La vita religiosa nell’Italia repubblicana · La vita religiosa nell’Italia repubblicana 653...

22
La vita religiosa nell’Italia repubblicana di Maurilio Guasco Alcune osservazioni di don Primo Mazzolari potrebbero mettere in imbarazzo chi si ap- presta a proporre qualche considerazione sulla storia religiosa degli ultimi decenni. Nei primi due mesi del 1949 il parroco di Bozzolo analizza ampiamente la situazione politico-religiosa negli articoli che pubblica sul suo giornale appena fondato, “Adesso”. Siamo in clima di guerra fredda, l’Italia si avvia a firmare il patto Atlantico, gli schie- ramenti sono ben delineati, molti pensano che tutto il bene stia da una parte e tutto il male dall’altra. Dopo qualche esitazione, il mondo cattolico sembra avere fatto le sue scelte: l’unità politica è un dovere, legato per molti a ragioni ideologiche, per i restanti a ragioni storiche, essa si realizza nell’ade- sione indiscussa alla Democrazia cristiana. La politica internazionale non offre alterna- tive: costituiti i blocchi e le sfere di influen- za, non esistono motivazioni che possano suggerire qualche esitazione nella scelta del- la parte con cui schierarsi. L’anticomuni- smo, messo necessariamente in sordina nel periodo della Resistenza e nei mesi successi- vi, quando la presenza delle sinistre al go- verno è quasi un esito scontato e obbligato- rio nella difficile situazione postbellica, ri- torna ormai nelle sue manifestazioni e nelle sue motivazioni profonde, e segnerà forte- mente gli anni cinquanta e il pontificato di Pio XII. In questo clima, Mazzolari sembra muoversi in un altro pianeta: scrive che il mondo vive ormai una profonda dicotomia, poiché giustizia e libertà non camminano più insieme, si sono separate, installandosi nei blocchi contrapposti. Continua poi nel suo articolo: “Chi cerca la libertà si volge ad Occidente; chi cerca la giustizia, ad Oriente. E la prima pare una parola vuota di senso ai poveri; la seconda, un proposito pauroso ai benestanti. I poveri si sono spostati verso Oriente, anche se non hanno garanzie suffi- cienti, per un istinto che altri chiama fanati- co, ma che potrebbe essere anche qualche cosa di religioso”1. Cosa significavano queste espressioni? Solo le fantasie un po’ devianti di un populi- sta illuso, come qualcuno pensò e scrisse al- lora? Sempre nel 1949, quando Mazzolari pubblica analisi poco consone alla linea do- minante, giunge anche la scomunica per quanti professano la dottrina marxista, e specificamente i comunisti e quei socialisti che non hanno ancora mandato Marx in soffitta. Al di là delle esegesi che si possono fare del documento, resta un dato: un nu- mero piuttosto alto dei candidati alla sco- munica si trova proprio fra quelli che, se- condo l’espressione di Mazzolari, si rivolge- vano a Oriente, spinti da un sentimento qua- si religioso. È nota la reazione disincantata 1 Primo Mazzolari, Giovani coscienze cristiane di fronte alla possibile guerra, “Adesso”, 15 settembre 1950, p. 5. “Italia contemporanea”, dicembre 1990, n. 181

Transcript of La vita religiosa nell’Italia repubblicana · La vita religiosa nell’Italia repubblicana 653...

Page 1: La vita religiosa nell’Italia repubblicana · La vita religiosa nell’Italia repubblicana 653 proporre qualche linea di lettura della storia religiosa, iniziando ancora una volta

La vita religiosa nell’Italia repubblicanadi Maurilio Guasco

Alcune osservazioni di don Primo Mazzolari potrebbero mettere in imbarazzo chi si ap­presta a proporre qualche considerazione sulla storia religiosa degli ultimi decenni. Nei primi due mesi del 1949 il parroco di Bozzolo analizza ampiamente la situazione politico-religiosa negli articoli che pubblica sul suo giornale appena fondato, “Adesso”. Siamo in clima di guerra fredda, l’Italia si avvia a firmare il patto Atlantico, gli schie­ramenti sono ben delineati, molti pensano che tutto il bene stia da una parte e tutto il male dall’altra. Dopo qualche esitazione, il mondo cattolico sembra avere fatto le sue scelte: l’unità politica è un dovere, legato per molti a ragioni ideologiche, per i restanti a ragioni storiche, essa si realizza nell’ade­sione indiscussa alla Democrazia cristiana. La politica internazionale non offre alterna­tive: costituiti i blocchi e le sfere di influen­za, non esistono motivazioni che possano suggerire qualche esitazione nella scelta del­la parte con cui schierarsi. L’anticomuni­smo, messo necessariamente in sordina nel periodo della Resistenza e nei mesi successi­vi, quando la presenza delle sinistre al go­verno è quasi un esito scontato e obbligato- rio nella difficile situazione postbellica, ri­torna ormai nelle sue manifestazioni e nelle sue motivazioni profonde, e segnerà forte­mente gli anni cinquanta e il pontificato di

Pio XII. In questo clima, Mazzolari sembra muoversi in un altro pianeta: scrive che il mondo vive ormai una profonda dicotomia, poiché giustizia e libertà non camminano più insieme, si sono separate, installandosi nei blocchi contrapposti. Continua poi nel suo articolo: “Chi cerca la libertà si volge ad Occidente; chi cerca la giustizia, ad Oriente. E la prima pare una parola vuota di senso ai poveri; la seconda, un proposito pauroso ai benestanti. I poveri si sono spostati verso Oriente, anche se non hanno garanzie suffi­cienti, per un istinto che altri chiama fanati­co, ma che potrebbe essere anche qualche cosa di religioso”1.

Cosa significavano queste espressioni? Solo le fantasie un po’ devianti di un populi­sta illuso, come qualcuno pensò e scrisse al­lora? Sempre nel 1949, quando Mazzolari pubblica analisi poco consone alla linea do­minante, giunge anche la scomunica per quanti professano la dottrina marxista, e specificamente i comunisti e quei socialisti che non hanno ancora mandato Marx in soffitta. Al di là delle esegesi che si possono fare del documento, resta un dato: un nu­mero piuttosto alto dei candidati alla sco­munica si trova proprio fra quelli che, se­condo l’espressione di Mazzolari, si rivolge­vano a Oriente, spinti da un sentimento qua­si religioso. È nota la reazione disincantata

1 Primo Mazzolari, Giovani coscienze cristiane di fronte alla possibile guerra, “Adesso” , 15 settembre 1950, p. 5.

“Italia contemporanea”, dicembre 1990, n. 181

Page 2: La vita religiosa nell’Italia repubblicana · La vita religiosa nell’Italia repubblicana 653 proporre qualche linea di lettura della storia religiosa, iniziando ancora una volta

652 M a u r i l io G u a s c o

di un prelato romano di fronte al decreto, da lui considerato poco opportuno. Se la sco­munica ‘attacca’, aveva commentato, avre­mo tredici milioni di scomunicati, che è certo un bel problema; se non attacca, perché comminarla? Probabilmente la scomunica non ‘attaccava’, poiché non erano molti a rientrare nella categoria descritta dal decreto vaticano. Ma questa ultima considerazione diventa anche più determinante per chi vo­glia proporre qualche considerazione su una storia religiosa: poiché se i tanti milioni di votanti a sinistra non incorrevano nella sco­munica in quanto non potevano essere consi­derati atei militanti (un’alta percentuale degli stessi aveva anche conservato una qualche pratica religiosa), gli stessi però sceglievano scientemente di adottare un comportamento politico esplicitamente condannato dalla ge­rarchia ecclesiastica. Riaprendo così il capi­tolo, al quale da vari anni ci hanno abituati storici e sociologi della religione, del difficile connubio, nella storia della Chiesa, tra reli­gione prescritta e religione vissuta.

D’altra parte, gli storici sono più facilmen­te tentati o attratti dallo studio della religio­ne prescritta: le personalità anche ecclesiasti­che fanno notizia, e in anni recentissimi tale rischio è ulteriormente aumentato, dal mo­mento che i mezzi di comunicazione sembra­no tornati a vere e proprie forme di papola- tria, riducendo tutta la vita della Chiesa alla vita di un ristrettissimo corpo dirigente. Non si può però dimenticare che è più facile fare programmi di ricerca sulla vita del popolo fe­dele di quanto non sia il realizzarli; e che molti di coloro che scrivono che bisogna fare la storia non della religione prescritta, ma di

quella vissuta, sono poi spesso i primi ad oc­cuparsi della religione prescritta, magari in nome del fatto che non si dà società senza capi e senza strutture, e che in fondo sono poi quelle che contano e restano. Per que­sto, non si può che concordare con Silvio Lanaro, quando scrive:

In d a ffa r a ti d ie tro a lle v ice n d e del c a tto lice s im o p o lit ic o — certo u tili per co m p ren d ere a p p ien o le or ig in i di u n ’e g em o n ia — g li s tu d io s i h a n n o sp es­so d im e n tica to ch e n o n si d à stor ia so c ia le d e ll’I­ta lia c o n te m p o ra n ea sen za sto r ia d e lla se c o la r iz ­z a z io n e e d eg li a n tid o ti ap p resta ti d a lla C h iesa per co m b a tter la ; d e tto a ltr im en ti, n o n si so n o a c ­co rti ch e per cap ire come ca m b ia la so c ie tà in un p a ese im p reg n a to d i c a tto lice s im o fin n e lle su e f i ­bre p iù r ip o ste la s to r ia del c le ro , d e lla ca tech esi, d ella p a sto ra lità , d e ll’a p o s to la to è in fin ita m en te p iù im p o rta n te di q u e lla d e ll’O p era d ei c o n g r ess i, d e l p a tto G en tiio n i, d el P a rtito p o p o la re o d ella D e m o cr a z ia cr istia n a 2.

Ma l’accordo con Lanaro non porta a di­menticare che forse anche questa pagina, co­me tante altre del libro da cui proviene, è volutamente e salutarmente provocatoria, ma finisce da un lato di rischiare l’ambiguità (studiare gli “antidoti apprestati dalla Chie­sa” per combattere la secolarizzazione può ancora una volta risolversi nello studio della religione prescritta), dall’altro di dimentica­re che cominciano a esistere non poche e non banali ricerche di storia della pastorali­tà, di storia della catechesi, di storia dell’a­postolato, di storia della parrocchia, che non si risolvono affatto in una storia dell’O­pera dei congressi o del patto Gentiioni3. È chiaro che simili osservazioni sanno un po’ di giustificazione non richiesta, per chi vuole

2 Silvio Lanaro, L ’Italia nuova. Identità e sviluppo 1861-1988, Torino, Einaudi, 1988, p. 129. Lo stesso autore ag­giunge poi in nota che mentre il suo lavoro era ormai in bozze è apparso il volume di Guido Verucci, La chiesa nel­la società contemporanea. Dal primo dopoguerra al Concilio Vaticano II, Bari, Laterza, 1988, la cui premessa por­ta a pensare che “il vuoto lamentato qui sia stato in parte riempito”. Ma l’opera di Verucci, pur se di vasto respiro e con interessanti pagine di sintesi, non mi pare rispondere del tutto a quelle attese espresse da Lanaro.3 Chi dedicasse qualche tempo allo spoglio sistematico di un certo numero di riviste specializzate, nell’ambito della pastorale, della catechesi, della liturgia, accumulerebbe un elenco di studi e di ricerche, pur di diverso e talvolta an-

Page 3: La vita religiosa nell’Italia repubblicana · La vita religiosa nell’Italia repubblicana 653 proporre qualche linea di lettura della storia religiosa, iniziando ancora una volta

L a v i t a r e l ig io s a n e l l ’I t a l i a r e p u b b l i c a n a 653

proporre qualche linea di lettura della storia religiosa, iniziando ancora una volta da una storia dei vertici, da una storia di problemi forse più politici che religiosi, dall’analisi di scelte che sono fatte dalla gerarchia e forse non corrispondono né alle attese né ai com­portamenti successivi dei credenti: ma esiste una storia religiosa che non sia strettamente connessa con la storia politica? Esiste una comunità di credenti le cui scelte di fede non siano messe in causa, sollecitate, costrette a continui ripensamenti dalle scelte politiche o dalle contingenze economiche?

La Chiesa del dopoguerra

È opinione condivisa dagli storici dei più di­versi orientamenti che la chiesa cattolica,

nonostante gli ambigui rapporti con il regi­me fascista, uscisse molto rafforzata dalla drammatica esperienza della guerra: se non altro, perché aveva vissuto atteggiamenti e scelte ben diverse e ben più dignitose delle altre istituzioni pubbliche, dalla monarchia all’esercito alla classe dirigente politica4. Non si era levata neppure quella ventata di anticlericalismo, che secondo alcuni osserva­tori avrebbe dovuto travolgere la Chiesa e i suoi organismi. Anzi, sembrava che uno dei valori da salvare a tutti i costi fosse proprio la pace religiosa; in nome di essa si sarebbe­ro fatte scelte anche inattese, fino a ratifica­re quei patti Iateranensi che parevano rap­presentare solo un deleterio ricordo del regi­me. Fu proprio in nome della pace religiosa che si accettò, pur nella comune volontà di giungere presto a modifiche sostanziali, un

che di scarso valore, certamente rilevante. Esistono poi numerosi studi dedicati proprio a quegli aspetti che Lanaro considera del tutto trascurato. I volumi dedicati alle visite pastorali della regione veneta, pubblicati dalle Edizioni di storia e letteratura, — come ad esempio Franca Lucchiari (a cura di), Le visite pastorali di Antonio Polin nella diocesi di Adria, 1884-1899, Roma, Edizioni di storia e letteratura, 1981 (Vicenza, Istituto per le ricerche di storia sociale e storia religiosa); Filiberto Agostini (a cura di), Le visite pastorali di Giuseppe Callegari nella diocesi di Pa­dova, 1884-1888/1893-1905, presentazione di Gabriele De Rosa, Roma, ivi, 1981 (Vicenza, Istituto per le ricerche di storia sociale e storia religiosa) — sono numerosi e noti: se non tutti conservano la stessa impostazione e lo stesso rigore metodologico, quasi sempre presentano ampie introduzioni dedicate alla storia della pastorale. In proposito, e per una informazione su ricerche analoghe, si può ancora vedere: Aa.Vv., La società religiosa nell’età moderna. A tti del convegno studi di storia sociale e religiosa, Napoli, Guida, 1973. Nella stessa linea, si può vedere Storia vis­suta del popolo cristiano, direzione di Jean Delumeau, ed. it. a cura di Francesco Bolgiani, Torino, Sei, 1985. Un’altra proposta di rilievo, per le indicazioni di ricerca e per i saggi che già contiene, è rappresentata dal volume a cura di Gabriele De Rosa e Angelomichele De Spirito, La parrocchia in Italia nell’età contemporanea, Napoli, De- honiane, 1982, mentre alla storia della parrocchia è dedicata un’ampia ricerca di Vincenzo Bo, limitata per ora ai primi secoli del cristianesimo. L’elenco potrebbe diventare rilevante, se dessimo uno sguardo alle ricerche di storia locale, di valore e impegno vario. Posso citare, solo a titolo di esempio e proprio per la loro attenzione specifica al­la storia della pastoralità, Gaetano Zito, La cura pastorale a Catania negli anni dell’episcopato Dusmet (1867- 1894), Acireale, Galatea, 1987, e Cataldo Naro, Momenti e figure della chiesa nissena dell’Otto e Novecento, Cal- tanissetta, Ed. del Seminario, 1989. Di grande interesse anche la ricerca di Andrea M. Erba, Preti del sacramento e preti del movimento. Il clero torinese tra azione cattolica e tensioni sociali in età giolittiana, Milano, Angeli, 1984, poi ampiamente sviluppata in Id., “Proletariato di chiesa" per la cristianità. La Faci tra curia romana e fascismo dalle origini alla Conciliazione, 2 volumi, Roma, Herder, 1990.4 Fra le opere che dedicano attenzione al problema, si possono vedere in particolare Pietro Scoppola, La proposta politica di De Gasperi, Bologna, Il Mulino, 1977, e alcuni dei saggi raccolti nel volume di Francesco Traniello, Cit­tà dell’uomo. Cattolici, partito e stato nella storia d ’Italia, Bologna, Il Mulino, 1990. Ma si veda pure Francesco Malgeri, La chiesa italiana e la guerra (1940-1945), Roma, Studium, 1980 e i saggi dello stesso Malgeri in Chiesa, cattolici e democrazia. Da Sturzo a De Gasperi, Brescia, Morcelliana, 1990. Un’interessante sintesi, anche per gli anni successivi, in Giovanni Miccoli, Chiesa, partito cattolico e società civile, in L'Italia contemporanea 1945-1975, a cura di Valerio Castronovo, Torino, Einaudi, 1976, pp. 191-252 (ora in G. Miccoli, Fra mito della cristianità e se­colarizzazione. Studi sul rapporto chiesa-società nell’età contemporanea, Casale, Marietti, 1985, pp. 371-427).

Page 4: La vita religiosa nell’Italia repubblicana · La vita religiosa nell’Italia repubblicana 653 proporre qualche linea di lettura della storia religiosa, iniziando ancora una volta

6 5 4 M a u r i l io G u a s c o

trattato che conteneva in sé non pochi ele­menti non del tutto consoni al nuovo ordi­namento democratico; forse anche perché da parte del Vaticano si diede spesso l’im­pressione di volere leggere tutto in questa chiave, finendo per condizionare i parla­mentari democristiani e spingerli a diventa­re, secondo l’espressione di Jemolo, “senti­nelle con le quali non si discute”, persone che hanno più “una consegna a cui adempie­re, che non un’intima persuasione”5.

Quella pace religiosa avrebbe però lascia­to presto il posto a una guerra neppure tan­to fredda: la primavera del 1948 avrebbe rappresentato il momento culminante di quella guerra, nel corso di una delle campa­gne elettorali più memorabili. Si trattava or­mai di salvare, più che la pace religiosa, quella società cristiana che proprio gli anni del regime sembravano avere rimesso in au­ge; e lo strumento maggiore sarebbe stato il partito, l’impegno nella politica ma anche l’impegno nel sociale, con le varie organiz­zazioni, e quindi il coinvolgimento nel pro­getto di evangelizzazione di un numero ele­vatissimo di cittadini, attraverso lo strumen­to principe dei vari rami dell’Azione cattoli­ca. Anche nel periodo in cui la scelta della Democrazia cristiana come strumento privi­legiato di intervento nel politico non è anco­ra stata fatta, si parla esplicitamente, come fa ad esempio “La Civiltà Cattolica” nel marzo 1945, del “dovere della unione fra i cattolici” . Un dovere che sarà presentato spesso come ineludibile, e che certamente

rappresenta uno degli elementi portanti per una lettura della storia religiosa di questi de­cenni. Logicamente, quel dovere è stretta- mente connesso con un diritto: quello che la Chiesa rivendica di intervenire in materia po­litica, quando questa coinvolge problemi di morale e di costumi, riservandosi anche il di­ritto di decidere su quelle connessioni. Tale rivendicazione è una delle costanti dell’inse­gnamento di Pio XII, per nulla disposto a tollerare limitazioni, e altrettanto convinto che i vescovi debbano sentire la responsabili­tà di imporre ed esigere il rispetto della disci­plina ecclesiastica. I vescovi saranno solleciti a eseguire le consegne: insisteranno a loro volta sul diritto di intervento della Chiesa, ri­corderanno il dovere dei credenti di votare sempre e solo per quei candidati che diano garanzie di rispettare la religione, dopo avere manifestato un certo agnosticismo quando si era trattato di decidere sulla scelta tra mo­narchia e repubblica. In seguito, anche i ve­scovi si allineeranno sulla scelta apertamente anticomunista: anche se forse quella omoge­neità negli indirizzi e nelle scelte da parte del­l’episcopato italiano, di cui si è spesso parla­to, era meno profonda di quanto non fosse dato a vedere, fino a giustificare in qualche modo l’affermazione di un certo pluralismo ecclesiale negli anni di Pio XII6.

Sono tutti temi noti e ampiamente studia­ti; così come sono ben noti gli orientamenti e l’attività delle varie associazioni di caratte­re ecclesiale, politico o sindacale7. Altrettan­to noti i non sempre facili rapporti di Alcide

5 Arturo Carlo Jemolo, Chiesa e Stato in Italia negli ultimi cento anni, Torino, Einaudi, 1963, p. 516.6 È quanto emerge dal volume Le chiese di Pio XII, a cura di Andrea Riccardi, Bari, Laterza, 1986 e da Chiese ita­liane e Concilio. Esperienze pastorali nella chiesa italiana tra Pio X II e Paolo VI, a cura di Giuseppe Alberigo, Ge­nova, Marietti, 1988. Per quanto concerne gli interventi vaticani e dei vescovi italiani su tematiche politiche, resta ancora utile il volume di Alfonso Prandi, Chiesa e politica. La gerarchia e l ’impegno politico dei cattolici in Italia, Bologna, Il Mulino, 1968.7 È questa la ragione per cui in questo saggio viene dedicato maggiore spazio, pur nella necessaria sinteticità, agli anni settanta e ottanta, privilegiando poi alcune linee interpretative, più che l’esposizione di fatti. Fra le sintesi di particolare utilità, si può vedere il già ricordato saggio di G. Miccoli, Chiesa, partito cattolico e società civile. Varie tematiche vengono affrontate dagli autori di Pio XII, a cura di A. Riccardi, Bari, Laterza, 1984, mentre alcune li-

Page 5: La vita religiosa nell’Italia repubblicana · La vita religiosa nell’Italia repubblicana 653 proporre qualche linea di lettura della storia religiosa, iniziando ancora una volta

L a v i ta r e l ig io s a n e l l ’I t a l i a r e p u b b l i c a n a 655

De Gasperi, il protagonista della vita politi­ca negli anni del dopoguerra, con gli am­bienti vaticani e con lo stesso Pio XII8: che forse gli rimprovera di non credere troppo a una politica cristiana e a uno stato confes­sionale, di fare scelte e coltivare alleanze troppo laiche; rimproveri che in qualche modo finiranno per coinvolgere anche uno degli ispiratori di numerosi uomini politici legati alla Democrazia cristiana, il filosofo francese Jacques Maritain. Il suo nome tra l’altro ne richiama un altro, quello di Gio­vanni Battista Montini, uno dei primi a leg­gere e far conoscere in Italia i libri di Mari­tain. Anzi, proprio queste ascendenze e que­sti legami sono da diversi commentatori considerati uno degli elementi che porteran­no alla decisione di allontanare da Roma il discreto e laboriosissimo prosegretario di Stato: per fargli fare quell’esperienza pasto­rale che gli manca, in vista della sua futura elezione al pontificato, diranno alcuni; per tenerlo lontano da Roma ed evitare proprio quella elezione, non essendo tra l’altro insi­gnito della dignità cardinalizia, diranno altri.

La successione a De Gasperi avrebbe de­terminato anche forti tensioni e problemi nella comunità ecclesiale: gli anni del centri­

smo sono anche gli anni degli sguardi am­miccanti verso destra, culminati nei dram­matici mesi del governo Tambroni, proprio mentre è in corso un acceso dibattito sulle possibilità di un’alleanza verso sinistra. Un dibattito che fa emergere i primi sintomi di quello che sarà l’atteggiamento degli anni sessanta, quando la discussione su quella possibilità si sposta dal piano ideologico al piano storico: prima per dire che pur restan­do ferma l’opposizione ideologica, non si vede perché non si possa immaginare una collaborazione sul terreno sociale con i so­cialisti, se questi restano fedeli ai metodi de­mocratici; in seguito, per dire che le preclu­sioni anche ideologiche dovevano pur fare i conti con la storia, che porta lentamente gruppi e partiti a modificare profondamente la propria ispirazione, anche se nati da ideo­logie contrapposte e, in questo caso, incom­patibili con la fede religiosa. Insomma, si passa dalla impossibilità alla inattualità. So­no le premesse delle note tesi di papa Gio­vanni, espresse esplicitamente nella Pacem in terris del 1963, pubblicata quasi negli stessi giorni in cui Togliatti enuncia principi analoghi nel discorso di Bergamo9.

Non si era trattato di un processo indolo­re, e a più riprese i vescovi italiani erano in-

nee interpretative vengono presentate da G. Alberigo, La chiesa italiana tra Pio X II e Paolo VI, nel citato volume di G. Alberigo (a cura di) Chiese italiane e Concilio, pp. 15-34. Ampia anche la saggistica dedicata agli orientamen­ti anticomunisti; se ne vada una sintesi in Giorgio Vecchio, Il conflitto tra cattolici e comunisti: caratteri ed effetti (1945-1958), in Aa.Vv., Chiesa e progetto educativo nell’Italia del secondo dopoguerra (1945-1958), Brescia, La Scuola, 1988, pp. 443-475. Sulla vita della Chiesa nei decenni postbellici, Giacomo Martina, La chiesa in Italia ne­gli ultimi trent’anni, Roma, Studium, 1977, e gli ultimi due volumi della Storia del movimento cattolico in Italia, diretta da F. Malgeri, Roma, Il Poligono, in particolare il volume VI, I cattolici e la società italiana negli ultimi trent’anni, 1981. Su una linea interpretativa diversa, Filippo Mazzonis, La chiesa di Pio XII: dalla riconquista alla diàclasi, in Aa.Vv., Storia della società italiana, voi. 23, La società italiana dalla Resistenza alla guerra fredda, Mi­lano, Teti, 1989, pp. 129-228.8 Su questi aspetti, oltre all’epistolario dello stesso De Gasperi, De Gasperi scrive. Corrispondenza con capi di sta­to, cardinali, uomini politici, giornalisti, diplomatici, a cura di Maria Romana De Gasperi, Brescia, Morcelliana, 1974, e ai lavori della figlia, Maria R. Catti De Gasperi, De Gasperi, uomo solo, Milano, Mondadori, 19655, si ve­da in particolare P. Scoppola, La proposta politica di De Gasperi, cit. Per gli ambienti romani che condizionano anche le scelte politiche, A. Riccardi, Il “partito romano” nel secondo dopoguerra (1945-1954), Brescia, Morcellia­na, 1983. Una rassegna saggistica internazionale più recente in G. Miccoli, Aspetti e problemi del pontificato di Pio XII. A proposito di alcune pubblicazioni recenti, “Cristianesimo nella storia” , 1988, n. 2, pp. 343-427.9 Vedi in Paimiro Togliatti, Opere, vol. VI, 1956-1964, Roma, Editori Riuniti, 1984, pp. 697-707.

Page 6: La vita religiosa nell’Italia repubblicana · La vita religiosa nell’Italia repubblicana 653 proporre qualche linea di lettura della storia religiosa, iniziando ancora una volta

656 M a u r i l io G u a s c o

tervenuti, talvolta anche senza molta discre­zione, per ricordare l’assurdità di un’alleanza a sinistra; e non deve sembrare singolare che tali interventi fossero diventati anche più duri proprio nei primi anni del pontificato giovan­neo10. Il papa seguiva una sua scelta, e non in­tendeva derogarvi anche se forse non si senti­va a suo agio constatandone le conseguenze. Aveva scelto di vivere maggiormente il suo ruolo di vescovo di Roma e di responsabile delle chiese del mondo, più che di primate d’I­talia; e quindi interveniva meno nelle vicende italiane, lasciando ai vescovi quel compito, anche per abituarli a un lavoro comune e crea­re le basi e la mentalità di una conferenza epi­scopale nazionale. Era così emersa anche maggiormente la linea non molto morbida dell’arcivescovo di Genova, Giuseppe Siri; e il cardinale Alfredo Ottaviani poteva ironizzare sui maniaci dell’apertura a sinistra, definiti “comunistelli di sacrestia”11. Si trattava in qualche modo, anche se solo in seguito se ne avrebbe avuto coscienza, degli ultimi fuochi d’artificio di una linea in fase di esaurimento: se è vero che papa Giovanni l’aveva in qual­che modo favorita, dando spazio a certe voci in nome dell’autonomia dei vescovi, è altret­tanto vero che con i suoi gesti e con la convo­cazione del Concilio stava tagliando l’erba sotto i piedi proprio a quella linea; che non sa­rebbe stata per nulla favorita negli anni suc­

cessivi dagli interventi, talvolta flebili, di Paolo VI, che già come arcivescovo di Milano aveva dimostrato in non poche occasioni di saper cantare fuori dal coro di una conferenza episcopale italiana poco abituata alla ricchez­za ed agli stimoli di una dialettica interna, considerata non come strumento di crescita, ma come ipotetico cattivo esempio nei con­fronti di una comunità di credenti che si vor­rebbe molto più omogenea di quanto spesso si dimostri.

Il Concilio vaticano II

Gli anni sessanta si aprono dunque con que­gli ultimi fuochi di artificio; ma sono carat­terizzati da quello che si sarebbe rivelato il vero spartiacque, l’evento più significativo della storia della chiesa contemporanea, il Concilio ecumenico vaticano II, con la sua volontà di dialogo con il mondo e le nuove culture, con la sua ricerca dei nuovi modi di essere per la chiesa, di un nuovo linguaggio, di un atteggiamento che ponesse definitiva­mente in soffitta i ricordi di una chiesa co­stantiniana e le nostalgie della cristianità co­me dominio sul mondo12. Il concilio si pre­sentava come un evento liberatorio, anche per gli stessi vescovi: i quali sperimentarono un clima di libertà forse mai provato, fatto

10 Ampia analisi in A. Riccardi, II potere del papa da Pio X II a Paolo VI, Bari, Laterza, 1988. Con il solito straor­dinario acume, don Milani aveva colto immediatamente le ragioni di tale svolta, come appare dalle conversazioni riportate da Neera Fallaci, Dalla parte dell’ultimo. Vita del prete Lorenzo Milano, Milano, Libri edizioni, 1977, p. 268, brano citato in A. Riccardi, Il potere del papa, cit., p. 177.11 Molta attenzione a questi temi viene dedicata da Sandro Magister, La politica vaticana e l ’Italia 1943-1978, Ro­ma, Editori Riuniti, 1979. Pagine interessanti anche in Roberto Sani, Da De Gasperi a Fanfani. “La Civiltà Catto­lica” e il mondo cattolico italiano nel secondo dopoguerra (1945-1962), Brescia, Morcelliana, 1986.12 Riprendo qualche osservazione dal mio saggio Religione e società nell’Italia degli anni sessanta e settanta, in Cri­si sociale e mutamento dei valori. L ’Italia negli anni sessanta e settanta, a cura di Nicola Tranfaglia, Torino, Tirre- nia Stampatori, 1989, pp. 133-151. La bibliografia in proposito è logicamente vasta, e di diversissimo valore. Un orientamento generale su temi e bilanci storiografici si può trovare negli atti del convegno tenuto presso l’École française di Roma nel maggio 1986: Le deuxième Concile du Vatican (1959-1965), Roma, École française, 1989. Per un’analisi di grande respiro, Vaticano II: bilancio e prospettive venticinque anni dopo (1962-1987), a cura di René Latourelle, 2 volumi, Assisi, Cittadella, 1987. Una prima riflessione sulla ricezione del concilio nella Chiesa

Page 7: La vita religiosa nell’Italia repubblicana · La vita religiosa nell’Italia repubblicana 653 proporre qualche linea di lettura della storia religiosa, iniziando ancora una volta

L a v i t a r e l ig io s a n e l l ’I t a l i a r e p u b b l i c a n a 657

di discussioni, di entusiasmi e di polemiche, di alleanze, di contatti. Un clima di libertà che si manifestò fin dall’inizio nel rifiuto de­gli schemi preparati dalle commissioni come base di discussione, e nella richiesta, esaudi­ta dal papa dopo qualche momento di ap­prensione generale, di una revisione radicale di quei testi, considerati un po’ troppo cu­riali, affidando il lavoro di revisione a nuo­ve commissioni elette dal concilio stesso.

In San Pietro si udirono allora discorsi inauditi, impensabili fino a poco tempo pri­ma, sulla Chiesa come popolo di Dio e non essenzialmente come gerarchia, sui rapporti con le chiese cristiane e anche le altre confes­sioni (il grande nodo dell’ecumenismo), sulla povertà nella Chiesa, sulla pace fra gli uomini al di là di ogni frontiera politica e religiosa, sulla necessità di pensare a precise condanne nei confronti di chi continuava a fare una po­litica degli armamenti, e di chi possedeva ar­mi atomiche. Non tutto logicamente sarebbe passato nei testi finali: ma il fatto che fosse detto da vescovi, in un simile contesto, senza provocare rotture nella Chiesa, acquistava uno straordinario significato, rompeva con molti schemi e con certe tradizioni. Una gran­de trasformazione anche per i vescovi, che spesso uscivano frastornati da quei dibattiti, ma spesso anche trasformati. Riscoprivano la cattolicità della Chiesa, aprivano i loro oriz­zonti, conoscevano direttamente situazioni a cui non avevano mai pensato davvero, si con­frontavano con modi diversi di vivere la stes­sa fede da parte di altri vescovi.

Un concilio che voleva prima di tutto esse­re un evento pastorale: e proprio per questo più importante di altri, poiché non si limitava a ribadire dottrine ormai consolidate, ma si

chiedeva come trasmetterle, come calarle in tutte le culture, recuperando uno degli aspetti essenziali della missione della Chiesa, quello dell’annuncio. Un concilio che guardava il mondo per capirlo, non per condannarlo; con uno sguardo ottimista, carico di simpa­tia, che guarda la storia non con l’impressio­ne di trovarsi di fronte ad un elenco di aberra­zioni, ma in presenza del luogo in cui si attua e agisce la Parola di Dio. Tutti temi, questi, che saranno a più riprese svolti anche in di­versi interventi e discorsi dallo stesso pontefi­ce, fin dalla Costituzione con cui indiceva il concilio, discorsi che sollevarono vasta eco e consensi. I testi conciliari, alcuni dei quali contenenti affermazioni di straordinario vi­gore e novità, venivano quindi affidati agli episcopati nazionali perché ne facessero teso­ro e li realizzassero nelle loro chiese locali, fi­glie ciascuna di storie diverse, di tradizioni e consuetudini consolidate, nelle quali ad esempio i rapporti con la società civile e con lo Stato erano fondati su una separazione consensuale o diffidente, oppure, come in Italia, su rapporti modellati dalla mentalità e dalla consuetudine concordataria.

L’episcopato italiano, nel periodo imme­diatamente successivo al concilio, visse con atteggiamenti alterni le conseguenze che ne derivavano. Al concilio il ruolo dei vescovi italiani non era stato di primo piano. Senza voler ricorrere a semplicistiche distinzioni di destre e di sinistre, certamente furono pochi i vescovi italiani a influire nei momenti decisi­vi, e quelli che intervenivano più spesso in au­la nelle discussioni svolgevano piuttosto un ruolo frenante. Era quindi difficile che quei vescovi potessero diventare i realizzatori del concilio. Ci furono casi interessanti, anche di

in II Vaticano II e la chiesa, a cura di G. Alberigo e J.P. Jossua, Brescia, Paideia, 1985. Per la chiesa italiana, G. Alberigo (a cura di) Chiese italiane e Concilio, cit., e II Vaticano II nella chiesa italiana: memoria e profezia, Assi­si, Cittadella, 1985. Rappresenta una significativa testimonianza la corrispondenza pubblicata da Francesco Miche­le Stabile, Il Cardinale Raffini e il Vaticano II. Le lettere di un “intransigente”, “Cristianesimo nella storia” , 1990, n. 1, pp. 83-176.

Page 8: La vita religiosa nell’Italia repubblicana · La vita religiosa nell’Italia repubblicana 653 proporre qualche linea di lettura della storia religiosa, iniziando ancora una volta

658 M a u r i l io G u a s c o

vere e proprie clamorose conversioni. Pro­prio certe resistenze, certe rozze polemiche che furono sollevate contro elementi di spic­co nella applicazione delle riforme, possono spiegare certi atteggiamenti di Paolo VI, il papa chiamato a gestire la non facile eredità lasciata da Giovanni XXIII, sia nella prose­cuzione del concilio che nella sua attuazio­ne. Paolo VI finì per muoversi in questa nuova realtà in modo contraddittorio, alter­nando provvedimenti e interventi leggibili in chiavi divergenti. Molti vescovi si trovavano di fronte a realtà del tutto nuove, senza la mentalità e la cultura per affrontarle. Erano logicamente figli di altri tempi, si erano for­mati in una Chiesa con altri orientamenti. Era difficile immaginare che potessero di­ventare i protagonisti del cambiamento.

Forse proprio questa mentalità aiuta a ca­pire certi episodi che sembrano oggi grandi occasioni mancate, e che non erano riducibi­li a forme temute di contestazione (che pure ci furono): si pensi ad esempio alla vicenda dell’Isolotto di Firenze, o al modo in cui venne gestito dallo stesso arcivescovo Erme­negildo Florit il rapporto con don Lorenzo Milani13. Così come parve coglierli del tutto impreparati la gravissima crisi del clero, che alla fine degli anni sessanta e negli anni suc­cessivi parve irresolvibile. Una crisi che si collocava a due livelli: nei seminari, con il calo sensibilissimo delle vocazioni al sacer­dozio; e fra gli stessi preti, le cui percentuali di abbandono del ministero salirono a livelli sconosciuti, probabilmente simili solo agli anni immediatamente successivi alla rivolu­

zione francese14. Proprio il modo in cui ven­ne affrontata o vissuta questa crisi da parte della gerarchia era un ulteriore segno di quei problemi culturali che non si potevano risol­vere velocemente; non era cioè facile scopri­re e superare i limiti di una mentalità dog­matica alla quale erano stati formati, per compiere analisi e scelte significative. Con questa chiave di lettura si potrebbe forse cercare di analizzare anche il fenomeno delle comunità di base, che ebbero un discreto sviluppo in Italia negli anni a cavallo dei due decenni, ma che andarono troppo presto in crisi. Un atteggiamento talvolta provocato- rio da parte di alcune comunità, mentre i ti­mori della gerarchia nei confronti di propo­ste che venivano considerate come un peri­colo per la costituzione gerarchica della Chiesa, finirono per impedire un dialogo che avrebbe potuto diventare proficuo per le due parti, rendendo anche più difficile l’e­mergere di quella ecclesiologia di comunione auspicata dal concilio15.

La presa di coscienza della scristianizzazione

Gli ultimi anni sessanta lasciavano apparire i segni di una prossima crisi, non solo religio­sa, ma anche economica e sociale; della pri­ma, erano in qualche modo segno preoccu­pante, per la gerarchia, le reazioni diverse, e non sempre positive, che aveva sollevato l’enciclica sull’etica sessuale e matrimoniale, la Humanae vitae (luglio 1968)16. Andava in crisi anche l’Azione cattolica, mentre si co-

13 Sulle varie vicende di cui furono protagonisti movimenti, comunità di base o singole persone, la sintesi più luci­da mi pare rappresentata dal volume di Mario Cuminetti, Il dissenso cattolico in Italia, Milano, Rizzoli, 1983. At­tente analisi in chiave sociologica in numerosi saggi di Luigi Berzano, ora raccolti in Differenziazione e religione negli anni ottanta, Torino, Giappichelli, 1990.14 Un’analisi della crisi in M. Guasco, Seminari e clero nel Novecento, Cinisello Balsamo, Edizioni Paoline, 1990, pp. 165 sgg.15 Una lettura in questa chiave, con ampia bibliografia sulle comunità di base, in Marino Morganti, Eucaristia rac­contata, Roma, Boria, 1988.16 Una raccolta delle reazioni sollevate nel mondo, e soprattutto delle dichiarazioni delle conferenze episcopali, in Humanae vitae e magistero episcopale, a cura di L. Sandri, Bologna, Dehoniane, 1969.

Page 9: La vita religiosa nell’Italia repubblicana · La vita religiosa nell’Italia repubblicana 653 proporre qualche linea di lettura della storia religiosa, iniziando ancora una volta

La vita religiosa nell’Italia repubblicana 659

minciava a parlare di scelta religiosa: non nel senso di un ritiro da ogni attività politica e sociale, ma nel senso di un atteggiamento che cercava propri modelli di ispirazione, senza diventare automaticamente il suppor­to della politica di un partito. Anche le Adi (Associazioni cattoliche lavoratori italiani), a partire dal 1969, avevano dichiarato aperta­mente la fine del collateralismo con la De­mocrazia cristiana; e la scelta religiosa del­l’Azione cattolica, teorizzata apertamente dal suo presidente Vittorio Bachelet a parti­re dal 1972, veniva proposta come scelta di tutta la Chiesa.

Si aprivano intanto nuovi dibattiti, che trovarono un terreno comune attorno al nuovo modo di vedere e teorizzare l’ispira­zione cristiana della politica; un’ispirazione che doveva essere vissuta in una realtà che non poteva più essere considerata omoge­nea. I valori cristiani dovevano essere vissuti in un contesto secolarizzato e pluralistico, dove erano in crisi i grandi valori di riferi­mento. Parlare di pluralismo politico signi­ficava però anche dire (e sembrava affer­marlo anche Paolo VI in certi suoi interven­ti) che la medesima fede cristiana poteva condurre a impegni e scelte politiche diverse; il che logicamente non metteva in causa la presenza dei cattolici nella vita politica, ma la qualità e i modi di questa presenza, che sembravano necessitare di un profondo rin­novamento. Quel cammino veniva reso ulte­riormente difficile dal dibattito e poi dalla approvazione della legge sul divorzio.

La legge Fortuna-Baslini, che introduceva il divorzio nella legislazione italiana, era sta­ta approvata il 18 dicembre 1970. Quel pro­getto aveva una lunga storia ed era stato più volte proposto, modificato e discusso fin dai primi anni del secolo; così come fu molto di­scussa, anche all’interno del mondo cattoli­co, la scelta di portare il paese al referen­dum abrogativo. Quelle discussioni sono no­te, anche se restano dubbi e incertezze sui tentativi fatti anche nell’imminenza del refe­

rendum per cercare di scongiurare lo scontro che si stava rivelando anche più traumatico di quanto già si potesse immaginare. Il refe­rendum comunque si fece nel maggio 1974, in un clima di grande incertezza; gli abroga- zionisti sapevano di rischiare molto, ma for­se credevano davvero di poter uscire vincito­ri dalla prova; i difensori della legge, fra i quali si potevano annoverare la grande mag­gioranza dei partiti laici, ma anche non po­chi democratici cristiani e certamente anche un numero non irrilevante di cattolici prati­canti, ostentavano una discreta sicurezza, ma non nascondevano qualche dubbio e ti­more sull’esito della prova. I risultati furono una sorpresa: oltre il 59 per cento degli ita­liani votarono no, chiedendo quindi il man­tenimento della legge, mentre il 41 per cento si schierò in favore dell’abrogazione, con una differenza quindi che si avvicinava al 20 per cento, sollevando stupore anche nei fau­tori della legge e costringendo la Chiesa a prendere atto di quanto fosse mutata quella società considerata da sempre globalmente cristiana. Anzi, la stessa comunità dei cre­denti aveva vissuto in quei mesi una profon­da lacerazione, fino al punto di spingere qualcuno a considerare quella battaglia elet­torale quasi un referendum sulla fede, con il risultato di temere addirittura uno scisma. In effetti, se per non pochi cattolici la legge sul divorzio non era altro che il riconosci­mento della ormai chiara impossibilità per uno stato laico di conservare una legge, quella della indissolubilità del matrimonio, il cui fondamento sembrava radicarsi in una fede religiosa, per altri la stessa indissolubi­lità matrimoniale era da ritenersi di diritto naturale, e quindi inviolabile anche senza ri­correre alla legge divina, e non riuscivano ad ammettere che si potesse collaborare a quel­la scelta senza mettere in qualche modo in causa anche la propria fede religiosa.

È quindi comprensibile, anche se in qual­che modo singolare, che la presentazione della legge sull’interruzione della gravidanza

Page 10: La vita religiosa nell’Italia repubblicana · La vita religiosa nell’Italia repubblicana 653 proporre qualche linea di lettura della storia religiosa, iniziando ancora una volta

660 Maurilio Guasco

abbia sollevato meno scalpore della legge sul divorzio, così come il successivo referendum abrogativo, che pure avrebbe avuto esito ne­gativo (la legge cioè sarebbe rimasta in vigo­re). La vera presa di coscienza della laicizza­zione delle coscienze era avvenuta con la cri­si legata alla discussione sul divorzio, che aveva dato l’impressione che fossero ormai intaccati alcuni dei principi da sempre consi­derati elementi portanti della società, in pri­mo luogo la famiglia, quindi l’inviolabilità della vita umana. La prima legge aveva in­franto i principi cristiani su cui si fondava la famiglia; la seconda infrangeva quelli della inviolabilità della vita. Si sentiva come ine­ludibile una eventuale successiva discussione sull’eutanasia. Tutto questo finiva per pro­vocare una profonda crisi della coscienza re­ligiosa e anche una certa ripresa di atteggia­menti non solo anticlericali, ma anche anti­religiosi. Qualunque fosse la scelta che i sin­goli individui potevano aver fatto, era infat­ti difficile mettere sullo stesso piano un in­tervento legislativo che permettesse, in certe situazioni determinate, lo scioglimento di un matrimonio e quindi la regolamentazione della nuova situazione che si veniva a creare, e una normativa che permettesse l’interru­zione della gravidanza in modo da lasciare teoricamente aperta la discussione sul mo­mento in cui il concepito può essere conside­rato effettivamente persona, ma in pratica con delle eccezioni che finivano per rendere lecita la soppressione del feto anche quando nessuno poteva certo considerarlo solo un elemento estraneo al corpo della madre. Ma­scherare quello che in certe circostanze non è altro che un vero omicidio di Stato con ter­mini tutto sommato piuttosto ipocriti non serviva a nessuno; lo Stato si avviava, di fat­to, in alcuni paesi a definire per legge, e do­ve questo non era ancora esplicitamente av­venuto era prevedibile in tempi ravvicinati, che si poteva provvedere alla soppressione del nascituro, per esempio handicappato e anche prossimo alla nascita, se avesse potu­

to provocare rischi per l’equilibrio psicologi­co della madre: anche se quasi tutti i com­mentatori preferivano e preferiscono usare termini che dicono la stessa cosa, ma in mo­do più sfumato e meno brutale. Ed è pro­prio a questo livello che nasceva il nuovo dramma della coscienza del credente, co­stretto a ripensare a tutte le sue categorie morali e politiche, essendo cittadino e suddi­to di uno Stato che può imporre leggi che il credente considera profondamente lesive di principi che egli ritiene irrinunciabili.

Non vi era dunque da stupirsi se molti credenti dichiaravano apertamente di non accettare quelle leggi dello Stato, sentendosi quindi costretti a praticare nuove forme di obiezione di coscienza. Certamente in alcuni casi si trattava di scelte di comodo: ma dav­vero esisteva in Italia un tradizione culturale che avesse il diritto di irridere a quelle scelte, magari accusando nuovamente i cattolici di mancare da sempre, come dimostravano certi aspetti della loro storia, del senso dello Stato? Forse non erano così pretestuose co­me si voleva far credere le obiezioni di que­gli stessi cattolici, che avevano qualche diffi­coltà ad accettare lezioni di correttezza poli­tica e civile da una sinistra che aveva fonda­to tutta la sua analisi politica proprio sul ri­fiuto di quello Stato, considerato borghese, o dai partiti laici, che vantavano come padri fondatori persone che sembravano essersi mosse in modo analogo, obiettando contro un potere politico considerato ingiusto e lot­tando per instaurarne uno diverso. Sembra­va dunque difficile immaginare chi potesse seriamente scagliare la prima pietra contro quei cattolici accusati di scarso senso dello Stato.

La crisi interna del mondo cattolico veni­va intanto accentuata dalle accuse che alcuni rivolgevano agli altri, considerati responsa­bili di aver voluto, nella scia di un malinteso ottimismo conciliare, avvicinarsi al mondo per capirlo, fino ad assimilarne anche i valo­ri negativi, quali una vera e propria laicizza­

Page 11: La vita religiosa nell’Italia repubblicana · La vita religiosa nell’Italia repubblicana 653 proporre qualche linea di lettura della storia religiosa, iniziando ancora una volta

La vita religiosa nell’Italia repubblicana 661

zione delle coscienze, portate a dubitare del­la oggettività delle norme morali, e una se­colarizzazione letta come vera e propria svendita dei propri valori fino a forme di ra­dicale assimilazione alla società laica, con il conseguente passaggio a raggruppamenti politici al di fuori del cosiddetto partito dei cattolici.

Cultura della presenza e cultura della media­zione

Il concilio tornava in qualche modo al cen­tro dell’attenzione: perché si invocava la sua applicazione, o perché si riteneva che fosse stato interpretato male (un’ipotesi questa che emergerà spesso, soprattutto in bocca a quanti pensavano ma non osavano dire che non si trattava di erronea interpretazione, ma di un evento da svalutare e svuotare dei suoi contenuti più significativi: sorte che si voleva far subire anche al pontificato di Giovanni XXIII). Di fronte alla crisi della Democrazia cristiana, non più considerata universalmente il partito dei cattolici, e in vista della sua rifondazione, un gruppo di intellettuali aveva dato origine ad un movi­mento denominato Lega democratica, collo­candosi a metà strada tra movimento cultu­rale e movimento politico, il cui scopo era anche più ambizioso: non si trattava solo di rifondare un partito, ma di ripensare la stes­sa politica in quanto tale. Una proposta che ebbe qualche successo, grazie anche alla be­nevola attenzione dello stesso pontefice Paolo VI, ma soprattutto grazie al lavoro discreto ma di grande significato svolto dal segretario della Conferenza episcopale ita­liana, monsignor Enrico Bartoletti. Il punto di arrivo di tutto un cammino, che aveva coinvolto anche diversi esponenti di quel movimento, sarebbe stato il convegno dei cattolici italiani, svolto a Roma nel 1976, dedicato a “Evangelizzazione e promozione umana”.

Quella proposta, che per qualche anno parve vincente, sarebbe stata definita la ‘cul­tura della mediazione’. Le premesse erano nella convinzione di un ormai definitivo su­peramento della cristianità, nel suo signifi­cato religioso e soprattutto politico. Alla pretesa del potere religioso, la cui voce era espressa dalla gerarchia ecclesiastica, di farsi unico interprete e garante dei fondamenti di ogni ordine sociale, veniva contrapposto un modello cristiano diverso: non un modello di superiorità e separatezza, ma di incarna­zione, non di imposizione ma di dialogo. Si tendeva cioè a portare fino in fondo la ri­flessione sulla incarnazione, affermando che la città politica si costruisce in comune, dan­do ognuno il proprio contributo fondato e desunto dalle proprie radici e dalle proprie scelte ideologiche. Il dialogo doveva servire a evitare la conflittualità, a riaffermare la tolleranza reciproca; ma il concetto di de­mocrazia doveva essere accettato integral­mente, senza imporre a nessuno delle scelte politiche, e neppure etiche, in base a principi religiosi che non erano condivisi. Riemerge­vano le affermazioni montiniane sul dialo­go, su una Chiesa che si fa dialogo, si fa pa­rola, come aveva affermato il papa nella sua prima enciclica, Ecclesiam suam (6 agosto 1964), dedicata proprio alla Chiesa e al dia­logo con il mondo. Su questo cammino, già di per sé non facile, si interponeva l’emer­gente accusa rivolta agli ottimismi concilia­ri, e l’affermazione che proprio quel modo di concepire i rapporti della Chiesa con il mondo era all’origine della perdita di identi­tà da parte dei cristiani, il dubbio che una crescente attenzione all’altro finisse per por­tare molti cristiani a diluire i propri principi in un irenismo rischioso, che poteva indurre a dimenticare anche alcuni elementi portanti della propria fede. Alcuni avevano anzi buon gioco a citare esempi di percorsi quasi esemplari, vissuti anche da molti giovani, che erano passati dalle organizzazioni catto­liche alle organizzazioni politiche, e dalla

Page 12: La vita religiosa nell’Italia repubblicana · La vita religiosa nell’Italia repubblicana 653 proporre qualche linea di lettura della storia religiosa, iniziando ancora una volta

662i

Maurilio Guasco

condivisione di certi obiettivi politici, non sempre in sintonia con la propria fede reli­giosa, fino alle scelte estreme del passaggio al terrorismo.

Di tali processi e accuse si facevano in­terpreti in modo particolare dei gruppi nati proprio per opporsi in qualche modo a quei cammini, gruppi e associazioni che avrebbero dato origine a uno dei movimen­ti più significativi, quello di Comunione e liberazione, un movimento che, al di là de­gli esiti politici non sempre esemplari e del­le analisi politiche e culturali, in cui avreb­be indugiato, di una straordinaria rozzezza e immaturità, si sarebbe sviluppato proprio grazie alla ripetizione di quelle accuse, e al­la semplificazione quasi ai limiti dello slo­gan di messaggi diventati così facilmente assimilabili, quali la riaffermazione della identità cristiana e la globalità della sua proposta; trovando poi un terreno fertile nel nuovo clima che pareva nascere in se­guito all’avvento al pontificato di Giovanni Paolo II (ottobre 1978). Proprio dalla riaf­fermazione del concetto di cristianità, mes­so in causa dal cristianesimo conciliare, na­sceva quella che veniva definita la ‘cultura della presenza’, una linea che si può forse definire in termini quasi sillogistici, pur nel rischio sempre connesso alle eccessive sem­plificazioni interpretative. Il rapporto so­ciale, sembrano affermare i fautori di quel­la linea, è autentico e costruttivo solo quando si realizza secondo verità e secondo la norma etica fondamentale, una norma che può essere fondata solo su valori ogget­tivi, e non su valori legati al tipo di cono­scenza che il soggetto ha dei valori stessi. Ora, nella condizione umana, resa fragile e caduca dal peccato, solo la rivelazione cri­

stiana permette all’uomo di conoscere se stesso e di conoscere la norma etica oggetti­va: questo perché di fatto solo il cristianesi­mo possiede la verità intera sull’uomo, e so­lo il cristianesimo ha la forza di realizzare tale verità nella società. Non è quindi pen­sabile poter costruire il rapporto sociale, e una società giusta, prescindendo dalla verità cristiana, che è un intero, un unicum, e non può essere presentata solo in alcune sue parti, in attesa di comunicare anche le altre. Presentando solo una parte, si rischia di travisare l’insieme. L’errore di oggi di molti cristiani è di voler costruire una società giu­sta non proponendo le proprie idee-forza e le proprie norme etiche in modo totale e in­transigente, ma immaginando di poter tro­vare un luogo neutro di dialogo e di rappor­to con altri uomini e altre culture, prescin­dendo dalla propria fede.

Si tratta in qualche modo di un ritorno al radicalismo evangelico, non scelto solo per sé, ma imposto a tutti; premessa, tra l’al­tro, di molti integralismi contemporanei, presenti non solo nel mondo cristiano. L’e­sito sarà la restaurazione di quella cristiani­tà che molti cristiani vogliono erroneamente superata. Questo perchél’esperienza culturale medievale, la coincidenza tra ambito religioso e ambito sociale, resta un paradigma esemplare per la Chiesa di ogni tem­po. Ovviamente il modello medievale è da ag­giornare quanto alla forma ma rimane sempre valida l’impostazione che esso ha dato del rap­porto fede-cultura se è vero che l’unica e autenti­ca coltivazione dell’uomo, la cultura, è la colti­vazione cristiana. Ogni altra cultura rischia sem­pre di essere arbitraria o manipolante17.

Tali ragioni portano alla riaffermazione, come ad esempio da parte del cardinale Bif­

17 Un’analisi sintetica di tale linea, con le citazioni qui riportate, è fatta da Bartolomeo Sorge, La chiesa in Italia nelpost-Concilio: bilancio e prospettive, “Ricerca”, ottobre 1988, pp. 16-19. Ma dello stesso padre Sorge è interes­sante vedere, una testimonianza sul periodo, Uscire dal tempio. Intervista autobiografica, a cura di Paolo Giumel­la, Genova, Marietti, 1989.

Page 13: La vita religiosa nell’Italia repubblicana · La vita religiosa nell’Italia repubblicana 653 proporre qualche linea di lettura della storia religiosa, iniziando ancora una volta

La vita religiosa nell’Italia repubblicana 663

fi, della necessità per la Chiesa di dar vita in ogni momento della sua storiaad una cristianità secondo forme che mutano nei tempi e nei luoghi ma che non possono venire meno in assoluto; perciò il problema vero diventa quello di rinvenire la forma che meglio conviene al nostro tempo. La nostra cristianità potrà an­che essere di minoranza diversamente da quella di qualche secolo fa, ma non per questo deve essere meno vivace e meno fortemente caratterizzata18;

in una logica che sembra preferire il con­fronto, se non proprio lo scontro, al dialo­go. Questo modello culturale, fondato su ra­gioni che non possono essere respinte in mo­do acritico, ha provocato in anni recenti an­che numerose polemiche, soprattutto a causa del modo volutamente provocatorio in cui viene proposto da alcuni personaggi che sembrano aver abbandonato la riflessio­ne religiosa per sposare quasi esclusivamente una linea politica che spesso costringe a logi­che di potere difficilmente eludibili nel clima politico italiano, ma altrettanto difficilmen­te collocabili dentro una proposta che si vo­glia religiosamente fondata.

Il dibattito tra le due proposte culturali non si svolge né si è svolto in uno scenario asettico e privo di altri stimoli e problemi; e di tale scenario vale la pena di mettere in ri­salto due elementi che in modi diversi hanno condizionato e condizionano la vita politica e religiosa italiana, i cosiddetti anni di piom­bo e la conferma della scelta concordataria nei rapporti tra Stato e Chiesa.

Gli anni di piombo. II terrorismo e le sue conseguenze

Più che le premesse o le storie di vita e le analisi delle genealogie, o i dibattiti sulle mi­

sure provocate dalla lotta contro il terrori­smo e sui rischi di un imbarbarimento della società civile, mi pare particolarmente inte­ressante in questa sede ricordare soprattutto che cosa abbia prodotto nella coscienza reli­giosa la discussione sullo sconto di pena previsto per pentiti e collaboratori, che avrebbe sollevato varie riflessioni sulla au­tenticità dello stesso pentimento e sui rischi del “perdonismo”19. Il dibattito si sarebbe svolto a vari livelli, con difficili risvolti umani e giuridici. Non era facile trovare ri­sposte quando ci si poneva di fronte a una generazione di giovani che avevano fatto certe scelte, di fronte a mille, forse duemila persone che in modi diversi erano stati coin­volti nell’attività terroristica, di fronte poi a quanti decidevano di abbandonare la lotta perché scoprivano di aver sbagliato, o di es­sere stati sconfitti, o anche solo di avere la possibilità di uno sconto di pena, come non pochi sospettavano. Tutto questo non pote­va non costituire una forte e difficile provo­cazione per le coscienze, laiche o religiose. Molti pentiti si erano poi rivolti alla Chiesa, alle sue istituzioni o a qualcuno dei suoi rappresentanti: una Chiesa che veniva così a ritrovare una centralità non cercata, ma co­munque accettata. Le ragioni potevano es­sere le più diverse, forse si trattava di trova­re un interlocutore, come osservava Ernesto Balducci, cercando di analizzare i perché di quelle scelte:Proprio perché il carcere, anzi quel tipo di carce­re, è una condizione di totale separatezza, esso produce, per così dire, la decantazione chimica degli ingredienti in conflitto. Al detenuto che ri­fiuti l’identità di ieri viene meno ogni parametro per ridefinirsi. È, nel senso di Émile Durkheim, un uomo “anomico”, cioè senza nomos, senza quadro storico d’identità, e senza norme. Non

lh B. Sorge, La chiesa in Italia nelpost-Concilio, cit.19 Fra la vasta bibliografia, si veda Diego Novelli-N. Tranfaglia, Vite sospese. Le generazioni del terrorismo, Mila­no, Garzanti, 1988.

Page 14: La vita religiosa nell’Italia repubblicana · La vita religiosa nell’Italia repubblicana 653 proporre qualche linea di lettura della storia religiosa, iniziando ancora una volta

664 Maurilio Guasco

quelle del sistema che ha combattuto e che anco­ra condanna, non quelle della realtà associativa in cui ha militato, non quelle del carcere che d’al­tronde non sono tramite di risocializzazione ma meccanismo di annientamento. Si capisce perché, in questa assenza di punti di riferimento, i dete­nuti preferiscano rivolgersi alla Chiesa [...] In questa preferenza c’è da leggere, io penso, più che un segnale di conversione religiosa il ricono­scimento che quando si cerca un interlocutore che esprima la società nella sua consistenza più gene­rica e meno compromettente, anche la Chiesa va bene20.

In questa nuova centralità della coscienza religiosa, due momenti diventavano emble­matici e provocavano reazioni di grande va­lore etico collettivo: la preghiera del figlio di Vittorio Bachelet durante il funerale del pa­dre ucciso dalle Brigate rosse; e, ancora pri­ma, la straordinaria e drammatica preghiera di Paolo VI al funerale di Aldo Moro. Il 13 maggio 1978 il papa decideva di partecipare al funerale dell’amico Moro, per il quale aveva vanamente cercato di intervenire du­rante le settimane del rapimento che si sa­rebbe concluso con l’assassinio. Al termine della cerimonia liturgica, Paolo VI pronun­ciava queste parole:E ora le nostre labbra, chiuse da un enorme osta­colo simile alla grossa pietra rotolata all’ingresso del sepolcro di Cristo, vogliono aprirsi per espri­mere il De profundis, il grido cioè e il pianto del­l’ineffabile dolore con cui la tragedia presente soffoca la nostra voce. Signore, ascoltaci!

E chi può ascoltare il nostro lamento, se non ancora Tu, o Dio della vita e della morte? Tu non hai esaudito la nostra supplica per l’incolumità di Aldo Moro, di questo uomo buono, mite, saggio, innocente e amico; ma Tu, o Signore, non hai ab­bandonato il suo spirito immortale, segnato dalla fede nel Cristo, che è la risurrezione e la vita. Per lui, Signore, ascoltaci!

Fa’, o Dio, Padre di misericordia, che non sia interrotta la comunione che, pur nelle tenebre del­la morte, ancora intercede tra i defunti da questa esistenza temporale e noi tuttora viventi in questa giornata di un sole che inesorabilmente tramonta. Non è vano il programma del nostro essere di re­denti: la nostra carne risorgerà, la nostra vita sarà eterna! Oh! che la nostra fede pareggi fin d’ora questa promessa realtà. Aldo e tutti i viventi in Cristo, beati nell’infinito Iddio, noi li rivedremo! Signore, ascoltaci!

E intanto, o Signore, fa’ che, placato dalla virtù della tua croce, il nostro cuore sappia perdonare l’oltraggio ingiusto e mortale inflitto a questo uo­mo carissimo e a quelli che hanno subito la medesi­ma sorte crudele; fa’ che noi tutti raccogliamo nel puro sudario della sua nobile memoria l’eredità superstite della sua diritta coscienza, del suo esem­pio umano e cordiale, dalla sua dedizione alla re­denzione civile e spirituale della diletta nazione ita­liana! Signore, ascoltaci!21

Il papa esprimeva pubblicamente il dram­matico sentimento della impotenza umana, quasi rimproverava a Dio di non aver esaudi­to le preghiere che gli erano state rivolte; in qualche modo, finiva così per rimettere pub­blicamente in causa una certa concezione reli­giosa, quella che vuole che il rapporto con Dio sia quasi un rapporto di scambio, di dare e avere, e non un rapporto di assoluta gratui­tà; e non poteva non impressionare il fatto che fosse un papa a sentire e denunciare il drammatico silenzio di Dio.

Giovanni Bachelet superava invece tutto il dibattito sul perdono come risposta a un pen­timento sicuro e garantito ribadendo, con grande serenità e senza ostentazione, la scelta del credente di non dissolvere la logica della giustizia, ma di affermarne una più grande, quella del perdono anche se non richiesto. Nel corso della celebrazione eucaristica, il giovane Bachelet aveva pronunciato queste

20 Ernesto Balducci, Da! carcere una nuova cultura?, “Testimonianze”, luglio-agosto 1984, pp. 7-20; brano citato p. 14.21 II testo della preghiera in Ipapi dei ventesimo secolo, numero speciale della rivista “Jesus”, 1987, p. 165.

Page 15: La vita religiosa nell’Italia repubblicana · La vita religiosa nell’Italia repubblicana 653 proporre qualche linea di lettura della storia religiosa, iniziando ancora una volta

La vita religiosa nell’Italia repubblicana 665

parole, riprese da tutta la stampa, al momen­to delle preghiere di invocazione:Vogliamo pregare anche per quelli che hanno col­pito il mio papà perché, senza nulla togliere alla giustizia che deve trionfare, sulle nostre bocche ci sia sempre il perdono, e mai la vendetta, sempre la vita e mai la richiesta della morte degli altri.

Significativo, e in qualche modo emblemati­co, il commento che sarebbe apparso su “La Civiltà Cattolica” :La storia del rapporto fra i terroristi e la società italiana, e viceversa, dopo i funerali di Vittorio Ba- chelet è diversa da come sarebbe stata senza quella offerta gratuita di perdono. Il perdono apre oriz­zonti e spazi di speranza, incide profondamente nella vita di chi lo accoglie, aiuta a ricomporre i frammenti spezzati; dà insomma un’ultima e insu­perabile possibilità di trasformare la morte ingiu­sta in occasione di vita22.

Anche la coscienza laica veniva provocata in alcuni suoi valori fondamentali, veniva co­stretta a rifare i conti con una difficile realtà, trovandosi nella necessità di modificare i con­tenuti negativi di concetti quali quelli di ‘de­latore’ e ‘delazione’. Quei gesti dei terroristi, quelle forme di pentimento che si era abituati a considerare comunque vere e proprie forme di tradimento, di abbandono dei propri com­pagni, ora assumevano i contorni della colla­borazione con la giustizia; lo Stato stesso era portato a promulgare leggi che premiavano un gesto da sempre considerato come prova di viltà. Nello stesso tempo si era corso un grave rischio di regresso della coscienza civi­le: alcuni di quei laici che si erano da sempre presentati come difensori dello stato di dirit­to, che consideravano la pena di morte come un relitto di tempi barbari, ora chiedevano apertamente il ristabilimento di quella pena di morte, e usavano un linguaggio che era

chiaramente leggibile in chiave di invito a ricorrere a tutti i mezzi (magari anche a for­me larvate di tortura) per ottenere dagli ar­restati quelle informazioni indispensabili per portare a buon esito le indagini. Quelle modifiche profonde della coscienza etica si collocavano anche ad altri livelli, anch’essi prima non immaginati: i detenuti per terro­rismo si trasformavano lentamente da og­getto di legislazione penale a soggetti e agenti di una nuova dialettica culturale che coinvolgeva tutto il paese; sia per i risvolti ora ricordati, sia anche per le proposte con­crete di pene alternative, di modi diversi di espiazione di cui si facevano promotori gli stessi detenuti, in particolare quelli che ap­partenevano alla categoria dei “dissociati”, di quanti cioè non avevano collaborato atti­vamente con la magistratura, ma avevano espresso la loro dissociazione dalla lotta ar­mata e si dichiaravano disposti a pagare al­meno una parte del debito contratto nei confronti della società, offrendo a quella stessa società nuove forme di servizio, pri­ma riservate ad altre categorie di cittadini23.

I rapporti tra Stato e Chiesa e la cultura concordataria

Con la fine della dittatura fascista e poi del­la guerra, la nuova repubblica italiana aveva ereditato dal regime anche i patti lateranen- si, firmati I’ll febbraio 1929; e l’Assemblea costituente aveva discusso animatamente sul ruolo e lo spazio che quegli accordi avrebbe­ro dovuto avere nell’ordinamento repubbli­cano. Dopo dibattiti spesso di alto livello politico e culturale, si era giunti alla decisio­ne: i patti lateranensi venivano recepiti nella Costituzione, senza che i singoli articoli assu­

22 “La Civiltà Cattolica”, 7 gennaio 1984, p. 84.23 E. Balducci, Dal carcere, cit.; un ampio servizio sulle proposte avanzate dai detenuti dal carcere di Novara per un uso diverso degli anni delia espiazione in “Avvenire”, 20 febbraio 1985.

Page 16: La vita religiosa nell’Italia repubblicana · La vita religiosa nell’Italia repubblicana 653 proporre qualche linea di lettura della storia religiosa, iniziando ancora una volta

666 Maurilio Guasco

messero il valore degli articoli della carta co­stituzionale; l’articolo 7 affermava dunque che i rapporti tra Stato e Chiesa sarebbero stati regolati da quei patti. L’Assemblea co­stituente aveva chiara coscienza che quei patti contenevano anche affermazioni, o sfumatu­re, che andavano contro lo spirito e qualche volta anche la lettera della nuova costituzio­ne. Si dava quindi per scontato che si sarebbe arrivati in tempi brevi alla modifica di alcuni degli articoli contenuti nei patti, senza con questo metterli in causa nel loro insieme.

Le vicende che porteranno a quelle modifi­che sono incredibilmente lunghe e complesse, indicano spesso più la volontà del rinvio che la volontà della soluzione. Il clima del Conci­lio vaticano II avrebbe aiutato a cercare una soluzione, mentre l’opinione pubblica veniva preparata non solo da certi testi conciliari, che sembravano indicare una logica ormai molto diversa da quella concordataria, ma anche dai molti e appassionati dibattiti attor­no alla possibilità di una abrogazione del concordato. Finalmente nel 1976 il presidente del Consiglio Giulio Andreotti nominava una commissione incaricata di studiare più detta­gliatamente il problema. Due elementi pre­senti nella discussione di quel momento si sa­rebbero successivamente persi per strada: l’invito all’abbandono della logica concorda­taria, propria di sistemi a scarsa partecipazio­ne democratica, per la scelta di qualche ele­mento di fondo su cui trovare un’intesa, sen­za restare legati a un vero trattato di carattere internazionale fra due stati sovrani; quindi il maggiore peso che avrebbe dovuto avere la Conferenza episcopale italiana, organismo di fatto più adatto a trattare con lo stato italia­no su elementi essenziali per la vita della so­cietà italiana, ridando così al Vaticano il suo naturale ruolo di organismo internazionale, meno coinvolto nelle vicende dell’Italia.

Con il passare degli anni, questi due ele­menti sarebbero andati in crisi; prevaleva la logica abituale dei rapporti bilaterali tra due stati sovrani, l’Italia e il Vaticano; mentre la

Conferenza episcopale veniva sentita e par­zialmente coinvolta, ma i veri organismi deci­sionali restavano quelli vaticani. Intanto la commissione nominata nel 1976 proseguiva nei suoi lavori, nella logica appunto di una re­visione di alcuni elementi del testo, mante­nendolo però vivo come trattato internazio­nale, le cui modifiche avrebbero quindi sem­pre richiesto accordi bilaterali. La commis­sione doveva vagliare le proposte di parte ita­liana e quelle di parte vaticana, mentre a più riprese i vescovi facevano sentire la loro voce, con testi anche ufficiali, nei quali emergeva­no numerosi elementi che rappresentavano punti in discussione, e sui quali si sarebbe do­vuta pronunciare la commissione. Fra questi, il ruolo e il posto della religione cattolica in Italia; la collaborazione tra Stato e Chiesa e i suoi limiti; il problema dell’insegnamento re­ligioso nelle scuole di Stato; lo statuto del cle­ro, il suo sostentamento e le normative circa gli enti e i benefici ecclesiastici; infine, la legi­slazione matrimoniale.

Superate le ultime difficoltà, finalmente il governo Craxi perveniva alla firma di quello che si può definire il nuovo concordato, an­che se con un linguaggio improprio. I firma­tari erano il presidente del Consiglio, Bettino Craxi, e il cardinale segretario di Stato, Ago­stino Casaroli. La data, scelta forse per evita­re simbolismi fuori luogo, non era I’ll feb­braio, ma il 18 febbraio 1984. D’altra parte, i simbolismi erano già numerosi: ciò che non era riuscito negli anni precedenti alla Demo­crazia cristiana e ai suoi leader, riusciva ora al leader del partito socialista, il partito che vanta la maggiore tradizione anticlericale nel­la storia italiana, e che si era, a differenza del partito comunista, duramente opposto alla recezione dei patti lateranensi nella Costitu­zione italiana. Da parte ecclesiastica, la pre­senza del segretario di Stato confermava la volontà del Vaticano di gestire ancora in pro­prio i rapporti con l’Italia, e di non volerli de­legare alla Conferenza episcopale italiana.

Il nuovo concordato riguardava la chiesa

Page 17: La vita religiosa nell’Italia repubblicana · La vita religiosa nell’Italia repubblicana 653 proporre qualche linea di lettura della storia religiosa, iniziando ancora una volta

La vita religiosa nell’Italia repubblicana 667

cattolica; le altre chiese o confessioni religio­se non venivano più considerate tollerate, co­me in antecedenza, ma ottenevano di poter discutere e poi firmare delle ‘intese’ con lo stato italiano, atte a informare le leggi che prevedono i diritti e i doveri di quelle confes­sioni: si sarebbero così firmate intese, ad esempio, con la comunità valdese-metodista, e con la comunità ebraica. Alcuni elementi sono immediatamente percepibili nel nuovo testo: la religione cattolica non viene più con­siderata come la sola religione dello stato ita­liano, lasciando così spazio al formarsi di uno stato autenticamente aconfessionale, di uno stato laico, non sottomesso cioè alla le­gittimazione da parte della Chiesa, ma nep­pure con la pretesa di presentarsi, con qual­che nostalgia hegeliana, come fonte origina­ria di tutti i valori. Nello stesso tempo scom­paiono quegli articoli che in qualche modo si presentavano come lesivi dei diritti di alcune categorie di persone, alle quali la Costituzio­ne garantisce parità assoluta di diritti anche se, ad esempio, siano incorsi in censure da parte dell’autorità ecclesiastica. Stato e Chie­sa poi dichiarano di volersi impegnare “alla reciproca collaborazione per la promozione dell’uomo e il bene del paese” (art. 1), affer­mazione che appare carica di buone intenzio­ni, ma forse non sprovvista di possibili ambi­guità, quando si trattasse di definire quale sia quel “bene del paese” a cui si impegnano a collaborare. I vescovi d’altra parte non sono più tenuti, come con il concordato del 1929, al giuramento di fedeltà al governo, né il Va­ticano a chiedere il placet statale per le nomi­ne vescovili: si trattava di chiari residui di una mentalità giurisdizionalista, del tutto supera­ta in una società democratica. Sono poi pre­viste nuove norme per gli enti e i beni ecclesia­stici, in base soprattutto ai fini da essi perse­guiti. Modifiche significative vengono anche introdotte nelle norme che regolano il matri­monio. Nel precedente concordato, lo Stato dichiarava di riconoscere gli effetti civili ai matrimoni religiosi validamente celebrati, e

di riconoscere come nulli quei matrimoni che la Chiesa avesse successivamente dichiarati nulli, senza indagare sulla sentenza relativa e senza applicare ai coniugi non più tali le nor­me previste dallo stato italiano in caso di se­parazione. La nuova normativa dichiara in­vece che la magistratura italiana si riserva il diritto sia di applicare queste norme, sia di verificare “che ricorrono le altre condizioni richieste dalla legislazione italiana per la di­chiarazione di efficacia delle sentenze stranie­re” (art. 8, comma 2). Vale la pena di ricorda­re ancora che l’articolo 12 prevede la collabo- razione tra Stato e Chiesa in un settore che da tempo richiede interventi legislativi impor­tanti ed urgenti: la tutela del patrimonio sto­rico ed artistico.

Infine, due ambiti di particolare interesse per la società italiana, per i quali vengono de­cisi nuovi orientamenti: l’insegnamento della religione cattolica nelle scuole di Stato, e la condizione economica del clero. Il nuovo concordato contiene sul primo punto una no­vità: mentre prima lo Stato garantiva l’inse­gnamento della religione cattolica in tutte le scuole, esclusa l’università, permettendo al singolo alunno di chiedere l’esonero, ora lo Stato continua a garantire quell’insegnamen­to, che sarà però impartito a chi ne farà espli­cita richiesta. La situazione sembra chiara: vi è l’insegnamento confessionale, ne usufrui­sce chi lo desidera; e tale insegnamento si giu­stifica con l’affermazione, difficilmente con­testabile, che la repubblica italiana riconosce “il valore della cultura religiosa”, e tiene in­sieme conto del fatto che “i principi del catto­licesimo fanno parte del patrimonio storico del popolo italiano” (art. 2). Ma il seguito dell’articolo, e altre affermazioni presenti in altri articoli, rendono quel testo profonda­mente ambiguo: al punto che, anche prima che di fatto sorgesssero dispute accese, si po­teva prevedere che la sua applicazione avreb­be creato gravi difficoltà.

Quali le ambiguità? Lo Stato afferma che la cultura religiosa è patrimonio storico del

Page 18: La vita religiosa nell’Italia repubblicana · La vita religiosa nell’Italia repubblicana 653 proporre qualche linea di lettura della storia religiosa, iniziando ancora una volta

668 Maurilio Guasco

popolo italiano: ma non conclude che quindi tutti debbano acquisire quelle conoscenze, bensì solo chi lo desidera. È proprio logico che lo Stato dichiari che la scuola rinuncia a fornire quanto viene considerato essenziale nella cultura di un paese? Lo Stato si afferma laico: quindi parrebbe che debba garantire a tutti le conoscenze religiose, non confessio­nali. E invece si programma l’insegnamento della religione cattolica. Forse, viene obietta­to, vi è una logica anche in questo: quel patri­monio religioso è rappresentato soprattutto dalla religione cattolica. Ma allora subentra l’altra incongruenza: se anche lo si ammette, resta obbligo dello Stato di formare e poi as­sumere i docenti di ogni insegnamento. Lo Stato invece dichiara che la nomina dei do­centi, che saranno poi stipendiati dallo Stato stesso, viene lasciata all’autorità ecclesiasti­ca, che formerà anche quei docenti, e che po­trà togliere loro il diritto di insegnare qualora dubiti della loro ortodossia religiosa.

Tutto questo evidentemente, anche se può essere spiegato ricorrendo al principio stesso della logica concordataria, in cui ognuno ac­quista e cede qualcosa, con il risultato che in certi settori la regolamentazione non può non essere ambigua, lascia comunque spazio a possibili conflittualità. Ciò che si poteva pre­vedere al momento della firma, e che non po­chi hanno previsto, si è puntualmente verifi­cato. Le successive intese per applicare le nor­me, firmate dal presidente della Conferenza episcopale italiana e dal ministro della Pub­blica Istruzione sono state fortemente conte­state, fino al rischio di giungere, proprio a causa dell’applicazione pratica delle afferma­zioni giuridiche, ad una denuncia del concor­dato. Resta comunque il fatto che la grandis­sima maggioranza degli studenti ha scelto di seguire l’insegnamento religioso, mentre l’autorità ecclesiastica ha programmato itine­rari formativi di grande impegno per i futuri docenti, fra i quali i membri del clero sono or­mai in netta minoranza. Un frutto, se non al­tro, di tale situazione sarà una più diffusa in­

formazione e formazione religiosa nel laicato cattolico italiano.

Vi è infine un punto che potrebbe significa­re, entro pochi anni, una vera e propria svolta epocale nella storia della società italiana, e nella storia del clero. Il vecchio concordato garantiva ai titolari di alcuni uffici ecclesiasti­ci, e in particolare ai vescovi e ai parroci (non dunque ai preti in quanto tali: molti quindi non godevano di quel salario), uno stipendio corrispondente all’incarico, piuttosto mode­sto, ma che trasformava quel clero quasi in un funzionario statale. Lo stesso clero poi be­neficiava di una serie di altri proventi: da beni immobili di proprietà delle parrocchie e delle diocesi, o da rendite bancarie su beni delle parrocchie o delle diocesi, oltre che delle of­ferte dei fedeli in occasione di prestazioni li­turgiche. Tale sistema viene ora radicalmente mutato. A partire dal 1990 (era stato previsto un periodo di graduale applicazione del nuo­vo sistema, quasi un rodaggio, con la lenta applicazione delle norme stipulate), lo Stato non fornirà più nessuno stipendio al clero. È nato quindi un organismo di nomina ecclesia­le, denominato Istituto centrale per il sosten­tamento del clero, per la messa in opera e poi l’applicazione del nuovo sistema. Tutti i be­nefici, parrocchiali o altro, perderanno la lo­ro attuale titolarità per passare sotto l’ammi­nistrazione di questo organismo sovrano, che avrà un suo microorganismo in ogni diocesi, il cui numero è stato tra l’altro ampiamente ridotto (da 325, le diocesi sono scese a 228). I frutti di questi benefici centralizzati permet­teranno di garantire a tutti i preti, qualunque sia l’ufficio ricoperto, uno stipendio di base uguale per tutti, stabilito con opportuni para­metri e correttivi regionali, legati al livello di vita e di spesa delle singole regioni. La som­ma garantita dai proventi di quei benefici non basterà per coprire le spese: è quindi prevista un’altra fonte di reddito, per la quale lo Stato garantisce le strutture e il servizio atto a rac­cogliere quel denaro. A partire appunto dal 1990, i singoli cittadini potranno detrarre dal-

Page 19: La vita religiosa nell’Italia repubblicana · La vita religiosa nell’Italia repubblicana 653 proporre qualche linea di lettura della storia religiosa, iniziando ancora una volta

La vita religiosa nell’Italia repubblicana 6 6 9

la loro dichiarazione dei redditi la cifra versa­ta, come offerta alla chiesa, fino ad un massi­mo prefissato; inoltre vi sarà la possibilità di destinare una piccola percentuale delle tasse o ad opere sociali gestite dallo Stato, o alla Chiesa. Gli uffici imposte verseranno quelle cifre indicate nella dichiarazione dei redditi alPorganismo centrale che provvede al so­stentamento del clero. Una modifica profon­da dunque nella vita del clero e quindi della comunità religiosa; il prete in effetti non ap­parirà più come un funzionario stipendiato, ma come un membro di una chiesa da cui ri­ceve il necessario per vivere. Dovrebbero inoltre scomparire certe sperequazioni eco­nomiche presenti nel vecchio sistema tra re­gioni ricche e regioni povere, ma anche tra preti della stessa regione, man mano che si af­fermerà la logica dell’uguaglianza e soprat­tutto della solidarietà: il tutto naturalmente comporterà anche qualche prezzo, in parte già apparso dopo il breve periodo di speri­mentazione, che potrebbe spingere a qualche correttivo.

La diaspora del mondo cattolico

La lettura in chiave di ‘diaspora’ era partico­larmente cara alle comunità di base, che in­terpretavano, anche se talvolta in modo pro­vocatorio, una realtà che si poteva anche ignorare, ma che era difficile negare. Proprio su quella base concreta si può oggi riprendere quella chiave di lettura, proponendo alcune constatazioni e lasciando ad altri eventuali in­terpretazioni. Si può oggi parlare di diaspora del mondo cattolico a diversi livelli, rifacen­dosi alla dialettica tra religione prescritta e re­ligione vissuta, senza voler giudicare della re­ligione vissuta, né aprire il discorso, che però dovrà pure essere affrontato, del modo in cui certe forme di religione vissuta finiranno un giorno per diventare anche religione prescrit­ta, o dissolversi in forme religiose al di fuori di esperienze ecclesiali.

Una prima forma di diaspora si è verificata in questi anni a livello politico, attraverso un cammino abbastanza lineare. L’affermazio­ne della necessità dell’unità politica dei catto­lici era fondata per alcuni su ragioni storiche, per altri su ragioni ideologiche. La prima ipo­tesi si è lentamente imposta; ed era quindi inesorabile che sul giudizio della opportunità storica emergessero lentamente opinioni di­verse. Si faceva strada nel frattempo la con­vinzione, che un giorno sarebbe stata fatta proprio anche da Paolo VI, che gli stessi prin­cipi di fede possono portare a militare in schieramenti politici anche diversi fra di loro, purché non in antitesi con la fede religiosa. Tale cammino subiva rallentamenti periodi­ci: era comprensibile che quelle affermazioni sulla cessata necessità della unità politica dei cattolici, circolanti in tempi normali, venisse­ro un po’ messe in causa in clima elettorale. Ma intanto si verificavano altri eventi: da un lato, la scontata presenza di cattolici prati­canti in diversi partiti, anche in Italia, presen­ze talvolta proclamate, talvolta discusse, tal­volta duramente criticate, e molto più spesso semplicemente vissute, senza alcun tipo di teorizzazione. In questi ultimi anni poi, si è verificato un dato anche più significativo, l’appello ai cattolici da parte di vari partiti, che si dicono latori di messaggi profonda­mente cristiani (o forse semplicemente atten­dono la fine del partito cattolico, e sperano di partecipare alla divisione dei voti di quanti si sentiranno senza patria).

L’altra forma di diaspora si colloca a livel­lo etico, un ambito difficile da definire e da delimitare, ma paradossalmente molto meno difficile da individuare. È nell’ambito dei comportamenti che si verifica con maggiore evidenza la profonda divaricazione tra il pre­scritto e il vissuto; esiste in altri termini una moralità affermata e continuamente ridefini­ta anche dalla gerarchia ecclesiastica, e una diversa moralità vissuta dai credenti; esiste un’intransigenza di facciata, e una tolleranza silenziosa molto forte. I luoghi di tale diffici­

Page 20: La vita religiosa nell’Italia repubblicana · La vita religiosa nell’Italia repubblicana 653 proporre qualche linea di lettura della storia religiosa, iniziando ancora una volta

670 Maurilio Guasco

le rapporto tra moralità richiesta e moralità vissuta sono plurimi: fra i più evidenti, quello economico, quello sociale, quello dell’etica sessuale. Non si tratta soltanto di dare credito a qualche sondaggio che appare periodica­mente, dove l’elemento più interessante fini­sce per essere di carattere psicologico: i son­daggi informano cioè sui modi in cui giornali­sti e improvvisati ricercatori tendono a rimet­tere in circolazione vecchi luoghi comuni, senza per nulla preoccuparsi della loro atten­dibilità e di una modifica di costumi che ren­de quei luoghi comuni profondamente ambi­gui. Ma si è diffusa in anni recenti, anche fra i credenti, la forte convinzione che altro è la moralità individuale altro quella collettiva, altro l’etica privata altro la moralità pubbli­ca, altro i principi altro i compromessi indi­spensabili dell’agire politico: con una sensibi­le modifica dei tradizionali sensi di colpa e del sentimento soggettivo del peccato. Andando ben oltre la banalizzazione di simili proble­matiche, la comunità dei credenti è oggi por­tata a ripensare profondamente alle antino­mie del vivere cristiano, alle lacerazioni della coscienza religiosa, provocate da una società che propone ed esalta altri valori e mette in causa quelli religiosi. La coscienza religiosa si trova così di fronte a nuove sfide, che in qual­che modo spiegano sia le fughe in avanti sia il ritirarsi nel proprio privato, sia la ricerca di un rifugio rassicurante e che vanifichi il signi­ficato di quelle sfide, un rifugio che in nume­rosi casi è offerto da nuove forme di religiosi­tà o spiritualità di matrici diverse, ma che hanno in comune l’offrire protezione e luoghi sicuri dove vivere l’esperienza religiosa lonta­ni dalla logica cristiana dell’incarnazione.

Nella grande categoria della disaffezione religiosa rientra anche un’altra forma di dia­spora, quella dalla pratica religiosa. Per anni, tale ambito fu quello privilegiato da sociologi e storici delle religioni. Le statistiche della pratica religiosa venivano considerate uno degli elementi rilevatori della religiosità di una zona o di un paese. Una convinzione che

ha lentamente portato ad affinare i metodi dell’indagine, prima condotta con criteri non sempre del tutto attendibili e comunque diffi­cilmente comparabili, poi sempre più perfe­zionata; mentre la valorizzazione di nuove fonti per la storia religiosa permetteva un confronto, pur se limitato, con altri momenti storici, e la psicologia religiosa, la storia della liturgia, l’antropologia, permettevano di su­perare i gravi rischi di un anacronismo in ag­guato. D’altra parte, ai lunghi dibattiti sui rapporti tra fede e religione, sulla necessità della seconda per vivere la prima, sono su­bentrate altre ipotesi di ricerca, ancora sugge­rite dall’antropologia, sulla necessità del rito, del gesto religioso anche collettivo per espri­mere ed alimentare una fede. Ed è proprio a questo livello che si collocano le osservazioni sulla diaspora della pratica religiosa, in senso rituale, e sull’emergere di una nuova pratica.

La relativa perdita di importanza del rito, verificatasi in questi ultimi decenni, lascia ora il posto a una forte affermazione della impor­tanza del gesto, di una pratica religiosa che non si risolve e non si esaurisce solo nel cul­tuale. Sono le sfide, e forse qui è il caso di dire i fallimenti, della società contemporanea, che hanno provocato la coscienza religiosa; una società competitiva, spesso spietata, ha pro­vocato nuove conflittualità, crisi esistenziali, nuove povertà e nuove emarginazioni; ha an­che provocato quella che in modo sintetico viene definita come perdita di senso. Molte risposte religiose finiscono per collocarsi pro­prio a questi livelli: la perdita di senso deter­mina nuove domande anche religiose, e apre la strada a due diverse risposte: una risposta mistica, di fuga dal mondo e di ricerca di spa­zi di sicurezza e di gratificazione. È il fenome­no, già in qualche modo ricordato, del dif­fondersi delle sette, o anche di forme di cri­stianesimo che tendono ad assumere le stesse caratteristiche settarie. Ma apre anche la stra­da a una risposta che si colloca a livello ope­rativo, o in altri termini determina vere e pro­prie nuove forme di pratica religiosa: il feno­

Page 21: La vita religiosa nell’Italia repubblicana · La vita religiosa nell’Italia repubblicana 653 proporre qualche linea di lettura della storia religiosa, iniziando ancora una volta

La vita religiosa nell’Italia repubblicana 671

meno della straordinaria crescita del volonta­riato in Italia riveste significati di carattere religioso, ma necessariamente anche umani e politici. Molte di quelle associazioni in cui il volontariato si esprime rappresentano le ri­sposte, che lo Stato — nonostante promesse e illusioni — non è riuscito a dare, alle nuove forme di povertà e di emarginazione; e po­trebbero diventare il luogo privilegiato del dialogo e della collaborazione ad ampio rag­gio, che superi il problema teorico e il conflit­to tra la cultura della mediazione e la cultura della presenza; il luogo privilegiato che po­trebbe provocare una riflessione che porti al­la elaborazione di nuove risposte e di una di­versa riflessione anche in ambito giuridico e politico; e finiscono anche per apparire una delle risposte alla grave crisi di impegno poli­tico che tutti i partiti stanno sperimentando.

I rapporti tra Stato e Chiesa, ma anche quelli tra società civile e società religiosa, si svolgono dunque a vari livelli, talvolta in sin­tonia tra di loro, talvolta in opposizione. Il li­vello istituzionale è espresso dal sistema con­cordatario in vigore, che rimane la scelta di fondo della Chiesa e dello stato italiano; gli altri sono quelli dei rapporti molteplici e mol­to più liberi che si ritrovano nel tessuto socia­le; ed è in questo ambito che assume impor­tanza emblematica il volontariato, poiché po­trebbe produrre riaggiustamenti sia nella so­cietà civile che in quella religiosa, in seguito alle provocazioni positive che sta proponen­do a tutti i membri di quelle società e alle loro coscienze.

Nella comunità dei credenti sono poi pro­fondamente mutati i rapporti tra clero e lai­cato; sono cresciuti quei cristiani che hanno una nuova coscienza del loro credere e del lo­ro essere cristiani in una Chiesa non più cleri­cale. Cristiani, siano preti o laici, ben consa­pevoli che la scelta di sentirsi adulti in una Chiesa che non si vorrebbe più clericale, spes­so si paga, sul piano collettivo e sul piano in­dividuale. D’altra parte, è cresciuta la co­scienza della rilevanza della propria fede an­

che nelle scelte politiche: proprio questo ha aperto il discorso della mediazione da trovare tra fede e impegno politico.

Anche nel mondo laico poi il problema re­ligioso ha ritrovato una sua centralità. Tra gli anni cinquanta e gli anni sessanta erano già emerse affermazioni ed analisi significative in proposito, ad opera soprattutto di Lelio Bas­so, sulla polivalenza della coscienza religiosa, sfociate nel già citato discorso di Togliatti, con il quale si ammetteva il grave errore com­messo da chi aveva pensato che la coscienza religiosa come tale rappresentasse un elemen­to reazionario. La storia ha dimostrato, af­fermava il segretario del Partito comunista italiano, che quanti hanno pensato così si so­no semplicemente sbagliati. L’atteggiamento antireligioso, e non solo anticlericale, si è in qualche modo modificato: anche se la crisi delle ideologie e la fine dei partiti come luogo di appartenenza ideologica rende difficile proporre simili distinzioni. Si è comunque su­perato il concetto della tolleranza del diverso, anche se resta la preoccupazione dei risorgen­ti integrismi. Non si tratta solo di tollerare chi ha posizioni sociopolitiche diverse, perché fondate sul modello religioso; ma di ricono­scere che quelle posizioni possono portare a progetti sociali e politici non necessariamente reazionari. Anche se resta aperto il discorso sul rapporto fra progetto politico e ispirazio­ne religiosa, e di fronte a forme di integrali­smo che affermano che l’unica e autentica cultura è quella cristiana, e quindi bisogna imporla a tutti, esistono anche laici che pro­fessano un integralismo alla rovescia, dichia­rando esplicitamente che una professione re­ligiosa è assolutamente incompatibile con qualsiasi progetto politico definito laico; riaffermando quindi che un credente non po­trà mai essere uno spirito autenticamente de­mocratico.

Vale la pena di avanzare ancora un’ultima osservazione, che potrebbe aprire prospettive molto diverse in un futuro forse neppure tan­to lontano. Quando si afferma e si dà per

Page 22: La vita religiosa nell’Italia repubblicana · La vita religiosa nell’Italia repubblicana 653 proporre qualche linea di lettura della storia religiosa, iniziando ancora una volta

672 Maurilio Guasco

scontato che all’interno di una stessa fede re­ligiosa possono nascere diverse proposte poli­tiche, si apre un discorso molto più ampio e delicato, che non si può eludere proprio a causa dell’abitudine a pensare al cattolicesi­mo in termini politici e di cristianità: si apre il discorso della pluralità dei cattolicesimi, delle nuove forme di “politeismo religioso”, di una pluralità di valori di riferimento, di autorità religiose e di verità ecclesiali24. La chiesa ita­liana sembra vivere una situazione interes­sante e problematica: una certa ripresa della religione si accompagna al persistere, anzi al­la crescita, della secolarizzazione; mentre la stessa Chiesa, che sembra ritrovare una più forte identità verso l’esterno, pare fortemen­te indebolita all’interno, nonostante tentativi di restaurazione autoritaria che potrebbero ottenere altri ritiri nel privato, forse più dan­nosi delle dialettiche interne; con il rischio di incrementare quella che un sociologo, Franco Garelli, ha definito una “religione dello sce­nario”25. Il venir meno di un concetto obbli­gante e condizionante del sentimento religio­so ha provocato l’emergere di una forte debo­lezza sia dogmatica che etica, mentre il persi­stere di un riferimento religioso non ha impe­dito una forte diminuzione dell’impatto della religione sulla vita dell’individuo.

Forse però quello che è venuto meno è so­

prattutto l’impatto della religione istituzio­nale, nonostante il successo popolare di qual­che leader, mentre permane nel profondo, e riemerge periodicamente, un sentimento reli­gioso vago e non facilmente definibile. Non basterà, per risolvere la divaricazione, pro­clamare che il futuro dell’Europa sarà un fu­turo cristiano, o dire che il secolo ventunesi­mo sarà religioso o non sarà: lo aveva già pro­clamato André Malraux in altri tempi, e forse non pensava molto a una religione istituzio­nale. Ma non basterà neppure continuare a proclamare la fine imminente della religione, travolta da una non ben individuata moderni­tà, come ritorna a fare periodicamente una certa cultura laica, non meno acritica di quei fondamentalismi religiosi che giudica con di­sprezzo, perché si abbiano le risposte alle ri­sorgenti domande di senso e di religiosità, in parte causata proprio dalla crisi di quella non ben individuata modernità. Per i credenti, oggi come sempre, si tratta di non dare nulla per scontato, né di delegare ad altri la propria capacità critica; e di prendere coscienza che la ripetizione di formule è ancora meno risoluti­va, quando si è chiamati a riscrivere il mes­saggio religioso con categorie storiche e cul­turali che siano significative per la coscienza contemporanea.

Maurilio Guasco

24 Brevi osservazioni su queste forme di “politeismo”, in Giuseppe De Rita, La società italiana alla luce del rappor­to Censis, “La rivista del clero italiano”, settembre 1984, pp. 658-667, ora in G. De Rita, Chiesa e società in Italia. Intervista di Antonio Acerbi, Roma, Ave, 1985, pp. 113-123. Per uno studio dei vari aspetti della pratica, della or­ganizzazione e della mentalità religiosa negli ultimi anni, si veda anche il volume già citato di L. Berzano, Differen­ziazione e religione negli anni ottanta. Le analisi più interessanti sulla pluralità dei cattolicesimi contemporanei si trovano nelle numerose opere di Emile Poulat: si veda ad esempio Une église ébranlée. Changement, conflit et con­tinuité de Pie X II à Jean-Paul II, Paris, Casterman, 1980; Liberté, laïcité. La guerre des deux France et le principe de la modernité, Paris, Cerf/Cujas, 1987; Poussières de raison. Esquisses de météosociologie dans un monde au ri­sque de l ’homme, Paris, Cerf, 1988.25 Franco Garelli, La religione dello scenario. La persistenza della religione tra i lavoratori, Bologna, I! Mulino, 1986.

Maurilio Guasco (1939) ordinario di Storia del pensiero politico contemporaneo presso l’Università di Torino. Tra le sue numerose opere pubblicate: R o m o lo M u rr i e il m o d e r n is m o , A l f r e d L o is y in I ta lia , S e m in a r i e c le ro n e l N o v e c e n to .