparte ed erano disposti a vendere se l’offerta era abbastanza alta. Poirivendevamo il cibo agli ufficiali dell’Intendenza al prezzo più alto possibile– perché non è forse così che ci si comporta in affari? Si cerca di ottenere ilmassimo profitto – e guadagnammo molto in pochissimo tempo.

Non compravamo e rivendevamo soltanto fieno e avena, ma anche oliod’oliva, cognac, galline e anatre, casse e barili vuoti, tela per le tende e cordaper le gomene, cuoio per le selle e qualsiasi altra cosa di valore fossepossibile acquistare per rivenderla a prezzo alto alle truppe. Eravamo avidi didanaro, non pensavamo ad altro nelle ultime settimane prima della partenzadell’esercito. Avevo già guadagnato, come socia del defunto baroneRossignol, ma con Donovan stavo diventando veramente ricca.

La ricchezza, avevo scoperto, aveva una qualità proteiforme, e la mia idea diessa cambiava a mano a mano che accumulavo danaro. Un tempo avevocreduto che i Grands Blancs della Martinica fossero ricchi, ma poi avevoincontrato i ricchi di Parigi. E avevo nuovamente cambiato la mia idea diricchezza vedendo la fortuna politica di Paul Barras e dei suoi amicibanchieri e finanzieri. Donovan e io eravamo molto più ricchi di mio zioRobert, alla Martinica, almeno quanto il mio ex suocero, il marchese deBeauharnais. Se avessimo potuto proseguire un altro anno a costruire lanostra fortuna, avremmo cominciato a eclissare alcuni dei facoltosi mercantiparigini, proprietari delle belle case e dei costosi mobili che avevo a lungodesiderato.

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Anche così potei pagare una grandiosa ristrutturazione della casa diBonaparte in rue Chantereine (chiamata ora in suo onore rue des Victoires),o quanto meno iniziare a pagarla. La casa venne rimessa a nuovo nello stileclassico che era allora molto di moda. Per imitare le ville della Grecia e diRoma, le pareti erano dipinte in rosso cupo e azzurro intenso con bianchecolonne doriche e decorazioni bianche. I mobili li avevo fatti fare su misura,in base a disegni ripresi dai modelli portati da Roma da Bonaparte. Statueantiche, alcune a grandezza naturale, erano collocate nell’ingresso e nel vanodelle scale; il marmo bianco, quasi translucido, splendeva morbido sottolampadari di ottone brunito.

Tutto sarebbe andato nel migliore dei modi, mi dicevo, senza la pauracontinua, condivisa con Donovan, che Clodia, incalzata o pagata daGiuseppe, dicesse a Bonaparte quello che sapeva del mio adulterio.Bonaparte non aveva voluto che venisse licenziata; era della famiglia, quindiera perfetta. Sarebbe rimasta per tutta la vita in casa mia.

Donovan parlava poco dell’argomento, ma comprendevo, dall’espressionerisoluta del suo viso, che lo prendeva molto sul serio. Non accettava di porrefine al nostro legame segreto e non vedeva per quale ragione dovessimosmettere di essere soci.

“Niente deve interferire con i nostri affari” diceva. “Non adesso, in questomomento cruciale.” Avendo conosciuto la povertà, era molto ansioso diraggiungere la ricchezza, ansioso tanto quanto me. Intendeva pagare tutti idebiti della sua piantagione alla Martinica e acquistare una secondaproprietà, ancora più grande e prospera della prima. Le rivelazioni di Clodiaavrebbero potuto interferire con questi piani. La nostra prosperità sarebbesvanita da un momento all’altro.

«Le cose possono andare meglio di quanto tu creda» disse. «Le tue pauresono forse esagerate.»

Poi, una decina di giorni prima della partenza di Bonaparte per Marsiglia,Clodia scomparve.

La sera era presente e mi aveva aiutato a svestirmi dopo una cena in onore diBonaparte, e la mattina successiva era sparita.

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Dapprima pensai che fosse malata e fosse rimasta nella sua camera, unastanzetta grande quanto un armadio, nei solai, dove dormivano tutte ledonne della servitù. Ma quando mandai Euphemia a cercarla, lei tornòdicendo che la stanza era vuota.

Sentii come una pugnalata. Sapevo che a volte la servitù lasciavaall’improvviso il posto, senza avvertire e senza preavviso. Alcuni tornavanodopo qualche giorno. Altri se ne andavano definitivamente. Ma che sparisseClodia, l’esile, bruna, piccola Clodia con i suoi modi taciturni e il suoatteggiamento furtivo, sembrava sinistro. Non riuscivo a non chiedermi seDonovan avesse trovato un modo per liberarsi di lei.

«Forse è tornata in Corsica» era l’opinione più comune tra la servitù. «Forseha avuto una lettera dalla sorella in cui le diceva che la madre è malata e chelei deve tornare a casa» suggerì uno degli staffieri. «Forse ha un amante ed èfuggita con lui» dicevano altri, ma sapevo che questo era molto improbabile.Non si era mai vista Clodia in compagnia di un uomo.

Dopo due giorni senza sue notizie, si stabilì che non sarebbe tornata e ioscelsi un’altra ragazza perché ne prendesse il posto come mia camerierapersonale. Ma i sospetti mi turbavano. Donovan aveva fatto l’impensabile el’aveva fatta sparire? Non osavo chiederglielo direttamente nel timore che lasua risposta potesse angosciarmi.

Ero nervosa, avevo un vago dolore alla testa, e sussultai quando la nuovacameriera mi venne alle spalle e disse: «Signora, il generale desideravedervi».

Tremavo quando entrai nello studio di Bonaparte, e la mia paura crebbe nelvedere che era presente Giuseppe, il suo viso d’aquila cupo per la collera.Bonaparte, al contrario, aveva un aspetto farsesco, sebbene si comportassecon gravità. Aveva cominciato a indossare un turbante, che il suo nuovoservitore turco gli avvolgeva intorno alla testa ogni mattina fermandolo conuna spilla di diamanti. Con il turbante portava una lunga giacca ingioiellatadi velluto fulvo, pantaloni neri di seta e babbucce dorate con le punte rivolteall’insù. Con quell’abbigliamento, diceva, era pronto ad affrontare i capidell’Impero ottomano, che governavano l’Egitto.

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Appena Bonaparte aprì bocca, compresi che era in collera.

«Vendete fieno di scarsa qualità al reggimento della Sarre, Giuseppina?»

«Il reggimento della Sarre? Non so che cosa gli sia stato venduto, seppure gliè stato venduto qualcosa.»

Il reggimento della Sarre era stato il reggimento di Alexandre. Naturalmentesapevo che Donovan e io lo rifornivamo di foraggio per i cavalli e che era dipessima qualità.

«Ho ispezionato il reggimento questa mattina. È un miracolo che i cavallisiano ancora vivi.»

«Forse i nostri fornitori ci hanno ingannato e hanno sostituito la mercebuona che credevamo di acquistare con merce scadente.»

«Sciocchezze!» rispose seccamente Bonaparte. «La colpa è vostra e soltantovostra. Non potete continuare» proseguì camminando per la stanza con lebabbucce dorate dalle punte all’insù. «Vi avevo detto di smetterla con ivostri affari, e voi mi avete sfidato. Indebolite il mio esercito avvelenando icavalli con foraggio marcio. A quanto dice Giuseppe, disonorate le vostrepromesse matrimoniali e siete arrivata al punto di eliminare la testimone deivostri illeciti amori, la nostra parente Clodia, la cameriera che mi avevatechiesto di licenziare.»

«Non l’ho eliminata» mi affrettai a dire. «Non so che cosa le sia accaduto.» Ecominciai a piangere.

Le lacrime commuovevano sempre Bonaparte; era qualcosa su cui potevocontare.

Giuseppe si avvicinò. «L’avete uccisa, o lo ha fatto il vostro amante.»

Io scossi il capo, senza guardarlo, continuando a piangere copiosamente.

«Senti, fratello, non sappiamo con certezza dov’è la ragazza o che cosa le siaaccaduto...» Bonaparte, a disagio, mi difendeva. Compresi di essere salva.

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«Ma è chiaro come il sole! Ti lasci accecare da questa svergognatabugiarda.»

«Puoi dire quello che vuoi quando siamo soli, Giuseppe, ma non possopermettere che Giuseppina venga insultata quando è presente.» Mi circondòcon il braccio e io gli nascosi il viso sulla spalla.

Giuseppe imprecò in italiano, forte, a lungo. «Ma non vedi come si prendegioco di te?» gridò tornando al francese. «Ti usa, ti inganna...» esplose, nontrovando più parole.

Mi sentii sicura di avere vinto, almeno per il momento.

Ma era davvero così?

Bonaparte fece cenno al fratello di lasciare la stanza e Giuseppe uscìsbattendo la porta con un tonfo minaccioso e vendicativo che fece tremare lepareti.

Quando rimanemmo soli, Bonaparte cominciò a liberarsi del costume cheindossava. Tolse la spilla di diamanti dal turbante e srotolò i metri di linocolor avorio. Srotolato tutto il tessuto, che giacque ammucchiato sul tappetorosso e oro, scosse i lunghi capelli bruni e poi si tolse la giacca ingioiellata, ipantaloni di seta e, infine, le straordinarie babbucce. Rimase con la solabiancheria, un uomo piccolo, d’aspetto normale, gli occhi penetranti che ora,con mio stupore, si accesero di una luce divertita.

Venne da me e mi pizzicò la guancia così forte da farmi gridare.

«Non mi importa della ragazza» disse. «Ma non vi perdono di averavvelenato i cavalli. Fate in modo che al reggimento della Sarre venganoimmediatamente inviati avena e fieno di primissima qualità. Se non lo farete,io lo saprò. Quanto al vostro amico, il bel Monsieur de Gautier, credo che vigioverebbe stare lontana da lui per qualche tempo. A quanto so, l’Egitto inprimavera è molto bello. Vorrei che veniste con me nella mia campagna.»

«Oh, no, Bonaparte! Sentirei tanto la mancanza di Hortense, di Coco e diEuphemia, e poi i viaggi mi stancano troppo. I miei mal di capo, sapete.»

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«So che ci sono ottimi medici arabi al Cairo. E fonti salubri presso gli antichitempli.»

«Vi prego, Bonaparte.»

«Fate i bagagli. Partiamo fra cinque giorni per la terra dei faraoni.»

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35Con il cuore pesante abbracciai Hortense, baciai la piccola Coco e raggiunsiEuphemia nell’ingombrante carrozza che ci avrebbe portato a Tolone, doveconvergevano l’esercito e la flotta. Eugène cavalcava accanto alla carrozza,veterano della campagna d’Italia, e a diciassette anni già un giovane ufficialesicuro e affidabile. Attendeva con ansia l’inizio di quella eccitante campagna.Mi aveva detto che sarei stata orgogliosa di lui e io gli avevo assicurato chenon avrei potuto esserlo di più, neppure se fossi vissuta fino a cent’anni. Luimi sorrise, con affetto, ma con un’aria quasi protettiva. I miei giorni eranopassati, diceva quel sorriso, mentre i suoi cominciavano appena.

Bonaparte non viaggiava con noi nella carrozza, ma non era lontano.Facevamo parte della lunga fila di veicoli, cavalieri e soldati appiedati al suocomando, e tutti ci incamminavamo lungo la strada affollata verso il Sud.

Le condizione delle strade era progressivamente peggiorata dallo scoppiodella Rivoluzione. Ai tempi della monarchia, i nobili avevano laresponsabilità di assicurarsi che gli abitanti dei villaggi sgombrassero lestrade dagli alberi caduti, colmassero le buche più profonde e togliessero lepietre e altri ostacoli. Ma non c’erano più nobili, e i governi rivoluzionari –ne avevamo avuti tanti – erano troppo occupati a legiferare, a giustiziare itraditori e a difendere la Francia dagli attacchi esterni per occuparsidell’umile lavoro di mantenere percorribili le strade.

Ogni pochi chilometri dovevamo fermarci mentre una sorta di ponte venivacostruito e gettato su un ruscello che si era gonfiato, o bisognava attaccareun paio di buoi a una carrozza rovesciata per toglierla di mezzo. Quellecontinue interruzioni erano assolutamente esasperanti, come l’andatura a cuici muovevamo, perché, anche quando le strade si trovavano nelle miglioricondizioni possibili, la lunga carovana serpentina si trascinava a una velocitàdi quindici chilometri al giorno e, quando pioveva, il passo era molto piùlento.

Dopo una settimana davvero terribile, mandai Eugène da mio marito con unmessaggio. Gli chiedevo se voleva cenare con me. Viaggiavo con lo chef

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della nostra casa di Parigi che ci preparava pasti eccellenti quando cifermavamo per la notte.

Non mi sorprese vedere che Bonaparte, invitato a cena alle otto, arrivò acavallo alla nostra casa improvvisata ai bordi della strada alle dieci. Si tolse ilpanciotto, si aprì il collo della camicia, e cominciò a liberarsi dagli stivali.

Io gli andai alle spalle e gli massaggiai le tempie. Sentii subito che i muscolisi rilassavano. Un attimo dopo sospirò e annunciò di avere una fame dalupo, non avendo mangiato per tutto il giorno.

Lo chef servì la prima portata, un brodo fragrante, tentatore, con del panecroccante appena sfornato. Bonaparte mangiò con gusto.

«Per fortuna siete con me in questa campagna» disse infine. «Ho bisogno divoi. Mi portate fortuna.» Mi fece uno dei suoi sorrisi accattivanti.

«So che lo pensate.»

«Da quando ci siamo incontrati sono passato da un successo all’altro.» Infilòla mano sotto la camicia e ne trasse una piccola miniatura appesa a unacatenina d’argento. Era il mio viso sorridente.

«Un tempo, ricordo, portavate un amuleto.»

«Ora siete voi il mio amuleto.»

«Euphemia direbbe che credete alla necessità di avere gli spiriti dalla vostraparte.»

«Credo nella fortuna.»

Non gli dissi che era lui a fare la sua fortuna, con l’abilità, la forza,l’intelligenza, la sua grande capacità di guidare e ispirare gli uomini. Seperdeva la fiducia nel potere degli amuleti e delle miniature, come esserecerti che anche la sua abilità non si indebolisse?

Lasciai passare un lungo silenzio tranquillo prima di tornare a parlare. Infinedissi: «Quando arriveremo in Egitto, conquisterete il Cairo o Alessandria o

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qualche altra città importante, poi pianterete le tende e consoliderete eorganizzerete i vostri uomini, è così? Come avete fatto a Milano, durante lacampagna d’Italia».

«Se tutto va bene, sì.»

«Tra pochi giorni saremo vicini alla stazione termale di Plombières. Le acquerendono fertili le donne. Potrei prendere le acque e vedere vecchieamicizie... Sapete come si divertono i parigini a frequentare le stazionitermali in estate. Poi, quando voi avrete stabilito il campo, mi manderete achiamare e vi raggiungerò per le celebrazioni della vittoria.»

«Quali amicizie?» Aveva stretto gli occhi quando avevo pronunciato quelleparole.

«Fanny de Beauharnais. Georgette de Longpré, Agnès Crébillon e le suefiglie...»

«E Monsieur de Gautier?»

«Dubito molto che possa esserci.»

«O il nostro amico Barras?»

«No. Non c’è un’atmosfera decadente alla stazione termale. Soltantoraffinata, o che tale vuole essere.» Ridemmo tutti e due.

«D’accordo. Manderò mio fratello perché vi tenga d’occhio, e forse anchePaolina.»

«Come volete.» Sapevo bene che non conveniva protestare perché aPlombières mi veniva imposta la presenza degli ostili Buonaparte. Mi sareiadattata nel miglior modo possibile alla situazione. Quanto meno, avreiavuto un periodo di riposo dal tedio del viaggio.

Mi congedai da Bonaparte e da Eugène a Digione e dissi al cocchiere divoltare a est. Due giorni dopo ci dirigevamo verso le montagne.

L’aria diventò vibrante e fresca mentre salivamo dalle pianure ardenti sulle

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colline profumate di pini. Ora che non facevamo più parte del lungoconvoglio militare di uomini e carriaggi, potevamo andare a un passo moltopiù veloce e la noia del viaggio svanì. La strada per Plombières oltrepassavagraziosi villaggi e rive di verdi ruscelli, all’ombra di grandi alberi eattraverso passi montani dove massi enormi stavano di sentinella, mentre lanostra carrozza avanzava rotolando.

Avevo spesso sentito parlare di Plombières dai miei amici, ma non eropreparata al fascino della cittadina, alle strade fiancheggiate da luminoselanterne e da cassette traboccanti di fiori, alle piccole ville all’antica, ognunacon un giardino profumato, alle botteghe invitanti, alle eleganti sale comunie alle sale da tè adiacenti al torreggiante edificio in stile classico delle terme.

Venni ricevuta con grandi cerimonie e mi fu offerta una villa a due pianiaffacciata sulla passeggiata. Sotto la mia finestra venne a suonare una bandae, quando uscii sul balcone per ascoltare, vidi che si era radunata una follaplaudente. Si sentivano le consuete grida di “viva Bonaparte!” e “vivaMadame Bonaparte!” e io salutai e mi inchinai.

Come avevo sperato, alcune conoscenze di Parigi si trovavano a Plombières.A un ballo affollato incontrai Henri e Bernard, i due uomini che Fanny deBeauharnais chiamava gli Inseparabili, tutti e due ormai grigi, tutti e due conidentici pantaloni scuri attillati, panciotti a fiori e camicie di seta azzurropallido. Mi accolsero con gioia.

«Che felicità vedervi» disse Henri con un grazioso inchino. (L’inchino, cheera scomparso insieme ai titoli nobiliari durante la Rivoluzione, stavacominciando a tornare accompagnato da altri cambiamenti nei modi.)

«È un onore avere con noi Madame Bonaparte» disse Bernard, inchinandosianche lui.

Sorrisi. «Vi ringrazio entrambi. Mi ricordate quando venni a Parigi la primavolta, una magra, goffa creola della Martinica, con un marito sgradevole.»

Risero entrambi. «Anche allora eravate bella. In vostro onore abbiamoscritto una poesia.» E la declamarono all’unisono.

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Madame Bonaparte è bella,

Madame Bonaparte è buona.

Ha conquistato tutti i cuori

e la nostra lealtà la incorona!

«Stiamo cercando qualcuno che metta in musica i nostri modesti versi»confidò Henri. «Credevamo di averlo trovato, ma ci ha deluso.»

Bernard annuì tristemente.

«Vi ringrazio del vostro cortese omaggio» replicai. «E ditemi, Fanny è qui aPlombières o deve ancora arrivare?»

«Fanny è arrivata settimane fa. Tiene salotto nella sua villa tutti i giovedìsera. Vuole vedervi.»

Il giovedì successivo andai da Fanny nel grazioso villino che aveva preso inaffitto. Avevo appena varcato la soglia che dalla piccola folla riunitaall’interno si levarono grida di benvenuto. Fanny, i capelli tinti di rosso vivoe il viso segnato dagli anni troppo incipriato e imbellettato come quello di unclown, emerse dalla folla sostenendosi a un bastone di mogano.

«Mia cara Rose» disse abbracciandomi con la mano libera e osservandomicon affetto. Lo sguardo sembrava vacuo, la sua espressione incerta.

“Sta invecchiando” pensai. “La vista si è indebolita.” Ma la sua mente eraancora acuta e le sue opinioni caustiche.

«Dunque hai sposato quell’uomo orribile» mi sussurrò. «Perché mai lo haifatto, tanto più che l’altro, quel bel Donovan, era molto più attraente?»

«Ne parleremo più tardi» dissi. «Devi venire a prendere il tè da me.»

Mi condusse nella sala da musica e mi presentò ai suoi attuali protetti. Conmio grande imbarazzo, mi adulavano, lodandomi in modo eccessivo,rivolgendo complimenti al mio abito, alla mia semplice acconciatura – mi

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ero fatta appuntare da Euphemia una rosa candida tra i capelli – al mio filodi perle e alla spilla d’oro che portavo sulla spalla del vestito.

Erano lontani i giorni in cui la mia toletta aveva scandalizzato i severi nobilimilanesi. Non mi vestivo più come un’audace parigina all’ultima moda, conabiti semitrasparenti che mi aderivano perfettamente al seno e rivelavano inmodo provocante i polpacci e le cosce. Per le continue pressioni diBonaparte, avevo cambiato stile, adottando quello più puro e casto ispiratoalle semplici vesti delle statue antiche. In quei giorni sembravo una dea grecae non più una vistosa, ricca cortigiana seduta nel palco di un teatro parigino.Mi ero lasciata alle spalle quell’altra me stessa, più audace, e mi erotrasformata nella moglie elegante di un generale francese molto ammirato,un generale la cui popolarità cresceva a ogni nuova impresa militare.

Con un pungente senso di rimpianto, compresi che gli ospiti riuniti nelsalotto di Fanny mi accoglievano con entusiasmo e mi adulavano a un soloscopo: cercare la mia protezione. La protezione di Rose Tascher, creola dellaMartinica, che, da ragazza, aveva letto il futuro per pochi franchi nel salottodi Fanny a Parigi. Un migliaio di anni fa, o così sembrava.

Che cosa avrebbero pensato queste persone se avessi proposto ora di leggereil futuro? Decisi di scoprirlo.

«Alcuni di voi mi ricorderanno quando eravamo nel salotto di Fanny, moltianni fa.» Vidi alcuni cenni affermativi. «Allora leggevo il futuro nelle carte.So farlo ancora. Che ne direste se, giusto per divertirci, leggessi il futuro dimio marito?»

Molti trattennero il fiato, scandalizzati, poi si sentì un brivido di curiosità.

Vidi una luce di ansioso interesse accendersi sui visi più vicini al mio.«Portatele le carte!» gridò qualcuno.

«Ho le mie. Le ho sempre con me.»

Seduta a un tavolino, presi un mazzo di tarocchi dalla tasca del vestito e lomescolai, pensando a Bonaparte e al suo esercito. Quando sentii di avermescolato abbastanza e di essermi sufficientemente concentrata, cominciai a

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disporre le carte sul tavolo, sulla lucente superficie di legno.

La prima carta era quella del Matto. “Ah,” pensai “dunque Bonaparte è unpazzo se vuole tentare questa avventura in Egitto.” Poi venne la carta degliAmanti, con le figure intrecciate di un maschio e di una femmina. Appena lavidi, ne compresi il significato. Bonaparte avrebbe preso un’amante mentreera in Egitto. Sentii un colpo al cuore, perché ero certa che fino a quelmomento mi fosse stato fedele. Sapevo di non avere il diritto di aspettarmi lasua fedeltà, dal momento che io stessa avevo un amante. Eppure il pensierodi mio marito con un’altra donna mi fece stranamente soffrire. Presi la cartasuccessiva. Era il Carro, simbolo della campagna militare; ma subito dopovennero il sette di spade, che alcuni chiamano la carta della lotta, e l’Appeso,la carta dei rovesci di fortuna. Il significato era chiaro. Bonaparte sarebbestato sconfitto.

Provai un brivido di ansia e paura. Ma non osai rivelare al gruppo davanti ame che il loro eroe avrebbe fallito nella sua grande impresa. Non dubitavo dileggere correttamente le carte né temevo che non fossero esatte, perché itarocchi non mentono mai. Ma non sarebbe stato bene dire quello chesapevo.

Mi ripresi, con una certa difficoltà, e inventai una storia che speravo potessesoddisfare gli spettatori.

«Il Matto rappresenta ognuno di noi nel viaggio della vita. La carta indicaBonaparte in questo momento della sua vita. Non significa che è sciocco,soltanto che, come tutti gli esseri umani, è impotente come uno sciocco difronte alla forte mano del destino.»

Un coro di cenni di assenso e di sospiri di approvazione accolse le mieparole.

«Sì, è l’uomo del destino» sentii dire da qualcuno.

Continuai: «La carta con l’uomo e la donna rappresenta il nostromatrimonio, in cui siamo felicemente uniti» dissi indicando gli Amanti.«Questo è il carro da guerra di Bonaparte, e la successiva indica le spade deisuoi uomini. La carta finale» conclusi mostrando l’Appeso «raffigura il fato

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del nemico nelle mani del vittorioso esercito francese. Il nemico verràimpiccato!»

Da tutte le gole eruppero grida di entusiasmo. Avevo detto quello chevolevano sentire. La loro fiducia in Bonaparte era intatta. Guardavano a unfuturo pieno di vittorie. Ma io sapevo la verità: che il mio audace, brillantemarito era avviato alla rovina.

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36Rimpiansi di avere letto il futuro di Bonaparte. Ora ero a conoscenza di coseche avrei preferito ignorare. Ed ero angosciata per il mio coraggioso,appassionato Eugène, così ansioso di dare prova di sé in battaglia. Ormaisapevo che le battaglie combattute in Egitto sarebbero state perse e che luiavrebbe corso pericoli superiori a quanto credevo.

Tenni quell’informazione per me, per quanto fossi tentata di condividerlacon qualcuno di cui mi fidavo. Non lo dissi nemmeno a Euphemia, sebbene,per quanto ne sapessi, potesse aver consultato lei stessa i tarocchi perconoscere il futuro di Bonaparte. Come me, ne aveva sempre un mazzo espesso metteva sul tavolo le carte, accigliata e borbottando tra sé. Ma avevaaltri mezzi per indovinare il futuro, rituali e preghiere e piccoli feticci cheindossava e ai quali parlava; e si serviva altrettanto spesso di questi.

Euphemia non si trovava a suo agio a Plombières. Non amava la vibrante,fresca aria di montagna, o il gelido atteggiamento di superiorità cheostentavano alcuni dei ricchi ospiti. Come ho detto, i modi e le regole socialistavano cambiando; l’uguaglianza tanto vantata dalla Rivoluzione cedeva ilpasso al ritorno dei ranghi e delle gerarchie, come ai tempi del re.Ritornavano gli snob e gli arrampicatori sociali. E non era un fatto del tuttonegativo, perché la Rivoluzione aveva spazzato via la buona educazione e lacortesia e le aveva sostituite con una brusca, animalesca rozzezza che portavaalla barbarie. Senza dubbio la civiltà è meglio della barbarie, anche se èaccompagnata dallo snobismo.

Meditavo su queste cose mentre sedevo sul balcone della mia villa eosservavo la passeggiata serale lungo il parco. Le coppie camminavanoamichevolmente a braccetto, i più anziani andavano su carrozze aperte,scambiando saluti con quelli che oltrepassavano. Il ritmo era tranquillo,l’atmosfera cordiale. Mi strinsi lo scialle attorno alle spalle perché la seraportava aria più fredda. Indugiai, guardando l’addetto alle lampade che leaccendeva e godendo il profumo dei fiori notturni che saliva dal giardinosottostante.

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Il mio idillio estivo, tuttavia, fu breve. Ero a Plombières da poche settimanequando appresi di aver letto correttamente il futuro di Bonaparte. Nellacittadina termale fece la sua comparsa Scipion du Roure, appena tornato dauna battaglia navale presso le coste del Cairo, ferito al braccio e alla gamba esordo come un vecchio.

Prendeva le acque per aiutare la guarigione delle ferite di guerra, e io andai atrovarlo nella sua villa.

Era seduto in poltrona, circondato da cuscini di seta, il braccio feritopesantemente bendato e una gamba immobilizzata e avvolta in lino e garza.Stava molto male, il viso aveva un colore verdastro, aveva perso tutta larotonda freschezza delle guance. Lo assistevano due attendenti.

Scipion alzò lo sguardo quando entrai e cercò di porgermi il braccio sano,ma gli occhi erano velati e così pieni di amarezza e pena che quasi non loriconoscevo. Rimasi sgomenta.

«Non muovetevi, caro amico. Rimanete seduto. Verrò io da voi.» Gli occhipieni di lacrime, gli andai al fianco e mi chinai per abbracciarlo. Lui gemetteal mio tocco, facendomi comprendere quanto soffrisse.

Gli sedetti accanto e gli porsi la mano. Quando aprì bocca, parlò gridando.

«Non sento molto» tuonò. «Dall’esplosione l’udito funziona male.»

Riuscii a fargli comprendere che se lui avesse abbassato la voce io avreicercato di alzare la mia, benché abitualmente parli in tono molto dolce.

«Quale esplosione?» chiesi a voce alta mettendogli le labbra vicinoall’orecchio.

«L’Orient. È esplosa.»

«La nave ammiraglia della flotta.»

«Sì. Ero terzo al comando.» Il viso si incupì. «Eravamo all’ancora nei banchidi sabbia del Cairo, per fare rifornimento. Una metà dei nostri uomini era aterra. Gli inglesi codardi ci hanno attaccato!» Chiuse i pugni e strinse i denti.

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«Ci hanno attaccato quando eravamo inermi, all’ancora! Bastardi! Codardi!»Tremava tutto.

Aspettai che proseguisse. «Hanno aperto il fuoco contro di noi. Nonpotevamo farci nulla, erano troppo veloci e noi avevamo troppo pochiuomini.» La voce si abbassò. «Doveva essere circa mezzanotte quando lanave ha preso fuoco. Abbiamo cercato di evitare che le fiammeraggiungessero i depositi della polvere, ma l’incendio si è diffuso troppo infretta. Tutta la nave è esplosa...» Sollevò le braccia e per lo sforzo gridò didolore. «Il fragore era terribile. Io sono stato gettato in acqua. Non sentivoniente. Qualcuno mi ha aiutato a salire su un’alberatura. È tutto quello chericordo.»

«E la battaglia...» cominciai.

«Perduta. All’alba soltanto tre delle nostre navi erano ancora salve. Per me èstata una fortuna tornare in Francia. Ora Bonaparte e il suo esercito sonointrappolati al Cairo. Gli inglesi controllano il porto.»

Le notizie erano pessime, peggiori di quanto mi aspettassi. Era già unatragedia avere perso una importante battaglia navale, ma che un esercito sitrovasse in terreno nemico senza via d’uscita era infinitamente peggio.

«Ah, ma conosco Bonaparte» diceva Scipion. «È astuto. Troverà il modo diconquistare l’Egitto.» Lui non disperava.

Feci del mio meglio per rivolgergli un sorriso rassicurante.

Le notizie del disastro nella baia di Abukir si diffusero in fretta tra lacomunità degli ospiti di Plombières e da una notte all’altra l’atmosfera deiricevimenti e delle cene si fece cupa. La conversazione languiva. Gentenormalmente espansiva diventava chiusa, introversa. Tutti sentivano ilbisogno di avere compagnia, ma nessuno voleva parlare dei terribiliavvenimenti. Scipion venne considerato un eroe e ricevette grandecomprensione insieme a molti doni di brodo caldo e cioccolatini ripieni dicognac. Ma nessuno desiderava parlare della perdita delle navi francesi, dellacrescente paura che in Egitto le cose per la Francia andassero male.

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L’estate diventò autunno e molti ospiti della stazione termale partirono perParigi. Io indugiavo perché Bonaparte mi aveva detto di aspettare aPlombières fino a quando non mi avesse mandato a chiamare. Mi trovavobene; l’ultima cosa che volevo era riprendere il mio posto nella societàparigina in un momento in cui mio marito stava perdendo una campagna.Ovunque andassi ero messa in ombra dalla sua reputazione, dalla sua buonao cattiva sorte. A Plombières potevo, se non altro, godere di una certasolitudine.

La sera giocavo a ventuno con una piccola cerchia di amici, tra i qualiScipion, che, con il passare delle settimane, migliorava e poteva camminarelungo la passeggiata purché si servisse di un bastone e si appoggiasse albraccio di chi lo accompagnava. A poco a poco ritrovò l’udito, e quando gliparlavo non dovevo più gridargli all’orecchio.

Il freddo, le giornate più corte e gli alberi senza foglie non contribuivano arallegrarmi. Non ricevetti alcuna lettera da Bonaparte e intuii che qualcosa tranoi non andava come doveva. Il blocco inglese non bastava a spiegare cheio non avessi sue notizie, perché altri a Plombières ricevevano lettere damariti e figli nell’esercito e immaginavo che Bonaparte fosse incomunicazione con il governo di Parigi. Perché a me non scriveva?

La risposta venne quando, verso l’inizio di novembre, ricevetti una lettera daEugène.

Mia cara madre, che periodo felice stiamo trascorrendo al Cairo. Ilgenerale Bonaparte è acclamato ovunque qui e si gode il titolo di“sultano Kebir” (c’è stata una rivolta ma l’abbiamo subito soffocata).Siamo andati alla Grande Piramide e io sono salito quasi in cima.Pensiamo di scavare pozzi nel deserto e di incanalare il Nilo perchépossa venire irrigata una maggior quantità di terra. Presto tutto l’Egittosarà come la Francia, con una popolazione libera e istruita e niente piùsuperstizione.

Ridereste nel vedere Bonaparte a cavallo di un cammello. Ha creato unintero reggimento di cammelli. Vi potrà forse interessare sapere che ilmio fratellastro Alexandre, figlio di mio padre e di Laure de Girardin, èufficiale nella Guardia consolare. Somiglia a mio padre più di me (è

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molto più snello di me) e si comporta anche come lui. Laure è inAmerica, sposata a un proprietario di piantagioni. Alexandre dice che èdiventata molto grassa.

Continuai a leggere, anche se la luce nella stanza si andava affievolendo, ecompresi perché non avessi ricevuto lettere da Bonaparte.

Forse sentirete qualche pettegolezzo che riguarda il generale. Per questovi scrivo per dirvi come stanno realmente le cose. Qui in Egitto, latradizione vuole che i ricchi sceicchi offrano le loro figlie e i figli delleloro schiave ai dignitari in visita. Al generale Bonaparte è stata offertauna ragazza di nome Zenab, dopo che aveva rifiutato tutti i ragazzi erespinto le ragazze perché avevano un odore troppo sgradevole. Zenabviene chiamata l’“Egiziana del generale”. In realtà egli non la vedemolto spesso e non ha vero interesse per lei, qualsiasi cosa voi sentiatedire.

C’è un’altra donna, però, chiamata Cleopatra o Bellilotte. È la bastardadi un cuoco. Il generale l’ha incontrata al Tivoli egiziano, una nuovasala da ballo al Cairo. Il suo vero nome è Pauline Fourès ed è la mogliedi un giovane ufficiale, il tenente Fourès. Il generale l’ha sedottasoltanto perché ha saputo che voi e Monsieur de Gautier siete amanti.Prima non lo aveva mai voluto credere. Ma adesso sì.

Deposi la lettera. Avrei letto in seguito il resto. Mi sembrava che una cupaoscurità mi avesse circondato. Bonaparte, infine, aveva scoperto la verità edera deluso. Come mi avrebbe trattato ora? Era un uomo che si vendicavasempre di quelli che lo offendevano.

Come si sarebbe vendicato di me?

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37Scipion si stava riprendendo tanto bene da poter stare in piedi, muoversiquasi tutto il giorno e uscire a passeggio tutte le sere. A volte andavamo incarrozza nei boschi che circondavano Plombières, e lui scendeva ecamminava nei sentieri della foresta. Io gli andavo accanto per aiutarlo,offrendogli il braccio quando vacillava, e, mentre passeggiavamo,parlavamo per tenerci compagnia.

L’inverno era ormai giunto; non aveva ancora nevicato, ma il solo verdenella foresta era quello scuro degli aghi dei pini, e il panorama, come il cielosulle nostre teste, era in genere di un grigio opaco. Ci avvolgevamo inpesanti cappotti di lana e io indossavo un comodo cappuccio, che mi stavamolto bene – come diceva ironicamente Scipion intendendo l’esattocontrario – e mi teneva calde le orecchie. Le cavalcate e le passeggiatenell’aria gelida ci rinvigorivano ed erano piacevoli; a volte restavamo fuorimezza giornata.

In quelle occasioni parlavamo molto dei nostri ricordi della Martinica e dellagente che avevamo entrambi conosciuto, delle nostre esperienze durante iprimi anni della Rivoluzione, quando Scipion serviva sotto nuovi padroninei Caraibi e io ero ospite del cittadino Robespierre nella prigione deiCarmini, della gioia che ci davano i nostri figli e dei nostri sentimenti neiconfronti dei rispettivi matrimoni.

Il suo matrimonio con Julie, sempre sorridente, sempre amabile, gli davamolta soddisfazione, e sentiva di aver fatto la scelta giusta. Tuttavia confessòdi avere in sé una pena continua. Non aveva saputo prevedere che legravidanze avrebbero indebolito sua moglie. Aveva solo trentun anni, ma nedimostrava dieci di più, e ogni anno diventava sempre più debole. Temevaper lei e attendeva con ansia di guarire per poterla raggiungere a Parigi.

«E voi che cosa mi dite, Madame Bonaparte?» chiese scherzosamente. «Checosa si prova a essere la moglie del più grande dei generali?»

«Sono felice soprattutto quando sono lontana da lui» gli confessai a mia

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volta. «Ora so che sarei dovuta andare alla Martinica con Donovan invece disposare Bonaparte. Eugène scrive che lui è in collera con me e si è presoun’amante in Egitto.»

«Quella che chiamano Cleopatra o quella che chiamavano la ragazzadell’Harem? O ce n’è un’altra di cui non ho sentito parlare?»

«I soldati sanno sempre tutto, non è così?»

Scipion annuì. «Sì, e le notizie arrivano sempre a noi ufficiali.»

«Quindi la mia umiliazione è di pubblico dominio.»

«Se volete perdonarmi, lo sono anche le vostre indiscrezioni, passate epresenti.»

Sorrisi tristemente. «Non è possibile avere una vita privata, vero?»

«Non per qualcuno noto come voi, Rose.»

«Eppure ho ancora vecchi amici che hanno affetto per me.»

«Molto affetto. Molto davvero.»

Un pomeriggio tornammo da una delle nostre passeggiate più lunghe e iooffrii a Scipion una tazza di vino caldo speziato nella mia villa. Entrammo eci togliemmo i cappotti. Io chiesi al cuoco di preparare il vino, poi uscii sulbalcone che dava sul parco. Scipion si avvicinò lentamente al balcone dauna stanza adiacente.

Improvvisamente sentii una scossa e un urto sconvolgente. La struttura micedette sotto i piedi. Tesi la mano verso la ringhiera di metallo: non c’era piùringhiera. Gridai mentre cadevo, poi non vidi più nulla.

Quando mi risvegliai, sentivo soltanto il dolore. Un dolore straziante nellaschiena, nelle gambe, nel collo e nella testa. “Oh, Dio,” ricordo di averpensato “ti prego, lasciami morire.”

Ma non morii, sopravvissi con il mio dolore. Euphemia mi stava sempre

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accanto, cospargendomi di unguenti dall’odore terribile, facendomi bereliquidi disgustosi ma benefici ottenuti da erbe, gli stessi che mi dava dabambina quando ero malata. Ricordavo l’odore dal tempo della mia infanziae ne traevo uno strano conforto, come traevo conforto dalla costantepresenza di Euphemia e dalle sue parole dolci. Mi appese un feticcio attornoal collo, e Scipion, che veniva a visitarmi ogni giorno, mi mise al colloanche una piccola croce d’oro.

«I medici affermano che siete molto fortunata a essere viva, Rose» mi disseun giorno. «Voi e io siamo gente che sopravvive, questo è certo.»

«Bonaparte dice sempre che gli porto fortuna» risposi, con una voce debole,e vidi che Scipion sussultò.

«State parlando! Sapete da quanto tempo non lo facevate?»

«Da quanto?»

«Quasi dieci giorni. Pensavamo tutti che foste moribonda. Il medico lodefiniva “coma”. Ci ha detto di prepararci per il vostro funerale.»

«Spero che si ingannasse.» Feci del mio meglio per sorridere. Alla vista delmio sorriso, gli occhi di Scipion si riempirono di lacrime.

«Mia cara, oh, mia cara» disse prendendomi la mano nelle sue e baciandola.«Riesco soltanto a immaginare che cosa proverebbe il generale Bonaparte inquesto momento se potesse starvi accanto. Gli abbiamo mandato unmessaggio, descrivendo il terribile incidente, come il balcone è crollato e voisiete caduta. Ma dubito che lo raggiunga. La costa è sotto blocco. Neanche imessaggi del governo di Parigi lo raggiungono.»

Pensai a Bonaparte, al Cairo, con la sua amante, quella di cui parlavano tuttii soldati e i marinai. Sarebbe stato felice se avesse saputo del mio incidente?Era così in collera con me che si sarebbe rallegrato della mia morte? Ocedevo soltanto a pensieri morbosi perché soffrivo tanto?

Poi pensai a Donovan. Se soltanto avessi potuto vederlo! Ma c’era unapiccola nuvola di sospetto che riguardava Donovan. Che cosa era accaduto a

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Clodia? Che cosa ne aveva fatto Donovan? O che cosa le aveva fatto? Nonvolevo indugiare su quel pensiero e cercai di allontanarlo.

Un giorno aprii gli occhi dopo un lungo sonno e vidi Hortense sedutaaccanto al mio letto. Con lei c’era un ragazzo biondo, dagli occhi azzurri, inuniforme di ufficiale della guardia.

«Oh, maman! Carissima maman!» esclamò Hortense chinandosi a baciarmie abbracciarmi. «Sono venuta appena ho avuto la lettera di Monsieur duRoure. Sono stata così in ansia per voi!»

Eravamo tanto sopraffatte dall’emozione che passarono alcuni minuti primache potessimo conversare. Vidi che il giovane biondo sedeva tranquillo,padrone di sé, ma con un sorriso comprensivo sul bel viso.

«Maman, questo è lord Falke. Il tenente Falke, dovrei dire. Del reggimentodelle Ardenne. Il padre è inglese, ma la madre è francese e lui è leale allaFrancia, essendo stato allevato qui.»

Il tenente si avvicinò al mio letto e con un tocco leggero e dolce mi prese lamano e se la portò alle labbra. Il gesto era così garbato e fatto con tantaeleganza che mi commosse. «È un grande onore per me essere presentato aMadame Bonaparte» disse. «Vedo ora che quanto Hortense mi ha detto di voinon vi rende giustizia.»

«Mi adulate in modo vergognoso, tenente. E ve ne ringrazio. Come vedete,non sono me stessa in questi giorni.»

«Hortense e io speriamo che starete molto meglio quando sarete stata curatadai medici che abbiamo portato da Parigi, il dottor Morel e il dottorHezancourt. Con il vostro permesso, vorremmo farvi visitare da loro.»

Annuii. A parte la continua assistenza di Euphemia, non avevo avuto verecure mediche dopo il mio incidente. Plombières era piena di “dottori delleterme”, come venivano chiamati, uomini che curavano anziane ricchesignore immergendole in vasche di acqua calda e ribollente o usavanol’“energia galvanica” per stimolare le loro membra stanche e troppo grasse.Non c’erano medici di prima qualità, e quelli delle città vicine erano stati

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costretti a servire nell’esercito.

I due uomini barbuti, di mezza età, che il tenente Falke fece entrare nellastanza si presero subito cura di me, e non passò molto tempo prima cheEuphemia e le sue medicine venissero bandite. Il dottor Morel, il più anzianodei due, era un uomo forte, dalle spalle larghe, sui quaranta, ben vestito econ un viso serio. Il suo collega, il dottor Hezancourt, sui trenta otrentacinque, era biondo e snello, con uno sguardo gentile.

«Riuscite a sedervi?» mi chiese il dottor Hezancourt.

«No. Mi duole troppo la schiena.»

«Riuscite a sollevare le braccia?» s’informò il dottor Morel.

I due uomini si scambiarono uno sguardo.

«Vi hanno salassato?»

«No.»

Portarono un catino e lo misero sotto il mio polso, che poi incisero con unrasoio. Goccia a goccia, il mio sangue cadde nel recipiente.

Il dottor Morel prese una bottiglia di vetro dalla borsa. Sapevo che cosaconteneva: sanguisughe, orribili, nere creature succhiasangue che mifacevano rabbrividire. Distolsi lo sguardo mentre quelle brutte cose che sicontorcevano vennero sollevate e posate sul mio polso. Non provavodolore, soltanto ripugnanza. Alla Martinica le sanguisughe abbondavano. Eraimpossibile attraversare la foresta pluviale senza venirne attaccati. Sicacciavano sotto le foglie morte bagnate, si avvinghiavano alle zampe deicavalli e, se non si era molto cauti, anche alle gambe umane. Ricordavo lenumerose visite che i medici avevano fatto ai Trois-Îlets per curare miasorella Catherine, gravemente ammalata. Ogni volta portavano i loro vasi disanguisughe. La povera Catherine, che era sempre stata pallida, diventavaspettrale quando quelle orride creature le avevano succhiato il sangue.

Le sanguisughe fecero il loro lavoro, più e più volte, ma io rimanevoimmobile e piena di dolori come prima. Allora il dottor Morel disse al cuoco

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di bollire molte patate e, quando diventarono un purè, le avvolse in unpanno e ne fece bende per le mie braccia e la schiena. Il caldo mi dava unasensazione gradevole, ma, sebbene l’esperimento fosse stato ripetuto piùvolte, la terapia della patata non mi giovò.

E non migliorai quando uccisero ed eviscerarono una pecora e la sua lana mivenne avvolta attorno alla schiena. Scipion, Euphemia, Hortense e il tenenteFalke cenarono a base di agnello per giorni, e anch’io mi saziai di stufato.

Infine, a gennaio, senza avermi guarito, i due medici tornarono a Parigi,profondendosi in inchini e scuse, e io venni affidata nuovamente alle cure diEuphemia. Sebbene soffrissi molto, riuscivo a rimanere seduta per qualchetempo, e Hortense mi aiutò a recuperare un talento che avevo dimenticato daanni: il ricamo. Le suore del convento dove avevo studiato alla Martinica miavevano insegnato il punto catenella e quello chiamato “à la reine”, ma datempo non sapevo più usare gli aghi, che del resto avevo perduto. Insiemecreammo un parafuoco (per Bonaparte) con api intrecciate a rose, il miofiore preferito.

Hortense e Andrew giocavano a carte con me, a ventuno e a un nuovo giocoche faceva furore a Parigi. Rallegravano le lunghe serate invernali parlandodi quello che accadeva nella capitale: i trionfi di Mademoiselle Chameroi, lamigliore danzatrice dell’Opéra, il grande successo della nuova bottega diMonsieur Biennois, in rue Saint-Honoré, all’insegna della Scimmia Viola,dove l’élite andava ad acquistare gli astucci da viaggio in avorio completi divasetti in argento per il sapone da barba e di pettini per i baffi intarsiati dimadreperla. Portavano notizie di Paul Barras, che ancora rimaneva attaccatoal potere, sebbene fosse sempre meno amato, dell’importanza sociale deiBuonaparte e di un inquietante aumento del crimine.

«Proprio prima della nostra partenza» disse Andrew «tutti parlavano dellabanda Gardel. Sembra siano quaranta, tutti ex soldati, mi duole dirlo. Sonoarmati di sciabola e vagano per le strade in cerca di vittime a cui tagliano latesta.»

«Pugnalano anche e tagliano le dita e i nasi e li lasciano come trofei»aggiunse Hortense trattenendo il fiato.

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«Molto sanguinario.»

«E poi ci sono i banditi “Piè veloce” che rubano e corrono via così in frettache nessuno riesce a prenderli.»

«Sembra che Parigi sia sommersa da criminali» osservai. «Per fortunaPlombières è un luogo tranquillo.»

Hortense e Andrew si guardarono, ma non dissero nulla.

«Che cosa c’è?» Non potevo non aver notato il silenzio significativo e loscambio di sguardi.

«Nulla di cui dobbiate preoccuparvi, Madame Bonaparte.»

«Voglio saperlo. Che cosa mi tenete nascosto voi due?»

«Davvero, maman, non c’è ragione di essere in ansia.»

«Siete voi ora a mettermi in ansia. Esigo che mi diciate di che si tratta,qualsiasi cosa sia.»

I due giovani avevano l’aria imbarazzata. Fu Andrew infine a parlare. «Nonvolevamo dirvelo nel timore di peggiorare la vostra condizione. Uno chocpuò portare a una ricaduta.» Mi guardò, poi, vedendomi decisa, proseguì.«Uno dei giardinieri nel parco ha visto qualcosa il giorno in cui il balcone ècrollato. Due uomini sono venuti a lavorarci. Ha pensato che li aveste assuntivoi o il vostro amico Monsieur du Roure. Ma in seguito ha visto unosconosciuto che li pagava e sembrava che li pagasse molto bene per unasemplice riparazione.»

«Sì? Ditemi il resto.»

«Monsieur du Roure e io abbiamo scoperto chi è lo sconosciuto. Ilgiardiniere ce lo ha descritto. Siamo andati da tutte le affittacamere diPlombières e abbiamo chiesto se un uomo che rispondeva a quelladescrizione avesse alloggiato da loro più o meno nel periodo in cui ha avutoluogo il vostro incidente. Madame d’Aigrefeuille ha detto di sì e ci hamostrato il nome scritto nel registro.»

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Mi chinai in avanti, nonostante il dolore lancinante.

«Era Giuseppe Buonaparte.»

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38Mi addormentai e sognai.

Nei miei sogni annegavo, lottando e agitandomi sott’acqua, nel disperatotentativo di respirare. Soffocavo, sapevo che stavo per morire.

Poi di colpo mi sentivo sollevare da mani sconosciute e portare attraversomari, montagne, spiagge, verdi foreste. “Sono morta” pensavo. “Sono mortae vengo condotta in paradiso.”

Ma le mani invisibili non mi portarono in paradiso, bensì sul MorneGanthéaume, al Crocicchio Sacro. Era notte. Scorgevo, alla luce delle torce,la vasta radura dove avevo visto Orgulon, il grande quimboiseur. La raduraera deserta; c’era soltanto il tronco reciso di un grande albero; e sul troncosedeva Orgulon, fumando la pipa.

La luce era fioca, ma io distinguevo il mantello rosso, le piume rosse tra ipochi capelli grigi e la collana di denti di pescecane.

Mi guardava, con l’occhio buono.

Dopo qualche tempo si toglieva la pipa dalla bocca e parlava.

“Ancora una volta il fer-de-lance è venuto per te. Per ucciderti. Attenta alfer-de-lance. Sei stata morsa, ma non morirai. Non ti lascerò morire. Deviessere salvata. Hai uno scopo. Trovalo, e vivi!”

“Orgulon” chiamavo, ma la voce era debole. La torcia si affievoliva, ilCrocicchio Sacro si faceva confuso, poi sparì.

Sentii Hortense che mi chiamava.

«Maman, svegliatevi! Avete avuto un incubo.»

«Orgulon!» dissi nuovamente, e aprii gli occhi. Ero nella mia camera daletto, nella casa di Plombières, e Hortense mi sedeva accanto e mi guardava

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ansiosamente.

Mi sentivo confusa, ma più calma di quanto fossi mai stata nei mesi dellamia malattia.

«Non preoccuparti» sussurrai. «Starò bene. Il serpente è venuto peruccidermi, ma io sono più forte di lui.»

Tra me aggiunsi: “Troverò il mio scopo e vivrò”.

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39Cominciai subito a sentirmi meglio. Il dolore alla schiena e agli arti divennepiù sopportabile e riuscii a muovere le braccia tanto da nutrirmi da sola.Tutti dicevano che ero molto meno pallida e io mi feci pettinare con piùattenzione da Euphemia e mi avvolsi ogni giorno in una nuova veste dacamera di seta.

Sembrava che mi fosse stata tolta una maledizione, non soltanto dal corpodolorante, ma anche dalla mente. Cominciai a pensare con gioia al momentoin cui sarei guarita, in cui mi sarei potuta muovere senza soffrire. Miangosciava tuttavia il pensiero che l’incidente mi avesse tolto la possibilità diavere altri figli. Sapevo che Bonaparte voleva una famiglia e immaginavoche il mio corpo fosse troppo stanco, o indebolito irrimediabilmente, dallatragica esperienza.

Avevo, si intende, un’ansia ben più grave. Sembrava assolutamente certoche il mio ostile cognato Giuseppe avesse pagato degli assassini perprovocare l’incidente. Quindi mi voleva morta, e avrebbe continuato adattentare alla mia vita se nessuno lo avesse fermato. Cominciai a teneresempre vicina una pistola e mi dava un certo conforto sapere che ancheScipion era armato.

«Ho organizzato il nostro ritorno a Parigi, Rose» mi disse un giorno Scipion.«Credo che stiate abbastanza bene. Ho scritto al ministero della Marina e miè stato detto che posso lavorare nei loro uffici della capitale, anche se nonsono in grado di tornare in mare.»

Partimmo poco dopo. Scipion scortava me, Hortense ed Euphemia nellagrande carrozza da viaggio con quattro battistrada armati. Falke andò aNapoli, sperando di potersi imbarcare per l’Egitto, nonostante il bloccoinglese, e arruolarsi nell’esercito di Napoleone.

Sebbene questo rendesse più lungo e difficile il percorso, nel nostro viaggioa nord, verso la capitale, evitammo le strade principali e le grandi città.Sapevo che mi avrebbe stancato ricevere lunghi e tediosi saluti ufficiali in

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ogni città che attraversavamo e non volevo la pietà di quelli che miavrebbero visto in una sedia a rotelle (perché ancora non potevo camminarea lungo senza aiuto).

Inoltre avevamo sentito dire che la campagna d’Egitto andava male per ifrancesi, come mi aspettavo senza averne la certezza. Non giungevanonotizie di nuove vittorie, si sapeva soltanto che Bonaparte aveva condotto isuoi uomini nel deserto della Siria, ma si ignorava con quali risultati. Eroansiosa di tornare a Parigi per poter essere di nuovo vicina alle migliori fontidi informazione, i banchieri e i finanzieri della cerchia di Barras. Che volessiessere bene informata era un chiaro sintomo del mio miglioramento.Frattanto, però, l’ultima cosa che desideravo era sentirmi chiedere notizie dacittadini e abitanti dei villaggi, che in genere non sapevano dov’era l’Egitto, emeno ancora che cosa potesse significare per la Francia la sua conquista. (Oche cosa potesse significare il fallimento di Bonaparte.)

Non potevo non chiedermi se avrei visto Donovan a Parigi. Non avevo suenotizie da molti mesi. Avevamo deciso, prima della mia partenza perPlombières, che era meglio non cercassimo di comunicare tra noi a causa deisospetti di Bonaparte. Dopo l’incidente avevo chiesto a Fanny di scrivere aDonovan nel suo alloggio di Parigi e dirgli quello che mi era accaduto, malei, a quanto mi aveva detto, non aveva avuto risposta.

Non era pensabile continuare con gli affari delle forniture all’esercito; lasocietà attraverso la quale operavamo, la Bodin, era fallita e lo stessoMonsieur Bodin era in carcere per frode. Speravo che la mia ricchezzapersonale fosse ancora al sicuro in banca, ma non potevo esserne certa.Nonostante le mie proteste di innocenza con Bonaparte e altri, i miei affarierano stati in realtà disonesti, seppure non sempre; non ero stata io acommettere gli atti disonesti, erano stati altri, ma io lo sapevo e non miopponevo. Però, ragionavo, le cose andavano sempre così con le commesseper l’esercito. La gente se lo aspettava. Qualcuno doveva trarne profitto.Perché non Donovan e io stessa? Dopo tutto, ero sempre stata una bravadonna d’affari.

Una volta sistemati a Parigi, in rue des Victoires, mandai Euphemia ainformarsi discretamente su Donovan. Quando tornò, compresi subito dalsuo sguardo che mi portava cattive notizie.

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«È partito. È partito da molto tempo. O se ne andava o finiva in prigione,hanno detto i suoi vicini.»

«È tornato alla Martinica?»

«Molto probabilmente. Ha lasciato questo biglietto per voi.»

Spiegai il foglio e lessi lentamente.

Mia cara,

parto oggi per la mia piantagione Bonne Fortune e spero che voi verretea raggiungermi là. La Francia non è un luogo sicuro per voi, né per me.Vostro marito è un uomo notevole, ma è malevolo. Non mi fido di lui eneanche voi dovreste. Siete per sempre nelle mie braccia,

Donovan de Gautier

A chi potevo rivolgermi? Che cosa dovevo fare? Ero la moglie di un uomomolto importante, ma a Parigi, in quel momento, questo era un rischio.Perché il governo era in grande agitazione, i capi si perdevano in piccole litie i parigini erano rabbiosi e scontenti del loro governo. Di mio marito non sisapeva quasi nulla da molti mesi. Il mio danaro, scoprii subito, era statoconfiscato quando la società Bodin era fallita. Avrei dovuto avere unarendita pagata da Giuseppe Buonaparte, il mio nemico, ma non osavo andareda lui a chiedergli alcunché. Il cibo scarseggiava a Parigi, e anche recarsi almercato era pericoloso, perché i ladri si trovavano dappertutto e lacriminalità era aumentata.

Ricordai una bella casa di campagna che Bonaparte e io avevamo visitato,una dimora in riva al fiume, circondata da vigneti e campi di grano, chiamataMalmaison. Io avrei voluto comprarla, ma Bonaparte aveva detto di no; eratroppo cara. Forse, pensai, in un’epoca di agitazioni e miseria, il prezzo dellaproprietà era sceso?

In una casa di campagna sarei stata al sicuro, non soltanto dai ladri di Parigi,ma dai miei nemici Buonaparte. Avrei potuto viverci in pace, circondata daservi fedeli, dietro le pesanti pareti e il cancello di metallo lavorato, fino a

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quando Bonaparte fosse tornato dall’Egitto.

C’era un uomo che avrebbe potuto prestarmi il danaro per trasformare il miosogno di una casa di campagna in realtà. Con l’aiuto di Euphemia indossai ilmio abito più alla moda, mi misi una cuffia bianca ricamata e feci del miomeglio per non avere l’aria di una donna che aveva attraversato un terribilemomento. Così vestita e provando uno slancio di speranza, andai a trovarePaul Barras.

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40Il mio Eugène tornò da me una mattina, mentre io potavo le rose nel nuovogiardino della Malmaison. Non era in uniforme e, di primo acchito, quandolui si avvicinò, non lo riconobbi, perché si era irrobustito, appesantitodurante il soggiorno di un anno in Egitto, e portava il cappello floscio, a tesalarga, inclinato sulla fronte.

Tuttavia il suo sorriso era sempre affettuoso e giovane, e quando infine vidichi si stava avvicinando, gridai di gioia e lo abbracciai forte.

«Caro, carissimo ragazzo, come sono felice che tu sia salvo!»

«Siamo stati tutti e due in guerra, non è così, maman? Voi, con il vostroterribile incidente e io, temo, con questo ricordo permanente della Siria.»

Si tolse il cappello e vidi che tutto il lato sinistro della testa era bendato.

«Eugène!» riuscii soltanto a dire, tanto erano grandi la sorpresa e l’orrore.

«Non vi ho scritto della mia ferita perché non volevo crearvi ansia. All’iniziomi avevano dato per morto...»

«Avevano dato per morta anche me, a Plombières...» lo interruppi.

«... e in seguito pensavano che avrei perso la vista, ma si sbagliavano. Faticoun po’ a ricordare le cose e a volte sento un ronzio nelle orecchie, ma per ilresto sto bene.»

«Come è accaduto? Raccontami tutto.»

Sedemmo su una panchina ed Eugène mi narrò i mesi pericolosi trascorsinell’esercito di Napoleone.

«Non siamo mai stati in grado di controllare vaste zone del paese. Abbiamopreso il Cairo, come vi ho scritto, ma la popolazione si è ribellata e, ognivolta che lasciavamo la città, venivamo sempre attaccati dai beduini e dai

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contadini. Bonaparte era terribile. Ha tagliato più teste lui in una settimanache i rivoluzionari a Parigi in un anno. E non ne sembrava sconvolto. Lo sobene, ero quasi sempre con lui, nella sua tenda, gli sedevo accanto mentrescriveva i dispacci, lo aiutavo perfino a radersi e a vestirsi. Mi facevacavalcare a fianco della sua carrozza quando usciva con la sua amante,quella di cui vi ho scritto, quella che chiama Bellilotte.»

«Questo era crudele.»

«All’inizio ero infuriato. Poi ho compreso che non cercava di ferire me, madi punire voi ferendo me.»

«Non parliamo più di questo. Lo conosciamo bene entrambi.»

«Mi dispiace molto, maman. Non volevo essere sleale nei vostri confronti.Ho pensato di abbandonare il posto, ma...»

«Ma, se lo avessi fatto, la tua carriera nell’esercito sarebbe finita. Locomprendo benissimo.»

Lui scosse la testa. «Ero furioso per tutto. Ma c’erano cose molto più graviper cui infuriarsi.»

Si alzò e cominciò a camminare avanti e indietro, le mani dietro la schiena,guardando l’erba. Mi parve di notare a tratti una certa insicurezza nel suopasso e mi chiesi se fosse dovuta alla ferita alla testa.

«Sono morti tanti dei nostri uomini. Hanno preso la sifilide, o la malattiaegiziana degli occhi, che li faceva impazzire, o la peste. Li portava via comeil Nilo porta via le barche quando c’è la piena. E il generale Bonapartepensava soltanto a come avrebbe potuto conquistare l’India dopo aver presol’Egitto e la Turchia.»

Tacque, scuotendo il capo, poi riprese.

«Marciammo fino a Giaffa ed espugnammo la guarnigione turca. Il generaledisse che non potevamo fare prigionieri, perché non avevamo cibo per loro.Così li abbiamo massacrati, migliaia di soldati inermi, molti troppo vecchiper combattere. E non soltanto i soldati...» La gola gli si chiuse e per un

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minuto o due non poté parlare «... ma anche le mogli e i figli. Tanti bambini!Oh, maman, se aveste potuto vederle, quelle povere creaturine che siaggrappavano alle gambe dei padri, uccise senza pietà...»

Mi feci il segno della croce e mormorai una preghiera.

«Era terribile. Mi sentivo male e debole, ma il generale mi provocava. “Siiuomo, Eugène!” diceva. “Sii un soldato!” Rideva come ride lui, una risatafalsa, e mi pizzicava la guancia, molto forte. Giuro che in quei momenti loavrei ucciso, tanto lo odiavo.»

Sedette nuovamente accanto a me sulla panchina di pietra.

«Poi abbiamo posto sotto assedio Acri, come fecero i cavalieri crociati secolifa. Io sono stato imprudente. Mi sono avvicinato troppo alle mura. Sonostato colpito. Bonaparte mi ha fatto mettere a bordo di una nave araba e miha mandato a Cipro. Là c’erano ottimi medici. Mi sono riposato per unmese, poi ho trovato una nave mercantile portoghese che mi ha portato aMarsiglia. Sono sbarcato due settimane fa.»

«Spero che resterai un po’ di tempo qui con me. Chiameremo i migliorimedici di Parigi.»

Eugène accettò di restare con me alla Malmaison e riprese le forze di giornoin giorno. Attraverso un corriere si teneva in stretto contatto con i ministeridi Parigi – perché era ancora l’aiutante di campo di Bonaparte, sebbenelontano da lui migliaia di chilometri – e comprendevamo tutti e due che ilpotere dei cinque direttori stava declinando.

Mi sentivo più forte, circondata da tutta la mia famiglia. Hortense e Coco,Euphemia e ora Eugène. Mi isolavo alla Malmaison, facendo del mio meglioper ignorare i pettegolezzi che mi raggiungevano, le cattiverie che i mieiparenti acquisiti dicevano su di me e le inevitabili voci che Bonaparteavrebbe presto divorziato.

Che aveva una bella e giovane amante in Egitto era ormai noto a tutti aParigi. Io avevo ancora molti amici ed ero prediletta dai parigini, essendostata per tanto tempo una di loro e una vittima del Terrore, miracolosamente

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salvata dalla morte per un colpo di fortuna. Tuttavia i parigini sononotoriamente volubili e provano un brivido di emozione quando una nuovaamante minaccia di turbare un matrimonio. Sapevo che, se fossi andata insocietà, avrei dovuto subire migliaia di domande sul mio matrimonio. Misarei sentita tesa e a disagio, anche in mezzo a quelli che conoscevo meglio.

Sapevo anche che, se fossi andata a Parigi, avrei potuto, se avessi avutomolta sfortuna, incontrare la mia nemesi, Giuseppe Buonaparte, che avevauna casa di campagna nei pressi della capitale. Non era mai lontano dai mieipensieri in quei giorni turbati; la paura mi tormentava sempre. Avrebbecercato ancora di provocare la mia morte?

Ogni sera mi mettevo di guardia alla mia finestra, senza potermi coricare permolte ore, perché immaginavo assassini che strisciavano nel giardino versola casa, per venire a uccidermi. Tenevo la pistola carica sotto il cuscino eavevo accanto il mio più recente compagno, un grosso lupo russo chiamatoMitka.

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41“Sta tornando, sta tornando!” La notizia dell’improvviso, inatteso ritorno diBonaparte dall’Egitto salì dalla costa, e da un capo all’altro della Francia tuttisi rallegrarono.

A nessuno sembrava importare che in Egitto e in Siria si fosse ottenuto benpoco, seppure si era ottenuto qualcosa. (Bonaparte si era vantato molto maaveva fatto poco.) O che, mentre lui era sull’altra sponda del Mediterraneo,le sue conquiste in Italia fossero state riprese dagli austriaci. Contavasoltanto che l’eroe Bonaparte, il salvatore della Francia, fosse di ritorno eche avrebbe spazzato via ogni difficoltà.

Sentimmo che era a Lione, poi a Montluçon, poi a Orléans. Presto sarebbestato fra noi.

Temevo il suo ritorno e mi facevo forza per affrontare liti e discussioni. Nonmi aspettavo che Bonaparte arrivasse come arrivò, davanti al portone, senzafarsi annunciare.

La vistosa carrozza dorata, ornata da sfingi e con una piramide dorata a ogniangolo del tetto, entrò nella corte della Malmaison, provocando grandeemozione nella servitù, che si precipitò fuori per accogliere il generale eapplaudirlo.

Scese dalla carrozza, e mi parve avesse un aspetto bilioso, quasi dissoluto.La carnagione, diventata più scura e dura al sole d’Egitto, era giallastra.Dopo di lui scese Giuseppe, e io rabbrividii e presi il braccio di Eugène, einfine una bionda giunonica con un abito e un cappello scarlatti volgari einadatti a lei.

«La figlia del cuoco» mormorai a Eugène, mentre aspettavamo in anticameraosservando la scena in cortile attraverso la porta aperta. Subito ci raggiunseEuphemia, tenendo per mano Coco, e infine Hortense si mise di fianco alfratello. Così schierati, attendemmo che Bonaparte entrasse in casa.

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Ma non entrò. Rimase sulla ghiaia della corte parlando a voce alta aGiuseppe.

«Affido a te la vendita di questa follia di mia moglie» disse. «Trova unagente fidato e ottieni quello che puoi. Sono certo che l’abbia pagatatroppo.»

«Qualsiasi somma abbia pagato, dubito fosse in contanti» ribattéironicamente Giuseppe. «Si dice che sia tornata dal suo ricco protettoreBarras. Le ha dato il danaro per comprare la proprietà.»

«È ancora mia moglie. Non può acquistare proprietà senza il mio consenso.Quanto a Barras...» Non finì la frase, ma il tono diceva che l’uomo nonaveva più importanza.

Giuseppe disse con disprezzo: «Tutta Parigi odia Barras. Non durerà a lungo.I parigini sono con te, Napoleone. Come sempre, sei tu l’uomo del giorno!».

«Non pensare a Barras e a mia moglie. Per me non conta più della polveresotto i miei piedi. Divorzierò da lei e sposerò questa bella ragazza.» Cinsecon il braccio la vita rotondetta della sua amante e la strinse a sé. «Lei nonmi tradirà, vero, Bellilotte? Sarà una moglie fedele e affettuosa. Non è unasgualdrina come l’altra.» Strinse con tanta forza la bionda da farla strillare, elui rise. «Vai dentro e guardati attorno» disse spingendola verso la casa.«Guarda se c’è qualcosa che vuoi.»

Lei ancheggiò verso l’ingresso. Non aveva grazia. Il passo era goffo. Di mela gente invece diceva che non camminavo, ma fluttuavo.

Sotto i nostri occhi, lei varcò la porta facendo ondeggiare l’orribile gonnascarlatta. Guardò le colonne di marmo nell’anticamera (non erano in veromarmo, naturalmente, ma lei certo non poteva saperlo), il bel pavimento amattonelle, i fiori freschi della serra, poi guardò noi cinque.

Mi esaminò con attenzione, fissando senza pudore il mio seno fiorente.Guardò appena Hortense (che, devo confessarlo, non era graziosa, sebbeneavesse un ottimo carattere). Ignorò Eugène, che aveva frequentato in Egittoper quasi un anno. Il suo sguardo si soffermò invece su Coco, una bambina

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graziosissima, con i lineamenti piccoli, delicati, quasi femminei, di miopadre. Aveva il corpo agile, snello della madre, la sua carnagione ramata e isuoi begli occhi neri e una gran massa di riccioli scuri che ogni mattinaEuphemia pettinava e legava tenendoli lontano dal viso. Coco era unabambina irrefrenabile, esuberante, piena di energia e di attività. Resisteva aogni tentativo di addolcire la sua vivacità e di trasformarla nella mite, inertebambola tutta obbedienza che era l’ideale dei genitori aristocratici.

«Dunque questa è la vostra bastardella» disse Bellilotte. Aveva una voceacuta e volgare.

«Coco è la mia sorellastra, e non ricordo di avervi invitato a entrare.»

Lei continuò a guardarmi freddamente. «Lo aveva detto che eravate unamegera altezzosa.» Ci oltrepassò ed entrò nella sala da pranzo, dove Eugène,cortesemente ma con fermezza, cercò di prenderle il braccio e di farla uscire.

«Non ci provate, ragazzo. Avete sentito che cosa ha detto Bonaparte. Vuoleche mi guardi attorno. Non costringetemi a gridare per chiamarlo.»

In quel preciso momento Euphemia pestò il vestito di Bellilotte, rendendoleimpossibile muoversi senza strappare la gonna.

«Togli il tuo piede nero dal mio vestito!»

Euphemia prese dal corpetto del suo abito di seta il suo idolo favorito, laDea Rossa. Fece oscillare la statuina di legno appesa alla catena davanti alviso ansioso di Bellilotte.

«Avete mai visto uno di questi?» chiese.

Bellilotte, gli occhi celesti sbarrati, accennò lentamente di sì.

«Può far piovere, curare la febbre, far innamorare e disamorare gli uomini,può fare una quantità di cose.»

«Sì... io... ho già visto degli idoli. Quando mio marito e io... il mio ex maritoe io, voglio dire... eravamo in Bengala, appena sposati...»

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«Questa statuina può distruggere la bellezza di una donna in pochi momenti.Pustole, verruche, rughe, segni del vaiolo: la Dea Rossa li può far veniretutti. E quanto male possono fare a una bella carnagione!» Sollevò in alto ilfeticcio e lo fece oscillare con maggior forza.

Istintivamente Bellilotte si portò una mano alla guancia fresca, quasi a tenerelontani pustole, verruche e altri orrori.

«Occhi luminosi possono diventare opachi, bei capelli possono cadere»disse Euphemia, la voce cantilenante, come se salmodiasse. «Gli organifemminili possono emanare odori sgradevoli, odori ai quali nessun uomovorrebbe mai avvicinarsi...»

Senza aspettare di sentire altro, Bellilotte cominciò a correre, strappando ilvestito con il primo passo, perché Euphemia le teneva saldamente il piedesull’orlo della gonna. Con l’abito strappato e gli occhi sbarrati dalla paura, laragazza corse da Bonaparte, che non nascose il fastidio.

«Sei già uscita?»

«Quella donna nera mi ha minacciato.»

«Come?»

«Ha detto che mi avrebbe fatto venire delle verruche sul viso.»

Bonaparte rise. «Non prestarle attenzione. Entra in carrozza e aspettami là.»

Imbronciata, Bellilotte obbedì, impiegando molto tempo a salire senza alcunagrazia nella carrozza, trascinandosi dietro brandelli di seta scarlatta. Unavolta entrata, rimase a guardare dal finestrino tutto quello che accadeva.

Al braccio di Eugène, uscii nella corte camminando maestosamente. Mitremavano le ginocchia, perché c’era Giuseppe, accanto al fratello, che miguardava mentre mi avvicinavo e continuava a parlare a Bonaparte.

Quando raggiunsi Bonaparte, mi fermai e mi rivolsi a lui.

«Ho comprato questa casa con il mio danaro» dissi con tutta la chiarezza e la

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lentezza possibili. «È mia.»

Bonaparte si voltò in fretta per affrontarmi. «Posso ricordarvi, Madame, chesiete ancora mia moglie? La moglie del generale Bonaparte, nondimenticatelo. Tutto quello che voi possedete è mio. E non avete danarovostro, come sapete assai bene.»

«L’ho preso a prestito da Barras.»

Lui sbuffò con aria sprezzante. «Preso a prestito? A quali condizioni?»

Non potevo rispondere. Avevo accettato il danaro che Barras mi avevaofferto, prendendolo dalla sua cassaforte traboccante. Gli avevo assicuratoche avrei potuto restituirlo, sapendo che lui non se lo sarebbe aspettato néallora né mai. Sapendo che era tanto ricco da poterselo permettere.

Bonaparte mi voltò scortesemente le spalle e riprese a parlare con Giuseppe.

«Mi divertirà vendere questa proprietà costosa e usare il ricavato perdestituire Barras.»

Dunque, per questo Bonaparte voleva la mia bella Malmaison. Per pagare lasua conquista della Francia. Eugène mi aveva tenuto al corrente degliincontri segreti e degli intrighi che si svolgevano. Sapevo bene che miomarito, rispondendo alle forti, inarrestabili grida di aiuto che aveva ricevutoal suo arrivo in Francia, intendeva diventarne il solo capo, e molto presto.Paragonate a questo grande progetto, la sua visita alla Malmaison e la suaconversazione con me dovevano in verità sembrare prive di importanza.

«Vi proibisco di usare la mia casa per i vostri fini egoistici.»

Non so come trovai il coraggio di parlare così; forse fu perché sentivo ilbraccio sinistro forte, saldo di mio figlio, forse perché odiavo Giuseppe edero furiosa per quanto aveva cercato di farmi o forse perché disprezzavo lagrassa Bellilotte. O forse perché ero diventata più forte dopo la mia lotta conla morte a Plombières e nei lunghi mesi della mia convalescenza.

Bonaparte si voltò piano verso di me, gli occhi stretti.

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«Pensate, Madame, di poter fare alcunché senza il mio permesso?»

Con un gesto infantile, scagliai con un calcio della polvere sui suoi pantaloniblu scuro. Sentii risatine soffocate.

«Porta tua madre in casa, Eugène, prima che io sia costretto a darle unalezione davanti alla servitù.»

Eugène rispose con calma: «Credo, generale, che abbia il diritto di starequi».

«Forse non mi hai compreso, Eugène. Non biasimo te per nessuno dei moltitorti di tua madre. Non per la sua infedeltà, o per la vergogna che ha gettatosu di me e la mia famiglia, o per il modo in cui ha reso se stessa e te degni dibiasimo, o per aver disonorato il popolo francese come mia moglie. Non ècolpa tua se è indegna di essere la moglie di un capo di Stato. Non possoperdonarla, ma posso e voglio perdonarti per la tua lealtà verso di lei. Ticonsidererò sempre mio figlio. Ti terrò presso di me. Tu ti sei conquistato ilmio favore.»

Non ero mai stata fiera di Eugène come in quel momento.

«Generale» disse «non posso servirvi più se abbandonate e insultate miamadre. Devo prendermi cura di lei. Di conseguenza, da questo momento,rifiuto ogni occupazione che voi possiate offrirmi. Ora prendo congedo davoi e mi dimetto dal mio incarico.»

Con dolcezza, si liberò dalla mia stretta sul suo braccio e, facendo un passoverso Bonaparte, prese dal fodero la spada che il generale gli aveva regalatoanni addietro, la spada di Alexandre de Beauharnais. L’arma splendette allaluce del sole, ma anche nel breve istante in cui rimase esposta alla luce vidiche era diventata opaca, che la lama un tempo perfetta adesso era segnata egraffiata e che l’elsa si era arrugginita. Non era più la lama di un ragazzo, maquella di un guerriero, una lama di metallo grigio segnata dalle battaglie, unalama che, ne ero certa, aveva falciato molte vite.

Eugène si inginocchiò e offrì la spada a Bonaparte.

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Allora il viso severo del generale si addolcì, gli occhi si riempirono dilacrime. Aprì le braccia a Eugène e a me e, senza riflettere, noi ci gettammoin quell’abbraccio.

«Oh, tutto è perdonato. Soltanto amore, soltanto amore» mormorò con lavoce rotta, baciandoci più e più volte. Tese la mano a Hortense e a Coco einfine a Euphemia. Dimenticando gli altri, immemori di tutto fuorché deinostri sentimenti di unione e di affetto, ci abbracciammo e ci baciammo tuttipiù volte.

Bonaparte mi prese in braccio e mi portò nella mia grande camera da lettorotonda, ignorando le urla della furiosa Bellilotte, e là facemmo l’amore, piùe più volte, e il suo ardore sembrava più forte che mai. Il mio sollievo eraindescrivibile. Cedetti con gioia ai suoi abbracci e gli diedi la pace del cuoree del corpo che ardentemente desiderava. Eravamo nuovamente uniti. Nonuscimmo dalla camera per tre interi giorni.

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42«Monsieur.» Chiamai l’operaio appollaiato su una scala molto più in altodella mia testa. Non mi sentì. «Monsieur» ripetei, più forte.

«Scusatemi, signora.» Fece un goffo tentativo di inchinarsi rimanendo sullascala. «Vi prego, ditemi che cosa desiderate.» Cominciò a scendere i pioli.

«Oh, no, per favore. Non datevi la pena di scendere. Volevo soltantochiedervi qualcosa sul candelabro. Su tutte le candele.»

Eravamo nella grande sala da pranzo delle Tuileries, una vastissima stanza dicui non riuscivo neppure a indovinare le dimensioni. Più grande forse ditutta la proprietà dei Trois-Îlets.

Colonne di marmo rosa venato sormontate da dorati capitelli corinziincorniciavano le alte finestre rotonde. Le elaborate modanature intagliateerano dipinte in filigrana d’oro e d’argento. Statue di nudi a grandezzanaturale occupavano nicchie sovrastate da panoplie dorate sorrette da cupidialati. Sul soffitto dipinto, dee dell’abbondanza e dèi del raccolto simuovevano tra cornucopie traboccanti di frutta, noci e canditi. Un sorridenteBacco stava sdraiato, sazio di vino, sopra la mia testa. Attorno a me, nelpunto in cui mi trovavo sul lucente pavimento di legno, lunghe tavoleapparecchiate con lino freschissimo e cristalli, lucenti centrotavola d’argentoe vasi di profumati fiori delle serre.

Sebbene non riuscissi a crederlo, adesso ero padrona delle Tuileries. Miomarito, immensamente popolare, grazie a una serie di manovre politiche erariuscito a diventare l’uomo più potente di Francia. Ci eravamo trasferiti nelpalazzo e volevamo riportarlo ai fasti del tempo dei sovrani, prima della loroesecuzione.

Tutto mi sembrava molto strano e poco gradito. Io ero la figlia di unpiantatore della Martinica, non ero di famiglia reale. È vero, avevo osservatoda una certa distanza la defunta regina, quando vivevo con la zia Edmée aFontainebleau. Ma non avevo mai assistito a una levée regale. Ignoravo

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l’etichetta di corte. Avevo molti amici e conoscenti titolati che si trovavano aloro agio nel palazzo, e, frequentandoli, avevo acquistato nel corso deglianni una certa eleganza (così diceva la gente) e l’abilità di mettere i mieiospiti a loro agio. Tuttavia mi sentivo inesperta come padrona di casa delleTuileries. Dovevo imparare molte cose. Pensavo di farlo grazie alla servitùche era, dopo tutto, quella che faceva funzionare il palazzo.

«Volete dirmi il vostro nome, Monsieur?»

«Christian de Reverard, signora.»

«Allora, Christian, volete avere la bontà di dirmi come fanno le candele adaccendersi tutte nello stesso momento quando arrivano gli ospiti? Sembraaccadere come per magia.»

Lui sorrise. «È in verità un sistema ingegnoso, signora. Vedete, ogni candelaè collegata alle altre con una cordicella. Ora sto appunto fissando lecordicelle, che non si vedono dal basso, dove vi trovate voi, ma se salistedove sono io, su una scala, le vedreste molto chiaramente.»

Alzai lo sguardo al bel soffitto sopra di me, dove si trovavano le dee e gli dèinei loro succinti costumi. Non vidi alcuna cordicella tra le candele.

«A un segnale, quando inizia il corteo e voi e il Primo Console guidate ivostri ospiti, e i musicisti cominciano a suonare, si toccano le cordicelle aogni capo della sala con candele accese. Ci vogliono pochi secondi perché ilfuoco balzi da una candela all’altra, accendendole tutte.»

«E quante candele ci sono?»

«Non saprei proprio. Lo sa soltanto il gran maestro delle candele.»

«Posso chiedervi, Christian, come avete imparato queste cose?»

«Ero alla corte di Versailles, signora, da quando avevo nove anni.»

«Anche mio padre era gentiluomo di corte là. Chissà se lo conoscevate.Joseph Tascher de la Pagerie.»

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«Eravamo in molti, signora, centinaia. Non ricordo tutti i nomi.»

«Certo che no. Grazie, Christian, non vi dimenticherò.»

«È un onore per me esservi di aiuto. Posso ricominciare a legare lecordicelle, ora?»

«Si intende.»

Era tempo di vestirsi per il ballo che davamo quella sera. Vi erano tante coseda festeggiare. Per la prima volta dopo anni la Francia era in pace. Era statofirmato un trattato con l’Inghilterra, ed entrambi i paesi avevano concordatodi cessare le ostilità. I peggiori eccessi della Rivoluzione erano ormai lontani.Molti aristocratici e aristocratiche fuggiti in quegli anni bui stavanotornando, e anche i preti, e Bonaparte si preparava – diceva la gente – aristabilire il cattolicesimo in Francia, qualcosa che i rivoluzionari nonavrebbero mai creduto possibile.

È vero, qualcuno diceva che stavano tornando tempi duri. Che presto cisarebbe voluta un’altra rivoluzione per liberarsi di Bonaparte. Lui in veritàgovernava con grande fermezza. Con maggior fermezza di re Luigi. Nonpermetteva che lo si criticasse. Molti giornali erano stati costretti a chiudereperché pubblicavano articoli sfavorevoli su di lui e alcuni drammi cheattaccavano il governo erano stati proibiti.

Però non credevo che le cose andassero male come prima della Rivoluzione,quando tutti fallivano, non c’era pane e al re e alla regina sembrava nonimportasse.

No, le cose non andavano così male. La Francia era nuovamente ricca e lagente si fidava di Bonaparte. Era ancora così giovane – poco più chetrentenne – e aveva fatto tanto in quel breve tempo.

Io, d’altro canto, mi avvicinavo ai quaranta, e non era possibile nasconderela cosa.

Cominciavo a sembrare vecchia. Ero vecchia. Mio marito me lo dicevacostantemente, anche quando eravamo in presenza di altri.

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E diceva la verità. I miei denti erano monconi neri, i monconi di unavecchia. Non mi rassegnavo a mettere i denti falsi di legno che altre personedella mia età portavano. Mio marito continuava a dirmi che il generaleWashington, uno dei suoi eroi, indossava denti di legno e che avrei dovutofarlo anch’io, ma non sopportavo l’idea, e il dolore (sapevo che ci sarebbestato dolore, e molto forte), il terribile dolore di farsi strappare i dentisarebbe stato intollerabile. Così mi limitavo a tenere la bocca chiusa e anascondere i miei monconi neri dietro il ventaglio quando parlavo. E a nonschiudere le labbra quando sorridevo.

Tingevo i capelli, che cominciavano a diventare grigi. Mi coprivo il viso conuna biacca pesante per nascondere le macchie rosse. Portavo troppo belletto,diceva Bonaparte. Ma dovevo portarlo, non avevo più alcun colore giovanilesulle guance. E qualche volta – sì, lo confesso – indossavo vestiti tropporivelatori, che un tempo mi avrebbero donato molto ma che ora eranotroppo giovanili. Era una mia debolezza cercare di avere un’aria infantile,come la graziosa ragazza che ero stata alla Martinica.

La verità è che non sopportavo di non vedermi come una ragazza. Diventareuna donna più anziana, seppure bella, mi spaventava. Non avevo il dono diaccettarlo, come hanno alcune donne.

Così facevo tutto il possibile per tenere lontana la vecchiaia. Dormivo conuna bistecca di carne cruda sul viso per rinfrescare la carnagione. Spalmavopesanti unguenti sulle gengive che si restringevano per avere un alitogradevole. Mi cospargevo tutta di profumo. Mi tenevo lontana dalla luce delsole e lasciavo che la morbida luce delle candele mi lusingasse il viso e ilcollo.

Facevo del mio meglio.

Non bastava.

La sera del ballo indossai un abito che mi auguravo sarebbe piaciuto aBonaparte. Era di una morbida mussola color avorio e aderiva in modolusinghiero al petto e ai fianchi. Il corpetto di pizzo bianco era rivelatoreeppure casto, un buon compromesso, a mio avviso, tra quello che andavaallora di moda e quello che era adatto alla padrona delle Tuileries. Pensavo

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di aggiungere anche uno scialle di cachemire, ma all’ultimo momentocambiai idea. Ebbi un’ispirazione.

In quel periodo, per celebrare la pace tra Inghilterra e Francia, i migliori sartidisegnavano un capo che veniva chiamato spencer inglese, una giaccacortissima, di stile militare, con i bottoni di ottone, che arrivava sopra la vitaed era molto elegante. Ne avevo ordinati parecchi, in blu, grigio e verde.Chiesi alla cameriera di portarmi quello blu e lo indossai sull’abito dimussola, aggiungendo una vivace piuma di airone tra i miei riccioli.

Ero quasi pronta. Guardandomi riflessa nella specchiera, mi trovai pallida.Presi il vasetto di rosso e ne aggiunsi ancora un poco sulle guance smunte.

“No” pensai. “Dirà che porto troppo belletto.” Me lo tolsi in fretta. Ma cosìsembravo grigia, con la pelle priva di calore e di vita. Ne misi ancora unpoco, sperando che fosse la quantità giusta, per non sembraresgradevolmente vecchia senza apparire artificialmente giovane. Era cosìdifficile trovare l’esatto equilibrio!

Sospirando, deposi il vasetto ed entrai coraggiosamente nello spogliatoio diBonaparte.

La sua guardia del corpo in turbante, Roustan, alto, muscoloso, vestitosoltanto di pantaloni alla turca di un rosso vivo, mi guardò con aria furiosa.Io lo odiavo e lui lo sapeva.

«Signore, sono pronta.» Bonaparte voleva che tutti lo chiamassero “signore”,ora che era capo del governo. A me quell’ostentazione sembrava assurda.

Si stava vestendo davanti a un grande specchio a tre luci, con l’aiuto di duevalletti. Si fermò quanto bastava per voltarsi a guardarmi. Gli occhi gli sifecero subito cupi. Conoscevo quello sguardo.

«Toglietevi quella cosa dall’aria inglese.» Tornò a voltarsi verso lo specchioe a concentrarsi sulla sua toletta.

«Se intendete riferirvi alla giacchetta, si chiama spencer, ed è molto dimoda.»

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«Toglietela subito.»

Io sospirai e mi tolsi lo spencer. Sapevo che era inutile discutere con lui.

Mi ignorò mentre finiva di vestirsi e si lasciava controllare dai valletti, cheinfine annuirono, indicando che ormai non si poteva migliorare più nulla.

I valletti stavano appoggiati al muro, cercando di occupare il minor spaziopossibile.

Bonaparte, che non era mai stato vanitoso del suo aspetto, si esaminòattentamente nello specchio. Mi parve di notare un leggerissimo sorriso chegli aleggiava sulle labbra. “Vanità” pensai. “Dopo tutto neppure lui ne èprivo.”

Si voltò verso di me.

«Disgustoso. Nessuno desidera guardare i capezzoli di una vecchia.»

«Ma, signore...»

Lui mi fissava con occhi di ghiaccio.

Io mi girai per andarmene, poi tornai a guardarlo.

«Mi ammirano molto» riuscii soltanto a dire. Una risposta debole, e losapevo.

«Vi adulano molto. E toglietevi quel ridicolo belletto! Sembrate unaprostituta. Che è quasi quello che siete» lo sentii aggiungere tra sé mentre sivoltava verso la vicina scrivania e sedeva, tirandosi davanti una pila didocumenti. «Devo firmare questi dispacci» disse seccamente. «Avete dieciminuti per vestirvi in modo decoroso.»

«Preferirei gettarmi dal tetto.»

«Farebbe piacere a me e a voi, ma dubito che i vostri figli ne sarebberomolto felici. Ora andate e fate quello che vi ho detto.»

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Esitai, prima in bilico su un piede, poi sull’altro. Stavo cercando di farmicoraggio per rifiutare di obbedirgli.

Aveva preso la penna, e, dopo averla immersa nel grande calamaio dicristallo, la asciugò su un nettapenne. Sapeva che ero ancora là. Sospirò.Senza guardarmi, prese il pesante calamaio e lo scagliò verso di me.

Mi colpì allo stomaco, strappandomi un grido. Roustan e i due valletti, cheavevano assistito alla scena, non fecero nulla per aiutarmi. L’inchiostro neromi colava sull’immacolato abito di mussola e sulle scarpine d’argento nuove.Poi si macchiò anche il pesante tappeto turco rosso e oro. Metodicamente,Bonaparte continuò a occuparsi dei dispacci, asciugandoli appena li avevafirmati e mettendoli da parte.

Io uscii correndo, sentendo le scarpe che squittivano sul pavimento, gliocchi accecati dalle lacrime. Corsi lungo gli infiniti corridoi, oltre le lunghepanche dove i valletti attendevano di essere chiamati in servizio, oltre gliappartamenti dove le mie ancelle (dame di compagnia in tutto e per tutto,salvo che nel nome) si erano radunate in piccoli gruppi, pronte ad andare alballo, oltre le stanze di Hortense che erano vicine alle mie, oltre i servitori diguardia alla mia porta.

Gemendo come una bambina, mi gettai nelle braccia spalancate diEuphemia.

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43Appena Hortense e io entrammo da Foncier, e lei incominciò a passare dauna vetrina all’altra con aria inquieta guardando tristemente gli anelliluccicanti, le spille e le collane, compresi che qualcosa non andava.

Era stato annunciato il suo fidanzamento: da settimane facevamo acquisti peril corredo e il suo appartamento adiacente al mio alle Tuileries era ingombrodi scatole traboccanti di gonne di seta e abiti da mattina leggeri comeragnatele, veli di pizzo inglese e pezze di velluto turco e mussola indiana,splendide collane di corallo e perle, e tutti i guanti, le calze, i manicotti, icappotti, i cappellini e i morbidi scialli di cachemire che una ragazza potevadesiderare. Ora era nella bottega del suo gioielliere preferito, Foncier, perscegliere un paio di orecchini da indossare quella sera al ballo del suofidanzamento, e aveva un’aria tristissima.

Andai da lei e la baciai su una guancia.

«Che cosa c’è, mia carissima bambina?»

«Oh, maman...» Distolse il capo cercando di nascondere le lacrime.

Io sorrisi a Monsieur Foncier, che sorvegliava ogni nostro movimento nelsuo negozio.

«In che cosa posso servirvi, signora?»

«Prenderemo questi orecchini» dissi indicando un bel paio di diamanti gialli.«Fateli recapitare a palazzo, per favore.»

«Immediatamente, Madame. E posso aggiungere le mie congratulazioni perla futura sposa?»

Uscii in fretta dal negozio seguita da Hortense. Una volta salite in carrozza,lei si abbandonò al suo dolore e pianse nel fazzolettino di lino color cremacon l’iniziale ricamata, “B” per Buonaparte.

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«Oh, maman, sono così disperata! Pensavo di riuscire ad accettarlo, forseanche di essere felice con lui. Ma non posso! Non posso!»

Battei sul tetto della carrozza e il cocchiere fece schioccare la frusta. Con unoscossone, ci mettemmo in moto, per tornare al palazzo.

«È per Andrew, vero?» chiesi.

Lei annuì. «Mi ha scritto. È a Lione con il suo reggimento. Dice che non sisposerà mai se non può sposare me. Mi augura felicità. Ma non posso averealcuna felicità senza di lui. Ora lo so.»

Parecchi mesi prima, Hortense aveva accettato con sorprendente entusiasmodi sposare il fratello di Bonaparte, Luigi. Bonaparte non approvava la suaamicizia sentimentale con il biondo anglo-francese Andrew Falke. Volevainvece un matrimonio dinastico per Hortense, uno che garantisse la nascitadi un bambino o, meglio ancora, di parecchi bambini, con il sangue deiBonaparte e dei Beauharnais.

“Poiché è ormai chiaro che noi due non avremo mai un figlio, Hortense deveaverne uno per noi” mi aveva detto bruscamente mio marito. Noi, la suafamiglia, eravamo la Prima famiglia del paese. Non eravamo di sangue reale,eppure vivevamo come se lo fossimo. Regnavamo, o piuttosto lui regnava enoi gli obbedivamo, come tutti i suoi sudditi. E, come aveva sottolineato,una Prima famiglia aveva bisogno di una generazione più giovane pertramandare il nome ed ereditare il potere.

Da qui il piano di far sposare Hortense e Luigi Bonaparte. E soltanto oraHortense cedeva al peso del suo dolore.

«Ho visto Luigi una sola volta, maman, la sera in cui ha chiesto la mia mano.Ma so che in lui c’è qualcosa di strano. Perché si chiude in quel castellolontano da Parigi? Perché non viene mai a trovarmi o almeno non mi scrive?Perché ha la pelle così scura e gonfia e piena di segni?»

«Lo vedrai questa sera, al ballo.»

Luigi Bonaparte era diventato un enigma. Un tempo un bel ragazzo, dai modi

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garbati, che si era distinto combattendo al fianco del fratello in Italia, eradiventato un uomo grasso, voluttuoso, dai grandi occhi turbati chedardeggiavano in tutte le direzioni in modo innaturale. Io avevo motivo disapere che cosa nascondeva la sua apparente cortesia. Ricordavo come miaveva abbracciato e offeso nella villa in Italia. Ma speravo che avessesuperato quella dissolutezza giovanile.

Luigi non era andato con Bonaparte in Egitto. Letizia e Giuseppe avevanodeciso di mandarlo a fare un lungo giro in Svezia, Norvegia, nelle terretedesche e infine in Italia. Al suo ritorno dopo molti mesi trascorsi all’estero,si era lamentato di forti dolori alle giunture e si era tenuto lontano dalleriunioni di famiglia, vivendo come un recluso nella proprietà che Bonapartegli aveva acquistato.

«Sapete che cosa mi ha detto, maman?» mi chiese Hortense. «Mi ha dettoche scrive racconti. Racconti di donne che si trasformano in demoni. Diceche tutte le donne sono in realtà demoni, per quanto dolci possanosembrare.»

«Non sapevo che Luigi scrivesse.» Chissà se Fanny conosceva i suoi libri.Tanta gente scribacchiava in quei giorni, gli scaffali dei librai di Parigi eranostracolmi di volumetti di racconti su donne e uomini come gli altri cheincontravano pericoli di mondi diversi e nemici mostruosi. Era nataun’improvvisa passione per il fantastico, non soltanto nei libri, ma anche neiquadri e a teatro.

«Non provi neanche un po’ di affetto per lui?»

Lei scosse lentamente la testa.

«Andrew è l’unico che abbia mai amato. Ho accettato di sposare Luigisoltanto perché speravo che il generale... voglio dire, il console... sarebbestato meno aspro con voi se io avessi sposato suo fratello. Detesto il modoin cui vi tratta.»

Io non dissi nulla, limitandomi ad accarezzarle la mano. Non volevo davveroche Hortense sapesse quanto soffrivo per la crescente durezza di mio marito.Scrivo “durezza” per abitudine; dovrei dire “crudeltà”.

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«E quella donna orribile, quella Bellilotte! Una sgualdrina da taverna! Comepotete tollerare che la porti qui nel palazzo?»

Scrollai le spalle. «È lui che comanda qui. Io sono soltanto un elementodell’arredo.»

«Maman!»

«Faccio del mio meglio per tollerare quello che non posso evitare. Alcuniuomini» continuai, senza sapere bene quanto dovessi dire a Hortense, cheera stata tenuta al riparo dagli aspetti sordidi del sesso «trovano le donne dibassa estrazione particolarmente eccitanti. Le loro mogli aristocratichesembrano opache al confronto.»

«Spero che Luigi non sia così.»

«Tu e Luigi avete un solo obbligo reciproco e verso la Francia. Devi dare unfiglio maschio alla nazione. Due figli maschi sarebbero ancora meglio.»

«Questo lo capisco.»

«Se la cosa può consolarti, immagino che, quando avrete i vostri figli,Bonaparte ti permetterà di vivere separata da Luigi.»

«Ma non con Andrew!» Ricominciò a piangere.

«Andrew avrà una sua famiglia, e per le stesse ragioni. È l’erede di unafortuna, un titolo, una posizione sociale. È un anello tra generazioni diFalke.»

Continuammo in silenzio, mentre la carrozza sussultava e oscillava.

«Quando avevo la tua età, Hortense, ero innamorata di Scipion du Roure,come ti ho raccontato spesso. Avrei voluto essere sua moglie più di qualsiasialtra cosa al mondo. E anche lui era innamorato di me, di quell’amore forte edelirante che solo i giovani conoscono. Ma sia Scipion sia iocomprendevamo, per quanto ragazzi, che avremmo dovuto sposare qualcunaltro. Qualcuno scelto per noi dai nostri genitori.»

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«E per voi le cose sono andate male, madre.»

«Non lo dire. Ho te ed Eugène. Sono molto felice che il matrimonio convostro padre mi abbia portato voi. E anche Scipion è felice. Ho incontratosua moglie Julie più di una volta. È una donna deliziosa e siamo diventateamiche. È stata per lui una moglie eccellente.»

«Ma non la ama proprio, non è vero? Non come io amo Andrew.»

«No. E sia Scipion sia Julie hanno avuto altri amori. Adesso lei è moltomalata. Non si è ripresa dalla nascita dell’ultimo figlio. È stato un partodifficile, mi ha detto Scipion, con un ostetrico incompetente.»

Hortense taceva. Quando parlò, lo fece a voce molto bassa. «Ho paura diquesto, sapete. Di mettere al mondo figli. Di averli. Tante donne muoiono.Tanti bambini muoiono.»

«Dobbiamo farti fare un feticcio da Euphemia. Io portavo un feticcio moltopotente la notte in cui sei nata.»

«Credo sia più importante una buona levatrice.»

«Avrai entrambi. E non dimenticarlo: io una volta ho fatto da levatrice. Hoaiutato a mettere al mondo la piccola Coco.»

«Coco, la cui madre è morta.»

Che cosa potevo rispondere? Hortense era nel giusto. La povera Selene eramorta, di stanchezza e paura e dolore. E io avevo salvato uno dei gemelli diSelene, ma non la madre.

Improvvisamente un’immagine terribile mi attraversò la mente stanca etroppo tesa: l’immagine di Hortense che moriva come era morta Selene,dopo la nascita del bambino. E se la sua vita fosse stata sacrificata sull’altaredella dinastia che mio marito sperava di fondare? Il pensiero mi rendevafuriosa, e nello stesso tempo mi faceva sentire colpevole. Se io avessi datoun figlio a Bonaparte, Hortense non avrebbe dovuto sposare Luigi. Forseavrebbe potuto sposare il suo amato Andrew, sebbene Bonaparte avrebbesenza dubbio cercato di impedirlo.

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I miei pensieri si volgevano in troppe direzioni. Mi sentii prendere dalcapogiro e cercai la cordicella di velluto che pendeva dal finestrino persostenermi. Mi imposi di concentrarmi sul momento presente, la carrozzaondeggiante, le grida nelle strade fuori dai finestrini e il visetto teso e pallidodi Hortense, il viso di una ragazza che si preparava a fare qualcosa di cuiaveva paura, per amor mio.

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44Se Hortense pensava che sposando Luigi Bonaparte mi avrebbe risparmiato imaltrattamenti del mio rabbioso e vendicativo marito, si sbagliava.

In realtà, la sua asprezza verso di me aumentò nei giorni successivi almatrimonio di Hortense.

“Dove credete di andare, sciocca?” mi gridava da un capo all’altro di unasala affollata di gente, se vedeva che mi allontanavo presto dalla riunione.“Vi fermerete sino alla fine della serata come tutti.”

“Non datevi la pena di dirle nulla” affermava ridendo a chiunque cercava diparlarmi seriamente. “Non capirebbe. Sapete come si dice: ‘Poco sale inzucca’.”

Alludeva crudelmente al fatto che ero vecchia, che ero sterile, anche alla miarelazione con Barras, finita da molto tempo. Quando eravamo soli michiamava “sgualdrina” e continuava a dirmi come tutti nella sua cortevolessero vedergli prendere una nuova moglie, giovane e carina.

“E la sto cercando. Oh, sì, la sto cercando. Sento che sto andando in calore”diceva, e allora chiamava Bellilotte, o qualche attrice di facili costumi o unaprostituta, e si chiudeva con lei nella nostra camera da letto per tutto il restodella notte.

Questo era solamente l’inizio. Dopo ogni incontro mi costringeva adascoltare mentre lui descriveva ogni particolare del corpo della donna, ladimensione della fessura tra le gambe, la forma rotonda dei seni, la curva deifianchi, la pelle morbida o ruvida, persino le imperfezioni nelle sue partiintime. Poi mi diceva, senza risparmiarmi alcun particolare, come si erasvolto il loro amplesso, quali suoni lei emetteva, come lui le dava piacere eche cosa lei gli faceva in cambio.

“Vedete?” esclamava togliendosi la giacca e la camicia. “Qui mi ha morsocon i suoi dentini aguzzi quando era in piena estasi. Ah, una donna

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impagabile!”

Io mi coprivo le orecchie, ma lui mi scostava brutalmente le mani e a volteme le teneva strette dietro la schiena mentre mi gridava quali piaceriprendesse, piaceri molto variati, alcuni francamente disgustosi.

Io lo pregavo di smettere, ma lui continuava, provocandomi, fino a quandoio non reagivo e gli gettavo in faccia perfide accuse e ingiurie.

“È un vero prodigio, se si pensa a tutte le vostre prodezze con queste donnedeliziose, che non ci siano in giro decine di piccoli Bonaparte. Ditemi, comelo spiegate?”

Lo faceva infuriare sentirsi ricordare di non aver mai – per quanto nesapesse – messo incinta una donna. Se avesse avuto un figlio bastardo, se nesarebbe vantato giorno e notte.

“È mai possibile che il grande Bonaparte non sia in grado di avere un figlio?Che non sia io a essere in colpa, ma voi?”

Se gli dicevo così, Bonaparte urlava e imprecava e spesso sollevava sedie etavoli, pesanti candelabri di metallo e delicati parafuoco e li scagliava controil muro. Quando questo accadeva, io fuggivo e lui mi gridava che avrebbedivorziato.

Ma poi, tardi, la notte, quando io mi ero barricata nella camera di Euphemia(andavo sempre da lei per essere al sicuro perché sapevo che teneva ungrosso coltello sotto il materasso), sentivo grattare alla porta. Riconoscevo ilsuono. Aprivo e vedevo mio marito pallido e desolato, avvolto in unacoperta.

“Sto male” diceva soltanto. Io lo facevo sempre entrare e lui si stringeva lostomaco. Giaceva con la testa nel mio grembo e io gli massaggiavo il petto ela pancia mentre gemeva, con gli occhi chiusi, e si lamentava: “Nientedottori, niente medicine! Niente dottori, niente medicine!”.

Gli davo da bere olio di gaultheria e dopo molto tempo e molti massaggisentivo che i suoi muscoli si rilassavano.

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“Dov’è adesso la tua Bellilotte?” avrei voluto chiedergli. “Dove sono tutte lealtre impertinenti cameriere di taverna e sporche sguattere? Sono io quella dacui tu vieni quando hai bisogno di conforto. Ma sono anche quella cheprendi a schiaffi e a insulti.”

Continuammo così, con Bonaparte che mi trattava crudelmente, eppure, neimomenti di debolezza, si aggrappava a me, mentre Hortense si preparava adare alla luce il suo primo figlio.

Perfidi pettegolezzi dicevano che in realtà Hortense aveva in grembo il figliodi Bonaparte e non di Luigi. Io vissi avvolta da questa nube umiliante (pursapendo molto bene che i pettegolezzi erano falsi) durante i mesi della suagravidanza, finché, nel tardo autunno del 1802, lei diede alla luce mio nipote,Napoleone Luigi Carlo.

Il bambino, piccolo, rosso, che si agitava nella sua culla dorata, era l’erededei Bonaparte. La speranza della Francia, come lo chiamava mio marito.Baciò Hortense e le fece dono di una collana di diamanti grandi come uovadi piccione, che era appartenuta un tempo alla regina Maria Antonietta.

Al battesimo non ebbi un posto d’onore. Ero dietro la folla di dignitari,dietro tutti i parenti di Napoleone, i funzionari di corte, i maresciallidell’esercito e gli ammiragli nelle loro uniformi dorate e con le medaglielucenti. Di me si poteva fare a meno.

Si poteva fare a meno di me per quanto riguardava la successione, maservivo ancora a qualcosa.

In un centinaio di modi, ogni giorno, svolgevo il mio ruolo di moglie delPrimo Console, con abilità e grazia, o così mi dicevano spesso. Quando imembri del numeroso personale del palazzo venivano da me a rivolgermidomande (quanti ospiti ci sarebbero stati alla cena nella galleria di Diana? Sidoveva usare la porcellana di Sèvres blu o quella scarlatta con i bordi viola?Dalla fontana doveva sgorgare vino di Borgogna o di un’altra qualità? IlPrimo Console avrebbe voluto avere ciliegie accanto al letto come sempre, opreferiva un altro frutto, dal momento che spesso le ciliegie gli facevanomale allo stomaco?), io rispondevo sempre in modo concreto servendomidel buon senso.

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Non soltanto dovevo risolvere i dilemmi dei cuochi e del ciambellano, maanche occuparmi di delicate questioni di precedenza (chi dovesse entrarenella sala da pranzo e in quale ordine) e di abbigliamento (a un certo punto,non ricordo esattamente quando, scelsi giacca nera e calzoni per gli uominidi preferenza alla giacca azzurra e al panciotto scarlatto). Era mio compitodecidere la natura delle molte riparazioni di cui il palazzo aveva bisogno eordinare di ridipingere le pareti sfigurate da scritte rivoluzionarie. Alcunedelle centinaia di stanze andavano semplicemente chiuse a chiave e ignorate.Portavano ancora le brutte ferite e le tracce della violenza rivoluzionaria esarebbe stato troppo costoso rimetterle a nuovo.

Bonaparte si aspettava che io riportassi in vita l’eleganza e le buone manieredell’antica corte, e così insegnavo alle giovani donne a fare la riverenzamolto bassa, come si usava prima della Rivoluzione. Riportai in auge ledanze di un tempo, i tavolini con il tappeto di feltro nella sala da gioco,anche le sedie basse sulle quali gli spettatori si sedevano a cavalcioniosservando i giocatori di picchetto o di backgammon. Tutto era quanto piùpossibile autentico, tenendo conto della mia consueta pigrizia (sì, loammetto) e della mia scarsa conoscenza della corte di un tempo. Avevosaputo che la regina Maria Antonietta aveva drappeggi di seta leggera nel suoboudoir e ne ordinai alcuni uguali per ornare le pareti. Quando una dellecameriere più anziane scoprì, in un baule in solaio, un bel piumino di vellutoe taffettà, consunto, e dichiarò che quella coltre aveva un tempo ricopertol’immenso letto a baldacchino della regina, lo feci accuratamente pulire e lomisi sul mio letto, anche se, quando lo mostrai a Bonaparte, lui lo definì unvecchio straccio e rise di me perché lo usavo.

C’è una cosa in cui sono sempre stata molto brava: ricordo i nomi dellepersone. Alle numerose serate, tè e ricevimenti potevo presentare fra loroospiti di ambienti assai diversi (perché alla corte consolare c’era una granvarietà di gente) senza sbagliarmi sui nomi o i titoli, e spesso mi trovavo alcentro di un gruppo eterogeneo: una venerabile duchessa dei tempiprerivoluzionari, un anziano debosciato della cerchia di Paul Barras, unbrillante giovane ufficiale con i pantaloni attillati e la spada scintillante, eun’aristocratica inglese, di quelle che Bonaparte chiamava “fredde eorrende”, che ricordava di aver fatto visita a Voltaire nella sua proprietà diFerney e di avere ammirato i lunghi colli di cigno delle cameriere.

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Mi sentivo a mio agio in mezzo a compagnie tanto diverse, perché le mieesperienze di vita erano state straordinariamente varie. Così sapevo ascoltarecon pazienza mentre un anziano generale narrava delle sue battaglie contro iturchi, ridere allo scherzo su un goloso collerico che era morto per avermangiato troppe fragole, sembrare offesa (pur non essendolo) quando siparlava di un nobile che faceva l’amore con i suoi camerieri e annuire conaria esperta se qualcuno osservava che il re di Danimarca frequentavabordelli.

Un’ora dopo l’altra, elegantemente vestita (o così credevo, a dispetto delleacide opinioni di Bonaparte), stavo ad ascoltare pettegolezzi, adulazioni,osservazioni banali e a volte un velato insulto, sempre con il mio sorrisosereno e benevolo stampato sulle labbra.

Cenavo con testina di maiale e ostriche, manzo arrosto ripieno di pollo, unaraffinata portata dopo l’altra, sempre consapevole che mio marito era moltolontano, all’altro capo della tavola immensamente lunga, e corteggiava epalpava le donne che faceva sedere accanto a sé.

Ero utile, ero piena di decoro, sapevo come essere una buona padrona dicasa. Molta gente pensava (o lo diceva) che ero graziosa, quanto meno dauna certa distanza. Bonaparte non dormiva più nella mia camera, se non inoccasioni rarissime, sebbene venisse a grattare alla mia porta quando i doloriallo stomaco erano particolarmente forti. Non mi voleva più, ma avevabisogno di me. O forse, semplicemente, non aveva ancora trovato ilcoraggio di gettarmi via.

«Guardate» mi disse una mattina dopo avermi fatto chiamare nel mio studio.«Mi trovo in una posizione difficile. Tra poco sarò elevato al rango diimperatore dei francesi. In futuro, prima o poi, dovrò sposare unaprincipessa, una donna di sangue reale, affinché insieme possiamo dare vitaa un bambino che regnerà sull’Europa. Intendo regnare sull’Europa, questocerto lo sapete.»

«Tutti lo sanno, signore.»

«Non ho ancora il coraggio di ripudiarvi. Non so perché, ma non posso.Finché sarete obbediente e vi terrete lontano da me e accetterete la nostra

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separazione di fatto e la mia completa libertà, sono pronto a fare di voi lamia imperatrice. Ma soltanto per qualche tempo. Quando verrà il momento,dovrete rinunciare alla vostra posizione e accettare un divorzio. Avetecompreso?»

«No, non comprendo. Perché non divorziate adesso» replicai senza riuscire atrattenere le lacrime «e non trovate in seguito un’imperatrice?»

Lui tese le braccia e mi strinse a sé. «Perché non posso. Non posso. Nonancora. Non forzatemi. Accettate il patto e lasciate che io vada verso il miodestino.»

Crollai, piansi, ma finii per accettare. Non sapevo quanto sarebbe durato equanto mi sarebbe stato sgradevole, ma ero pronta a diventare imperatricedei francesi.

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45Oh, quante tragedie fecero quelle mie terribili cognate! Come cercarono dirovinare il giorno del mio trionfo, il giorno della mia incoronazione!

Per settimane e settimane assediarono Bonaparte, una dopo l’altra, andandoda lui e facendogli paternali (mi sembrava di sentirle), gridando che nondoveva permettere a quella moglie svergognata e infedele di stargli accantoin una cerimonia religiosa e di ricevere il sacro crisma dal papa in persona.

Equivaleva a lavare tutti i miei peccati, dicevano.

La bella Paolina, ora più altezzosa che mai perché era la moglie di unprincipe italiano (il primo marito, il generale Leclerc, era morto), la grassaElisa, lei stessa principessa di una cittadina in Italia, e l’insopportabileCarolina, che si dava importanza come moglie del generale Murat (che le erainfedele) e rifiutava perfino di guardarmi, tanto era piena di sdegno edisgusto.

E c’era anche la moglie di Giuseppe, Julie, proveniente da una famigliapiuttosto umile del Sud della Francia, che non era antipatica come le altre,ma, influenzata dal marito, insisteva anche lei perché venissi esclusa dallacerimonia.

Era tutto così inutilmente melodrammatico, erano tutte così malevole neimiei confronti! L’unica consolazione era l’assenza della mia spaventosasuocera Letizia, rimasta a Roma, lontana da tutto, dopo aver detto al figlioquanto fosse furiosa con lui perché non aveva divorziato da me anniaddietro. Per Letizia, il successo politico di Bonaparte non aveva importanza.L’importante era che non aveva una vera famiglia, con figli suoi, e unamoglie obbediente e remissiva. Una moglie corsa che Letizia avrebbe sceltoper lui.

Se non altro, rimase lontana il giorno dell’incoronazione, anche se sarebbevenuta a Parigi poco dopo, creando i soliti guai.

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Il mio abito per l’incoronazione era bello. (Ci aveva vestiti tutti un solocreatore di moda, come se fossimo i personaggi di uno spettacolo.) Di rasobianco tutto ricamato di scintillante oro, argento e diamanti. Sottili ramoscellidi pizzo salivano dalle maniche e dallo scollo, creando un effetto fatato.Sull’abito indossavo un mantello di velluto scarlatto, bordato di ermellino,che doveva pesare una cinquantina di chili. Il mantello aveva unlunghissimo strascico, e quando a Paolina e alle altre venne ordinato direggerlo, esplosero come furie.

Non era già abbastanza vergognoso, disse Elisa al gran ciambellanoincaricato di organizzare la cerimonia, che loro dovessero camminare dietrodi me? Loro, rispettabili mogli fedeli obbligate a cedere il passo a unasgualdrina regale che, come tutti sapevano, danzava nuda nei salotti diParigi. (Le storie della mia condotta sfrenata nei giorni del Direttorio si eranoingigantite con il passare degli anni.)

Non ci si poteva attendere che si avvilissero fino a portare il mio strascico.No, non lo avrebbero fatto e non c’era altro da dire.

Il ciambellano lo riferì al maestro di cerimonia, il conte de Ségur, che loriferì a Bonaparte il quale si infuriò e gridò contro le sorelle e Julie. Lorocedettero e portarono il mio strascico in modo vendicativo, tirandolomaliziosamente e rischiando di farmi perdere l’equilibrio. Sfogavano la lororabbia verso di me a ogni occasione; mi camminavano sui piedi; Paolinaaddirittura mi spinse, alle prove, lanciandomi occhiate velenose echiamandomi “vecchia megera”. Non avrebbero potuto essere più puerili eodiose. Bonaparte era particolarmente indispettito perché proprio allora,circa una settimana prima dell’incoronazione, aveva preso una nuova amantee passava le notti con lei.

Conoscevo i segni: sbadigliava tutto il giorno, sbrigava in gran frettadocumenti e dispacci e si inondava di una doppia quantità di acqua dicolonia Dumarsay. I suoi appartamenti erano infestati da un terribile odore dimuschio. Non potevo varcare la porta del suo studio senza tossire e sentirmisoffocare.

Ma questa non era una relazione come le altre. Aveva sedotto la bellafidanzata bionda di Eugène, Élisabeth de Vaudey, lasciando mio figlio

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disonorato e con il cuore infranto.

Cercai di dire a Eugène che quello era un colpo diretto a me, non a lui, e cheBonaparte spesso faceva il possibile per ferirmi attraverso i miei figli,sapendo quanto li amavo. Ma Eugène era inconsolabile e deluso, perché erasempre stato fedele a Bonaparte e sapeva – lo sapevamo tutti – che lui loamava come un figlio.

Fu un giorno molto freddo quello dell’incoronazione, con gli alberiappesantiti dalla brina e una neve leggera che cadeva fuori dalla cattedrale diNotre-Dame, dove una folla scelta accuratamente attendeva, rabbrividendo,che l’orchestra cominciasse a suonare e la cerimonia iniziasse. Era il 2dicembre, i venditori di caldarroste si scaldavano le mani sulle stufe davantialla chiesa e la Senna era bordata da un orlo di ghiaccio.

Quando scendemmo dalla carrozza ed entrammo, tutta la congregazione sialzò e cominciò ad applaudire, mentre la musica saliva potente verso la vastavolta dell’antica chiesa. Sentii il profumo dell’incenso, di fumo di legna, e ilfortissimo odore dei sali di Julie (che aveva avuto uno svenimento) mentreprendevo il braccio del giovane e bel valletto incaricato di scortarmi ecominciavo a camminare lungo la navata centrale, le scarpette cheaffondavano nel nuovo tappeto scarlatto.

Camminavo a fatica, afferrandomi al braccio della mia scorta, perché lequattro donne invisibili alle mie spalle continuavano a tirare lo strascicofrenandomi. Erano state istruite in modo che camminassero all’unisono, manaturalmente non lo facevano. Il passo goffo di Elisa non si accordava conquello leggero di Julie, e Paolina, concentrata su se stessa, seguiva un passotutto suo, come aveva sempre fatto alle prove, felice dell’attenzione cheattirava la sua bellezza e indifferente al compito che le era stato assegnato.

Mio marito era molto regale nell’abito di pesante raso bianco ricamato d’oro,con una lunga frangia dorata. Portava una corona d’alloro che gli davaun’aria antica, e quando si muoveva scintillava per le centinaia di gioielli cheindossava. Mi sembrò che avesse l’aria assonnata e sbadigliò incontinuazione durante tutta la messa cantata. Riconobbi tra gli spettatoriÉlisabeth de Vaudey, Eugène, seduto lontano da lei e con l’aria cupa, eHortense, avvolta in un abito di lana nera per ripararsi dal gran freddo. Stava

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per avere il secondo figlio, e io mi chiedevo se, con tutta l’eccitazione e lasolennità dell’incoronazione, non rischiasse di sentire le prime doglie inchiesa.

Luigi non le sedeva accanto. La sua misteriosa malattia si era aggravata e miavevano detto (perché nessuno, tranne Hortense, i suoi medici e un’altrapersona, poteva vederlo) che la sua pelle era diventata una massa di vescichemaleodoranti, inclusa la pelle dentro il naso. Camminava come un ubriaco,dicevano, non controllava l’equilibrio e doveva usare due bastoni perriuscire ad andare dalla camera da letto al soggiorno. Pareva che i medici locurassero con arsenico e bismuto, le medicine tradizionali per quello che noifrancesi chiamiamo “il male inglese”, la terribile malattia che i soldatifrancesi prendono andando con le prostitute inglesi.

Era sorprendente che potesse concepire dei figli, date le sue condizioni.Teneva Hortense lontana da me nel loro palazzo in Olanda (Bonaparte loavrebbe presto fatto re d’Olanda) e non le permetteva nemmeno discrivermi, così conoscevo assai poco della sua vita con lui. Euphemia erariuscita tuttavia a sapere, attraverso le cameriere di Hortense, che Luigi avevacomunicato a sua moglie, subito dopo la cerimonia nuziale, di essereinnamorato di un’altra donna e che quest’altra donna, una borghese, vivevaa palazzo e compariva spesso alla sua presenza.

Avevo molte ragioni per essere triste nel giorno della mia incoronazione,sebbene facessi il possibile per dimenticarle e per ignorare il gran freddonella cattedrale. Osservai che Bonaparte era molto pallido nelle tre ore circain cui rimanemmo in chiesa e mi chiesi se lo stomaco lo facesse soffrire,come accadeva spesso nelle occasioni solenni. Nella sua impazienza spinse ilcardinale che stava alla destra del papa con il suo scettro, esortandolo adaffrettarsi nel preparare il sacro crisma con cui dovevamo essere unti.

Ci inginocchiammo e l’olio ci venne versato sulle mani e sul capo. Furonobenedette le due corone di perle e diamanti che stavano davanti all’altaremaggiore, poi, discostandosi improvvisamente dal cerimoniale, Bonaparte sialzò e sollevò in alto la più grande delle due, quindi, molto lentamente e conun gesto teatrale, se la depose sul capo.

Il significato del gesto apparve chiaro a quanti partecipavano alla cerimonia.

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Il papa Pio VII era venuto da Roma per mettere la corona sul capo diNapoleone, proprio come, un migliaio di anni prima, era successo con ilgrande Carlo Magno. Ora Bonaparte stava annunciando al mondo che nongli era necessario l’intervento del santo padre, che era imperatore per dirittopersonale e per il suo potere, non per grazia di Dio e della Chiesa.

Era un gesto molto ardito, sacrilego. Provai vergogna, sebbene a quel puntofossi così stanca che tutti i miei sentimenti erano attutiti. Osservai mentreBonaparte prendeva la corona più piccola, la mia; se la appoggiò sul capo,poi se la tolse e la mise a me, sopra il diadema di diamanti, aggiustandolacome se fosse una modista che portava a palazzo un cappellino nuovoperché io lo provassi.

Un altro atto sacrilego, pensai.

Infine arrivò il momento cruciale della cerimonia. Bonaparte e io iniziammoa salire le decine di gradini che portavano ai due troni dorati su una pedanain fondo alla chiesa. A quel punto avevo davvero bisogno che misorreggessero lo strascico, perché i gradini erano ripidi e il mantello bordatod’ermellino pesante come il piombo. Si fece silenzio quando iniziammo asalire, una simbolica ascesa al potere, a un’altezza al di sopra dei comunimortali. Si sentivano soltanto i nostri passi e di quando in quando un colpodi tosse dalla congregazione infreddolita.

L’odore dei sali di Julie era forte quando iniziai a salire, ma presto siindebolì, e nello stesso momento sentii che il mantello si faceva più pesante.Mi voltai indietro e vidi che nessuna delle mie cognate mi reggeva lostrascico. Erano immobili ai piedi della scala di legno e guardavano fissodavanti a loro. Non alzarono un dito per aiutarmi. Nessuno lo fece.

Bonaparte, con quanti gli reggevano lo strascico del pesante mantelloscarlatto, aveva già incominciato a salire verso il trono ed era troppo in altorispetto a me perché potessi chiamarlo.

Compresi allora con terribile chiarezza che ero completamente sola e che, senon mi fossi tolta il pesante mantello, non sarei potuta salire al mio trono.

Poi, di colpo, sentii che il mantello mi veniva sollevato dalle spalle e una

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voce disse: «Seguite vostro marito, signora, sono dietro di voi».

Dove avevo già sentito quella voce? Confusa ma grata, cominciai a salire ecompresi, con un sollievo tale che quasi mi tremarono le ginocchia, chequalcuno era venuto in mio soccorso.

Soltanto quando giunsi sulla pedana e presi posto accanto a Bonaparte sultrono dorato, vidi chi era il mio salvatore. Christian de Reverard, l’uomo cheaccendeva le candele nella sala da ballo delle Tuileries, nella suaelegantissima livrea blu e oro. Mi sorrise, si chinò per sistemarmi il mantellodrappeggiato attorno ai piedi, e anch’io gli sorrisi.

Poi, con uno squillo di trombe e un rullio di tamburi, l’orchestra cominciò asuonare un inno trionfale e la folla nella cattedrale gridò: «Vivat imperator inaeternum! Lunga vita all’imperatore!».

Alzandomi per ricevere l’acclamazione, mi sostenni al trono mentre lamusica esplodeva attorno a me, e l’eco riecheggiava nella grande chiesa, unbattesimo di suono per l’inizio del regno di mio marito. Adesso eraNapoleone I, e io, Rose Tascher della Martinica, ero l’imperatriceGiuseppina, che arrossiva, sorrideva, aveva le vertigini a quell’altezza epiangeva.

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46Un uomo senza gambe attendeva l’imperatore quasi ogni giorno davanti alpalazzo, con una giacca militare tutta stracciata e calzoni strappati emacchiati. Era miserabile, lercio, sperduto e palesemente indigente.

Bonaparte si era abituato a vederlo e lo cercava ogni giorno, turbato quandonon era presente.

“Ecco, buon vecchio, bevi alla mia salute” gli diceva tendendogli unamoneta o due; oppure: “Ecco, buon vecchio, mettiti al caldo. Trovati unastanza”.

Io gli sorridevo sempre perché vederlo mi commuoveva profondamente,come senza dubbio commuoveva Bonaparte, e, quando ci incontravamo,l’uomo si toccava il cappello sporco in segno di rispetto.

Era presente davanti all’ingresso delle Tuileries, era presente a Milano,quando Bonaparte venne incoronato re d’Italia, e di nuovo a Magonza,quando le guerre ricominciarono e la Grande Armée, appena costituita,sconfisse gli austriaci. Era davanti alle mura di Vienna quando la carrozza diBonaparte passò e di nuovo a Parigi per la celebrazione della grande vittoriacontro i prussiani a Jena.

A volte non lo vedevo, perché nei primi mesi dopo l’incoronazione erospesso costretta a letto dai miei terribili mal di capo che sembravanopeggiorare con il passare degli anni. I viaggi li aggravavano, e Bonaparteinsisteva perché viaggiassimo sempre insieme, sostenendo che non erasicuro della mia fedeltà se mi avesse lasciata sola nella mia amataMalmaison.

Il medico mi dava il calomelano e cercava di farmi venire delle vescichesulla nuca per calmarmi il dolore. Ma non poteva curare la vera causa deimiei mal di capo: la paura che provavo. Paura della terribile collera diBonaparte, paura del veleno (Letizia era tornata da Roma con un farmacistaitaliano, e tutti sapevano che i farmacisti di quel paese erano noti per i loro

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veleni mortali), paura che Giuseppe cercasse nuovamente di provocare lamia morte. E paura che si avvicinasse il giorno in cui Bonaparte mi avrebbedetto che dovevo accettare il divorzio, e, con esso, la povertà e la solitudine.

E intanto c’era l’uomo senza gambe, la nostra ombra, l’incarnazione dellapovertà e della solitudine, perché era evidentemente senza un soldo e nonpoteva muoversi. Era presente ogni giorno e ogni giorno Bonaparte losalutava cortesemente e io gli sorridevo; poi ci allontanavamo.

Un giorno non lo vedemmo.

Bonaparte notò la sua assenza, inarcò le sopracciglia e poi oltrepassò laconsueta folla di spettatori in attesa e salì in carrozza. Io lo seguii – ora cheera imperatore, dovevo camminare venti passi dietro di lui – e cercai invanol’uomo senza gambe.

Mi scoprii a interrogarmi sulla sua assenza e ad augurarmi di avere unaspiegazione. Mandai Christian – che, dopo l’incoronazione, era diventatouna sorta di mio factotum, sempre al mio fianco per aiutarmi quando altrinon lo facevano – ai cancelli del palazzo a cercare il povero veterano, pervedere se aspettava là e dargli una moneta. Ma Christian tornò scuotendo ilcapo, e io mi coricai in preda a una strana desolazione.

Per due giorni continuai a provare ansia, sperando che al pover’uomo nonfosse accaduto nulla. Il terzo giorno, di sera, mentre sedevo ricamando altelaio accanto alla finestra nel mio piccolo boudoir, sentii una voce venire dafuori: «Yeyette».

Mi voltai nella direzione da cui proveniva il suono.

Conoscevo quella voce, la conoscevo quasi meglio della mia.

Era appoggiato al muro di pietra sotto la mia finestra, le braccia conserte, losguardo intenso anche alla distanza che ci separava. Alla luce della torciafissata al muro, notai che indossava la stessa giacca militare stracciata e icalzoni strappati che gli avevo visto ogni giorno, e teneva lo stesso sporcocappello nero in mano, ma le gambe erano sane e il viso non era più il visomiserevole di un vecchio veterano, ma il viso dell’amore.

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«Donovan!»

Aprii la finestra e corsi sulla terrazza, incurante del freddo, dimenticando,nella mia gioia, di guardare se erano presenti le spie che Bonaparte pagavaper sorvegliarmi. In un istante ero tra le sue braccia, la mia bocca sulla sua,che sapeva di vino e spezie. Sentii il mio corpo che si fondeva con il suocome aveva sempre fatto, le sue braccia forti che mi circondavano, la suacara, calda guancia non sbarbata contro la mia.

«Donovan, eri tu, tutto questo tempo?»

«Naturalmente!» rispose ridendo.

«E non sei davvero ferito?»

«Neanche un graffio. Anche se una o due volte sono stato calpestato dallafolla che aspetta di vedere te e il tuo celebre marito.»

«Presto, prima che ti vedano!» Lo spinsi dentro il boudoir e chiusi lafinestra, accostando le tende. Lo condussi nella prima delle tre piccolecamere adiacenti alla mia dove aveva abitato Hortense prima del suomatrimonio con Luigi, stanze che venivano ancora tenute pronte per lei,sebbene Luigi non le permettesse più di venire al palazzo. Sedemmo nelsoggiorno buio, tenendoci le mani, parlando piano.

«Nessuno ci troverà qui» dissi, emozionata, eccitata alla prospettiva dinascondere qualcuno, come una bambina che stia giocando. Da anni non misentivo così viva.

«Non ci sarà una caccia all’uomo?»

«Sì, oh, sì!» Ero felice. «Ma non penserebbero mai di cercare qui.»

Lui mi accarezzava il braccio mentre parlavamo. Aveva dita morbide, calde,quasi senza peso. Tesi la mano per toccargli il viso. Quel viso che avevotanto desiderato, giorno dopo giorno, notte dopo notte, per anni.

Soltanto ascoltarlo respirare e parlare, sentire le sue dita che mi sfioravano ilbraccio nell’oscurità era un piacere indescrivibile.

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«Sei il solo in cui credo ormai» dissi e poi ci baciammo e giacemmo insiemesul grande divano, amandoci con una passione tanto più urgente perchésentivamo passi dietro il muro e voci che chiamavano. La servitù si chiedevadove fossi andata. Io mi rannicchiai tra le sue braccia, sicura nell’oscurità, ecompresi di non essermi sentita sicura da molto tempo.

Tra le braccia forti di Donovan non ero più un’imperatrice; ero una donnapreziosa per qualcuno, senza età, vibrante di vita e ricca di sentimento. Ilpesante mantello della responsabilità mi scivolò dalle spalle: indossavo ifreschi abiti leggeri di una donna amata, bella, giovane e libera.

Più tardi, quando Donovan se ne era andato e io ero tornata nel boudoir, miguardai nella specchiera, stupefatta di vedere non il mio consueto viso teso eil corpo rotondo, materno, ma una ragazza in fiore, il viso radioso, la pelleluminosa, il corpo snello e agile. Ero tutta calore e vita, come un giardinoappena bagnato dalla rugiada, in cui le piante assetate volgono le foglieverso la pioggia che le inumidisce. Chiusi gli occhi e mi immaginainuovamente alla Martinica, nella foresta pluviale, con gli alberi dalle grandifoglie che mi esplodevano di vita attorno. Il profumo forte delle fogliecadute, la terra umida, i fiori della giungla si stringevano a me, e mi sentiicome rinata.

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47I miei mal di capo erano spariti. I medici erano stupefatti, la mia servitù,soprattutto quelli che mi avevano visto soffrire tanto per anni, eranofrancamente sbalorditi. Soltanto Euphemia, guardandomi gli occhi lucenti eosservando il mutamento nel mio umore e nel mio aspetto, indovinò laverità.

«Dunque è tornato, vero?» chiese a bassa voce.

«Sì, ma devi mantenere il segreto» sussurrai guardandomi attorno per vederechi potesse essere in ascolto. «Nessuno deve saperlo.»

Lei sorrise. «Il vostro viso lo rivelerà a tutti.»

Parecchie ore dopo Euphemia tornò da me.

«Dove abita?»

«Ovunque possa rifugiarsi un uomo senza gambe, immagino.»

«Continuate a promettermi una piccola villa per me alla Malmaison» disseEuphemia «adesso che sto invecchiando.»

In realtà non sapeva quanti anni avesse, perché la madre non le aveva maidetto l’anno della sua nascita, ma immaginavamo che dovesse essere vicinoai sessanta, e il suo viso rugoso e le borse sotto gli occhi attestavano la suaetà avanzata.

«Forse è tempo che teniate fede alla vostra promessa. Lui potrebbe abitarecon me.»

Era un’ottima idea. Bonaparte non veniva spesso alla Malmaison e quandolo faceva si recava soltanto nella casa e nelle terre adiacenti, non nei grandigiardini o nei campi di grano o nei vigneti, o negli ovili in cui tenevo le miepecore merino, o nel porcile (detestava i maiali) o negli specchi d’acquadove i miei cigni neri nuotavano sereni tra le ninfee.

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Dissi a Bonaparte che intendevo costruire un piccolo villaggio come quelloche Maria Antonietta aveva edificato a Versailles, e che desideravo ospitarvila servitù quando invecchiava.

«Bene» disse con un gesto della mano che toglieva importanzaall’argomento, alzando appena lo sguardo dai documenti che aveva sullascrivania. «Vi terrà occupata.» Vale a dire: “Vi impedirà di ossessionarmiparlando delle mie amanti”.

Con il capo architetto delle Tuileries disegnammo un piano per un piccolovillaggio di dodici villette, da costruirsi su uno sfondo boschivo attorno auno specchio d’acqua. Vi avrebbero trovato posto una cappella, una stalla,un maniscalco e un piccolo negozio. I lavori cominciarono subito e nel girodi un mese la prima villetta, una grande costruzione di mattoni con quattrocamere da letto e un capanno per gli attrezzi da giardino, era quasicompletata. Euphemia vi si trasferì, e nello stesso periodo anche Donovan lofece in segreto, occupando una camera pensata espressamente per lui, conuna botola nascosta che portava all’esterno.

Gli altri abitanti del villaggio, appena occupavano le villette, si sentivano direche Euphemia aveva accettato di ospitare un povero veterano delle guerre.Esprimevano simpatia e, stranamente, scarsissima curiosità. Vivevano la lorovita e lasciavano che Donovan vivesse la sua.

Bonaparte era impegnato nella sua nuova impresa: battere la più recentecoalizione di nemici che si erano levati contro la Francia.

Per sconfiggerci, la Prussia, l’Austria e la Russia si erano alleate con il nostroantico nemico, la Gran Bretagna. La coalizione era imponente, ma, comeBonaparte non si stancava di dire, era il suo destino affrontare e distruggereogni nemico della Francia.

«Conquisterò tutta l’Europa» disse. «È il mio destino. Ma voi, Giuseppina,rimarrete qui e costruirete il vostro piccolo villaggio. Non posso portarvi conme dove devo andare questa volta. Dovrò muovermi troppo in fretta. Voirallentereste il mio percorso con i vostri mal di capo e i vostri lamenti.

«Pensate» continuò strofinandosi le mani grassocce, la guancia sinistra che si

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contraeva in un tic nervoso. «Berlino, Varsavia, Vienna, anche Londra... tuttesotto il dominio francese, e presto. Non esiste una forza tanto grande dafermarci. La Francia è invincibile. Io sono invincibile.»

Ascoltavo appena le sue parole. Pensavo a Donovan, a come ci sarebbe statopossibile stare insieme, un giorno dopo l’altro, una notte dopo l’altra, allaMalmaison.

«La notizia vi fa piacere, vedo» disse Bonaparte guardandomi attentamenteper la prima volta. «State molto bene. Non sembrate vecchia.»

«Vi ringrazio, sire. Deve essere perché attendo con gioia di sapere dellevostre grandi vittorie.»

Così Bonaparte andò in guerra e io cominciai a trascorrere quasi tutto iltempo alla Malmaison con Donovan.

Eravamo discreti, ed Euphemia, che mi aveva a lungo esortato a lasciare laFrancia per tornare alla Martinica e vivere con Donovan, ci proteggeva. Nondestava sospetto che trascorressi tanto tempo nella villetta di Euphemia: tuttisapevano quanto affetto avessi per lei e quanto fossimo da sempreinseparabili. Né destava sospetti che il veterano ospite di Euphemia venissenella casa principale, nella mia casa, perché si sapeva che viveva della miabeneficenza (avevo fatto in modo che questa notizia si diffondesse), e iospesso mantenevo soldati e marinai impoveriti, madri senza marito o senzaprotettori maschili e diversi sventurati della vicina città di Rueil. Venivoconsiderata una benefattrice locale. Mi chiamavano “la buona Giuseppina” eio spesso ne ridevo, pensando alla mia reputazione, ad alcuni avvenimentidel mio passato.

Donovan e io trascorrevamo lunghe ore insieme, amandoci, tenendoci stretti,dividendo i pasti e parlando, rivelandoci tutto quello che avevamo fatto epensato da quando lui aveva lasciato Parigi tanti anni addietro.

«Penso spesso a quale terribile errore sia stato sposare Bonaparte invece ditornare alla Martinica con te» gli dissi. «Lo rimpiango ogni giorno.» Glinarrai della crudeltà di Bonaparte e dello strano legame che ancora ci univa,a dispetto di tutte le turbolente vicende del nostro matrimonio. «A volte mi

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dice che ha bisogno di me. Sono il suo portafortuna, afferma, l’unica chesappia dargli conforto quando è malato o turbato. So che in modo perversomi ama, anche se vuole farmi del male. E adora Eugène. Lo ha adottatoformalmente. Il mio Eugène è adesso Eugène Napoléon di Francia, principedell’impero.»

«Ricordo come Eugène venerasse il generale quando era ragazzo» replicòDonovan con un sorriso indulgente.

«Eugène aveva bisogno di un padre. Bonaparte ha svolto quel ruolo.»

«E tu, Yeyette, avevi bisogno di un marito. E sapevi che non potevo offrirti ilmatrimonio.»

Chinai il capo. «Sì» dissi quietamente.

«Dunque hai fatto la scelta giusta. Non potevi sapere com’era davveroBonaparte. Lui stesso non si conosceva. Cambia quanto più acquistapotere.»

«E come detesto tutto questo! Essere sua moglie, dover sopportare le sueamanti, camminare venti passi dietro di lui...»

«Essere imperatrice di Francia.»

«Lo sai che questo per me non conta nulla.»

«Ti piace essere padrona della Malmaison. Se fossi venuta con me allaMartinica, non saresti stata padrona di nulla.»

Si alzò dal divano dove eravamo seduti e si diresse al camino. Il focolareardeva luminoso; a volte un ramo, bruciando, si spezzava con un colposecco, lanciando in alto una pioggia di scintille arancione. Con il viso versoil fuoco, voltandomi le spalle, Donovan continuò.

«Quando sono tornato, ho trovato la mia piantagione nelle mani di schiaviribelli. Tutta la canna era stata bruciata, la casa distrutta. Non avevo nulla.Ero sperduto, come un naufrago! Mi nascosi nella foresta. C’erano deifuorilegge, neri e bianchi insieme. Per qualche tempo mi unii a loro.»

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Tacque. Quando riprese, aveva la voce tesa; comprendevo che quanto mistava rivelando doveva essere assai doloroso per lui.

«Sono arrivati gli inglesi, ancorando la flotta nel porto di Fort-Royal. Eranoloro a comandare, non trovarono opposizione, ma avevano troppo pochiuomini per controllare l’interno dell’isola. Nessuno aveva veramente ilcomando. Era stato tanto a lungo così! Ero uno sciocco a credere che la miapiccola piantagione potesse sopravvivere in mezzo al caos. Bonne Fortune!Che nome ironico!» Fece una risata amara. «C’era un ufficiale inglese, ilcapitano Jack Mowat, che una notte mi avvicinò davanti a una taverna.Erano tre giorni che non mangiavo. Dovevo sembrare uno scheletro. “Venitea mangiare qualcosa” mi disse. Parlava male il francese, ma io riuscivo acapirlo. Sembrava gentile. Non ero nella posizione di rifiutare quello chechiedeva. Dopo aver mangiato e bevuto, mise una borsa di monete sultavolo in mezzo a noi. “Vi piacerebbe lavorare per me?” chiese. Io erostupito, ma non risposi. “Un uomo come voi può esserci utile a Parigi. C’èuna nave nel porto che può condurvi a Le Havre stanotte.”»

«Voleva che tu facessi la spia per gli inglesi.»

«Sì.»

«Che andassi contro la tua patria, la tua gente.»

«No.» Donovan si voltò per guardarmi e venne a sedermisi nuovamenteaccanto. «Non ti ho parlato di me, delle mie origini.»

«No.»

«Non sono nato alla Martinica» disse prendendo la mia mano tra le sue.«Sono nato in Irlanda, a Dundreary. Alla nascita mi chiamavo DonovanBrown.»

«Come mia nonna, Catherine Brown. Dunque siamo...»

«Lontani cugini, forse. Ho dei ricordi vaghi dell’Irlanda. Non ho maiconosciuto mio padre. Mia madre morì quando ero molto piccolo e unuomo, che diceva di essere mio zio, ma non so chi fosse davvero, mi portò

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con sé a bordo di una nave. Affermava di chiamarsi Jean de Gautier. Cosìdiventai Donovan de Gautier. Credo di avere avuto circa quattro anni.

«Mi prese con sé. Sembrava stessimo sempre in mare. Non so quale fosse lasua attività: un pirata, un mercante, forse entrambe le cose. Credo che mitenesse per amore di mia madre. C’erano battaglie. Un giorno morì, non diferite ma di malattia. Ci fu una bonaccia. Il caldo era insopportabile. Nonsopravvisse. Gli portavo l’acqua da bere, infinite tazze d’acqua, ma luidiventava sempre più debole. Quasi tutti morirono. Era terribile. L’odore,oh, l’odore... ho ancora degli incubi. Poi passò una nave francese e salvòquelli tra noi che erano ancora vivi. Ricordo la voce del capitano chetuonava sul ponte. “Venite a bordo, venite a bordo! Siamo qui persalvarvi.”»

Scossi la testa, incredula. «Che storia terribile!» esclamai. «Che provespaventose!»

«La nave francese ci portò alla Martinica e ci lasciò là. Da allora sonosempre stato solo.»

«E ancora non sai chi sei davvero.»

«Sono Donovan Brown.»

«Pensi che Jean de Gautier fosse in realtà tuo padre?»

«Non so, non ci somigliavamo. Aveva gli occhi chiarissimi, come miamadre. I miei sono castani.»

«Dunque quando ti ho veduto la prima volta eri un orfano che viveva solo.Cercavo sempre di immaginare chi fossi. Portavi i vestiti di un Grand Blanc,ma erano abiti vecchi, consunti. E non sembravi il figlio di una famiglia diGrands Blancs.»

«Non appartenevo a nessuno. Vivevo nelle strade di Fort-Royal. Aspettavofuori dalle panetterie, e alla fine della giornata la moglie del fornaio mi davadei panini. Combattevo contro avvoltoi e cani randagi per strappargli unpezzo di carne. Ho imparato a custodire i cavalli per qualche moneta. Stavo

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con una banda di ragazzi, quasi tutti mulatti. Ho imparato il francese, un po’di ibo e di caraibico. Ricordavo qualcosa di gaelico, ma non me ne servivomai. Sentivo sempre di dover appartenere ai Grands Blancs. Volevodiventare soldato, spadaccino. Mi esercitavo contro gli altri ragazzi, nellestrade, con i bastoni.»

«Come sei venuto ai Trois-Îlets?»

«Un giorno ho visto tua nonna in un negozio. L’ho sentita parlare con alcuniinglesi. Aveva l’accento che ricordavo dalla mia infanzia. Mi faceva pensarea mia madre e alla casa perduta. Sentii che viveva ai Trois-Îlets. Così andailà, e poi ti vidi.»

Era il discorso più lungo che mai avessi sentito fare a Donovan. Spiegavamolte cose.

«La cara nonna! Era sempre così franca, così impertinente!»

«Da questo punto di vista sei un po’ come lei.»

Sorrisi. «Lo spero... un poco. Ma dimmi, perché ora mi riveli tutte questecose?»

Invece di rispondere, mi strinse tra le braccia e mi baciò, a lungo e conamore.

«Perché devo lasciarti Yeyette. E presto. E forse non ti rivedrò mai più.»

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48Partì pochi giorni dopo. Mentre si preparava, raccogliendo le sue cose conl’aiuto di Christian, mi disse la ragione della sua fretta e mi rivelò il piano incui sperava di svolgere un ruolo vitale.

«Quello che vi dico ora è noto a pochissimi. Non dovete rivelarlo anessuno.»

«Naturalmente no» rispondemmo io e Christian all’unisono.

«Voi sarete protetti per il semplice fatto che nessuno sospetterà di voi. Ladolce, confusa, generosa imperatrice e il suo fedele servitore: nessunoimmaginerebbe che abbiate informazioni importanti, utili per i nemici dellaFrancia.»

«È perché sono un buon francese che vi aiuto» disse con fermezza Christian.«Sono un sostenitore del vero sovrano, Luigi XVIII, nella sua corte aVarsavia, e non di questo falso imperatore Napoleone che si è creato da sé,che non ha sangue reale, ma crede di dominare la terra.»

«Molti la pensano come voi, Christian. Un giorno re Luigi regnerà. Ne sonocerto.»

Il vecchio re, Luigi XVI, aveva lasciato un figlio quando era stato giustiziato,ma il ragazzo era morto in prigione. Il suo diritto al trono era passato allo zioStanislao, che aveva preso il nome di Luigi XVIII.

Io non mi ero mai interessata di politica. Avevo osservato, si intende, ilfluire e il defluire del potere, e a volte mi ero adoperata per orientare questoflusso in una direzione o in un’altra, ma il potere in sé non mi aveva maiattratto.

Che i re dovessero regnare mi sembrava naturale e giusto. Dopo tutto, inFrancia la monarchia esisteva da secoli. I re erano una razza a parte, nata pergovernare gli altri. Ma ora, ai nostri giorni, per la prima volta, il potere dei re

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era stato messo in discussione, sfidato e infine deposto. Ora sembrava che adover governare fosse l’uomo più forte, il più ricco o quello che faceva piùpaura.

Bonaparte aveva semplicemente preso il potere. Lo aveva rubato. O cosìsembrava a me, mentre cominciavo a pensare con serietà all’argomento. Piùriflettevo, più comprendevo che tutto in Bonaparte era falso: i suoi titoli, ilsuo diritto alla sovranità, le cerimonie che inventava per far colpo sulpopolo. Era una finzione. E anch’io lo ero, parte di quella falsa facciata.

Le sue vittorie militari non erano false, certo; erano autentiche. Ma la suaautorità di comandare un esercito non era legittima. Si basava sul furto, ilfurto della legittima autorità regale sottratta a Luigi XVI e ora in possesso diLuigi XVIII.

Comprendevo che quel mio modo di pensare era molto semplice, eppure misembrava ci fosse del vero. E se Donovan era pronto a battersi per la causadella monarchia, allora dovevo farlo anch’io.

Ascoltai attentamente tutto quello che mi disse Donovan nell’ultima nottetrascorsa insieme. Sedevamo davanti al fuoco, bevendo vino eabbandonandoci a una calma sonnolenta. Ci offrivamo a vicenda icioccolatini preferiti di Donovan, quelli chiamati “capezzoli di Venere”.Nessuno ci disturbò nelle lunghe ore notturne.

«Ricorderò questa notte» disse Donovan, mentre io abbandonavo la testa sulsuo petto. «Il calore, il conforto, la sensazione di averti vicino. La porteròcon me nelle notti a venire.»

«Dove sarai?»

«In Portogallo. Poi, se avremo successo, probabilmente in Spagna.»

«E se non avrete successo?»

«Allora non saprai più nulla. Saprai che sono... irraggiungibile.»

Mi strofinò dolcemente la guancia con le dita.

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«Dobbiamo fermarlo, sai. È necessario, prima che divori tutto quello che ci ècaro. Da solo non si fermerà mai. Non sarà mai soddisfatto.»

«Hai sentito che ha esiliato i suoi nemici politici alle Seychelles? A cortechiamano questa purga il “Piccolo Terrore”. È una ripetizione del GrandeTerrore, quello sotto Robespierre che ricordo così bene.»

«Allora, se io scompaio e non hai notizie dal Portogallo, puoi mandarequalcuno alle Seychelles a cercarmi.»

Si alzò per mettere un ciocco nel fuoco e tornò a sedersi.

«Gli ho sentito dire che intende conquistare il mondo» osservai.

«Non è soltanto una vanteria. L’ultima notizia che ho avuto dal capitanoMowat è che in questo momento Bonaparte sta progettando di spartirsil’Asia con lo zar Alessandro. Hanno disegnato delle mappe che mostranocome intendono dividersi il continente. Hanno firmato alleanze e trattati.»

«I cinesi potrebbero rifiutarsi di farsi governare da un corso» osservaisorridendo. «Hanno già un imperatore, se non mi inganno.»

«E non dimenticare l’India. Per il generale sarebbe un bel problemasconfiggere gli inglesi in India. E l’India mi ricorda» aggiunse «una vecchiapoesia che ho sentito recitare una volta, sull’amore, su rubini trovati pressoil Gange e su un corteggiamento che continuerebbe per sempre, se soltantoci fosse mondo e tempo a sufficienza.»

Lo abbracciai.

«Adesso sembra che sia la guerra a continuare per sempre» dissi infine.

«Non per sempre. A essere sinceri, ci sono alcuni generali francesi cheproprio in questo momento stanno cospirando contro Bonaparte.»

«Quali generali?»

«Meglio che tu non ne conosca i nomi. Ma sono molto attivi. Lavorano perminare l’autorità di Bonaparte con i soldati. Lo definiscono un tiranno. Lo

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chiamano il “sultano”. Anche membri della sua famiglia ormai danno ascoltoai dissidenti.»

«Come?»

Donovan annuì. «Incluso il tuo vecchio nemico Giuseppe.»

«Non posso crederlo.»

«È vero. Dicono che Bonaparte stia cercando un modo per rassicurareGiuseppe e conservarsene la lealtà.»

Avevo riflettuto sulla politica; ora mi trovavo di fronte uno dei suoi aspettipiù torbidi: il problema di come conservare la lealtà degli altri.

«Bonaparte mantiene la propria posizione attraverso la paura. Ma con lafamiglia, la paura non è la motivazione più forte. Deve esserci un legame disangue, un legame così saldo che nulla può distruggerlo.»

«Avevo sempre creduto che i Buonaparte fossero inseparabili, che sarebberorimasti uniti a qualunque costo.»

«Giuseppe può essere convinto. È invidioso del successo del fratello piùgiovane, e l’invidia porta alla rivalità e alla malizia.»

La nostra lunga, bella notte insieme cedette infine il passo alla prima lucerosata dell’alba. Donovan indossò in fretta il suo travestimento, infilandosigli abiti miserandi e il cappello nero del veterano senza gambe, spargendosiun leggero strato di cenere grigia sul viso per sembrare più vecchio e malatoe portandosi i capelli sulla fronte perché apparissero scarmigliati.

Christian arrivò per aiutarlo a salire sulla piccola piattaforma a rotelle con laquale era solito muoversi e a sollevare le valigie. Un carro lo aspettava allimitare del bosco per portarlo a Dieppe, dove era stata organizzata la suatraversata per l’Inghilterra a bordo di una barca di pescatori. Dall’Inghilterraavrebbe quindi raggiunto la spedizione in Portogallo.

Ci abbracciammo con fervore un’ultima volta. Io baciai la sua guanciacoperta di cenere.

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«Se soltanto potessi restare!» non riuscii a non dirgli.

«Il soldato è l’unica cosa che so fare, Yeyette. Questo è quanto posso offrire.Lo offro volentieri, ma con un cuore diviso, perché una parte di me rimanequi, con te.»

«E una parte di me se ne va con te, mio carissimo Donovan.»

Si allontanò nell’incerta luce dell’alba, lungo il sentiero che costeggiava illago ed entrava nel fitto boschetto, figura miserevole, invisibile nella suauniforme consunta, uno dei molti feriti delle guerre, un veterano senzagambe che faceva il possibile per rimanere in vita in giorni difficili.

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49Il mio amatissimo nipote Carlo giaceva nel lettino che gli avevo preparatoalla Malmaison, un giaciglio degno di un principino, con aquile dorate allatesta e ai piedi. Il sudore gli colava dai capelli biondi sulla fronte e negliocchi, e il suo bel viso era acceso dalla febbre, eppure mi sorrideva quandogli bagnavo la fronte con un panno umido e gli spingevo indietro i capellimadidi.

Era molto ammalato da una settimana. Appena avevo ricevuto il messaggiodi Hortense dall’Aia in cui mi diceva che Carlo era malato, avevo ordinato lacarrozza più veloce e leggera delle scuderie imperiali ed ero corsa in Olandaa prendere lei e il bambino. Suo marito Luigi si era comportato in modomolto strano, diceva Hortense, e le era necessario allontanarsi da lui conCarlo al più presto.

Luigi aveva cominciato a chiudersi in una camera buia giorni e giorni perscrivere le sue storie che non finivano mai, rifiutando di vedere un medicoper la sua malattia che si aggravava ogni giorno di più e proibendo achiunque di visitare il figlio malato. Il disprezzo per il marito era evidentenelle parole di Hortense. Lo descriveva come una pustola ambulante, pienodi vesciche, incerto sulle gambe doloranti, la vista sempre più debole el’umore sempre più minaccioso. A stupire maggiormente, diceva, era latotale, incrollabile devozione verso i suoi racconti. Niente altro contava, néla sua salute né quella del figlio, né il suo regno, certamente non il suomatrimonio. Voleva soltanto essere lasciato tranquillo per scrivere.

Carlo cominciò a tossire e non riusciva a fermarsi. Hortense e io loaiutammo a mettersi seduto, gli battemmo sulla schiena, gli parlammo condolcezza, gli demmo da bere tè col miele, sapendo bene che niente lo aiutavae che peggiorava continuamente. Ogni volta che tossiva sputava sangue, econ il sangue un denso fluido verde che emanava un odore terribile.

Mandai a chiamare il medico che mi aveva aiutato dopo la mia caduta aPlombières, il dottor Morel. Aveva modi rasserenanti, sebbene ricordassiquanto fossero state inefficaci le sue cure quando soffrivo atrocemente dopo

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la caduta. Sembrava molto più vecchio ora, più robusto e rosso in viso.

«Altezze reali» disse arrivando alla Malmaison, inchinandosi a turno a noidue, poi andando immediatamente al capezzale del piccolo Carlo. «Il ragazzoè stato salassato?» chiese, dimenticando i titoli nella sua ansia per il piccolopaziente.

«Sì» rispose Hortense. «Gli ho aperto una vena io stessa appena l’ho sentitocaldo. Sapevo che aveva la febbre.»

Hortense mostrò al medico l’incisione che aveva praticato nell’incavo delbraccino di Carlo segnato da cicatrici.

«Questa vena è già stata aperta» disse esaminando attentamente la ferita.«Più di una volta.»

«Carlo è stato spesso malato. Suo padre non permette che alcun medicovenga a palazzo. Così pratico io stessa il salasso. Sono convinta» aggiunse«che Carlo e suo fratello siano spesso malati perché sono vicini a miomarito, che si aggrava ogni giorno di più.»

Il medico guardò Hortense. «Di quale malattia soffre?»

Hortense mi guardò, ma io non avevo consigli da darle. Nessuno nellafamiglia Buonaparte aveva mai ammesso che Luigi avesse il male inglese,ma era chiaro a tutti. La vergogna legata a quella malattia era molto forte, ildisonore per la famiglia enorme.

«La malattia che nessuno vuole nominare» disse coraggiosamente Hortense.

«Capisco. Ho curato molti pazienti con questo innominabile male. Ditemi,vostro marito fatica a tenersi in equilibrio quando cammina?»

«Sì.»

«E ha uno sfogo molto grave con vesciche infette?»

«Sì.»

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Lui annuì. «Immagino che la vista gli si stia indebolendo e che sia dipessimo umore.»

«Le vostre ipotesi rispondono a verità, dottore.»

Mise la mano sulla fronte calda di Carlo. «Da quanto tempo ha questafebbre?»

«Circa nove giorni.»

«Riesce a prendere cibo?»

Hortense scosse il capo e cominciò a piangere piano.

«Altezza reale, se la cosa può confortarvi, non credo che vostro figlio abbiala malattia del padre. Quella malattia colpisce le donne di facili costumi e gliuomini che le frequentano. È incurabile. Vostro marito morirà giovane.»

«Dottore, dovete essere così franco? Vedete pure come è sconvolta miafiglia.»

«Maestà imperiale, in fatto di malattie, è sempre meglio dire la verità. Nonnasconderla mentendo o renderla più accettabile usando termini inesatti. Laverità è la verità.»

Avevo paura che il medico dicesse bruscamente la verità su Carlo: che nonsarebbe sopravvissuto. Ne ero certa. Certa come se gli avessi predetto ilfuturo.

La mia tristezza a questa prospettiva era grande, ma non quanto quella diHortense. Carlo era il suo preferito, il primogenito. Pensavo a quantosarebbe stato terribile il mio dolore se avessi perduto Eugène. Il mio caroEugène, che si era sposato di recente e mi aveva fatto dono di una nipotinache portava il mio nome, la piccola Giuseppina. Tenevo un ricciolo dei suoifini capelli infantili vicino al cuore.

Ma mi ingannavo su quello che avrebbe detto il dottor Morel. Dopo averattentamente visitato Carlo, prese un pacchettino dalla sua borsa e lo diede aHortense, dicendole di mescolarne il contenuto con vino annacquato e di

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versarlo piano, goccia a goccia, nella bocca di Carlo.

«Ha un sapore gradevole, non lo rifiuterà. Ma non dateglielo troppo in fretta,o lo stomaco potrebbe non assorbirlo affatto. Tornerò domani mattina»concluse e, con un inchino, si congedò.

Rimanemmo accanto al letto di Carlo, ora sedute insieme a vegliarlo, orariposando sul divano. Euphemia e Coco ci raggiunsero e vegliavano loro ilmalato quando noi riposavamo.

Coco era una bella ragazza, con la pelle appena più scura di quella diEuphemia. Diventava donna in fretta, le braccia e le gambe si allungavano, ilviso perdeva la rotondità infantile. Sebbene le avessi detto chi erano i suoigenitori, non conosceva i particolari della storia: come la relazione di miopadre con Selene avesse turbato la famiglia alla Martinica e come sua madrefosse morta nella ribellione degli schiavi. Le avevo detto soltanto che miopadre aveva amato Selene che era stata una bella donna. Non sembravanecessario aggiungere quanto fosse stato dannoso il cattivo carattere diSelene o quanto lei fosse stata astuta. In questo senso Coco non era comesua madre: era più riflessiva, più generosa, ed era proprio tipico di lei esserein ansia per Carlo, il cugino che amava.

Il dottor Morel ritornò il mattino dopo come aveva promesso. EsaminòCarlo mentre Hortense e io eravamo vicine, in febbrile attesa della suadiagnosi, scrutandogli il viso nel tentativo di leggere la sua espressionegrave.

Quando finì di visitarlo, ci raggiunse. Aveva un’aria rassegnata e Hortensemi strinse la mano con apprensione.

«Care signore, ora vi parlerò non come un medico parla di consueto ai reali,ma come qualcuno che ha tanto rispetto per entrambe da dire onestamente lapropria opinione. Il ragazzo è molto grave.» Hortense soffocò un singhiozzo.«Possiamo fare qualche sforzo, se volete, con le sanguisughe e altri salassi,ma se il ragazzo fosse mio figlio o mio nipote, lo tratterei con dolcezza e glilascerei abbandonare quietamente questo mondo.»

Le lacrime mi caddero sul viso mentre continuava.

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«Onestamente, non credo che possa tornare in salute; può soltanto esserecostretto a vivere qualche terribile giorno in più, soffrendo, con la mentesempre più confusa. Alla fine non lo conforterà nemmeno avervi vicino.Pregheremo che Dio gli dia salute. Ma raccomando di non fare nulla perprolungare la sua debole vita.»

Hortense mi lasciò la mano e corse fuori dalla stanza.

«Vi lascio questi oppiacei» disse il dottore prendendo parecchi pacchettidalla borsa. «Lo aiuteranno a dormire. Sapete dove raggiungermi se aveteancora bisogno del mio aiuto.»

Riuscii a mormorare i miei ringraziamenti, ma avevo il cuore pesante come ilpiombo. Andai a cercare Hortense e provai a confortarla.

È difficile per me ora ricordare quello che accadde nei giorni successivi. Soche mi sforzavo di mangiare, di fare il bagno e di rispondere quando laservitù veniva da me per gli ordini quotidiani. Pensai di far avvertire Luigi,ma Hortense si disse certa che non sarebbe venuto. Con l’aiuto di Christianriuscii a compilare un dignitoso bollettino per la circolare di corte,annunciando che Luigi Napoleone Carlo, nipote dell’imperatore di cuiportava il nome, era in cattiva salute. Un messaggero venne inviato aVarsavia dove Napoleone aveva la sua corte per informarlo dell’imminentetragedia. Ma sapevo che il messaggio non lo avrebbe raggiunto in tempo.

Alla fine non potemmo fare altro che sedere al capezzale di Carlo,osservando la sua vita che se ne andava. Gli cantavamo ninnenanne ecanzoni infantili ed Euphemia ripeteva preghiere nella lingua ibo. Cocosomministrava diligentemente a Carlo la medicina calmante che il dottorMorel ci aveva lasciato e ogni tanto gli toccava la fronte e gli cambiava labiancheria. Ammiravo la sua devozione e non potei fare a meno di notareche cominciava a tossire anche lei e che sulla fronte si formavano perle disudore che le cadevano sulle guance.

Quando si tenne il funerale di Carlo, Coco bruciava di febbre, e io chiamainuovamente il dottor Morel.

In quei giorni terribili soffrii due volte, quando il mio caro nipote mi fu

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portato via e di nuovo quando Coco, la piccola che avevo fatto nascere tantianni addietro, lo seguì nella tomba. Carlo venne portato nel regno di suopadre per essere seppellito, ma Coco, la mia sorellastra, che non aveva maiavuto un vero nome né una casa che non fosse la mia, fu seppellita nellacappella alla Malmaison, sotto un piccolo monumento di pietra che dicevasemplicemente: “Diletta figlia delle isole”.

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50Si stava avvicinando per me il momento di farmi da parte. Lo comprendevodal modo in cui mi trattavano i cortigiani, in cui la mia prima dama d’onore,l’altera duchessa de la Rochefoucauld, anziana e sdegnosa, che dimostrava ilsuo disprezzo per me con ogni movimento della gonna di seta pesante, conogni sguardo di sotto le sopracciglia rade. Come se lei fosse la veraimperatrice e io soltanto un’impostora!

Era più vecchia di me e ci conoscevamo dai giorni – ormai così lontani – incui ero una giovane sposa appena arrivata dalla Martinica e Alexandretrascorreva molto tempo con suo marito. Io allora ero una goffa provincialeche parlava francese con un forte accento creolo, non aveva istruzione e sisentiva in imbarazzo in società, sebbene non mi ci fosse voluto poi tanto pertrovare il mio posto.

La duchessa, appartenente all’antica aristocrazia e di nascita molto più nobiledi me, mi guardava dall’alto in basso e la offendeva il fatto che io fossi statainnalzata al rango di imperatrice. Come tutti gli altri a corte, sapeva cheBonaparte avrebbe presto divorziato da me e avrebbe sposato unaprincipessa, una donna di sangue reale; quindi non meritavo più rispetto eonore.

La duchessa, con il suo atteggiamento altero, diede il via a tutte le mie dame,che mi guardavano con sdegno, mi servivano e si occupavano di mepigramente. Con Bonaparte lontano, in Polonia, poi in Spagna e in Austria,non c’era nessuno a rimproverare la servitù e i funzionari ribelli della miacasa.

Venivo servita male ed ero oggetto di molta scortesia, circondata da genteche mi disprezzava, ansiosa di liberarsi di me.

Data l’ansia estrema che provavo, temevo anche di poter essere avvelenata,affinché Bonaparte, vedovo, potesse scegliere una moglie di sangue reale.Non avevo mai dimenticato il complotto di Giuseppe per uccidermi. (Comeavrei potuto, quando avevo dolori cronici alla schiena e alle gambe per la

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mia terribile caduta?) Niente sarebbe stato semplice come far scivolarearsenico o un altro veleno nel mio cibo. Tutti dicevano che gli italiani eranomolto abili in questo. Non ci sarebbero stati sospetti, quanto meno nonespressi esplicitamente. Suggerire che l’imperatrice era stata avvelenatasarebbe stato tradimento, e nessuno avrebbe voluto essere oggetto di unasimile accusa, perché l’imperatore inviava ancora alle Seychelles i traditori,dei quali non si sapeva più nulla.

Due nobildonne polacche in visita a Parigi portarono da Varsavia notiziedella relazione di mio marito con una graziosa bionda diciottenne di nomeMaria Walewska.

«Ma è di sangue reale?» chiesi.

«No. È nobile, ma non ha sangue reale.»

“Ah” pensai “allora sono al sicuro. Non la sposerà.”

«Dicono però che la ami molto, altezza imperiale» osservò con un sorrisovelenoso la più giovane e graziosa delle due polacche. «E abbiamo sentitoche intende prendere una nuova moglie. Una che gli possa dare dei figli.»

«I figli sono un dono di Dio» ribattei gelidamente. «E voi quanti ne avete?»

«Io... ecco... adesso...»

«Ha avuto soltanto aborti, altezza imperiale» ammise la più anziana «ma èancora tanto giovane da poter avere figli.»

«Se si affretta» dissi squadrandola dall’alto al basso come per determinare lasua età e valutandola sfavorevolmente.

Era una conversazione troppo simile alle altre in cui mi trovavo coinvolta inquei giorni, uno scambio di offese. Mi sembravano più tediose cheoffensive, eppure, più a lungo Bonaparte rimaneva a Varsavia, più la genteparlava della sua relazione con la bella e giovane contessa, più io diventavoansiosa.

«Ha un marito, questo è vero» annunciò la duchessa de la Rochefoucauld

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alle dame del mio seguito, avide di ogni minima informazione su MadameWalewska «ma è molto vecchio, ha più di settant’anni. E lei sta chiedendo laseparazione.»

«Davvero?» replicai. «Perché soltanto una separazione? Perché non undivorzio?»

«Il divorzio non è ammesso nella Polonia cattolica» fu la risposta stizzosa.

«Ma in Francia sì, eppure anche noi siamo cattolici.» Ci fu un mormorio trale mie dame, una reazione inevitabile quando si affrontava quell’argomento.

La duchessa si voltò verso di me facendo ondeggiare la gonna. «Comevostra maestà imperiale sa, i diritti della Chiesa sono un argomento sul qualesua santità e il nostro imperatore hanno raggiunto un compromesso.»

«Come il compromesso tra l’adultera Madame Walewska e la sua coscienza»esplosi.

Una risatina attraversò la sala, e molte dame si nascosero la bocca dietro ilventaglio.

«L’adulterio non è un argomento adatto alla discussione» disse acidamente laduchessa. «Posso suggerirne un altro?»

«Ma naturalmente, Madame. E quale potrebbe essere? La lealtà forse? Lagentilezza? Il rifuggire da pettegolezzi offensivi?»

Tuttavia non si riusciva a mettere a tacere le chiacchiere sulle relazioni diBonaparte, dal momento che avrebbero potuto riguardare tutta la corteimperiale, il giorno in cui lui avesse trovato la donna che intendeva sposaree mi avesse abbandonato. Quando quel giorno fosse giunto, e non potevaessere molto lontano, il mio seguito sarebbe stato sciolto e la nuovaimperatrice avrebbe scelto chi doveva servirla. Si sarebbero perdute eguadagnate posizioni a corte, sarebbero cambiate le condizioni. Frattanto sidiffondevano e si discutevano animatamente le notizie che provenivanodalla Polonia.

Ma io, nella solitudine dei miei appartamenti privati, avevo un segreto che

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nessuno conosceva: le lettere di Donovan.

Arrivavano nei nascondigli più improbabili. A volte un sarto consegnava unabito di lamé con una sottogonna in cui una tasca nascosta era piena di fogli.A volte veniva recapitato a palazzo per me un cesto di meloni e nella foderatrovavo una lettera. Il mio lupo russo, Mitka, aveva un collare con unoscomparto per portare piccoli pacchetti; accadeva che vi trovassi una lettera.Non sapevo mai quando avrei potuto ricevere un messaggio, ma arrivavanospesso, e con ognuno di essi io sentivo rinascere la speranza.

Mia Yeyette,

sono con te in tutti i miei pensieri. Non dubitarne mai. Siamo inPortogallo vicino alla costa. Il nostro comandante lord Wellesley è unuomo forte come una roccia. Io sono nella fanteria leggera delleHighlands, ma andrò presto, travestito, in Spagna. Brucia questa letterae prega per il tuo Donovan!

Non molto tempo dopo un altro messaggio mi informava che era arrivato inSpagna.

Saresti molto sorpresa se mi vedessi, Yeyette. Ora sono travestito daprete irlandese e mi nascondo in un villaggio montano. Gli spagnoli mioffrono rifugio. Odiano il Grande Satana (come chiamano Bonaparte) evogliono vederlo sconfitto. Odiano i francesi. Si dice che Bonaparteverrà a Madrid. Sei nel mio cuore.

Presto a corte si parlò soltanto della Spagna. Bonaparte aveva lasciatoVarsavia e Maria Walewska e aveva marciato su Madrid, dove il suo esercitoaveva conquistato la città e attaccato gli inglesi invasori. La notte nonriuscivo a dormire, tanto ero in ansia per Donovan. Non conoscevo il nomedel suo villaggio e nemmeno in quale provincia si trovasse. I suoi messaggisi erano fatti più rari. Scriveva di imboscate e incursioni a cui prendevaparte, della necessità di rubare il cibo per sopravvivere, di assalti notturni edi pericolosi scontri con gli squadroni francesi. All’avvicinarsi dell’inverno,ricevetti il biglietto più breve avuto sino ad allora, scritto con manotremante.

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Carissima Yeyette,

la tua immagine è sempre davanti ai miei occhi. Ho tanto freddo e nonc’è niente da mangiare. Ho bisogno di te.

Donovan

Ero sempre attenta a bruciare i messaggi che ricevevo, ma questo non riusciia distruggerlo. Sentivo che poteva essere l’ultima lettera che avrei mai avutoda Donovan. Timorosa, lo piegai fino a farne un minuscolo quadratino e lonascosi nell’amuleto che Euphemia mi faceva portare attorno al collo perchémi proteggesse. Promisi di non togliermelo mai.

Non molto tempo dopo venne da me Christian, agitatissimo. Presiedevo unacerimonia a corte, ma riuscii ad allontanarmi dicendo che non mi sentivobene. Mentre lasciavo la sala, sentii che molti occhi mi seguivano, curiosi eperplessi.

«Che cosa c’è, Christian?» chiesi quando ci trovammo soli. «Si tratta diHortense?» Hortense si stava riprendendo dal parto, avendo dato alla luce unaltro figlio che aveva chiamato Carlo Luigi Napoleone.

«No, vostra altezza imperiale. Sono notizie dalla Spagna. Notizie tragiche.»Si guardò attorno per accertarsi che non fossimo osservati, e aprì una tendavicina per vedere se vi si nascondesse qualcuno. Non c’era nessuno. «C’èstata una battaglia terribile in un luogo chiamato La Coruña. Bonaparte haimpiegato tutti i suoi uomini per attaccare gli inglesi, che avevano sofferto lafame l’intero inverno. Gli inglesi si sono battuti coraggiosamente, ma nonavevano più pallottole. Non si sono mossi dalle loro posizioni, difendendosicon le baionette. Molti sono morti. Gli altri sono andati sulla costa e sonostati salvati. Deve essere stato uno spettacolo incredibile: tutti quei soldatiaffamati che venivano portati sulle navi da guerra con barche da pesca,derive, barche dei contrabbandieri, qualsiasi cosa stesse a galla.»

Scosse la testa, come se non potesse credere all’immagine che stavadescrivendo.

«E Donovan?» Avevo la voce soffocata. Riuscivo appena a parlare.

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«Non lo so. Non ho informazioni. Ma non c’è ragione di disperare. Forsenon era con l’esercito. Il suo compito era sabotare i francesi e raccogliereinformazioni. Non combattere. È un uomo abile. Uno che sopravvive.»

«Nel suo ultimo biglietto mi diceva che moriva di fame.»

«Non so nulla, maestà imperiale, davvero non so nulla. Dobbiamo sperareche presto arrivino notizie migliori. Frattanto l’opposizione a Bonaparte stacrescendo. Anche nell’esercito e qui a corte. Dicono che sarà costretto adividere il suo esercito, che deve battersi su troppi fronticontemporaneamente. Adesso lascia la Spagna per combattere gli austriaci.Appena lui se ne andrà, gli inglesi invaderanno di nuovo.»

Tornai nel salone dove la cerimonia era ancora in svolgimentoappoggiandomi al braccio di Christian. Mi sentivo scossa, i miei passi eranoincerti.

«Coraggio, imperatrice» mi sussurrò Christian. «Siate coraggiosa.Combattete con la baionetta.»

Sorrisi. Ma quando la cerimonia finì, e l’ultimo degli ospiti e dei cortigiani siera inchinato allontanandosi dal salone, mi sentii un gran vuoto dentro.Sebbene la cerimonia fosse stata lunga e io non avessi mangiato da ore, nonavevo appetito. Ero inquieta, stordita. Come se tutti i miei pensieri e i mieisentimenti mi avessero abbandonato.

Mentre tornavo nei miei appartamenti, percorrendo il labirinto dei corridoiin quel grande palazzo, vidi un messaggio scritto con la vernice nera su unmuro scrostato. Barcollai per il colpo. Diceva: “Imperatrice di niente”.

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51Indossavo un abito bianco per il mio divorzio. Un abito molto grazioso:numerosi strati di mussola finissima raccolti nel corpetto scollato chemetteva in rilievo il mio seno, con maniche a palloncino all’ultimissimamoda. Portavo un velo, simile a un velo da sposa. L’abito aveva unostrascico ornato di pizzo, ma questa volta non ci sarebbe stata nessunaBuonaparte, come all’incoronazione, a reggerlo. Questa volta ero sola.

Erano presenti quasi tutti i Buonaparte, nella sala del trono illuminata dallecandele, per la cerimonia del divorzio. Se ne stavano là malignamentecompiaciuti, dopo aver concluso la loro lunga campagna per liberarsi di me.Paolina, bellissima nella sua maturità, eppure così brutta e dispettosa dicarattere; Carolina, untuosa e compiaciuta; l’odiosa Elisa, che era in urto conBonaparte per il titolo e le terre, sempre più avida; Luigi, con il visopustoloso praticamente nascosto sotto un cappello floscio di velluto dallalarga tesa abbassata, seduto perché non poteva rimanere in piedi più di unminuto sulle gambe malferme.

Giuseppe non era presente. Era a Madrid, nel tentativo di ristabilire l’ordinenel suo regno sconvolto dalle sommosse. E non era presente neppure la miaterribile suocera Letizia, fortunatamente. Mi avrebbe irritato e sconvoltovederla tra i suoi figli, con i suoi occhi d’acciaio, ostile, con il perennelavoro a maglia nero tra le mani, che si faceva il segno della croce emormorava una preghiera ogni volta che veniva pronunciato il mio nome.

C’era anche il mio caro, dolce Eugène, ma come assistente di Bonaparte, noncome colui che potesse sostenermi e confortarmi. Era in piedi accantoall’imperatore, suo padre adottivo, in attesa di potersi rendere utile. Era ilprincipe Eugène ora, dovevo ricordarlo, marito e padre (la moglie Augusta,che mi piaceva molto, era una principessa bavarese), un eroe di guerra feritoe decorato e uno dei comandanti più apprezzati da Napoleone. Era diventatoun bell’uomo, di cui ogni madre sarebbe stata fiera. Ma quel giorno tremava,e le mani erano malferme mentre tendeva a Bonaparte i documenti deldivorzio, il corpo scosso da una tale agitazione che temevo potesse avere uncolpo apoplettico.

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Era un uomo diviso; la sua lealtà verso Bonaparte era forte, il suo onore diufficiale irreprensibile. Faceva il suo dovere, obbediva agli ordini. Eppure lasua lealtà e il suo amore verso di me non avevano confini, e oggi gli venivaordinato di partecipare al procedimento che avrebbe fatto di me una donnadivorziata.

Vergogna, dolore, pietà e una macchia indelebile: ecco che cos’era ildivorzio. Da questo momento sarei stata una donna abbandonata, indisgrazia, ed Eugène stava per collaborare alla mia disgrazia. Non era stranoche tremasse.

Stavo in piedi davanti a un tavolo dove erano appoggiati i documenti che miscioglievano legalmente da mio marito. Bonaparte era seduto dietro il tavolo,su una sedia simile a un trono. Era un divorzio civile, naturalmente, non unannullamento religioso. Sei mesi prima il papa aveva scomunicatoBonaparte, e il trono imperiale e il Vaticano erano ancora una volta in urtofra loro. Ma la cosa importante era che, una volta firmati i documenti,Bonaparte sarebbe stato legalmente libero di risposarsi. E anch’io.

Sarei stata libera di sposarmi! Perché il pensiero non mi dava alcuna gioia,soltanto apprensione? Forse perché l’unico uomo che avrei voluto sposare,Donovan, non era il tipo che si unisce legalmente a una donna? O forseperché, essendo già stata sposata due volte, con il primo marito praticamentesposato a un’altra donna e il secondo che mi aveva trattato per anni coneccezionale crudeltà, ero terrorizzata dall’idea di farlo di nuovo?

Non lo sapevo. Sapevo soltanto che, infine, il giorno temuto era giunto, ilgiorno in cui sarei tornata a essere Yeyette Tascher della Martinica, exviscontessa, ex imperatrice, ex padrona delle Tuileries ed ex mogliedell’uomo più potente d’Europa, Napoleone Bonaparte.

Restavo in silenzio, ascoltando le osservazioni preliminari dette da unfunzionario di corte. Cercavo di rimanere tranquilla e composta, però erodebolissima. Sentivo Paolina che sogghignava, Elisa che tirava su col naso.Vacillai appena e presi il braccio di Christian per sostenermi. Vidi Eugèneche accennava ad avvicinarsi a me, ma scossi appena il capo e sorrisi, perdirgli che andava tutto bene. Lo sguardo di mio figlio, uno sguardo diprofonda angoscia e ansia, mi lacerava il cuore.

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Venne il momento in cui dovevo leggere il documento che Bonaparte avevascritto per me.

«“Con il consenso del mio caro marito”» cominciai «“gli offroorgogliosamente la più grande prova di devozione che mai un marito abbiaavuto...”»

Non riuscii a continuare per le troppe lacrime. Tesi il documento a Christianche lesse il resto con voce chiara e forte.

Fu una cerimonia commovente, piena di dignità e nobiltà. Ma tutti i presenticonoscevano la nuda verità dietro quelle parole solenni, la verità sul nostromatrimonio spezzato. Le molte amanti che mio marito aveva avuto, le sueavventure con attrici e ballerine, nobildonne e cortigiane. La sua lungarelazione con Maria Walewska, che stava per dargli un figlio. Le liti. Gliostinati silenzi. Le riconciliazioni tra le lacrime. La passione repressa,l’amore malato e inacidito trasformato in odio.

Pure, a dispetto del carico di emozioni in quella sala, quando la cerimonia siconcluse, rimaneva ancora un brandello di affetto. Bonaparte si alzò e venneverso di me, mi baciò sulla guancia e mormorò: «Vi sarò sempre amico».

Amico! La mia nemesi piuttosto. Non dubitavo che, qualsiasi tenerosentimento avesse espresso, mi avrebbe senza rimorso fatto del male se glifosse convenuto. E se avesse scoperto la mia rinnovata relazione conDonovan, che cosa sarebbe accaduto? Non volevo immaginare leconseguenze. Anche se non ero più sua moglie, non dubitavo che miconsiderasse ancora una cosa sua, parte del suo vasto impero di terre, beni ebestiame.

Mi diressi alla Malmaison, la mia casa, la mia fortezza, il mio rifugio. Erolieta di abbandonare quelli che erano stati gli appartamenti di MariaAntonietta, con tutti i ricordi e la spettrale presenza della defunta regina.Compresi, mentre mi allontanavo, di aver vissuto sotto la sua ombra permolti anni e ora uscivo da quella cupa oscurità.

Quando raggiunsi la Malmaison e mi diressi al cancello principale, micommossi molto vedendo che tutti i servitori e gli affittuari delle fattorie

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della proprietà si erano radunati nel vasto cortile per accogliermi. Erano uncentinaio, gli staffieri e i camerieri nella livrea di velluto, le cameriere nellungo abito blu con il grembiule bianco, i mandriani con i pantaloni fangosie la giacca, gli agricoltori e i giardinieri, anche gli operai che stavanocostruendo una nuova ala erano scesi dalle impalcature per rimanere in piedicon gli altri, le mani incrociate, in rispettosa attesa, mentre io giungevo allaporta principale della casa.

Non applaudirono né lanciarono grida di entusiasmo, come la folla alleTuileries aveva sempre fatto. Ma il loro silenzio era eloquente. E quandoscesi dalla carrozza e cominciai a passare tra loro, tendendo le mani perstringere tutte quelle che potevo e dicendo: «Grazie, mio buon popolo»,sentii molte voci esclamare: «Benvenuta a casa, nostra buona Giuseppina».

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52Da parecchi anni sentivamo parlare dell’arciduchessa austriaca Maria Luisa.

Era molto giovane, una bambina, a dire il vero, appena uscita dall’aula distudio. Ma si diceva fosse alta per la sua età (aveva soltanto diciassette anniquando Bonaparte divorziò da me) e superba – come ci si poteva aspettaredalla pronipote dell’ex regina Maria Antonietta – e che suonasse bene ilpianoforte e sapesse disegnare.

Era, è vero, goffa e priva di grazia, e non bella, con gli occhi sporgenti e lamaledizione degli Asburgo, il labbro leporino. Tutti dicevano che, quando ioero giovane, l’avrei eclissata come il sole eclissa le stelle. Ma io non hosangue reale e Maria Luisa era figlia di un imperatore.

Non sapevo che cosa pensare di lei. Gente scortese, che voleva ferirmi,parlava della sua bella carnagione e delle braccia e delle mani armoniose ediceva che aveva intelligenza e occhi dolcissimi. Amici più garbati miconfidavano che aveva le guance troppo rosse e che era grassa per averediciassette anni. A venticinque, sussurravano, avrebbe avuto l’aria di unarobusta cameriera austriaca e non di una imperatrice.

Ma su una cosa tutti erano d’accordo: Maria Luisa avrebbe probabilmentedato a Bonaparte quello che desiderava di più: un figlio. Gli Asburgo eranofertili. La madre di Maria Luisa aveva avuto tredici figli, la sua bisnonnaventisei tra maschi e femmine. Si poteva senz’altro contare su di lei perchédesse un erede all’impero.

Hortense, che, con suo grande dispiacere, era stata nominata dama d’onoredella futura imperatrice, mi disse molte cose su di lei poco dopo il suo arrivoa Parigi.

«Ha paura di incontrarvi» mi confidò. «Pensa che voi siate bella e non si faillusioni sul suo aspetto. È appena passabilmente graziosa.»

«Forse ti dice così soltanto perché sei mia figlia.»

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«No, credo sia sincera. Dapprima ho pensato che potesse cercare di lusingarevoi attraverso me, ma ora non lo penso più. È davvero innocente e piena difiducia.»

«Che Dio l’aiuti alla corte di Bonaparte, con tutti gli intrighi e le spie e lerivalità che la infestano!»

«Anche di questo ha paura. Non voleva sposare Bonaparte, ma ha accettatoper compiacere il padre. Adora suo padre. Mi ha detto che, quando hasentito che Maria Walewska aveva avuto un figlio da Bonaparte, è corsa viadalla sua stanza ed è andata nella cappella a pregare il suo confessore diliberarla dall’impegno di sposarlo. Ha detto di aver pianto tutta la notte.»

«Povera bambina.»

«Mi ha rivolto una quantità di domande. Voleva sapere se Bonaparte leavrebbe tagliato la testa se lei gli fosse dispiaciuta, pensate un po’.»

«Dille che non le taglierebbe la testa, semplicemente divorzierebbe da lei.»

«Voleva sapere anche se Bonaparte ama la musica e se gli piace danzare.»

Io risi perché Bonaparte non riusciva a cantare nemmeno la più semplicemelodia e detestava danzare, anche se in alcune occasioni aveva provato afarlo.

«Mi ha chiesto se ci sono musei a Parigi e se Bonaparte si offenderebbe se ilsuo abito da sposa fosse ornato da pizzo inglese e non di Bruxelles. Io le hoconsigliato di evitare qualsiasi cosa inglese.»

«Sembra una ragazza simpatica e assennata, devo dire.»

«Lo penso anch’io. Si meritava una sorte migliore del matrimonio conBonaparte. Ma del resto» aggiunse tristemente «se non altro non sposerà unuomo con il male inglese.»

Le nozze vennero celebrate al Louvre e, come mi disse in seguito Hortense, ilbell’abito da sposa di Maria Luisa in raso bianco non aveva alcuna traccia dipizzo inglese. Eugène era tra gli invitati più importanti alle nozze, come

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Hortense, mentre a me venne ordinato di restare lontana. Né io avrei volutoessere presente! Non desideravo affrontare la mia giovane rivale – poichécosì la vedevano i cortigiani – o assistere alle seconde nozze di mio marito.

Per me si rivelò un bene aver evitato la cerimonia, perché la conclusione fudisastrosa.

Venne dato un gran ballo per gli sposi in una sala splendidamente decoratapresa in affitto per l’occasione. Tutti i membri importanti della societàparigina erano presenti, oltre ai funzionari di corte, ai diplomatici, aisopravvissuti della vecchia aristocrazia, e, naturalmente, ai Buonaparte;Carolina era incinta.

La festa iniziò bene. In onore della sua sposa, Bonaparte cercò di danzareogni ballo (aveva preso qualche lezione) e i suoi tentativi venneroricompensati da applausi cortesi e timidi sorrisi di Maria Luisa. La grandesala si riempì in fretta, lo spazio era troppo piccolo per tutti gli ospiti e moltiavevano trovato il modo di entrare senza essere stati invitati. I corpi sistringevano. Il caldo nella sala aumentò considerevolmente. Le danze sifecero più vivaci.

Poi una donna urlò.

Dalle pareti e dalle porte cominciarono a levarsi volute di fumo. Le tendeavevano preso fuoco e bruciarono rapidamente. Il fuoco si propagò anche aivestiti e scoppiò il pandemonio, quando donne spaventate si urtarono,dandosi reciprocamente fuoco alle larghe gonne. Grida e urla salirono dacentinaia di gole soffocate, mentre la sala si riempiva di fumo e si scoprì chesoltanto un’uscita non era bloccata dalle fiamme.

Bonaparte, senza alcun riguardo verso gli altri, sguainò la spada e si fecestrada verso l’unica porta accessibile trascinandosi dietro la sposa atterrita.Altri rimasero intrappolati e vennero calpestati. Molti morirono bruciati.Molti altri vennero orribilmente sfigurati. Tutti i Buonaparte si salvarono,anche l’anziana Letizia, ma Carolina abortì e diede la colpa a Maria Luisa.

«Ci avete portato la maledizione» gridò alla nuova cognata mentre venivasollevata nella carrozza imperiale stringendosi il grembo.

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Seppi di quel terribile episodio il giorno successivo, da Bonaparte inpersona, che venne al galoppo fino alla Malmaison, profondamentesconvolto. Compresi, dal modo in cui balzò a terra dal cavallo bagnato disudore, che doveva dirmi qualcosa di urgente, ma io mi chiedevo che cosapotesse portarlo qui, da Parigi, e il mattino dopo la sua prima notte nuziale.

«Vogliono uccidermi, tutti!» gridò, mentre entrava nel mio soggiorno senzafarsi annunciare, gli abiti in disordine e i capelli spettinati. «Questa è operaloro, dei cospiratori e dei controcospiratori. Quelli che mi vogliono morto.»

«Che cosa è opera loro? Di che cosa parlate?» gli chiesi.

«Dell’incendio, dell’incendio.»

Lo guardai senza capire.

«L’incendio nella sala da ballo ieri sera, non avete sentito nulla?»

Scossi il capo.

«Incendiari. Cospiratori. Hanno appiccato loro il fuoco. L’edificio è bruciatofino alle fondamenta. Decine di persone sono morte. Carolina si è sentitamale e ha perso il bambino.»

«Terribile!»

«Intendevano intrappolarmi là dentro e uccidermi. E ci sono quasi riusciti.»

«Ma chi?» chiesi fingendo ignoranza, sebbene sapessi benissimo qualipotessero essere i principali cospiratori.

«Lo scoprirò. Li ucciderò tutti, lo giuro!»

Cominciò a camminare avanti e indietro, con lo sguardo tempestoso rivoltoal pavimento, imprecando in corso.

«E quella ragazza! Quella ragazzona morbida e sciocca che mi hanno fattosposare! Non ha niente nella testa e non fa che parlare di suo padre. Sapeteche mi ha detto di non avere mai visto un uomo nudo? È diventata rossa

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come un tramonto quando mi sono tolto la camicia da notte.

«“Non avete mai visto uno stallone?” le ho chiesto. “No, signore” ha detto.“O un toro?” “No, signore.” “Ma come, nemmeno un cane maschio chemonta una femmina in calore?” ho chiesto allora. “Mi permettevano divedere soltanto animali femmine, signore, mai maschi.” Ma ci pensate?Com’è ignorante, stupida...»

«Volevano conservarla pura...» azzardai.

«Volevano conservarla imbecille. Quando penso alla mia cara, devotaWalewska, pronta a sposarmi se glielo avessi chiesto, che mi ha dato unfiglio, che non mi chiedeva mai nulla, che era sempre leale, che tolleravatutte le mie collere e mi amava davvero.»

«Credevo che Madame Walewska avesse già un marito.»

«Era separata. Sarei riuscito a ottenere un annullamento.» Con un cennodella mano, mise a tacere le mie virtuose risposte. «Oh, Giuseppina, hoscelto la donna sbagliata!» E con un sospiro di autentico rimorso si gettò sulmio divano tenendosi le mani sullo stomaco.

Era il segnale per me. Sedetti e gli presi la testa in grembo, strofinandogli letempie e mormorando con voce rasserenante che tutto sarebbe andato bene.Evidentemente il divorzio non aveva cancellato almeno uno dei vecchi riti, equesto ancora ci univa.

«Non mi abbandonerete, vero, Giuseppina?»

Avrei voluto dire: “Siete stato voi ad abbandonare me”, ma mi trattenni.«Sono la serva devota di vostra altezza imperiale» dissi invece.

«Mi avete sempre portato fortuna. La notte scorsa ho cominciato a pensareche la fortuna mi abbia abbandonato. C’è una maledizione sugli Asburgo.Ora lo so. La sento. Perché nessuno me lo ha detto? Ma voi, miaGiuseppina, mi porterete fortuna. Leggerete il futuro nelle carte, farete ivostri incantesimi, pregherete le vostre divinità a mio favore, non è vero?Anche ora?»

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Aveva gli occhi imploranti. Percepivo la sua paura. Aveva bisogno dicredere di non avermi perduta. Voleva essere confortato. Voleva avere da mele rassicurazioni che io soltanto sapevo dargli.

Mi resi conto allora di esercitare ancora qualche potere su di lui, che avreipotuto sfruttare per infrangere il suo cupo dominio sull’impero.

«Sono ai vostri ordini, altezza imperiale» dissi docilmente, ma nel mio cuoresapevo che, insieme agli incendiari, ai cospiratori e ai controcospiratori, erala forza della stessa ansia di Bonaparte a turbargli la mente; un’ansia pesante,insistente, che lo frenava e minacciava di ostacolare tutti i suoi grandiosidisegni.

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53Con gioia indescrivibile, ricevetti una lettera di Donovan nella primavera del1811, mentre la corte imperiale tratteneva il fiato aspettando che la nuovaimperatrice Maria Luisa partorisse.

Venne da me alla Malmaison un corazziere francese, alto, forte, imponente,come un soldato romano dei tempi di Cesare, nel suo elmetto piumato enella corazza di acciaio sbalzato.

Mi fece il saluto militare, poi trasse la spada dal corto fodero legato alla vita.In silenzio, mi tese quell’arma dall’aria minacciosa, la lama affilata comequella di un rasoio, e io la presi, cautamente, per l’elsa, temendo di ferirmi.Prendendola, vidi, chiuso nell’elsa elaborata, un foglio arrotolato. Guardai ilcorazziere, che non rispose al mio sguardo e rimase impassibile.

Era una trappola? O era un membro di quel gruppo sempre più numeroso diufficiali francesi che volevano rovesciare Bonaparte? Ero così terribilmenteansiosa di leggere il biglietto – sentendomi certa che dovesse essere unmessaggio di Donovan – che corsi il rischio di fidarmi di quell’uomo altodavanti a me.

«Grazie» dissi gravemente, restituendogli la spada ma tenendo il biglietto.«Posso offrirvi un rinfresco?»

Vennero portati cibo e vino, e feci accompagnare l’ufficiale dal valletto nellasala da pranzo. Appena lui uscì, mi affrettai ad aprire la lettera. Donovanscriveva:

Carissima Yeyette,

come vorrei che tu fossi accanto a me! Quanto ce la godremmo!L’uomo che ti porta il biglietto ti rivelerà la sua vera identità e ti daràmie notizie. Fidati di lui.

Mentre continuavo a leggere, folle di gioia che Donovan fosse ancora vivo,

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portai le dita all’amuleto che avevo attorno al collo, dove era racchiusol’ultimo biglietto che avevo ricevuto da lui, nel quale diceva che stavamorendo di freddo e di fame. Avevo tenuto fede al proposito formulato ilgiorno in cui era arrivato il messaggio: non mi ero mai tolta il pendente.

Non posso dirti dove sono, ma il messaggero spiegherà tutto. La nostralotta contro il Grande Satana procede. Ci prepariamo per nuovebattaglie. Oh, mia Yeyette, ho infine trovato la causa per cui ero nato, ilregno a cui appartengo. Finalmente sono uscito dall’ombra alla luce.Prega per me, mia carissima. Fino a quando sarò nelle tue braccia, sonosempre tuo.

Commossa dalle parole ispirate di Donovan, piansi. Era vivo, pieno disperanza e si sentiva esaltato dalla propria missione. Rilessi la breve nota piùvolte, poi andai in cerca del corazziere. Si era tolto l’elmo e la corazza emangiava in fretta, visibilmente affamato, quello che aveva nel piatto: polloarrosto, pâté, fragole di serra e una pagnotta di pane bianco.

S’interruppe appena mi vide e si alzò, mettendosi elegantemente sull’attenti.Vidi allora che era un bel giovane dai capelli rossi, ben fatto e forte, contimidi occhi azzurri. Risplendeva di giovinezza. Guardandolo, mi sentiivecchia.

«Vi prego, finite pure di mangiare. Non siamo formali qui alla Malmaison.»

«Grazie, signora» disse, e sedette di nuovo. Dopo un mio cenno rassicurante,ricominciò a mangiare avidamente.

«Immagino abbiate fatto molta strada e con poco cibo» aggiunsi. «Apprezzoil vostro sacrificio. Lo scrivente dice che posso fidarmi di voi. Di chi devofidarmi?»

Lui si alzò nuovamente. «Sergente Edward Costello, del 95o fucilieri»rispose.

Un inglese! «Dunque non siete un vero corazziere.»

Per la prima volta sorrise. «No, è soltanto un travestimento utile mentre sono

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qui.» Sedette nuovamente.

«Vi prego, ditemi di Donovan.»

Bevve un sorso di vino, poi depose la forchetta. «Abbiamo combattutoinsieme in Portogallo e in Spagna.»

«Ho saputo della terribile battaglia a La Coruña.»

«È stata una sconfitta, ma siamo sopravvissuti. O, piuttosto, alcuni di noisono sopravvissuti.» Guardò il piatto davanti a sé, con le ossa del pollo e lefoglie delle fragole. «Siamo stati cacciati dal Portogallo dai francesi, peròsiamo tornati. Donovan e io abbiamo guidato bande di contadini inincursioni contro gli invasori. Abbiamo bruciato carri con le provviste,rubato cavalli, teso imboscate a uomini isolati. Con il bel tempo, giunta labella stagione, abbiamo fatto il nostro lavoro. In inverno, gelavamo con icontadini nelle loro capanne e attendevamo la primavera.»

«E Donovan? Ditemi di lui.»

«Ah, quello è un uomo coraggioso! Mi ha insegnato a combattere. “Nonperdere mai l’audacia” mi diceva. “L’audacia è tutto.” Ha affermato di avereimparato questa massima dal generale Bonaparte.

«Parlava spesso di voi» continuò dopo una pausa. «Diceva che avevate gliocchi più dolci del mondo.» Sorrise di nuovo. «Ora so perché.»

Sospirai. «Questi poveri occhi stanchi mi hanno fatto molto penare. Mibruciano e mi prudono e le gocce che mi dà il dottore per calmarli nongiovano molto. Ah, è lungo l’elenco dei miei mali! Le orecchie mirimbombano, gli occhi mi pungono e ho un fluido nella testa che non se neva. Quanto soffro, a volte! Comincio a diventare vecchia.»

Il corazziere scosse il capo. «No, cosa dite?»

Edward si trasferì nelle stanze di Donovan nella villetta di Euphemia e allagente del villaggio venne detto che era un ufficiale in convalescenza per unaleggera ferita. Non gli prestavano particolare attenzione, presi com’eranoallora dalle notizie delle Tuileries, dove l’imperatrice Maria Luisa aveva

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appena dato alla luce un figlio maschio.

Finalmente Bonaparte aveva un figlio suo, un figlio regale, con il sangue deire nelle vene e la corona imperiale francese come eredità. Ricevette il titolograndioso di re di Roma, e seppi che un architetto era stato chiamato perchédisegnasse un palazzo per lui, un palazzo più vasto di Versailles, piùimponente della più grande residenza reale mai costruita.

La duchessa de le Rochefoucauld non perse tempo nel venire a comunicarmile notizie della corte. Aveva visto il neonato nella sua culla d’oro: era roseo,paffuto e perfetto in tutto. Lo chiamava “il figlio di Francia” e mi descrissenei particolari come Bonaparte si vantasse della forza del piccolo e comeMaria Luisa arrossisse a tutti i complimenti che le venivano rivolti.

Non fui scortese con la duchessa, ma non ascoltavo le sue parole, perché lamia mente era altrove. Pensavo a Donovan, provavo ancora una volta lagioia di sapere che era vivo e desideravo ardentemente essere di nuovoinsieme a lui per potergli dire tutto quello che avevo nel cuore.

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54«Yeyette, Yeyette, svegliatevi, Yeyette!»

Era Euphemia, la voce gracchiante e roca, e l’ansia con cui gridava leprovocò un accesso di tosse.

Mi alzai a sedere nel letto. Era ancora buio, ma fuori dalla mia finestra gliuccelli cominciavano a cinguettare.

«Che cosa c’è? Hortense? Uno dei bambini?»

Continuando a tossire, Euphemia scosse il capo. «Indossate la veste dacamera. Venite in fretta» ansimò. Andò al mio guardaroba e ne trasse unabito, muovendosi con sorprendente agilità per i suoi settant’anni passati.Me lo porse e mi aiutò a indossarlo. Poi mi condusse al piano inferiore efuori in cortile dove aspettava un carro.

«Dimmi dove stiamo andando!» chiesi quando Euphemia mi ebbe quasispinto nel carro facendomi sedere sulla rozza panchina accanto al guidatore.

«Vedrete. È venuto. Il Grande è venuto.»

Non disse altro mentre procedevamo traballando e scricchiolando, direttiverso le villette sulle rive del lago dove viveva Euphemia. Mi accorsi che eratesa e pallida, ma anche piena di una strana emozione. Non l’avevo maiveduta prima in quello stato.

Quando giungemmo al lago, spuntava l’alba, e notai subito, attraverso lanebbia mattutina, che vicino all’acqua era stata eretta una tenda. Come ciavvicinammo, riuscii a scorgere la figura di un uomo molto vecchio, moltoscuro, con piume rosse nei radi capelli grigi e con uno sporco mantellorosso. Sedeva su un tronco spezzato. Lo circondavano tre africani inperizoma, con giacche stracciate che coprivano il petto e le braccia.

Era Orgulon.

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Il carro si fermò e io scesi, incredula di fronte a quel che vedevo. Il vecchioquimboiseur, che sembrava già antico come il tempo quando io ero unaragazza, ora era quasi scheletrico, con pochissima carne sulle gambe ossute esul viso simile a un teschio. La pelle era di un nero grigiastro, le maniinaridite curve, con le dita piegate all’ingiù, come gli artigli di un gallo.Eppure, quando io mi avvicinai e lui volse verso di me il volto rugoso, vidiche lo sguardo dell’occhio buono era ancora pieno di forza, e io rabbrividiiun poco sotto la sua occhiata.

Accanto alla tenda era stato acceso un fuoco e nell’aria c’era un forte odoredi incenso. L’odore del fumo mi raggiunse quando mi inginocchiai sull’erbaumida accanto al vecchio.

Mi fissò con il suo unico occhio. Quindi parlò, con voce debole egracchiante.

«È venuto il tempo» disse. «Il fer-de-lance colpirà. Devi ucciderlo.»

«Come?»

«Spaventalo. Poi uccidilo. E il demone che lo ha inviato.»

«Come potrò riconoscere il demone?»

«Lo hai sposato. Ora devi distruggerlo.»

Non so descrivere i sentimenti che le parole del vecchio quimboiseursuscitarono in me: un insieme, che mi scuoteva e mi stordiva, di reverenza,timore e una curiosa esaltazione.

Una volta, molto tempo prima, Orgulon mi aveva salvato la vita e mi avevadetto che lo aveva fatto per uno scopo. Ora era venuto dalla Martinica, unviaggio arduo di molti mesi, per annunciarmi che lo scopo era a portata dimano.

Non misi in dubbio le sue parole vaticinanti.

«La sua via è verso est. Seguilo. Ti manderò una luce perché tu possavedere.»

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Sospirò, e la testa gli ricadde in avanti sul petto. Gli uomini che gli stavanoaccanto lo adagiarono con cautela su una stuoia e gli distesero una copertasul corpo incavato.

Non indugiai, ma tornai a casa insieme a Euphemia.

«Vi ha parlato. Vi conosceva.»

«Mi ricordava da quegli anni lontani, quando salii al Morne Ganthéaume percercarlo.»

«Avete avuto fortuna: non vi ha seccato il cuore nel petto.»

«Certo che non lo ha fatto. Crede che io abbia qualcosa di importante dafare. Vuole che viva per portare a termine un compito importante.»

«Quale compito?»

Guardai Euphemia. Aveva gli occhi sbarrati per la paura e l’incertezza.

«Devo uccidere il fer-de-lance.»

Orgulon visse appena il tempo necessario per darmi il suo messaggio.Quando Euphemia e io tornammo alle villette quel pomeriggio, i suoiassistenti ne stavano avvolgendo il corpo in strisce di corteccia legate conpanno rosso.

«Dove lo seppelliranno?» chiesi a Euphemia.

«La tomba di un quimboiseur è sempre nascosta. Il corpo muore, ma lospirito passeggia di notte. Va in cerca degli dèi degli inferi. E li trova aicrocicchi sacri, il luogo in cui i vivi incontrano i morti.»

«Ma questo accadeva alla Martinica, molto lontano.»

Euphemia scosse il capo. «Ci sono numerosi crocicchi sacri in questomondo, ovunque sono venerati gli dèi.»

Mentre guardavamo, gli assistenti di Orgulon completarono il loro compito.

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Lasciando la tenda al suo posto e il fuoco ancora acceso, sollevarono sullespalle il corpo del vecchio e si incamminarono silenziosamente nella foresta,ignorando noi e gli abitanti delle ville che erano usciti sull’erba per vedereche cosa accadeva.

«Buona Giuseppina» mi chiamò uno degli abitanti «chi erano quegli uomini?Che cosa facevano qui?»

«Vecchi amici della Martinica» risposi lasciandoli insoddisfatti ma timorosi –poiché io, loro benefattrice, ero socialmente superiore – di rivolgermi altredomande.

Era il crepuscolo, l’ora azzurra. Un vento fresco muoveva le foglie deglialberi sulle rive del lago e io mi strinsi lo scialle attorno alle spalle.

All’improvviso il cielo che si oscurava parve farsi più luminoso. Un curiosobagliore si riversò dall’orizzonte occidentale, poi si formò, attimo dopoattimo, in una sfera abbagliante con una lunga coda, tutta lucente.

Non avevo mai visto nulla di simile. A poco a poco si fece buio, ma, insiemealle stelle, risplendeva nel cielo quella radiosa sfera di luce con la sua coda.

“Ti manderò una luce perché tu possa vedere” mi aveva detto Orgulon, edeccola lì, una luce intensa, suo dono e sua eredità. Rimasi intimorita,interrogandomi sulla luce, sperando che non svanisse, vedendovi il segnoche mi sarebbe stato possibile portare a termine il compito che Orgulon miaveva affidato. Restai ferma a lungo, e infine Euphemia mi tirò per lamanica, insistendo che ce ne andassimo, che io non avevo cenato e che lei,in ogni caso, aveva freddo.

Mi lasciai condurre in casa, la strada illuminata da quella luce sopra di noi.La luce di Orgulon. Mi sentivo risplendere dentro, esultante per quantoavevo visto e sentito quel giorno, certa che la mia vita avesse preso unasvolta nuova e meravigliosa.

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55«È una cometa, naturalmente» sbottò Bonaparte, mentre alzava lo sguardodalla scrivania sollevando la penna dal foglio che aveva davanti. Ero andataalle Tuileries per riscuotere la mia rendita, il danaro che quando avevamodivorziato aveva accettato di darmi ogni anno. Sapevo che stava peraffrontare una nuova campagna, avendo arruolato un numerosissimoesercito che comprendeva non soltanto francesi, ma anche tedeschi,polacchi, olandesi e italiani. Si diceva fosse l’esercito più numeroso maimesso insieme. Volevo essere certa di avere la mia rendita prima che luipartisse.

Dopo avermi fatto aspettare più di un’ora, Bonaparte mi aveva infinericevuto nel suo studio e mi aveva teso senza parole un assegno. Io loringraziai ma non me ne andai subito, a dispetto del suo sguardo impaziente.Indugiavo, come sotto un incantesimo. Da quando avevo ricevuto ilmessaggio di Orgulon, vedevo il mio ex marito in una luce nuova, nellaveste del demone che doveva essere distrutto.

Era seduto là, in una sedia dorata, su un profondo cuscino. Sapevo perchéaveva bisogno del cuscino: era sempre più tormentato dalle emorroidi che lofacevano soffrire molto. Alla parete alle sue spalle era appeso un enormeritratto di lui da giovane, i lunghi capelli al vento, in mano la spadasguainata, che respingeva un’orda di nemici, sullo sfondo di un drammaticoorizzonte.

“Pensa di avere ancora quell’aspetto?” mi chiesi. “Non comprende quanto èdiventato grasso, panciuto? Come cammina curvo, ha sempre lo sguardofurioso ed è pallido che sembra un fungo?”

«Perché siete ancora qui? Non vedete come sono occupato? Ho risposto allavostra domanda sulla luce che avete visto nel cielo. È un fenomeno celesteben conosciuto. Una cometa. Devo compitarvi la parola? Gli sciocchicredono che le comete annuncino disgrazie. Questa annuncia la mia vittoriasui russi.»

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«Ma la Francia è davvero alla catastrofe» ribattei. «Guardate tutta la gentesenza lavoro e le banche che falliscono. I giornali sono pieni di notizie disommosse, scioperi e mancanza di cibo. I mendicanti vengono a decine allamia porta alla Malmaison.»

Era vero. Anche alla Malmaison, la mia oasi di pace e sicurezza, siavvertivano le scosse e i tremiti del mercato finanziario parigino, e se nevedevano le conseguenze sugli uomini. Anch’io, che di consueto nonleggevo i giornali e non mi interessavo ai rialzi o i ribassi degli investimentialtrui – sempre che, naturalmente, non potessi trarne profitto –, non potevoignorare le notizie che sentivo; notizie di bande di uomini e donne affamatiche vagavano per le strade come branchi di lupi in cerca di cibo, di suicidi,di gente sfrattata dalle proprie case che si accampava per strada in rifugi fattidi vecchia legna, pietre e mattoni. I miei cuochi servivano brodo aglisventurati che venivano alla mia porta, e io mandavo cibo al vicino villaggiodi Rueil per aiutare i poveri.

Trovandomi dov’ero, nello studio privato di Bonaparte, e notandol’insanabile cambiamento avvenuto in lui da quando aveva divorziato da mee aveva sposato Maria Luisa, era difficile sfuggire alla conclusione che il suomatrimonio avesse portato sfortuna a lui e alla Francia. E la cometa ne era ilsimbolo.

«Pensano che mi fermerò quando avrò conquistato la Russia, sapete» disseBonaparte, cambiando improvvisamente umore, la sua irritabilità respinta daun’ondata di umore sognante. «Hanno torto. La strada per Mosca porta piùavanti, su gelide steppe e deserti e alte montagne, alla favolosa terra indiana.Vi ricordate di quando sono andato in Egitto?»

«Certo, maestà imperiale.»

«Doveva essere l’inizio di un lungo viaggio. Credevo che sarebbe stato facileconquistare la terra dei faraoni, e poi assediare Costantinopoli, quindiproseguire per l’India e completare la mia conquista del mondo. Quel sognonon è morto.»

Mentre parlava, prese dalla scrivania la deliziosa statuetta in porcellana di ungiovane. Passò distrattamente la mano sulla liscia superficie.

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«Allora ero un giovane comandante, con molte speranze ma poca ricchezza.Ora sono ricco, anche se il mio popolo è in difficoltà. Quale uso migliore delmio danaro che conquistare il resto del mondo? Inoltre, è il solo compitorimasto tale da costituire una sfida per il mio genio.»

Con un colpo secco spezzò una gamba della figurina di porcellana e laabbandonò con noncuranza sulla scrivania.

«Sto scrivendo allo zar Alessandro per metterlo in guardia. Ha dichiaratoguerra alla Francia. Ma non può dichiarare guerra al mio destino!»

“È pazzo” pensai. “Ha perduto il senno.”

«Voglio ricordare all’imperatore che il corso degli eventi umani è inevitabilee che molti uomini sono semplici pigmei. Pochi tra noi sono giganti, io sonouno di quei pochi. È venuta l’ora dei giganti.»

Con un altro colpo secco spezzò l’altra gamba della figurina.

«E le donne?»

Scrollò le spalle. «Ancora meno che pigmei. Mosche. Moscerini.» Colpì conla mano un insetto immaginario. «Vedrete» proseguì. «Il mondo vedrà.Combatterò una guerra santa contro i barbari slavi e poi conquisterò i paganiindù. Civilizzerò il mondo intero!»

Agitando le mani come un pazzo, scagliò la figurina ridotta senza gambe nelcamino, dove andò in frantumi.

«Adesso, lasciatemi in pace. Devo completare tutti i preparativi. Prestoarriverà la primavera e allora ci sarà abbastanza erba per i cavalli: la grandecampagna potrà finalmente incominciare.»

Si avvicinava il mio quarantanovesimo compleanno, e non potevo negare dicamminare più piano e di avere la vista indebolita. Non avevo più un passoleggero; al contrario, mi dolevano le ginocchia quando passeggiavo attornoal lago in cui fluttuavano i miei cigni neri e mi usciva un gemito ogni voltache mi alzavo da una sedia con un morbido cuscino. Non ero ancoravecchia, ma lo sarei stata presto. Come avrei potuto trovare la forza di

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seguire Bonaparte a est fino a incontrare il fer-de-lance e distruggerlo?

Confusa, ma ansiosa di trovare le risposte, chiesi aiuto al solo uomo che inpassato fosse sempre venuto in mio soccorso: il mio vecchio amico Scipiondu Roure.

Gli mandai una lettera dicendo che dovevo parlargli con urgenza e rimasi inattesa. Mi rispose che sarebbe venuto alla Malmaison appena possibile, e inrealtà fece il viaggio dalla sua casa di Caen in un tempo incredibile.

Aspettavo la sua carrozza dal mio balcone. Quando arrivò, mi sentiisollevata. Non vedevo Scipion da molti anni, dal mio divorzio. Sapevo cheera vedovo e non era più un ufficiale di marina in attività. Si era ritirato inNormandia, dove era sempre vicino al mare ma a pochi giorni di viaggiodalla capitale.

Scese a fatica dalla carrozza e si avviò verso la casa servendosi di un bastoneper sostenere la gamba offesa: evidentemente la vecchia ferita di guerrasubita nella battaglia navale al largo del Cairo lo faceva soffrire. Corsi alpianterreno per accoglierlo e lo condussi nel mio salottino privato, doveavremmo potuto parlare tranquilli.

Dopo esserci abbracciati calorosamente ed esserci scambiati notizie dellenostre famiglie e degli amici comuni, io gli aprii il cuore.

«Forse troverete fantasioso quello che sto per dirvi» iniziai «ma vi pregocaldamente di non ignorarlo e di non considerarlo il prodotto di una menteturbata. E ricordate che io sono figlia della Martinica, dove gli stregonihanno molto potere.»

«Non ignorerei mai qualcosa che sia importante per voi, Yeyette. E ricordobene la Martinica e la sua particolare cultura.» I suoi occhi grigi, velati ora ecircondati da rughe, mi fissarono con uno sguardo fermo, di attesa.

«Bene, vedete, di recente ho avuto una visita significativa...» Gli descrissi ilmio incontro con Orgulon morente e il suo messaggio e gli spiegai quelloche a mio avviso significava. Dovevo trovare il temuto fer-de-lance, dissi,ucciderlo, e anche distruggere il demone che lo aveva inviato, ovvero

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dovevo seguire Bonaparte verso est, guidata dalla nuova bianca luce nelcielo. Quando finii di narrare, mi appoggiai allo schienale della sedia easpettai di sentire che cosa avrebbe detto il mio vecchio amico.

Lui sedette in silenzio, riflettendo per qualche tempo, poi mi guardò.

«Quanto raccontate è davvero fantasioso, Yeyette, direi incredibile. Nonposso concepirlo con la mente, ma il mio intuito mi suggerisce che voicredete sinceramente in quello che vi ha detto il vecchio. E io stesso penso cisia troppo male in azione nel mondo: troppa violenza e brutalità. Il nostroimperatore è al centro di tutto questo.

«Come sapete, Yeyette, ho un figlio, Jean-Georges, ufficiale nei Dragoni diRouen. Si prepara a unirsi alla campagna. L’ho pregato di non partire.Facendolo, ho rinunciato a tutte le mie antiche fedeltà, al mio giuramentonavale, anche, si potrebbe dire, alla mia lealtà verso la Francia. Ma la vita dimio figlio è più importante per me di tutte queste cose, e non voglio vederladistrutta da un maniaco che si fa chiamare imperatore!»

Non avevo mai visto Scipion parlare con tanta veemenza. Le parole gliuscivano dalla bocca come un fiume in piena, era a un tempo furioso eangosciato.

«Anche mio figlio Eugène è nell’esercito, come sapete. Bonaparte gli ha datoil comando di molti uomini. Neanch’io voglio che la sua vita vengasacrificata per nulla.»

«Allora lavoriamo insieme per salvare i nostri figli. Vi aiuterò, Yeyette.Volete viaggiare verso est? Bene. Posso organizzarvi il viaggio per nave finoa Riga: i mari del Nord saranno liberi dal ghiaccio tra poche settimane. E daRiga posso indirizzarvi a contatti a Smolensk e in città vicine. La Russia èmolto vasta, ma farò quanto posso per rendervi più agevole il viaggio. Vidarò nomi di gente a cui potrete rivolgervi se sarà necessario. Avvertiròognuno di loro. Naturalmente dovrete usare trasporti via terra, vi servirannocavalli, danaro...»

«Ho ordinato una carrozza da viaggio» dissi interrompendolo. «Ho la renditache mi dà Bonaparte e intendo vendere due delle mie parure di diamanti per

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ottenere altri fondi.»

«Meglio non avere troppo danaro con voi. Piuttosto, portate lettere dipresentazione e fatevi inviare assegni dalle banche.»

«Quando ero imperatrice, nulla di tutto questo era necessario» dissitristemente.

«Ma non lo siete più. Dovete essere prudente e cauta. Ah, Yeyette, come sietecoraggiosa!» Scipion sorrise e mi accarezzò la mano. «Pensate a quello chedirebbe vostra zia Rosette se potesse vedervi ora e scoprire che cosaintendete fare.»

Ricordai com’era la zia Rosette quando io ero bambina, sempre con il suoconsunto abito verde con le roselline cremisi diventate ormai di un rosaopaco.

«Sverrebbe, se fosse ancora viva. Lei e mia madre sono entrambe sepoltenella chiesa dei Trois-Îlets.»

«Mi dispiace, Yeyette.»

«Hanno vissuto molto comodamente quando erano anziane, con il danaroche io riuscivo a inviare. La ribellione degli schiavi aveva lasciato lapiantagione in rovina, ma Rosette e mia madre si trasferirono a Fort-Royaldove furono molto felici, appena le ribellioni cessarono.»

«Senza dubbio si consideravano personaggi reali, dal momento che voieravate imperatrice.»

«Sono lieta che mia madre sia morta prima del mio divorzio e della miacaduta in disgrazia.»

Scipion e io parlammo per tutto il pomeriggio e anche a cena. Lui rimase perparecchi giorni, aiutandomi a preparare quella parte del mio viaggio che sisarebbe svolta per nave e consigliandomi su come dovessi equipaggiarmiper il tragitto via terra. Parlò con Christian e con il mio alto pseudocorazziereEdward Costello. Entrambi insistettero per accompagnarmi.

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Scipion tornò in Normandia per alcuni giorni, poi andò a Le Havre apredisporre la nostra partenza e infine rientrò alla Malmaison peraccompagnarci al porto.

Era una grossa impresa per lui, con così poco tempo a disposizione e con lanecessità di mantenere il segreto. Al ritorno alla Malmaison aveva l’ariastanca. Una sera, dopo cena, insistetti perché dimenticasse tutte le suepreoccupazioni e facesse una passeggiata con me nei giardini. Sebbenedovesse camminare lentamente, appoggiandosi al bastone, sembrò goderequel breve momento di distacco da tutti i pensieri che lo tenevano in ansia.Era giugno e molte piante erano fiorite.

«È gelsomino quello di cui sento il profumo?» chiese mentre passavamoaccanto a un cespuglio di fiori bianchi.

«Sì, ne ho sempre amato la fragranza.»

«Avevate gelsomini nei capelli la sera in cui vi ho incontrata, al ballo a Fort-Royal. Ricordate?»

«Davvero?» chiesi. Naturalmente lo ricordavo, come ricordavo l’abito giallopallido che indossavo quella sera e le nuove scarpine gialle che locompletavano. Ricordavo tutto: che la zia Rosette si era sentita male e si eradovuta distendere, lasciandomi senza chaperon, che io avevo accettato diincontrare Scipion in segreto sulla spiaggia e che lui mi aveva baciato sottoun mango.

«Quel profumo rimase con me per molti giorni» disse. «Eravate una ragazzaincantevole.»

Sorrisi. «Tutte le ragazze a quindici anni sono incantevoli.»

«Voi eravate eccezionale. Ricordate come vi chiamai quella sera?»

«Uccello del Paradiso.»

Sostammo, respirando la calda aria profumata della notte, ricordando ladolcezza di quel lontano incontro. Le rane gracchiavano e in lontananza gliuccelli cinguettavano.

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«Cara Yeyette» cominciò cercando la mia mano. «Quando tornerete dalvostro viaggio...»

«Se tornerò» lo interruppi.

«Ditemi per favore che quando ritornerete potremo parlare del nostro futuro.Ora siamo entrambi liberi, potremmo sposarci.»

«Vi prego, Scipion, ora riesco a pensare soltanto al compito che mi attende.»

«Allora promettetemi che non respingerete totalmente l’idea.»

«Sapete che ho sempre avuto affetto per voi, profondo affetto.» Gli strinsi lamano, poi la lasciai.

«C’è qualcun altro?»

Tacqui per un istante, quindi ammisi la verità. «Sì. Ma si è consacrato acombattere Bonaparte e ignoro dove sia o quali pericoli corra.»

«Deve essere terribile per voi, mia cara.»

Non parlammo più della richiesta di Scipion, ma vidi la tristezza nei suoiocchi quando mi diede la buonanotte quella sera, e il suo sguardo rassegnatoallorché, completati gli ultimi preparativi, salimmo sulla carrozza in partenzaper Le Havre. Compresi allora che era venuto alla Malmaison non soltantoperché io glielo avevo chiesto, ma perché pensava a me con amore eintendeva chiedermi di dividere con lui la sua vita.

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56Per i primi tre giorni in mare fui orgogliosa di me stessa. Sebbene il nostrovascello si innalzasse sulle onde e oscillasse in modo allarmante mentreattraversava le acque tempestose del Canale della Manica, non mi sentiimale. Rimasi in piedi davanti alla battagliola guardando l’orizzonte,afferrandomi alle corde più vicine per tenermi in equilibrio, aspettando conansia la notte, quando la cometa diventava visibile e gettava la sua forte lucetra le stelle.

Tuttavia, il quarto giorno, scoppiò una tempesta da nord e io dovetti starenella mia cabina, sul lettino sgradevolmente piccolo, stringendomi lostomaco e inghiottendo l’amara medicina che Euphemia insisteva di farmibere. Allora mi rallegrai di aver ceduto e di averla lasciata venire conChristian, Edward e me, nonostante l’età e i malanni. Dapprima avevo dettodi no quando lo aveva chiesto, ma lei aveva continuato a discutere e miaveva convinto che dovessi avere una cameriera.

“Come può una signora viaggiare senza una cameriera? Soprattutto unasignora che è stata imperatrice?” Il suo sdegno era forte, sebbene la sualogica fosse debole.

“Io viaggio con il nome di Madame d’Arberg, Euphemia, non come eximperatrice, e ci saranno Christian e Edward a occuparsi di me.”

Lei aveva imprecato nella lingua di sua madre. “Vorrei proprio vedereChristian e Edward che vi pettinano o vi lavano la biancheria o vi preparanol’acqua di fiori d’arancio quando siete spaventata.”

“Posso badare a me stessa.”

Euphemia aveva riso come una matta, al che io mi ero offesa, ma poi avevofinito per cedere. Aveva ragione, naturalmente. Mi era necessaria unacameriera, e non c’era tempo per cercarne un’altra. Inoltre, Euphemia era lamia amata custode, la mia carissima sorella e, come comprendevo sempre dipiù quanto più invecchiavo, una sorta di madre. Se l’avessi lasciata alla

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Malmaison, ne avrei sentito terribilmente la mancanza.

Scipion ci aveva procurato il passaggio a bordo dello schooner francesediretto a Riga con un carico di provviste per l’esercito, che sarebbero poistate scaricate al porto e spedite in seguito via terra con un carro ai depositidi Minsk e Smolensk. Noi passeggeri eravamo soltanto un carico in più,senza importanza, ignorati dall’equipaggio che si dava da fare a sistemare levele, a lucidare le armi, a pulire la nave e, soprattutto, a fare la guardia peravvistare eventuali navi inglesi.

“Sapete nuotare?” mi aveva chiesto Edward il giorno in cui eravamo saliti abordo.

“Naturalmente. Sono cresciuta nelle Isole del Vento. Nuotavamo tutti igiorni.”

“Bene. Se veniamo attaccati, toglietevi le gonne e le sottogonne e gettatevi inacqua. Nuotate per raggiungere la terra. Una nave di questo tipo non siallontana mai molto dalla costa, così potrete probabilmente salvarvi.”

Per quanto fossi un’ottima nuotatrice, il pensiero non era rassicurante. Leacque del canale erano gelide e le onde tanto alte da nascondere la linea dellacosta. Pregai perché non venissimo attaccati.

Il piano che avevo preparato, con l’aiuto di Scipion, prevedeva che noiviaggiassimo per mare lungo la costa francese e attraverso le isole olandesifino ad Amsterdam, per proseguire poi, via Amburgo e Danzica, fino allalontana Riga, dove, come tutto il carico, saremmo scesi a riva; poi avremmoproseguito il viaggio via terra nella speranza di incontrare Bonaparte e il suoesercito in un punto a ovest di Mosca.

Giorno dopo giorno, calcolavo la nostra avanzata prendendo a prestito lemappe del capitano. A volte forti venti ci respingevano indietro e ondespumose lavavano i ponti. Come mi aveva detto Edward, la nave rimanevavicino alla costa, ma le nuvole spesso la nascondevano, e, benché fossimo inestate, ci furono molti giorni di pioggia.

Arrivammo ad Amsterdam e trovammo il porto brulicante di notizie sulla

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campagna di Bonaparte. Si diceva fosse in Polonia, per andare a trovare lasua amante di un tempo Maria Walewska. L’esercito si sarebbe riposato inaccampamenti temporanei nei pressi di Varsavia, perché molti uominiavevano la febbre.

Riprendemmo il viaggio verso nord circumnavigando la penisola danese,imbattendoci in una nave straniera, una nave corsara, che ci inseguì permezza giornata prima di ritirarsi tra le nebbie del Kattegat. Io rabbrividivonotte e giorno perché eravamo entrati nel gelido Mar Baltico e sentivamo ilmorso freddo dell’estate nel lontano Nord. Dense nebbie avvolgevano lacosta deserta e il mare sembrava grigio e oleoso mentre proseguivamo a unpasso lentissimo, o così sembrava a me.

Ad Amburgo scendemmo nuovamente a terra e apprendemmo che i francesiavevano attraversato il fiume Niemen in Russia e inseguivano l’esercito dellozar.

Trovavamo tutti il viaggio davvero noioso. La nave era maleodorante perl’acqua di scolo, non c’era più cibo fresco (perché non osavamo andare aterra a fare rifornimenti in porti nemici) e ogni mattina ci alzavamo sapendoche ci attendeva la stessa stantia routine.

Infine, dopo molte settimane, raggiungemmo Riga, dove navi da guerrafrancesi protessero l’ingresso dello schooner nel porto. Finalmentepotevamo stare in piedi sulla terraferma, così disabituati ormai a quellarocciosa sensazione di sicurezza che, camminando, oscillavamo.

Riga era tutta un incrociarsi di storie contraddittorie sulla Grande Arméefrancese. Alcuni dicevano che era stata combattuta una grande battaglia e ifrancesi erano in ritirata, altri che non c’erano state battaglie perché i russirifiutavano di difendere la loro terra. Si mormorava che disertori francesivenissero fucilati a migliaia. Si insisteva anche nel dire che Bonaparte eramorto, divorato dai lupi mentre fuggiva in preda al panico in una foresta.Era una storia molto drammatica – seppure non credibile – e la sentimmoripetere più volte mentre sbarcavamo e ci preparavamo alla tappa successivadel nostro viaggio.

Ora eravamo in territorio lettone. I lettoni dalla carnagione scura e dal volto

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rotondo, con le loro giacche di pelliccia e gli alti cappelli di pelo ben calatisulla fronte ci guardavano, curiosi di sapere chi fossimo e da dovevenissimo. Parlavano tra loro indicando Euphemia e guardando con un certotimore quel corazziere eccezionalmente alto. Io ero vestita come unarispettabile cittadina francese e Christian come il mio servitore. A unosservatore parigino l’immagine di quel gruppo di viaggiatori sarebbe parsaconvenzionale: la signora benestante più anziana, la sua cameriera, il suoservitore e un soldato come scorta perché li proteggesse. Ma agli abitanti diRiga, dove le donne non viaggiavano mai senza il marito, il padre o i figli, edove le signore benestanti avevano decine di servi, e non soltanto due, ilnostro gruppo sembrava molto strano.

Ci sentimmo sollevati quando, caricato il bagaglio, le borse ben sistematesull’imperiale, dietro il cocchiere, imboccammo la sola via che portava fuoriRiga, la stretta strada che andava a est lungo la costa, quindi svoltava e salivasu colline ricoperte di pini.

Le molle scricchiolavano, gli assiali gemevano, la carrozza oscillava esobbalzava lungo la strada mal tenuta, mentre dense nubi di polveresoffocante si sollevavano nell’aria immobile. Avevo sofferto il freddomentre mi trovavo in mare, ma ora soffocavo sotto un sole ardente e bevevospesso dalla bottiglia d’acqua ai miei piedi. Il paesaggio era assetato, conerba giallastra lungo i bordi della strada e i contadini che si muovevano incampi di segale e orzo falciando il raccolto. La terra nera era fertile: in alcunicampi l’avena cresceva forte e verde, e si trattava chiaramente di un secondoraccolto che non sarebbe stato falciato prima di un mese o più.

Ci fermammo per far bere i cavalli e riempire i nostri recipienti d’acqua.Vicino al pozzo sedeva un contadino dall’aria benestante in giacca di pelle,che batteva una scarpa sulla forma. Christian gli si avvicinò e, a cenni,ottenne il permesso di attingere acqua. Poi iniziò con l’uomo un’altraconversazione senza parole.

«Gli chiedevo dei soldati» mi disse quando tornò nella carrozza. «Dice dinon averli visti, ma pensa siano a est, a cinque giorni di cammino.»

Proseguimmo, sperando di trovare una locanda prima di sera, ma, sebbeneattraversassimo numerosi piccoli villaggi, non ne vedemmo. Né ci venne

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offerta ospitalità in qualcuna delle case; a dire il vero, gli abitantisembravano invisibili. Dormimmo in carrozza, scomodi, esausti e affamati.

Scipion mi aveva dato i nomi di gente che conosceva, che ci avrebbe potutoaiutare. Ma vivevano tutti nelle città, e non c’erano città nella Lettoniaorientale.

«Ci serve una guida» dichiarò Edward. Ma come potevamo procurarceneuna?

Proseguimmo, sperando di trovare una fonte di aiuto. Io cominciai aperdermi d’animo e a rimproverarmi perché non avevo fatto piani più saggi.Il cielo si scurì e iniziò a piovere, una calda pioggia che si fece presto moltoforte. La pesante polvere delle strade diventò fango. I nostri poveri cavalliproseguivano a fatica, lentamente, appena in grado di alzare gli zoccoli dalpantano che li risucchiava.

Procedemmo così per ore, e infine, al crepuscolo, un grido del cocchiere ciriuscì molto gradito: «C’è una luce più avanti!».

Avvicinandoci, vedemmo che veniva dalla grande finestra di una struttura inpietra. Sentimmo voci maschili che cantavano. Entrammo in un cortilefangoso illuminato da torce, e subito apparvero uomini barbuti in lunghetonache nere che fissavano la nostra carrozza e ci chiamavano.

«Monaci!» disse Christian. «Siamo salvi.»

I nostri ospiti, poiché tali si rivelarono, erano monaci ortodossi lettoni.Accolsero con gioia Christian, Edward e il cocchiere nel refettorio dove sistava svolgendo il loro pasto serale – e che buon profumo aveva il cibo –,ma ci fecero capire che né Euphemia né io potevamo entrare nel loroconvento maschile. Ci condussero a un granaio e ci portarono cibo ecoperte. Grate, mangiammo e ci preparammo un letto ammucchiando ilfieno. Il granaio era asciutto, il muggito del bestiame rasserenante, e ciaddormentammo cullate dalla pioggia battente.

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57Imparammo a non aspettarci locande in cui dormire, forni in cui acquistare ilpane, maniscalchi dove far ferrare i cavalli e riparare la carrozza. Matrovammo quello che ci serviva: l’ospitalità dei monaci e, in seguito, diabitanti di villaggi russi che ci offrirono pane e sale; cavalli freschi a isolatestazioni di posta; e, quando la nostra carrozza si ruppe, un robusto carrotanto grande da poter portare noi e i nostri bagagli.

Dopo dieci giorni di viaggio eravamo malridotti ma abituati alle strade, aprocedere per campagne in cui non capivamo quello che la gente diceva.

Scoprimmo che il nome Bonaparte era sufficiente a far rabbrividire tutte lepersone attorno a noi, che si facevano il segno della croce (vidi che lofacevano con la mano sinistra).

“Franzki, franzki” ripetevano timorosamente con gesti che dicevanochiaramente quanto non volessero franzki, francesi, tra loro. Tuttavia non cirespingevano né ci minacciavano; soltanto una volta, in un villaggio in cuievidentemente alcune case erano state bruciate, non ci offrirono cibo (perchénon ce n’era, come comprendemmo presto) e ci sputarono addossomaledicendoci.

Una mattina, mettendoci in viaggio molto presto, cominciammo a sentire inlontananza un rombo basso. Dapprima pensai potesse trattarsi di tuoni, manon c’erano fulmini e, a differenza di quello del tuono, il suono eracontinuo, un perenne rombare che non cessava né diminuiva. Al contrario,sembrava diventare gradualmente più forte.

Ascoltai con attenzione e riuscii a distinguere, oltre al rombo, un tintinnio epoi colpi ritmicamente ripetuti. Si sentirono grida smorzate e ogni tanto loschiocco di una frusta.

Avevamo trovato l’Armée.

Fummo presto ai margini della peggiore congestione di veicoli che avessi

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mai visto. Carriaggi, carretti, carrelli che trasportavano cannoni bloccavanola strada stretta, mentre soldati a piedi e a cavallo facevano del loro meglioper avanzare. Lentamente, trasformando la strada in solchi a rotaia e mucchidi fango, quella folla di uomini e veicoli avanzò, lasciandosi alle spalle carrirotti e cavalli caduti, le zampe che scalciavano vanamente in aria.

Il nostro cocchiere cercò di portare il carro in mezzo a quell’intrico diveicoli, sopportando le maledizioni e le minacce degli altri guidatori e le loromanovre che rischiavano di farci ribaltare. Non attiravamo particolareattenzione. Dovevamo batterci per ogni metro di strada. In mezzo a quellaconfusione di zampe, zoccoli e ruote si creava il vuoto quando passavano gliufficiali a cavallo, preceduti da attendenti che gridavano: “Fate largo! Fatelargo al generale!”. Ma quei momenti erano rari e noi non eravamo tantoimportanti perché qualcuno ci facesse strada.

Avevamo trovato l’esercito, ma non avevamo trovato Bonaparte. Se cirivolgevamo a ufficiali di passaggio, chiedendo dove fosse l’imperatore, cidavano risposte vaghe.

“È più avanti” dicevano, oppure: “È andato in avanscoperta”.

Quando venne la notte, gli uomini fecero fuochi da campo e prepararonouna minestra in enormi pentole; ognuno a turno immergeva la scodella dilegno nella zuppa bollente fino a consumarla tutta. Giravano bottiglie dicognac e si raccontavano storie delle campagne passate. Dagli stivalivenivano tratte pipe dal cannello lungo e si fumava tabacco prezioso. Poi,quando comparvero le stelle e la grande cometa balenò in cielo, i soldati sisdraiarono accanto ai fuochi morenti, tirandosi sopra i pastrani sporchi, edormirono.

Dormimmo anche noi. Euphemia e io su una coperta sotto il nostro carromentre Christian e Edward facevano turni di veglia accanto a noi. Avevamolo stomaco pieno perché scoprimmo presto che gli addetti ai grandi carridelle provviste erano felici di venderci il cibo.

Continuammo a viaggiare con l’esercito fino a quando, pochi giorni dopoaver iniziato a seguire la carovana, accadde un incidente che mi turbò molto.

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Giungemmo in vista di un villaggio e subito vennero gridati ordini; gliuomini presero a correre di qua e di là e si sellarono i cavalli. Venne formatoun distaccamento di cavalleria che, sotto i nostri occhi, cavalcò in frettaverso il villaggio e cominciò a dare fuoco a ogni casa. Non furonorisparmiati i granai; mentre ardevano, sentivamo i gridi del bestiameintrappolato. Dapprima non vedemmo gli abitanti, ma quando i cavalleggeritornarono dalla loro spedizione distruttrice, spingevano decine di uominidavanti a loro, incatenati alla vita, le mani legate dietro la schiena.

Un ufficiale abbaiò degli ordini e, in risposta, si formò una linea di fanti.Cominciarono a caricare i moschetti.

Guardavo inorridita mentre le vittime venivano giustiziate, ogni uomoridotto a un mucchio di carne e sangue. Erano i nemici, lo sapevo. Eranorussi, e lo zar aveva dichiarato guerra all’impero. Ma erano uomini, comequelli che ci avevano offerto pane e sale e avevano diviso il loro tetto connoi soltanto pochi giorni prima. Avevano mogli e figli, madri e padri.

«L’esercito russo non risparmia i francesi, signora» mi disse Christiannotando la mia angoscia. «È la guerra.»

Vidi bruciare tre villaggi quel giorno, e molti altri uomini furono giustiziati;nel pomeriggio ero stanca e avevo il cuore spezzato. Era per assistere aquesto che ero stata mandata? Per seguire l’esercito di Bonaparte e vedermorire gli abitanti?

Un carro si ruppe sulla strada, costringendo a una sosta il corteo di uomini eveicoli. Scesi dal carro per sgranchirmi le gambe e decisi di prendere unsentiero che conduceva lungo il fianco della collina. Mi faceva benecamminare; si era levata una brezza e l’aria era fresca, libera dalla polveredelle strade e vagamente odorosa di fumo di legna.

Raggiunsi la cima della collina e sedetti sull’erba, sentendo improvvisamentetutto il peso della mia angoscia per gli uomini che avevo visto uccidere quelgiorno, per tutti gli altri che sapevo dovevano essere morti in passato e perquelli che sarebbero morti presto.

“Dove sono le loro famiglie?” mi chiedevo? “Che cosa faranno ora? Come

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sopporteranno la povertà e il dolore?”

Sapendo che nessuno poteva vedermi, mi abbandonai senza ritegno allelacrime, pensando a Eugène e al figlio di Scipion, Jean-Georges, e a tutti glialtri uomini e ragazzi che venivano trascinati nel pericolo soltanto percercare la gloria e seguire l’imperatore, e ai russi che avrebbero combattutocontro di loro.

Infine mi asciugai gli occhi e guardai l’orizzonte, dove il sole era basso, iraggi dorati che illuminavano la strada obliqui sulla vasta campagna.L’enorme carovana di uomini in marcia, di carri traballanti e di cavalliimbizzarriti si distendeva ai miei piedi in una lunga linea ondulata, con laluce del sole che si rifrangeva sul metallo dei cannoni, il lento movimentodelle file di uomini sinuoso e vagamente sinistro.

Sembrava un serpente. Un serpente che si muoveva con lenta e mortaleprecisione verso la preda.

E di colpo seppi, con una chiarezza lampante, che stavo guardando il fer-de-lance. L’armata di Bonaparte era il mortale fer-de-lance che ero stata inviataa uccidere.

Mi alzai, sopraffatta dalla rivelazione: stavo guardando la cosa terribile chedovevo distruggere.

Ma come? “Spaventalo” aveva detto Orgulon.

Spaventare il serpente. Diffondere il terrore nell’armata. Questo dovevofare. Rimasi a lungo dov’ero, facendo del mio meglio per raccogliere ipensieri. Infine scesi la collina, nuovamente piena di un urgente senso dideterminazione e di speranza, e fiduciosa che l’aiuto di cui avevo bisognosarebbe stato a portata di mano.

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58Cominciò sulla calda, polverosa strada per Bratsk. Un italiano e un bavaresesi batterono tra loro, e il bavarese, che era più grosso e forte, chiamòl’italiano “codardo”, al che alcuni spagnoli accorsero in difesa dell’italiano, ein breve scoppiò una rissa.

Intervennero gli ufficiali e la zuffa venne sedata, temporaneamente, mal’ostilità rimase e poche ore dopo ce ne fu un’altra.

«Ai tedeschi gli italiani non piacciono molto» dissi a Edward, che eraaccanto a me nel carro.

Annuì.

«E se diffondessimo la notizia che gli italiani si sono accaparrati i cerealimigliori?»

«Credo di poterlo fare» replicò sorridendo e si allontanò lungo la strada.

Mi rivolsi a Christian. «È vero quello che dicono, che i russi hanno unmilione di uomini sotto le armi e migliaia di cannoni, mentre la nostraGrande Armée ha soltanto duecentocinquantamila uomini?»

«Cercherò di scoprirlo» disse Christian, e scese dal carro per mescolarsi alpiù vicino distaccamento di soldati. «È un’informazione che ogni nostrouomo dovrebbe avere.»

Diffondemmo notizie false, provocammo liti, suscitammo rabbia e paura,gelosia e risentimento. Quando, dopo molti giorni di forte pioggia, ci fuun’epidemia di angina, con gli uomini che tossivano, rabbrividivano eperdevano le forze, venne diffusa una nuova falsa notizia: che i russistavano avvelenando le nostre provviste di cibo per farci ammalare.

Dilagò il panico, e un numero sempre maggiore di uomini demoralizzati siammalò. La pioggia continuava a cadere, dura, pesante, obliqua: inzuppavale coperte, la farina, la legna da ardere, le armi e le preziose cartucce. Noi

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quattro, Christian, Edward, Euphemia e io, ci rifugiammo sotto il tendonegocciolante del nostro carro e cercammo di restare al caldo.

«Ho sentito uno degli ufficiali austriaci dire che Mosca è soltanto a diecigiorni di marcia da qui» disse Edward. «Senza dubbio i russi darannobattaglia da un momento all’altro per impedire alla nostra armata di entrarenella città.»

«Come potrebbero combattere con tutta questa pioggia?»

«Il tempo non ha mai fermato le stragi» rispose Christian. «E io lo so bene.Ero con l’esercito degli emigrati all’assedio di Thionville. Mai si erano vistetempeste simili! Ma non fermarono il massacro.»

«Non sapevo che un tempo eravate stato un soldato, Christian. Credevo cheaveste lavorato fra i servitori del re da quando eravate molto giovane.»

«Dimenticate, signora, che per molti anni non ci sono stati servitori del re.Quando uccisero il sovrano nel ’93, andai a Coblenza per combattere, agliordini di suo fratello, contro l’esercito rivoluzionario.»

Guardai il mio servitore con un senso nuovo di rispetto. «Allora vi trovate avostro agio qui.»

«Diciamo semplicemente che queste circostanze non mi sono ignote.»

Edward rise. «E neanche a me.»

Euphemia, bagnata e triste, sbuffò, esprimendo il suo sdegno. «Io non sonoun soldato. Odio tutto questo, questa miseria! Voglio una stanza asciutta e unfuoco caldo e un piatto di granchi caraibici e banane.»

«Ho bisogno di te qui, Euphemia. Hai insistito per accompagnarmi. Ricordaperché siamo venute e chi ci ha mandato.»

Nonostante l’umidità e il freddo, gli abiti e le coperte inzuppati, il fuoco chenon si accendeva e il fango che trasformava le strade in sabbie mobili, io misentivo sempre più forte. Con l’aiuto indispensabile di Edward e Christian,riuscivo a indebolire il fer-de-lance. Ogni giorno aumentava il numero dei

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disertori, che svanivano nella campagna, abbandonando le loro unità. Quantirimanevano isolati, troppo ammalati o deboli per marciare, sedevano aibordi della strada fangosa, sotto la pioggia, desolati ed esausti. Ogni mattinai cadaveri di quanti erano morti nella notte venivano raccolti e bruciati, e iloro oggetti subito presi dai vivi.

Nei loro sforzi per suscitare tra gli uomini discordia e paura dei russi,Edward e Christian trovavano decine di alleati, sia ufficiali sia soldati, chenon avevano entusiasmo per la campagna e segretamente detestavanoBonaparte e i suoi scopi. L’insoddisfazione continuava a crescere quanto piùi soldati si convincevano che ci sarebbe stata una battaglia prima chel’esercito raggiungesse Mosca.

«Avete notato» osservai la prima sera di sereno «che la cometa è diventatapiù luminosa?» Tutti quanti potevano sentire la mia voce guardarono il cielocon apprensione. «È un brutto segno, il segno che questo è un annosfortunato. Quanto più la luminosità aumenta, tanto più grande è lasventura.»

Forse perché la loro paura non gli permetteva di vedere bene, o perché, nellaloro debolezza, erano fortemente suggestionabili, gli uomini diventaronoancora più paurosi e immaginarono che la grande luce nel cielo si facessedavvero più luminosa.

«Forse è il segno della fine del mondo» dicevano alcuni. «La fine di tutto.»

Come ci si aspettava, i russi radunarono le loro forze in una località chiamataBorodino, ove tre grandi fiumi scorrevano insieme. Si diceva che il luogofosse pesantemente fortificato e che l’esercito fosse immenso (seppure nondi un milione di uomini come avevamo lasciato intendere) e deciso a vincerea tutti i costi.

La notte prima della battaglia, Bonaparte cavalcò lungo le file dei suoiuomini, esortandoli e incoraggiandoli. Io naturalmente non ero presente, maEdward sì, e ci venne a riferire in seguito che cosa aveva detto l’imperatore ecome erano state accolte le sue parole.

“Non badate a quello che potete aver sentito sulla forza del nemico” aveva

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gridato Bonaparte. “Siamo invincibili.”

“Ma la cometa?” aveva chiesto una voce.

“Un segno di vittoria!”

“O di catastrofe” aveva detto un giovane, incauto soldato, che aveva sfidatoaudacemente l’imperatore facendosi avanti.

L’imperatore era diventato rosso in volto e aveva brandito la frustacavalcando verso il ragazzo e fissandolo con uno sguardo tempestoso.

“Qual è il tuo nome, soldato?”

“Auguste Ibert, altezza imperiale.”

“Auguste Ibert, sei una vergogna per la Francia.” Aveva fatto segno alle dueguardie che gli cavalcavano accanto come scorta. “Giustiziate quell’uomo”aveva ordinato gelidamente. Ibert era stato portato via.

«Ero lì mentre lo trascinavano» disse Edward. «È stato terribile. Avevo giàvisto giustiziare disertori e traditori, ma non avevo mai avvertito un talesenso di rabbia tra i soldati. L’esecuzione ha quasi suscitato una sommossa.Gli ufficiali hanno tenuto a freno i loro uomini con grande difficoltà. Ilpovero Ibert è stato legato a un palo e fucilato. In quel momento tuttiodiavano l’imperatore, anche se lo temevano di più.»

All’alba del giorno successivo, la Grande Armée, ridotta di numero e diforza, con molti uomini pieni di tristi presagi, affrontò il nemico russo eattaccò.

Eravamo lontani molti chilometri, a ovest del fronte, in un canale protetto,insieme a decine di carriaggi e soldati non combattenti. Non volevo guardareil combattimento, per quanto sapessi che sarebbe stato uno spettacolodrammatico. Ero in ansia per Eugène (il quale ignorava che avevo seguitol’esercito; ero soltanto Madame d’Arberg, una delle tante donne al seguitodei militari, e nessuno mi prestava molta attenzione). Volevo che Eugène sisalvasse, tuttavia niente in quel momento mi importava se non che il nostroesercito, quella improbabile congerie di francesi, tedeschi, polacchi, olandesi

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di ogni angolo d’Europa, perdesse la propria velenosa forza mortale. Evolevo che accadesse subito.

Per il rombo di centinaia di cannoni, che tiravano nello stesso momento, perla terra che si scuoteva sotto i nostri piedi con la forza terribile delle ripetuteesplosioni, mi portavo le mani alle orecchie e rabbrividivo di paura.

“Dunque, questa è la battaglia” pensai. “Questo rumore incessante,assordante, che mi arriva alle ossa e le fa tremare.” Continuò per ore,quell’ininterrotto pulsare e scuotersi. L’aria si riempì di fumo e dell’odoredella polvere.

Poi cominciarono ad arrivare i feriti.

Venne allestita una infermeria improvvisata proprio accanto al nostro carro.Uomini sanguinanti, storditi, entravano nelle tende dove chirurghi ingrembiuli di cuoio insanguinati attendevano di operarli. Alcuni gridavanochiedendo aiuto. Altri arrivavano a due o a tre, sostenendosi reciprocamente.I più deboli camminavano carponi o si trascinavano sull’erba verso le tende,il viso distorto da smorfie di dolore.

Edward e Christian si unirono ai barellieri e andarono sul campo di battagliaper prelevare altri uomini. A Euphemia fu affidato il compito di strapparepezze di tessuto per farne bende e io mi recai nella tenda più vicina perassistere i chirurghi.

Presto centinaia di feriti entrarono barcollando o vennero portati nelle tende:soldati e ufficiali, sporchi, sudati, le uniformi un tempo eleganti macchiate disangue, di cenere e dei segni neri della polvere. Molti venivano condotti subarelle, più morti che vivi a quanto sembrava, e depositati davanti alle tendein mucchi disordinati. Alcuni erano stati sdraiati su lunghi moschetti uniti inmodo da formare delle assi.

«Cognac! Datemi quel cognac!» gridò il chirurgo più vicino a me. Glieloportai e lui lo versò sulla gamba orribilmente insanguinata di un ufficiale.L’uomo urlò.

«Ha perso troppo sangue. Tenetelo fermo.»

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Gli attendenti immobilizzarono le spalle dell’uomo ferito contro il tavolo sucui giaceva e gli tennero le braccia ferme lungo i fianchi. Insieme ad altri, iobloccai la gamba sana perché il chirurgo potesse operare su quella ferita. Infretta lui tagliò via la carne sanguinante e l’osso rotto, e il paziente, le cuigrida si affievolivano, svenne e rimase immobile.

Un’ora dopo l’altra, mentre la terra sotto la tenda diventava rossa e ilgrembiule del chirurgo si ricopriva di sangue fresco, la parata degli uominiferiti e morenti continuò. L’aria odorava di spazzatura, le mosche volavano asciami sui vivi e sui morti, questi ultimi ammucchiati senza tante cerimonie ericoperti di tela perché nessuno poteva seppellirli. Il terribile massacrocontinuava, così come il rombo dei cannoni. Poi, verso la metà delpomeriggio, cessarono gli spari e tutti ci fermammo per ascoltare il silenzio.

Non era naturalmente un silenzio assoluto. Gli uomini gemevano ancora egridavano per il dolore, e sentivamo in lontananza il fragore dei moschetti eil battere degli zoccoli dei cavalli.

Non sapevamo come stesse andando la battaglia, perché le casuali notizieche ci raggiungevano erano contraddittorie. «Abbiamo preso il bastione»gridava una voce. «Stiamo perdendo. I russi hanno rotto le nostre file!»diceva un’altra. «Il nemico si ritira!» sentimmo, poi di nuovo si disse che laGrande Armée era stata costretta a ritirarsi e che Bonaparte aveva chiamatola riserva.

I messaggi si susseguirono per l’intero pomeriggio, lasciandoci incerti sututto, con la sola sicurezza che molti, troppi uomini erano stati terribilmenteferiti e che la loro sofferenza era straziante.

Al crepuscolo alzai lo sguardo e vidi una figura vacillante che camminavacon esitazione verso la tenda, un braccio teso in un muto appello. La camiciae i pantaloni erano insanguinati, il viso ammaccato e sanguinante. Sembravasul punto di crollare.

Andai per aiutarlo, lo guardai negli occhi e riconobbi Donovan.

Con un grido mi precipitai a sostenerlo e, piangendo di gioia e di terrore, loguidai nella tenda in cui i chirurghi operavano.

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«Aiutate quest’uomo, subito!» gridai con la voce roca. «Deve esseresalvato!»

Ma Donovan si stava piegando sulle ginocchia e io non potevo sostenere ilsuo peso. Con un suono strozzato cadde in avanti, il corpo inerte, gli occhisbarrati, sulla terra rossa di sangue.

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59«No, no!» gridai più volte, scuotendo la testa mentre gli attendentisollevavano Donovan sul tavolo del chirurgo e gli tagliavano la camicia perrivelare la terribile ferita.

«Una granata» disse il chirurgo. «Deve essergli esplosa molto vicina. È feritoall’addome. Una ferita mortale.»

Parole fatali. “Una ferita mortale.” Le avevo sentite ripetere tutto il giorno,mentre il chirurgo faceva il suo triste lavoro e molti degli uomini per i qualile aveva pronunciate erano morti.

La vita di Donovan stava fuggendo via, e io lo sapevo. Rimaneva soltantoun filo di speranza. Odorava di polvere e respirava a rantoli interrotti da unatosse spasmodica. Quando tossiva, sputava sangue.

Porsi il cognac al chirurgo e strinsi i denti mentre lui lo versava sulla feritaaperta di Donovan, che si contorse e urlò, un urlo che era poco più che ungorgoglio. Gli lavai il sangue dal viso. La fronte e le guance erano graffiate escorticate e aveva una ferita sulla tempia sinistra.

«Non sapevo che saresti stato qui» mormorai. «Non sapevo che saresti statoin pericolo.»

«Conoscete quest’uomo?» mi chiese il chirurgo.

«Sì. Si chiama Donovan Brown. No, Donovan de Gautier.»

«Di quale reggimento?»

Scossi la testa. «Non lo so.»

E naturalmente non lo sapevo. Sapevo soltanto che si era impegnato afermare Bonaparte, a tutti i costi. Oggi il suo scopo lo aveva portato suquesto campo di battaglia, e io, ignara, avevo indebolito l’esercito e moltoprobabilmente ero in parte responsabile della sua sorte.

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«Non sapevo, amore mio, non potevo sapere che saresti stato qui» glisussurrai, e le mie lacrime gli cadevano sugli occhi chiusi mentre io glilavavo il viso. «Ti prego, ti supplico, perdonami.»

Le ore successive furono tra le più dolorose della mia vita. Lottavo con mestessa, ora biasimandomi per quanto era accaduto a Donovan, ora dicendomiche io e lui lavoravamo per uno stesso scopo, e che lui avrebbe approvatoquello che i miei compagni e io avevamo fatto, se avesse potuto saperlo.

Non riuscii a guardare mentre il chirurgo estraeva dalla ferita i frammentidella granata esplosa e cauterizzava la carne bruciacchiata ai bordi con unferro rovente. Il ventre era orrendamente gonfio, il viso magro e pallido,quasi quanto quello dei morti ammucchiati sotto il telo dietro la tenda. Nonavevo fiducia che il chirurgo potesse dirmi con sincerità se si aspettava cheDonovan sarebbe sopravvissuto. Inoltre, non volevo un giudizio medico,volevo un miracolo.

Gli tenni la mano fredda strofinandola tra le mie, guardandolo in viso. Eraaddormentato o aveva perso conoscenza? Non lo capivo.

«Deve essere spostato dal tavolo perché possa occuparmi degli altri» disse ilchirurgo. Io mi guardai attorno e vidi che Edward e Christian erano entratinella tenda e attendevano in silenzio.

«Lo metteremo nel carro.» Con cautela i miei due compagni sollevaronoDonovan su una barella e lo portarono al carro, dove io gli preparai un lettosulle assi dure sotto il tendone.

«Morirà se non lo portiamo al chiuso, al caldo accanto a un fuoco» osservòChristian. «Io dico di partire questa notte e di cercare di arrivare in una cittàdove possiamo trovargli un rifugio per permettergli di riposare.»

Non sembrava possibile fare altro. Avvolsi Donovan in tutte le coperte e gliindumenti che avevamo e mi sdraiai accanto a lui, sperando di scaldarlo conil mio corpo. Ci mettemmo in moto, nella confusione seguita alla battaglia,verso nordest.

Per cinque giorni, sotto un cielo di nuvole basse da cui cadeva una pioggia

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gelida, avanzammo verso Mosca. La notte trovavamo rifugio nelle capannedei contadini, degli aratori e degli anziani del villaggio. La terribile ferita diDonovan non si infettò, grazie agli impacchi e alle erbe curative diEuphemia, e i suoi polmoni non si riempirono del fluido che avrebbe potutosoffocarlo. Facemmo del nostro meglio per tenerlo al caldo e per cambiarglile bende.

Sebbene non desse alcun segno di risposta, io gli parlavo, dicendogli cheguariva molto in fretta e che presto sarebbe stato bene. Gli raccontaidell’esito della battaglia, in cui nessuno dei combattenti si era riconosciutosconfitto (poiché così avevo sentito), dei miei sforzi per indebolire il letale,serpentino esercito francese e della mia decisione di fare il possibile perindebolire anche Bonaparte.

Gli tenevo la mano e gli parlavo, accarezzandogli la fronte e baciandogli latempia ferita, assicurandogli che non lo avrei lasciato mai più e che tuttosarebbe andato bene.

Il sesto giorno, verso metà pomeriggio, salimmo su una bassa collina e citrovammo di fronte una vista straordinaria. Sembrava che decine di grandipalle colorate fossero state gettate sul panorama, immense palle blu, rosse,gialle e dorate, ognuna in cima a un imponente edificio. Guardando meglio,le palle si rivelarono cupole di chiese, ognuna con la croce scintillante che siincendiava per i raggi obliqui del sole.

Trattenni il fiato alla magnificenza di quella vista e anche Christian e Edwardsi stupirono della grandezza e dello splendore della grande città russa.

«Quanta gente ci vive secondo voi?» chiesi a Christian. «Senza dubbio piùche a Parigi.»

Lui scosse il capo. «Lo ignoro. Non ho mai visto una città così grande.»

«E così vuota» osservò Euphemia in tono scettico, interrogativo. «Dovesono andati gli abitanti?»

Mentre scendevamo dalla collina ed entravamo a Mosca, diventava semprepiù evidente che i moscoviti avevano infatti abbandonato la città. Non

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c’erano carri o carrozze, né soldati in marcia, né processioni religiose,neanche un mercato all’aperto con venditori di verdura e fiori, scrivanipubblici e guardie per mantenere l’ordine.

Oltrepassammo dimore, chiese, negozi e piazze. Tutto vuoto, come fossestato spazzato da un gran vento che avesse portato via uomini e cose.Soltanto nei quartieri più poveri, vecchi e miserabili, nei quali le stradeerano strette e molte delle case di legno erano in rovina e quasi senza tetto,vedemmo qualcuno rannicchiato nell’ombra. Come gli edifici cheoccupavano, erano in rovina, le donne vestite con gli abiti sporchi, tuttifronzoli, delle prostitute, gli uomini con un’aria malandrina e sinistra.

Dopo aver cercato a lungo, trovammo la strada per il ponte Dorogomilovdove, stando alle istruzioni che mi aveva dato Scipion prima che lasciassi laFrancia, avrebbe dovuto esserci la casa del suo amico Hagop Garabidian, unmercante armeno che risiedeva da tempo a Mosca.

Il carro entrò nella vasta corte di un imponente edificio di pietra; con nostrogrande stupore, la corte era piena di gente.

«È questa la casa del mercante Garabidian?» chiese Christian in francese auno degli uomini, che portava uno scatolone di legno.

L’uomo annuì e indicò la porta principale della casa. Edward ed Euphemiarimasero nel carro, mentre Christian e io ci presentammo alla porta, che civenne aperta dal mercante in persona, un uomo quasi calvo, dal viso accesoe dall’aria energica, sui cinquanta, che ci fece entrare nel suo salotto vuoto.Gli dissi che ero un’amica di Scipion du Roure e, a sentire quel nome, il suoviso si illuminò. Ci spiegò però che eravamo arrivati in un momentoinfelice, perché stava per lasciare la città.

«Abbiamo avuto tutti l’ordine di evacuare Mosca il più presto possibile»affermò. «Non è sicuro per nessun cittadino rimanere qui perché staarrivando l’esercito francese e i nostri comandanti militari hanno deciso diritirarsi.»

«Come avete fatto a Borodino» commentò Christian.

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«Sì. Non c’è un proverbio francese su questo tipo di azione?» chiesestrizzando l’occhio. «“Reculer pour mieux sauter?” Arretrare per prenderemeglio lo slancio.»

«Veniamo da Borodino» dissi al nostro ospite. «Abbiamo con noi un feritoche ha bisogno di riposo per poter guarire.»

«Ah, allora la mia casa è vostra, si intende. Vi lascerò l’appartamento degliospiti. Ci sono cibo in cantina e legna nel capanno. La polizia ha confiscatotutte le provviste e il combustibile per non lasciarli ai francesi, ma non èstata molto attenta quando ha perquisito i sobborghi.»

Monsieur Garabidian ci mostrò gli spaziosi appartamenti degli ospiti e poi cilasciò perché ci sistemassimo, annunciando che lui e tutta la servitùsarebbero partiti al calar della notte.

«Vi avverto: non restate più a lungo di quanto è assolutamente necessario»disse mentre se ne andava, tacitando i nostri ringraziamenti con un gestodella mano grassoccia e inanellata. «Mosca è un luogo pericoloso. Ci sonogli sciacalli. Appena arriveranno i francesi, prenderanno la città e nonsaranno più uomini disciplinati. Diventeranno saccheggiatori.»

Lo ringraziammo per l’avvertimento e per il cibo e il rifugio.

Negli appartamenti, vedemmo che gran parte dei mobili era stata tolta, mac’erano un tavolo, parecchi cuscini e un folto tappeto che distendemmodavanti al focolare facendone un letto per Donovan. In cantina trovammoolio per le lampade, carne, farina, bietole e rape, vino e anche una cassetta divodka.

Edward si guardò attorno.

«Se è necessario, possiamo rifugiarci qui, nella cantina» disse. «Garabidianaveva ragione parlando del pericolo dei saccheggiatori e della mancanza dilegalità. Una città così bella, ricca, orgogliosa, abbandonata con tanta fretta.È un invito al saccheggio. Questa casa potrebbe venire assaltata.»

Rabbrividii al pensiero della cantina dei Trois-Îlets la notte in cui la

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piantagione era stata bruciata e noi ci eravamo visti costretti a rifugiarci là,fino a quando Euphemia non ci aveva rivelato una via d’uscita. Il pensieromi gelò il sangue nelle vene: quella notte era stata una delle peggiori cheavessi mai vissuto.

La mattina successiva la corte era deserta e noi comprendemmo che ilmercante e tutta la servitù se ne erano andati. Ma a mezzogiorno udimmo unforte trepestio e lo scricchiolio delle ruote dei carri in movimento e capimmoche i resti della Grande Armée cominciavano finalmente a entrare in città.

Tutto quel pomeriggio e la sera, mentre continuava il rumore dell’esercito inmarcia, rimasi preda della paura, molto più di quanto lo fossi stata aBorodino. Euphemia non era meno spaventata di me.

«È in arrivo il male» si limitava a dire, ma capivo dalla sua aria accigliata chedoveva essere sconvolta. Raramente le sue premonizioni erano sbagliate.

Quella notte non riuscii a dormire. Vegliavo Donovan, temendo che leprofetiche parole di Euphemia potessero riguardare la sua salute. Ma luidormì bene, e la fronte era fresca. Mi sembrava che il suo viso, illuminatodal fuoco guizzante del camino accanto al letto improvvisato, diventasseogni giorno meno pallido. Gli baciai una guancia e gli mormorai che loamavo.

Stanca di vegliarlo, mi alzai e andai alla finestra che si affacciava sul vicinoponte e sui bastioni. In lontananza vidi l’orizzonte illuminato da un chiarore.

Il fuoco!

Chiamai immediatamente gli altri e rimanemmo a guardare la città, semprepiù trepidanti.

«Sono i soldati. Probabilmente accendono fuochi nelle strade per scaldarsi.»

«Perché dovrebbero farlo, quando ci sono tanti edifici vuoti? No, sarannofuochi per cuocere il cibo.»

«O pipe dimenticate accese, che hanno preso fuoco per caso.»

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Tutti avevamo una spiegazione, ma pensavamo la stessa identica cosa senzaavere il coraggio di ammetterlo: se fossero stati i soldati russi a dare fuocoalla città quando l’ultimo cittadino moscovita se ne era andato, perassicurarsi che i francesi non potessero godere del cibo e del combustibilerimasti?

Non tornammo a dormire, ma sedemmo davanti alla finestra, osservando lefiamme che si espandevano, temendo che si sarebbero rapidamente unitetutte in un incendio unico e divoratore e che noi saremmo dovuti fuggire persalvarci. Se davvero i russi avevano appiccato il fuoco, i nostri soldatifrancesi non stavano cercando di spegnerlo? Ci sarebbero riusciti?

Mi dissi in seguito che era una grande fortuna che la casa di HagopGarabidian non fosse al centro di Mosca, dove si trovava la maggiorconcentrazione di costruzioni di legno e dove il fuoco era più devastante, main uno spazioso sobborgo della città in cui le case erano di pietra e nonc’erano depositi o arsenali che potessero costituire un bersaglio per ladistruzione.

Il fuoco infatti divampò, diventando più invadente e avvolgente con ilpassare dei giorni, fino ad accerchiare gran parte della città. Il luogo in cui citrovavamo non bruciò, sebbene l’aria che respiravamo fosse piena di fumonero e di cenere e il calore delle fiamme fosse intenso.

Ricordo soprattutto l’odore. Un fortissimo odore acre che ci infiammava lenarici e ci costringeva a tossire e a bere acqua fino a farci quasi scoppiare lostomaco. Non ho mai più sentito un altro odore simile a quello. Era come setutte le cose vecchie, in rovina, di secoli e secoli, bruciassero, insieme aincenso andato a male e ai peggiori odori di una gigantesca cucina piena dicarne bruciata. Il fetore rimase nei capelli e nei vestiti, ne avvertii il sapore inbocca anche quando l’incendio devastante aveva cominciato a spegnersi, e lacittà un tempo splendida di Mosca era poco più che braci fumanti, fra lecupole macchiate di fuliggine delle chiese di pietra.

Finalmente, dopo circa una settimana, sentimmo che l’aria cominciava afarsi limpida e di notte l’orizzonte era nuovamente buio, senza fiamme chedivampavano nel cielo; si scorgeva soltanto la ferma luce della cometa chebrillava su tutto.

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Decisi allora che era tempo di cercare Bonaparte.

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60Bonaparte, quando infine lo trovai dopo molte ricerche, era in una casa dipietra non intaccata dal fuoco presso la torreggiante fortezza del Cremlino.Era pallido e sconvolto, un uomo prossimo a perdere la ragione.

Camminava dietro una grande scrivania ingombra di carte. Aiutanti dicampo e messaggeri entravano e uscivano in un flusso regolare, recandonuovi documenti e portandone via altri. Sulla scrivania si trovava unbicchiere pieno di un liquido scuro: acqua d’orzo, ne ero certa. Il rimediopreferito di Bonaparte per le emorroidi.

Mentre andava avanti e indietro, con un passo rigido e malfermo, borbottavatra sé, aprendo e chiudendo la tabacchiera e fermandosi un istante perinalare un pizzico di quella polvere giallastra e starnutire violentemente in unfazzoletto scarlatto sin troppo usato. Come dimentico di quanti locircondavano, sputava saliva e muco e si asciugava la bocca con il dorsodella mano paffuta.

«Altezza imperiale» iniziai, rivolgendomi a lui con la formalità che esigeva,ma Bonaparte mi interruppe.

«Immagino siate venuta per il vostro ragazzo.»

Non sembrava sorpreso di vedermi, il che mi stupì e mi confuse. Forse lesue spie gli avevano detto che avevo viaggiato con l’esercito?

«Ebbene, non è qui in questo momento. L’ho mandato altrove, sapete.»

Ora mi sentivo confusa. «Sì» risposi come una sciocca.

«Non preoccupatevi, è vivo. Anch’io, come potete vedere.»

«Comprendo che soffrite.»

«Lo avete sempre compreso.»

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Un messaggero gli portò un documento e lui ne lesse in fretta le poche righe,poi prese una penna, la immerse nel calamaio e scarabocchiò alcune parolein fondo al foglio, facendo cadere macchie d’inchiostro sulla carta e sullascrivania prima di restituire il foglio al messaggero.

Sollevò il bicchiere di acqua d’orzo e bevve. Poi, con uno sguardotempestoso fisso al pavimento, ricominciò a passeggiare rabbiosamenteavanti e indietro.

«Perché mai non sono venuti a offrire la resa?» gridò. «Sono finiti. Li hofiniti a Borodino. Che cosa aspettano?»

«Non saprei, sire.»

«Quel lezioso zar Alessandro, quel bel ragazzo, quel ragazzo in un’uniformeda uomo e quel vecchio puttaniere di Kutuzov, con il suo unico occhiobuono e le sue icone, che diavolo fanno? Sono tanto confusi da nonricordare la strada per Mosca?»

Si fermò e mi guardò, con uno scintillio negli occhi. Aveva avuto unarivelazione.

«Hanno paura di me» gridò. «Ecco. Temono che io li annienti nel momentoin cui metteranno piede nella mia città. È mia la città ora, questa Moscadistrutta. La ricostruirò. Sarà più gloriosa di prima.» Poi urlò:«Messaggero!» e prese un foglio dalla scrivania.

Un ragazzo nell’uniforme delle guardie apparve in risposta al suo ordine.Bonaparte prese la penna e di nuovo la immerse nel calamaio. Ma, quandocercò di scrivere, la mano gli tremò violentemente e non riuscì a vergare leparole. Imprecando, fece un altro tentativo, immergendo e togliendo lapenna dal calamaio con gesti convulsi, facendo gocciolare l’inchiostro. Conun ruggito di impotenza scagliò lontano la penna e gridò alla guardia: «Scriviquesto! Allo zar Alessandro e al suo servo Kutuzov: “Arrendetevi o vidistruggerò. Ha parlato l’imperatore del mondo!”».

La guardia si affrettò a scrivere quello che le veniva detto, poi tese il foglio aBonaparte perché lo firmasse. Lui ci sputò sopra.

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«Ecco. Questa è la mia firma!»

Troppo prudente per reagire a quella bizzarra risposta, l’uomo ripiegò ilfoglio e uscì dalla stanza.

Bonaparte, il viso distorto in una smorfia di dolore, si versò altra acquad’orzo e la bevve.

«Non ci sono medici esperti qui» spiegò a voce bassa. «Corvisart dice chenon può fare più nulla per me.» Corvisart era il suo medico preferito, cheviaggiava sempre con lui. «L’ho mandato a Smolensk con il vostro ragazzo.»

«Eugène è a Smolensk?»

«È partito due giorni fa. Sarei andato con lui, ma devo attendere la resa.»

Ancora una volta, cambiò bruscamente tono. «Fa freddo qui. Portate altralegna per il fuoco.»

I servitori si affrettarono a obbedire, tornando con bracciate di legna eammucchiandole nel camino, già pieno di ciocchi che ardevanovivacemente. La stanza era sgradevolmente calda e presto lo divenne ancoradi più.

«Non sopporto una stanza fredda. O una donna fredda» aggiunse come trasé, ridacchiando. Prese un altro pizzico di tabacco, sputò, e si asciugò labocca.

Vidi che ora camminava più lentamente. Rimanevo silenziosa, in piedi,temendo che, se mi fossi seduta, avrei potuto offendere Bonaparte escatenare la sua collera. Non sapevo bene che cosa fare, che cosa dire. Nonmi ero aspettata di trovarlo nello stato in cui lo vedevo, in una condizionementale in parte avulsa dalla realtà, in parte rabbiosamente impegnata adaffrontarla. Il mio compito, mi ricordai, era quello di annientarlo. Metterefine al suo potere.

Potevo iniziare distruggendo la sua fiducia.

«Si dice che i russi non si arrenderanno. Che si preparano a dare battaglia in

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una zona a nord di Mosca.» Era un’invenzione, naturalmente, ma vidi cheotteneva un risultato. I suoi occhi piccoli si accesero di interesse. «Non si sanulla di certo.»

«Li schiaccerò.»

«Si dice che Kutuzov abbia un milione di uomini e mille cannoni.»

«Sciocchezze!» Ma per un breve istante gli vidi uno sguardo spaventato.«Non ci sono mille cannoni in tutta la Russia.»

«Ne ha ordinati molti in Germania.»

«Io regno in Germania.»

«Non potete controllare tutti i vostri territori. Non è forse vero che vostrofratello Giuseppe ha abbandonato Madrid, lasciando che il paese agli inglesi,e che a Parigi c’è stato un tentativo per rovesciare il vostro governo?»

Un brivido di paura gli attraversò il corpo inquieto. “Non ha dormito”pensai. Era sempre stato il suo punto debole.

Scrollò le spalle e i muscoli della guancia scattarono senza controllo.

«Giuseppe è un vile. Lo è sempre stato. Anche da ragazzi, io ero più giovanema lo battevo regolarmente quando facevamo baruffa. Si arrendeva e poi mitirava delle pietre in testa mentre dormivo. È infido.»

«Lo so. Ha cercato di uccidermi.»

«Io non ho avuto niente a che fare con il tentativo.» Parlava in tono didifesa. «Gli avevo detto di lasciarvi tranquilla.» Il tic nella guancia destra erapiù accentuato e più frequente.

Esitai, poi presi coraggio.

«Ora non importa, perché siamo divorziati. Ma ho avuto davvero un amantementre eravamo sposati. Qualcuno che adoravo, come non ho mai amatovoi.»

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Lui stava per scagliarmisi contro, ma, prima che potesse muoversi, il viso glisi contorse dal dolore e le mani si strinsero allo stomaco.

«Aiutatemi! Datemi qualcosa, qualsiasi cosa, per liberarmi da questodolore.»

Io uscii nel corridoio in cui gli aiutanti di campo e i messaggeri aspettavanoe andai da uno di loro.

«Sono l’imperatrice Giuseppina» dissi. «Mi riconoscete?»

«No...»

Corsi il rischio. Portai il ragazzo nella stanza in cui Bonaparte era crollato suuna sedia, gli occhi chiusi, in preda a uno spasimo.

«Signore» dissi, a voce bassa e tenera «vi prego, permettetemi di mostrare aquesto giovane la miniatura che portate al collo.»

Sentivo che avrebbe portato il mio ritratto, che era sempre stato il suoportafortuna in battaglia. Avevo ragione. Angosciato dal violento dolore cheprovava, non oppose resistenza quando cercai con dolcezza dentro la suacamicia sbottonata – constatando che aveva bisogno di un bagno – e presiuna catenina. Appeso alla catena c’era un mio ritratto di quindici anni prima.Lo mostrai al ragazzo.

Subito si inginocchiò e mormorò: «Altezza imperiale».

«Andate subito a cercare un medico. Ditegli che vi ho mandato io. Portateloqui più presto che potete. L’imperatore ha bisogno di oppiacei. Affrettatevi.»

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61Drogato dagli oppiacei, tormentato dal dolore e gonfio di acqua d’orzo,Bonaparte si trascinò nei suoi giorni a Mosca, tenendomi accanto a sé comeportafortuna.

Io trascorrevo le giornate con lui e la sera tornavo da Donovan e dagli altri,al sicuro nell’appartamento degli ospiti nella proprietà di Hagop Garabidian.La lunga, rossa ferita nell’addome di Donovan cominciava a cicatrizzarsi elui aprì gli occhi e disse poche parole. A poco a poco diventava più forte, epresto fu in grado di stare seduto e di parlare, di mangiare da solo e persino,con l’aiuto di un robusto bastone, di fare qualche passo incerto.

Come avrei voluto trascorrere ogni ora del giorno con lui! Ma Bonaparte,ignaro della presenza di Donovan a Mosca, mi voleva accanto e confidava inme perché la sua sorte mutasse da cattiva in buona. A volte sembravaconfuso e mi chiamava Maria Luisa, o Marinska, il nome con cui chiamavaMaria Walewska, ma era certo che fossi io la donna che voleva accanto.Altre volte era completamente lucido e sapeva benissimo chi ero.

«Giuseppina, mia Giuseppina, dove ho sbagliato? Come ho potuto perdervi?Dal momento in cui ho divorziato da voi, la mia fortuna è cambiata» dissetristemente un pomeriggio, mentre attendeva invano che una delegazionerussa facesse la sua apparizione.

«Sapete quante battaglie ho vinto, quante campagne ho condotto allavittoria? Quasi cinquanta battaglie. E dodici campagne o più, forse il doppio.Che siano gli storici a fare il conto esatto.»

Quei numeri lo rallegravano, ma rimaneva il fatto che adesso, nell’autunnodel 1812, si trovava in una città in rovina, privato della soddisfazione dellavittoria, perché né lo zar Alessandro né il generale Kutuzov venivano aMosca per rispondere alle imperiose domande di Bonaparte e, come i giornisi facevano più corti e la luce più flebile sulla città in rovina, Bonaparterimaneva al buio e meditava tristemente.

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«Sire, avete atteso abbastanza che quei codardi dei russi venissero da voi.Radunate i vostri uomini e riconduceteli in Francia, portando con voi gliallori russi.» Era il generale Berthier, il capo di stato maggiore fedele e forte,che era stato al fianco di Bonaparte in tutte le sue numerose campagnemilitari.

L’imperatore guardò severamente il suo generale. «Prima devonoriconoscermi.»

«Sono asiatici, non europei. Non rientra nelle loro tradizioni.» Berthier erapalesemente esasperato. Mi guardò, facendomi segno di sostenerlo nellosforzo di spingere all’azione il suo imperatore.

Ma io avevo idee diverse.

«Aspetterò ancora dieci giorni» disse gravemente Bonaparte. «Forse inquesto stesso momento i loro messaggeri galoppano verso Mosca portandola corona degli zar come dono per me.»

«Senza dubbio, maresciallo Berthier, non vorreste che l’imperatoreritornasse a Parigi senza qualche segno tangibile della sua vittoria. Dovrebbevenire incoronato qui a Mosca.»

Berthier, stupefatto, mi lanciò uno sguardo furioso. «Altezza imperiale»esplose «una corona, un’incoronazione. Significherebbe rimanere qui persettimane.»

«E allora rimarremo. Giuseppina è d’accordo con me, non è così, mia cara?»

«Naturalmente. La vostra opinione è sempre la migliore.»

«Ma, altezza imperiale, non c’è più cibo a Mosca.»

In questo aveva torto. Noi avevamo cibo, nella cantina di Hagop Garabidian,benché cominciasse a diminuire.

«Ci sono depositi di cibo a Smolensk. Il principe Eugène è stato inviato acercarli.»

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Berthier non cedeva. «Se rimaniamo qui più a lungo, non moriremo soltantodi fame, ma di freddo. Gli uomini accendono già fuochi nelle strade, lanotte, bruciando i mobili delle dimore aristocratiche per scaldarsi. Nonpotete trascorrere l’inverno a Mosca. È molto, molto più freddo che a Pariginei giorni più freddi.»

Ma Bonaparte continuava a dire soltanto: «Non posso tornare in Franciasenza la corona degli zar». Bevve l’acqua d’orzo e mi porse il suo bicchieredi vino, guardandomi mentre contavo mezza dozzina di preziose goccedell’oppiaceo che riusciva a liberarlo un poco dai terribili dolori allostomaco. Presto cominciò ad assopirsi e infine si addormentò.

Un giorno dopo l’altro i più fidati aiutanti di campo di Bonaparte venivanoda lui a dirgli le stesse cose che aveva detto Berthier. Lo imploravano diavere buon senso, di risparmiare i suoi uomini, di ripartire in fretta per laFrancia e poi ritornare nella primavera successiva per consolidare la suavittoria in Russia. Lo esortavano, lo imploravano, lo lusingavano, losupplicavano. Cercavano di allontanarmi con la forza dal suo fiancoaccusandomi di tradimento.

Ma l’imperatore mi stringeva il braccio in una morsa d’acciaio e non volevache io fossi allontanata. «È il mio portafortuna. Senza di lei non sono nulla»ripeteva, e nei suoi occhi si leggeva chiaramente la paura. Quando a nottetarda crollava in un sonno profondo, indotto dall’oppio, Edward veniva e miscortava a casa, intimidendo con la sua statura e la sua forza quelli che eranodiventati i miei aperti nemici.

Ero decisa a far restare Bonaparte a Mosca fino alla prima neve.

Come Berthier e gli altri ripetevano incessantemente, l’esercito non avrebbepotuto marciare a lungo in un clima gelido. Certamente non fino aSmolensk, lontana quasi quattrocento chilometri.

Eppure, in uno stato di semifollia, Bonaparte continuava a opporsi allapartenza e io dovevo soltanto rafforzare quell’atteggiamento avventato,temerario, fino a quando per lui sarebbe stato troppo tardi per salvare ciòche rimaneva del suo esercito, e per salvare se stesso dalla rovina.

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Perché a questo io tendevo: alla sua rovina. La distruzione del demonio cheaveva inviato il fer-de-lance. Mi bastava soltanto rendere più ferma la suadecisione, convincerlo che io ero la sua protezione contro il fallimento easpettare che la stagione cambiasse.

La prima neve del terribile inverno russo cadde con la dolcezza di petali dirosa: i fiocchi leggeri, roteanti, vorticavano nell’aria prima di posarsi lievisulla terra gelata.

Nel giro di poche ore l’aria divenne un velo bianco, denso di scintillantiforme stellate che si ammucchiavano in alti cumuli, oscurando le case, glialberi, i carri, le persone. Quel biancore divenne un sudario, poi unasoffocante coperta di freddo che strappava la pelle e faceva dolere i polmonie la gola.

Durante la notte la neve gelava, rilucendo simile al cristallo, con i bordi duricome vetro rotto; ghiaccio che faceva scivolare gli stivali e gli zoccoli deicavalli, che si spezzava in schegge aguzze e prendeva la forma di lunghesciabole cadendo dai tetti sulle persone e sugli animali.

Con la neve venne il vento, un vento gelido, che intorpidiva le guance, lemani, i piedi e rendeva impossibile vedere la strada da seguire; un vento chepenetrava nelle ossa e annullava ogni altro suono.

Nella neve e nel vento si mise in marcia la Grande Armée il giorno in cuiinfine Bonaparte decise che si doveva abbandonare Mosca.

«Me ne vado» annunciò quella mattina, ritto davanti alla finestra del suostudio e guardando la neve che si stratificava in cortile. «Forse lo zar e i suoigenerali ci aspettano a Smolensk.» Si voltò verso di me. «Nella mia carrozzac’è posto soltanto per me e per Berthier. Voi dovrete trovare la via delritorno come potete.»

Lo lasciai e tornai alla villa presso il ponte Dorogomilov, dove trovaiEdward ed Euphemia con indosso i loro abiti più caldi e Donovan, avvoltoanche lui in pesanti vestiti e appoggiato al bastone, che li aiutava a caricare ilnostro carro con il cibo rimasto. Poco dopo arrivò Christian, seguito da dueuomini dai tratti asiatici, le braccia cariche di pellicce.

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«Ci credereste che esiste ancora un mercato in questa città abbandonata?» cidisse. «Guardate. Ho trovato pellicce, cappelli di pelo e stivali foderati dipelle di foca. Sono quelli usati dalla gente che abita nelle terre di ghiaccio.»

«A mio parere, anche questa è una terra di ghiaccio» disse Euphemia.«Prendo una di quelle pellicce.»

«Ho dovuto dargli una delle vostre collane di diamanti in cambio» misussurrò Christian indicando gli uomini con gli indumenti. «Ma ne valeva lapena. Questi potrebbero salvarci la vita.»

Ci infilammo le calde, pesanti pellicce e ci calcammo bene in testa queibizzarri cappelli. Poi, avvolgendo il nostro povero cavallo in una coperta ecoprendogli la bocca con una delle mie sciarpe di lana, ci avviammo perraggiungere il lungo corteo di uomini in marcia, di cavalieri, carri e carrettiche si muoveva dalla città verso sud.

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62Avevo tanto freddo.

Riuscivo a pensare soltanto a questo.

Nonostante la pelliccia, il cappello e gli stivali che Christian aveva acquistatoe i molti strati di gonne e sottogonne che avevo indossato, continuavo arabbrividire e battevo ininterrottamente i denti. Mi rannicchiavo accanto aDonovan, senza tuttavia sentire più caldo; lui era ghiacciato come me.

Cercavamo di seguire il carro che ci precedeva, ma era molto difficile vedereche cosa si aveva davanti, tanto era densa la neve e accecante il candore checi circondava. Ci sentivamo soli, avvolti nei fiocchi che sciamavano,trasformando tutto quello che riuscivamo a scorgere in incerti mucchibianchi.

Continuavamo ad avanzare, un’ora dopo l’altra, disperatamente infreddolitie, infine, anche affamati. Ma quando la luce si affievoliva e ci fermavamoper la notte, con la pancia vuota, il modesto fuocherello che riuscivamo adaccendere vacillava fin quasi a spegnersi. Edward raccoglieva rami umidi dasotto la neve, e, foderandone il carro, ci impediva di trasformarci inghiaccioli. Ci rifugiavamo in quella caverna di rami, il fiato come quello diuna vaporiera, i denti che battevano. Però non gelavamo.

Ma il fuoco, scoprimmo, può languire se l’aria è sufficientemente fredda, e ilnostro ci dava appena il calore sufficiente per sciogliere la teiera piena dineve. Quanto meno, potevamo farci una sorta di tè, che aveva un saporegradevole e calmava per qualche tempo i brontolii dello stomaco.

Le rape e le bietole erano gelate, la farina era diventata tutta blocchetti dighiaccio e, se Edward un giorno non avesse trovato qualche uccello morto, iloro corpicini ancora tiepidi, saremmo dovuti andare a dormire affamati.Spellammo e facemmo bollire a metà gli uccelli, li mangiammo avidamente eci distendemmo per dormire.

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Al mattino tutto era come il giorno precedente: un biancore che avvolgevaogni cosa, nuvole di neve che oscuravano il sole e un freddo polare.Proseguimmo, ma poco tempo dopo vedemmo dei soldati sulla strada; nonsoldati vivi, ma ghiacciati, che giacevano al suolo, semicoperti dalla nevefresca. Alcuni sembravano addormentati, il viso sereno, altri guardavanocon gli occhi sbarrati, la bocca aperta in un vuoto assoluto.

Non potevano più essere aiutati. Ci facemmo in fretta il segno della croce eproseguimmo, cercando di non pensare che presto saremmo stati come loro,morti lungo la strada.

«Maledetto Bonaparte!» gridai. «Spero che muoia anche lui!» Ma sapevo chesi trovava in una carrozza calda, non in un carro aperto come il nostro, contutti i lussi, inclusi i suoi stivali preferiti foderati di seta, che indossava perproteggere i bei piedi morbidi di cui andava fiero. Tuttavia, mentre lomaledicevo, comprendevo di avere svolto un ruolo importante neltrattenerlo a Mosca. Avevo puntato tutto sul suo straripante orgoglio, sullasua gelosia, sulle sue debolezze fisiche, per impedirgli di partire. E adessovedevo il risultato.

Pure, mentre guardavo i soldati congelati, immaginavo quello che avrebbedetto Orgulon – e che Euphemia aveva detto –, cioè che il male scatenato daBonaparte nel mondo andava distrutto e che noi ne stavamo guardandol’annientamento. Era il male minore, provocato per evitarne uno maggiore.

Nascosi il viso sulla spalla di Donovan e piansi.

Lottando contro il freddo, strofinandomi ininterrottamente le braccia nellosforzo di riscaldarle un poco, tendendo i muscoli contro l’assalto del ventoimplacabile, mi sentivo sempre più stanca. Intorpidita nella mente e nelcorpo. Guardai i miei compagni, coperti di ghiaccio, pieni di geloni, e misentii stranamente distaccata da loro. Non avvertivo l’ansia, il desiderio diaiutarli che avrei abitualmente provato. Ero troppo sprofondata nella miamiseria.

Ci parlavamo poco. Era già molto che riuscissimo a compiere i pochi gestinecessari. Non ci rimaneva energia per pensare ad altri che a noi stessi. Misentii terribilmente sola. Non riuscivo nemmeno a pregare, ma soltanto a

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ripetere le parole: “Padre nostro, Padre nostro” ininterrottamente, fino aquando diventavano un suono senza significato, un lieve suono perduto nelvasto silenzio.

Poi finalmente venne un giorno di sole.

Non si sciolse la neve, naturalmente: soltanto alcune gocce. Poi si formaronorivoli ai nostri piedi e, a mezzogiorno, apparvero improvvisamente ruscelli ailati delle strade fangose che emergevano dalla neve.

Il sole pallido, debole, era caldo e io alzai il viso verso i suoi raggi.

Per la prima volta dopo tanti giorni potemmo accendere un vero fuoco.Euphemia riuscì a fare un brodo con la farina e le verdure e consumammouna specie di pasto, pur bruciandoci la bocca con la minestra calda, tantoeravamo ansiosi di berla. Ridemmo: da quanto tempo non ridevamo più! Cisorridemmo. Donovan e io ci abbracciammo con amore.

Poi sentimmo il battito degli zoccoli.

Da lontano venivano uomini a cavallo, non nell’uniforme azzurra deicorazzieri o nei pastrani grigioblù dei lancieri, ma nelle pellicce e nelle pelliscure dei cosacchi.

«Indietro!» gridò Donovan facendo cenno a Euphemia e a me dinasconderci dietro gli uomini, che stavano tirando fuori i moschetti.Euphemia obbedì subito.

«Io posso sparare con questo» dissi fiduciosamente afferrando uno deifucili. «Mi ha insegnato mio padre quando ero ragazza.»

«Prendi.» Donovan mi porse il coltello che portava sempre con sé.«Adopera questo se devi.»

C’erano quattro uomini a cavallo, molto più veloci del nostro carro,nonostante la neve e il fango della strada. Donovan e Edward ne ferironodue, che tornarono indietro, ma ne rimanevano altri due, e questicontinuavano a correre verso di noi, frustando i grossi e forti cavalli,urlando con quanto fiato avevano in gola e sguainando lunghe sciabole

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ricurve.

Cominciai a gettare via oggetti dal carro: i tappeti nei quali dormivamo, lateiera di bronzo e il paiolo, i nostri pochi effetti personali, e, per ultimo, ilmio prezioso cofanetto dei gioielli.

Il cofanetto cadde su una lastra di ghiaccio, e rubini, smeraldi e zaffirirotolarono tutti quanti fuori, luccicando al sole invernale, come se fosseroaccesi dall’interno da piccoli fuochi.

Dimenticandosi di noi, gli uomini fermarono i cavalli e, balzando in fretta aterra, cominciarono a raccogliere le gemme.

Christian colpì uno di loro al petto, mentre Edward e Donovan corsero versol’altro, assalendolo e gridando. Ci fu una rissa, altre grida, e il cosacco caddesotto i colpi del calcio del moschetto di Edward.

«Raccogliete tutto, presto, prima che tornino gli altri.» Facemmo come avevadetto Donovan e avemmo la presenza di spirito di perquisire i due cosacchi ele sacche da sella dei loro cavalli. Non trovammo cibo, ma monete d’oro equalche anello nuziale maschile, sottratti probabilmente a precedenti vittime.Riprendemmo con molta cautela il cammino dopo aver ricaricato imoschetti. Io mi tenni vicino il cofanetto dei gioielli.

Quel giorno non incontrammo altri cosacchi, ma vedemmo cose terribili: inostri soldati infreddoliti e disperati che saccheggiavano i cadaveri dei lorocompagni congelati e arrivavano a strappare il cibo dalle braccia dei morenti.

Donne al seguito dell’esercito abbandonate lungo la strada, sedute in gruppidesolati. Tamburi sfondati, corazze abbandonate, bandiere di reggimenticadute nella neve che nessuno aveva raccolto. Corvi che divoravano i cadutie le carcasse dei cavalli. In lontananza, di notte, sentivamo il lugubre ululatodei lupi.

Quando guardavo nel deserto candore nei lunghi giorni della fame, mibruciavano gli occhi. Sbattevo ripetutamente le palpebre, ma il bruciorepersisteva. Continuava anche il ronzio alle orecchie, e i miei poveri dentirotti pulsavano di dolore. Avvertivo come migliaia di piccoli pugnali piantati

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nelle gengive e altre migliaia conficcati nelle tempie quando mi colpiva ilconsueto mal di capo. Euphemia, che aveva i suoi dolori e i suoi tormenti,mi massaggiava la testa e cantava per me, ma, tra il freddo e la pancia vuota,mi sentivo a volte così sventurata che volevo soltanto rinunciare alla lottaper vivere.

Venne un giorno in cui non ci fu più cibo, niente da dare al poveromagrissimo cavallo, un giorno in cui anche l’aria sembrava fatta di ghiaccio.“È la fine” pensai. “Non possiamo continuare.”

Mi si chiusero le palpebre. Tremavo senza potermi controllare. Cercavo dipensare, ma la mia mente era confusa. Stordita, mi distesi e mi assopii.

Non saprò mai se fu un sogno o un’apparizione o se aprii gli occhi e vididavvero quello che credetti di vedere. Davanti a me c’erano uomini inuniformi azzurre strappate, i piedi sanguinanti avvolti in fasce sottili, con ilsangue che usciva e macchiava di rosso il tessuto, i visi avvolti in barbeirrigidite dal ghiaccio, le mani vuote. Passarono oltre con la testa china, unodietro l’altro in un corteo senza fine, inermi contro i colpi della neve.

Li vidi, o credetti di vederli, e, con uno scatto dei muscoli, aprii la bocca eurlai.

Poi udii Donovan che mi scuoteva, mi diceva di svegliarmi, e io pensai:“Non voglio lasciarlo”. Sentii il suo tocco, aprii gli occhi e cercai con tutte lemie forze di restare sveglia.

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63Le slitte erano coperte di campanelli che tintinnavano chiassosamente.Venivano rapide verso di noi, scivolando con facilità sulla neve e sulghiaccio della strada, gli zoccoli dei cavalli avvolti in feltro pesante perevitare che scivolassero.

Ne contammo tre, poi quattro, e infine sei: l’ultima a raggiungerci si fermòperché quelli che viaggiavano potessero porgere cestini e pacchi ai soldati.Incredibilmente, ci diedero formaggio e pesce salato, una forma di pane ecognac e fieno per il cavallo.

«Provviste del principe Eugène, per ordine di sua altezza imperialel’imperatore!» gridarono gli occupanti della slitta mentre ci porgevano quelbottino.

Facemmo del nostro meglio per gridare la nostra gioia, benché avessimo lavoce arrochita e la gola dolente.

«Il principe Eugène!» gridai all’uomo più vicino a me. «È con voi?»

«No, Madame, è a Smolensk.»

«Sono sua madre. Abbiamo bisogno del suo aiuto.»

Le mie parole vennero accolte da uno stupefatto silenzio. Poi, all’unisono,gli uomini della slitta balzarono a terra dirigendosi verso di me, Donovan,Christian e gli altri, e invitandoci a unirci a loro ci fecero spazio perchépotessimo stenderci sopra soffici coperte di pelliccia e ci porsero il primocibo ben cotto che avessimo mangiato da molti giorni, formaggio, pesce epane.

Quel giorno vennero nutriti anche molti soldati affamati della GrandeArmée, benché il loro numero fosse grandemente diminuito e alcuni, troppomalridotti per poter mangiare, dovessero essere abbandonati lungo la strada.Eugène aveva mandato tutto il cibo che poteva da Smolensk, ci dissero i

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nostri nuovi compagni, ma i depositi erano stati saccheggiati dai russi ebuona parte delle riserve che si aspettava di trovare era sparita, insieme contutti gli animali vivi e gli equipaggiamenti.

Ci portarono a Smolensk e il viaggio fu veloce, perché i cavalli venivanocambiati alle stazioni di posta ogni venti chilometri (com’era tutto diversodal tratto di strada che avevamo percorso con tanto freddo e stanchezza!) ela slitta sembrava volare più che sobbalzare sulla terra gelata. Quandoarrivammo, Eugène ci fece alloggiare nel palazzo che usava come suoquartier generale.

Mi abbracciò con gioia e io piansi sulla sua spalla forte. Parlammo per oredella campagna, di Bonaparte, della sua strana condotta e della suaostinazione nel non voler lasciare Mosca se non quando era troppo tardi perevitare la neve e il ghiaccio. Naturalmente non dissi nulla a Eugène della miamissione privata. Gli lasciai credere di essere venuta a est in cerca diDonovan. La cosa gli sembrò plausibile e io non aggiunsi altro.

«Abbiamo ancora un lungo viaggio davanti a noi» disse infine, fattosi cupo,più vecchio dei suoi trentun anni. «L’esercito non può sperare di raggiungerela Francia prima di sei settimane, come minimo, e prego di trovare irifornimenti di cui abbiamo bisogno a Minsk, perché qui non è rimastonulla.

«Vi mando a sud con i vostri amici» proseguì. «A Milano, dove si trova lamia famiglia, passando per Kiev e Budapest. Avrete tutte le provviste di cuiabbisognate e, naturalmente, una scorta militare. Augusta e i bambinisaranno molto felici di accogliervi a Milano e potrete restare quantovorrete.»

«Grazie, Eugène, vorrei soltanto che potessi venire con noi.»

«I miei uomini hanno bisogno di me» replicò soltanto, e non era necessarioaggiungesse altro, perché io sentivo quanto era forte il legame tra mio figlioe gli uomini che comandava. Ero molto orgogliosa di lui, sebbene mibastasse guardarlo per sentirmi in colpa. Avevo contribuito a distruggerequalcosa che per lui significava molto. La sorte della Grande Armée nonpoteva non ferirlo, e non c’era nulla da fare.

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Tre settimane dopo eravamo a Milano: l’aria era profumata – quanto meno ame sembrava tale – e i giardini ancora verdi. Potei trascorrere il Natale con imiei nipotini e diventai cliente di tutti i negozi di giocattoli milanesi, o cosìmi pareva, acquistando bambole e soldatini, cavalli a dondolo e cani e orsiimbottiti, per non parlare dei bauli di vestitini che ordinai per la piccola cheportava il mio nome e per sua sorella Eugénie, degli abiti di velluto scarlattoper il solo figlio maschio di Eugène, Auguste, e del corredino bordato dipizzo d’oro per la piccola Amélie, che aveva pochi mesi.

I bambini mi abbracciavano, mi baciavano, mi sedevano sulle ginocchia emi offrivano dolci; mi prendevano per mano e mi trascinavano in giardinoper giocare a mosca cieca. Io correvo sull’erba e li inseguivo, e lorostrillavano ridendo e andavano a nascondersi nella residenza estiva.Giocavamo a rincorrerci nella luce del pomeriggio invernale, e Augusta, lamia affettuosa nuora, mi rimproverava dolcemente perché mi stancavotroppo.

In verità ansimavo e il petto mi doleva per una tosse da cui sembravo nonguarire. Mi dicevo che prima o poi sarebbe passata e cercavo di ignorare losguardo ansioso nei dolci occhi di Augusta. Quando arrivò Hortense daSaint-Leu con i suoi ragazzi, la tentazione di stancarmi troppo con i nipotidivenne ancora più forte. Donovan si univa a noi, insegnando al belNapoleone Luigi, che aveva nove anni ed era molto turbolento, a tirare diboxe, e sfidandomi a cavalcare con lui e il ragazzo, sebbene i venti digennaio fossero freddi e io dovessi indossare le pellicce russe perriscaldarmi.

Ero sciocca, lo riconosco. Ma quanto bisogno avevo, in quel momento, diessere circondata dalla famiglia, dopo le esperienze che avevo vissuto. Misembravano molto preziosi quei nipotini, con il viso sereno e le manineaperte, che cercavano la nonna. Loro non avrebbero conosciuto la miseria ola paura. Non ci sarebbe stata una rivoluzione a oscurare le loro vite e aminacciarli. Sarebbero vissuti sempre nella prosperità e nell’affetto. Questoera quanto meno quello che ardentemente speravo mentre li stringevo a me,sapendo assai bene che non potevo predire il loro futuro, per quante volteleggessi le carte.

Ci fermammo mesi a Milano, facendo del nostro meglio per ignorare gli

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allarmi di guerra che ci raggiungevano dall’Austria e dalle terre tedesche.Edward ci lasciò per tornare al suo reggimento, ma Christian rimase, dietromia richiesta, perché ormai dipendevo molto da lui e avevamo grande affettoreciproco. Donovan e io eravamo più uniti che mai; passeggiavamosottobraccio nel pomeriggio come una vecchia coppia di sposi, mentrel’atmosfera di famiglia ci circondava come un balsamo. Insegnai aGiuseppina e a Eugénie a ricamare, e in primavera piantai felci, palme ecanna da zucchero nei giardini del palazzo, raccontando ai bambini che ioero cresciuta in mezzo ad alti campi di canna che emanavano un odoredolce. Giocavamo a carte e acquistavamo la bella seta milanese, e io facevodel mio meglio per riempire le mie giornate con passatempi gradevoli,ignorando la debolezza che mi accompagnava sempre e i pensieri cupi che avolte si facevano strada nella mia mente anche nelle ore più felici.

Euphemia mi teneva d’occhio e osservava i cambiamenti nella miaespressione e nel mio umore.

«Sono di nuovo le orecchie o i denti?» chiedeva porgendomi un bicchiere diacqua di fiori d’arancio, il mio rimedio sovrano.

Non potevo fare a meno di sorridere. A lei mi era impossibile nasconderequalsiasi cosa.

«Entrambi» dicevo. A volte le orecchie mi rimbombavano in modo terribile,come se tutti i cannoni dei campi di battaglia russi esplodessero nella miatesta. E quando questo accadeva, i miei poveri denti spezzati sentivano lavibrazione che veniva dalle orecchie e cominciavano a dolermi.

«Se soltanto fossimo a casa, prenderei delle lingue di usignolo, lepolverizzerei e ve le darei in una radice di mango la notte di luna piena.Allora stareste meglio.»

«E le tue povere ginocchia, Euphemia? Che cosa potresti fare per loro?»

«Camminare di più. Sedere al sole. Andare dal quimboiseur nella piazza delmercato.»

Non facevamo mai il nome di Orgulon, ma spesso alludevamo a lui e lo

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ricordavamo.

Una sera limpida, proprio al crepuscolo, portai i bambini in giardino perchéammirassero il cielo notturno. Volevo che vedessero la cometa di Orgulon,la grande luce che aveva mandato per guidarmi e proteggermi. Ma quandoalzai lo sguardo alla vastità del cielo che si incupiva, vidi soltanto il flebilesplendore del tramonto e le prime stelle scintillanti. La grande cometa erasvanita: non esisteva più.

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64I milanesi cominciavano a farsi inquieti. Il nostro rifugio di pace e sicurezzastava per venirci tolto.

Vivevamo nel palazzo di Eugène ed Eugène era viceré d’Italia, ilrappresentante del potere francese, del potere di Bonaparte. Ma il potere diBonaparte stava crollando. A uno a uno i regni che aveva conquistato siaffrancavano, e anche i milanesi volevano la loro libertà.

Conoscevo sin troppo bene i segni della ribellione: le campane chesuonavano a distesa a tutte le ore della notte, le folle furiose che siassembravano nelle strade, le nuove guardie che venivano chiamate adifendere il palazzo. Le truppe austriache minacciavano di calare dal Nord epresto avrebbero invaso le terre di cui Eugène era viceré, sebbene lui fosseassente. Era ancora lontano, nei territori tedeschi o in Francia, non losapevamo con certezza. Ovunque fosse, era al fianco di Bonaparte, comesempre, guidando in battaglia le truppe francesi e perdendo, perché erachiaro che il regime di Bonaparte si avviava alla fine.

Presto avremmo dovuto lasciare Milano, ma dove potevamo andare? MandaiHortense e i suoi ragazzi a Saint-Leu e Augusta e i bambini si diressero asud, in una villa nei pressi di Napoli, lontani dalle sommosse e dallebattaglie.

Arrivò un messaggero al palazzo, il principe Černyšev, mandatomi dallo zarAlessandro. Christian lo introdusse nella sala in cui io lo aspettavo e ci lasciòsoli.

Il principe indossava l’uniforme bianca e il cappello con le piume verdi diun ufficiale della guardia imperiale. Alto, regale, i capelli biondo argento,aveva l’aspetto di qualcuno che aveva trascorso tutta la vita in salottielegantemente arredati, vedendo ogni suo desiderio soddisfatto da rispettosiservitori. Parlava francese con la facilità che sembrava appartenere a tutti gliaristocratici russi. Lo ricevetti seduta su un divano, vestita con metri e metridi seta rosa pallido, abilmente disposti, i miei capelli tinti pettinati all’insù in

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uno stile giovanile, la bocca chiusa per nascondere i miei poveri denti.

Il principe si avvicinò, si inchinò e mi baciò la mano.

«Altezza imperiale, sono stato mandato dallo zar per una questione moltourgente.»

«Sì, parlate pure.»

«L’esercito dello zar Alessandro ha sconfitto la Confederazione del Reno epresto invaderà la Francia. I nostri alleati austriaci saranno a Milano trapochi giorni. Dovete partire subito. Quando i milanesi saranno liberati, nonrisparmieranno il palazzo e chi lo abita.»

Per quanto mi studiassi di rimanere calma, a quelle parole sentii un brividodi paura. Ricordavo sin troppo bene i massacri di Parigi durante laRivoluzione, le pareti macchiate di sangue delle Tuileries quando Bonapartee io ci eravamo trasferiti là.

«Sua altezza imperiale lo zar mi ha chiesto di offrirvi, a suo nome e dietrosuo invito, il palazzo Gončarov a San Pietroburgo. Potrete abitarvi tutto iltempo che volete, come sua ospite. Vi verranno forniti tutta la servitù e tuttigli arredi necessari, e sua altezza imperiale vi offrirà un’ottima pensione.»

Si inchinò nuovamente, e io lasciai che le sue parole indugiassero nell’aria,senza rispondere. Avevamo bisogno di un rifugio, ma tornare in Russia!Non riuscivo a immaginarlo.

«Sua maestà è molto amabile e molto generoso. Rifletterò sulla sua offerta.»

«Vi esorto, prima di decidere, a pensare a quello che vi trovereste adaffrontare se decideste di lasciare Milano per la Francia. In Francia non c’èche caos e miseria. Le banche falliscono tutte. La gente cerca disperatamentedi andarsene. Manca il cibo. Ovunque regnano le rivolte, l’illegalità. Ilnuovo re, quando salirà al potere, non otterrà la lealtà dei suoi sudditi senzal’aiuto dei soldati russi. Tra qualche tempo, la Francia sarà territorio russo.»

«Credo che l’imperatore Napoleone non sia ancora stato detronizzato.»

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«Lo sarà presto. E quando succederà, vi converrà trovarvi in Russiapiuttosto che in Francia.»

Ringraziai il principe e salii nei miei appartamenti, poi uscii sulla terrazza chedava sul lago. Pensai alla mia vecchia casa alla Malmaison e mi chiesi chi sioccupasse del lago e che cosa fosse accaduto ai miei cigni neri e ai miei beigigli d’acqua. Gli occhi mi si riempirono di lacrime e compresi che piangevonon soltanto per i cigni e i gigli d’acqua e la mia bella casa, ma per tutti igiorni e le notti che vi avevo trascorso, a volte nella speranza, a volte nellapaura.

“Mai più, mai più!” gridai dentro di me. “Datemi pace ora, pace e sicurezza esperanza.” Ma dove le avrei trovate? “Qual è il solo posto della terra in cuirifugiarsi, in cui il mondo non possa trovarmi e costringermi a vivere, noncome voglio io, ma come decidono altri?”

Andai a parlare con Donovan. Faceva i bagagli, preparandosi per un viaggio.Per un momento ebbi paura. Mi lasciava di nuovo per uno dei suoi viaggisegreti? Ma il suo sorriso e il suo breve bacio mi rassicurarono.

«Che cosa doveva dirti il russo?»

«Mi ha offerto un palazzo a San Pietroburgo con la servitù e una pensione.»

«E tu che cosa hai detto?»

«Che avrei riflettuto, ma soltanto per essere cortese. Non potrei mai tornarein Russia. Non dopo tutto quello che è accaduto. Ti ho quasi perduto, là.»

Lui si fermò e mi prese le mani nella sua, guardandomi negli occhi.

«Yeyette, perché non torniamo alla Martinica? Possiamo lasciarci alle spalletutta questa confusione, tutti i nostri tristi ricordi. Voglio liberarmidall’oscurità e dalla maledizione. Ho ancora la mia piantagione, BonneFortune. Prima di partire l’ho affidata a Jules-sans-nez, con un buon gruppodi schiavi liberati. Gli ho detto che se riusciva a vendere una discretaquantità di canna a un buon prezzo per trarne un profitto, gli avrei dato metàdella terra. Andiamo a vedere se ha avuto successo.»

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Sentii un senso di calore a quelle parole. La Martinica! La mia vecchia patria.Risi. «Euphemia sarebbe entusiasta» dissi.

«E tu, amore mio? Saresti entusiasta, mia imperatrice?»

Gli caddi tra le braccia, felice e sollevata. «Sì, sì» ripetei più volte, la vocecosì soffocata che cominciai a tossire e, per qualche tempo, non riuscii asmettere, cosicché Euphemia dovette darmi lo sciroppo che mi intorpidiva lamente.

Andai a sdraiarmi nella mia camera, chiedendo a Donovan di esprimere ilmio rammarico al principe Černyšev e al suo imperiale padrone spiegandoche mi vedevo costretta a rifiutare la sua generosa offerta. Lui mi sedetteaccanto sul letto.

«Dunque è sistemato» disse all’improvviso in tono deciso. «Partiremodomani per Genova. So che a Genova posso trovare un capitano di naveinglese che ci condurrà a Lisbona, e da Lisbona possiamo probabilmenteandare a Bristol e poi alla Martinica.»

«Donovan» dissi, la voce impastata «prima di partire, vorrei visitareun’ultima volta la Malmaison.»

«Sei sicura? È così lontana dalla nostra strada.»

«Voglio vedere nuovamente i miei cigni neri» spiegai, mentre la mia voce siindeboliva e io mi addormentavo.

«D’accordo, se proprio devi. Scriverò a Clodia e le dirò di preparare la casaper noi.»

Le sue parole mi destarono.

«Clodia! La mia cameriera intrigante di tanti anni fa?»

«Proprio lei. L’avevo spedita alla Martinica per togliercela dai piedi, perchéci creava troppi problemi. Ne avevo fatto la mia governante a BonneFortune. Là è vissuta felice. Adesso si è sposata e ha una sua famiglia.»

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«E per tutto questo tempo ho creduto che tu l’avessi fatta uccidere.»

Donovan scosse la testa, stupito. «Ma che cosa pensavi di me? Come poteviimmaginare una cosa simile?»

«Era scomparsa. Quando Bonaparte faceva sparire la gente, significavasempre che la mandava a morte. Avevo finito per aspettarmelo. Perdonami.»

«È stata colpa mia. Avrei dovuto dirtelo.»

In quel momento avrei voluto osservare che la vita è piena di misteri, ma erotroppo stanca. Chiusi le palpebre e sentii il passo leggero di Donovan sulpavimento di mattonelle mentre usciva silenziosamente.

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65Siamo tornati alla Malmaison e tra dodici giorni incontrerò il re.

Dodici giorni nei quali farmi fare il nuovo abito di crespo rosa, impararel’etichetta della nuova corte e trovare una medicina migliore per questaterribile tosse che non si ferma mai e mi dà acuti dolori al petto e alla gola.

Non pensavamo di fermarci tanto a lungo alla Malmaison, ma la vecchiaferita di Donovan lo ha tormentato e io sono stata sopraffatta da ospiti evisitatori non invitati ansiosi di vedere l’ex imperatrice, e confesso di esseremolto stanca a volte per tutto quello che è accaduto negli ultimi mesi.

I russi hanno preso Parigi, come mi aveva detto il principe Černyšev,Bonaparte è stato costretto ad abdicare e il nuovo re, Luigi XVIII, è salito altrono.

Tutta Parigi guarda a bocca aperta lo spettacolo di una nuova corte e di unnuovo monarca, anche se il monarca non ha un portamento regale. L’hovisto da lontano: è molto grasso, pomposo e piuttosto ridicolo. Zoppica perla gotta e dicono che abbia unghie dei piedi così lunghe che si deve far farescarpe speciali.

Che cosa gli dirò quando lo incontrerò? Ho la voce bassa e ruvida e simormora che lui sia duro d’orecchio, perché ha quasi sessant’anni.

Se ci troviamo simpatici, potrei invitarlo al ricevimento per festeggiare il miocompleanno il mese prossimo. (Ovviamente, se non saremo partiti per laMartinica.) Compirò cinquantun anni, come Euphemia mi ricorda sempre.Dice che cerco di fare troppe cose ma, a essere sincera, io mi diverto,nonostante la stanchezza che a volte mi vince. Ci sono tante persone davedere: vecchi amici come Fanny de Beauharnais, che si è proclamata la piùfedele suddita di Luigi XVIII, Juliette Récamier e il principe di Salm, evecchi nemici come Bellilotte, un tempo amante di Bonaparte, che èdiventata mia amica, Laure de Girardin, l’amante del mio primo marito, allaquale feci avere una pensione anni fa di cui mi è grata, e l’altera duchessa de

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la Rochefoucauld, che adesso mi fa la riverenza con le sue vecchie ossa efinge di avermi sempre servito di buona voglia. La povera Maria Luisa halasciato da tempo Parigi ed è tornata con il figlio dalla sua famiglia inAustria. Dicono che è stata felice di andarsene.

Confesso che tanta attenzione mi rallegra, anche se i più energici tra i mieiospiti mi stancano con le loro interminabili chiacchiere e le loro richieste cheio usi la mia influenza con il nuovo re per ottenere posti a corte. Si servonodi me, naturalmente, c’era da aspettarselo.

Sono ansiosa di tornare alla Martinica, però voglio restare alla Malmaisonalmeno fino a quando avrò conosciuto il nuovo re. Immagino che mi offriràun posto a corte, una posizione creata espressamente per me. Non sonoimparentata con la famiglia reale, ma dopo tutto sono stata imperatrice, enon è una cosa da poco. (Il nome di mio marito, naturalmente, non vienemai fatto. Ma lui era un usurpatore puro e semplice, mentre io sono unaaristocratica francese per nascita e mio padre aveva servito alla corte delnonno del nuovo re, Luigi XV.)

Scipion è venuto ad abitare alla Malmaison e mi ha promesso di scortarmialle Tuileries per conoscere il nuovo re. È arrivato circa una settimana fa,chiamato da Eugène. Eugène è in pena per me. Aggrotta la fronte quando miguarda, dice che sono troppo magra e ho il viso troppo rosso. Cerca diconvincermi a mangiare di più, ma io non ho fame, sono troppo emozionatada tutto quello che accade.

Eugène si preoccupa troppo, i miei dottori sono d’accordo con me in questo.Però mi accorgo che non dormo bene e ho i nervi tanto tesi che il minimorumore mi scuote. A volte immagino di sentire soldati che entranofragorosamente nel cortile e allora mi metto a sedere sul letto e grido.Euphemia viene e mi conforta.

Soldati. Il solo pensiero mi spaventa. Mi chiedo se questo re porterà dinuovo la Francia in guerra, se saremo mai liberi dalla paura delle battaglie.Non saremo mai liberi dai soldati, di questo sono certa, neanche allaMartinica. Ma, come dicono in quella verde isola da me tanto amata, siamotutti nelle mani del fato e io aspetto che il mio fato segua una nuova svolta.Guardo con ansia e gioia a questo nuovo futuro.

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EPILOGO

di Scipion Du RoureSento che è mio triste dovere concludere la storia di Yeyette. Euphemia laconosceva da più tempo e meglio di quanto la conoscessi io, ma è tropposconvolta per scrivere, e Donovan, un uomo spezzato dal dolore, sembraimpazzito.

Come una candela luminosa, la mia Yeyette si è consumata. Nelle ultimesettimane era abbagliante. Andava a balli nei quali lo zar Alessandro laonorava e danzava con lei; prendeva il tè con il re di Prussia; riceveva ospitialla Malmaison; leggeva e rispondeva a lettere che le venivano inviate ognigiorno da gente che chiedeva il suo aiuto. Da lontano sembrava giovane.Soltanto se ci si avvicinava, le rughe del viso e le ombre negli occhi stanchirivelavano l’età. Si muoveva con la grazia di una donna molto più giovane,ma sembrava che non riuscisse a fermarsi. Non voleva prendersi una pausae aveva sempre troppa fretta.

Tutti cercavamo di convincerla a riposare, e i tre medici che Hortense avevafatto venire da Parigi le avevano ordinato di mangiare di più e di prenderegocce per dormire. Ma non serviva a nulla. Io lo capivo. La conoscevo bene.Aveva perduto il languore che aveva sempre avuto, e quando me ne accorsicompresi che non poteva durare a lungo.

Aveva tanto sperato di conoscere il re, ma due giorni prima di quello fissatoper andare alle Tuileries cominciò a starnutire e la tosse si aggravò molto. Ilsuo povero corpo era tutto un prurito per un terribile sfogo (lo chiamava,non so perché, “la vendetta delle Buonaparte” e ne rideva). Nel giro di pocheore lottava per respirare.

Ci riunimmo tutti al suo capezzale, Hortense ed Eugène, Euphemia,Donovan, io e il suo devoto servitore Christian. Molti altri volevano vederla,ma li tenemmo lontani, anche lo zar, pur permettendo al suo medico divisitarla.

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Alla fine ci abbracciò calorosamente, ma non poteva parlare. Vidi checercava di farlo e immaginai che la parola che avrebbe voluto dire fosse“amore”.

Tra i fogli che lasciò nei suoi ultimi giorni, ce n’è uno che non dimenticheròmai. Scriveva:

Una parte di me ha sempre camminato nel mondo come una straniera,portando un dono che non ho mai compreso. Muoio avendo condotto atermine il mio compito. Lascio dietro di me un soffio di mistero, undolce profumo che viene da un luogo lontano. Ricordatemi.

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NOTA PER IL LETTORECome i miei precedenti romanzi – Il diario nascosto di Maria Antonietta eL’ultima moglie di Enrico VIII –, La vita segreta di Giuseppina è undivertissement storico, non un romanzo storico. Racconto la vicenda diGiuseppina in prima persona e dal suo punto di vista, narrativamenteimmaginato e arricchito. I lettori desiderosi di conoscere meglio la figurastorica di Giuseppina ne troveranno descritta la vita nella mia biografia su dilei.

Fra le altre cose, la Giuseppina storica non andò mai in Russia, non ebbemai un amante chiamato Donovan e non aiutò mai (per quanto si sappia) afar nascere un bambino durante una ribellione di schiavi. Ma era unafornitrice dell’esercito molto venale e soffriva di terribili emicranie. Ed ebbedavvero numerosi amanti, fra i quali un uomo più giovane, HippolyteCharles, al quale rimase legata a lungo.

Dopo avere scritto molte biografie e libri di storia, e numerosi romanzi conuno pseudonimo, mi sono cimentata con grande piacere in un divertissementstorico per mettere insieme realtà e invenzione. Ringrazio i miei cortesilettori che hanno accolto con entusiasmo questo mélange spumeggiante.

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