La vita quotidiana a Milano alla fine del IV secolo...

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Laboratorio HOC del Politecnico di Milano Via delle Rimembranze di Lambrate, 14 20134 Milano Pagina 1 La vita quotidiana a Milano alla fine del IV secolo d.C. Narrazione multimediale per il Museo Civico Archeologico di Milano A cura di HOC-LAB, Politecnico di Milano Approfondimenti

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La vita quotidiana a Milano alla fine del IV secolo d.C.

Narrazione multimediale per il Museo Civico Archeologico di Milano

A cura di HOC-LAB, Politecnico di Milano

Approfondimenti

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Introduzione Questa narrazione contiene gli approfondimenti di “La vita quotidiana a Milano alla fine del IV secolo dopo Cristo”, organizzati per tematiche: casa e città, alimentazione e moda, la società…” e altri. Servono non solo a gettare luce su alcuni aspetti che i nostri personaggi di Milano romana “sfiorano” nella loro giornata, ma sono interessanti di per sé, per avere uno spaccato storico-sociale dell’epoca.

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PARTE I: CASA E CITTÀ Qui si racconta delle case dei romani, ricchi e poveri e delle loro città; delle strade poco illuminate ma molto sporche e del traffico che, fin da allora, le congestionava. La casa dei ricchi: "domus" Le case di città dei ricchi Romani venivano chiamate “domus” (da cui deriva il termine “domestico”). Tra le numerose stanze c’erano tipicamente un ingresso (“atrium”), la stanza di soggiorno (“tablinum”), la stanza dei banchetti (“triclinium”), diverse stanze da letto (“cubicula”) e la stanza per le cerimonie religiose. Da un ampio spazio aperto sul tetto entrava la luce ed anche la pioggia, che veniva raccolta in una vasca (“impluvium”). A volte, all’esterno, si aprivano botteghe, che potevano essere date in affitto oppure usate per vendere i propri prodotti agricoli. Le case più ricche e prestigiose potevano essere dotate anche di piscine e biblioteche. Le case dei poveri: "insulae" Nell’antica Roma, i poveri abitavano in una specie di condomini, detti “insulae”, alti spesso diversi piani. Il piano terra era, in genere, usato per botteghe di vario genere, chiamate “tabernae”. Ai piani superiori c’erano varie unità abitative (di una o poche stanze). Non c’erano servizi igienici: si usavano le latrine pubbliche o le terme. In genere non si poteva cucinare, per il rischio di provocare incendi. L’acqua in casa Nelle abitazioni degli antichi Romani non c’era acqua corrente. Nelle case dei ricchi l’acqua piovana era raccolta in una vasca, oppure c’erano dei pozzi. Per lavarsi si usavano bacili o vasche. I poveri, che abitavano nelle “insulae”, usavano luoghi pubblici sia per lavarsi sia per l’acqua da bere. La illuminazione nelle case Il combustibile principale per l’illuminazione domestica era l’olio d’oliva, che poteva essere bruciato in vari contenitori. Le lampade portatili erano le lucerne: piccoli contenitori di terracotta, con un foro più grande in cui si versava l’olio, ed uno più piccolo dove c’era uno stoppino che bruciava. Le case dei ricchi erano illuminate poco e male, e quelle dei poveri non erano illuminate quasi per nulla. Di qui l’abitudine di andare a dormire molto presto, quando calava il buio. La sala del triclinio I banchetti, ricevimenti importanti per ospiti di rilievo, si tenevano nella cosiddetta “sala del triclinio”. I commensali (da 10 a 20, tipicamente) mangiavano (con le mani) sdraiati su divani a tre posti: da qui il nome “triclinio”. I tre posti erano disposti a semicerchio, con una piccola tavola al centro dove i domestici deponevano le vivande. Le stanze del triclinio erano spesso riccamente decorate con affreschi ed altri ornamenti di lusso. Alcuni convitati portavano da casa dei tovaglioli che servivano durante il banchetto, ma anche per portare a casa gli avanzi. Il letto I Romani non avevano, in generale, molti mobili nelle loro case. Uno dei mobili principali era sicuramente il letto, usato per dormire, riposare e anche per ricevere. Nelle case dei ricchi il letto era di legno, a volte decorato in oro, avorio o altri materiali preziosi. Sopra il

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letto c’era un materasso coperto di tessuti più o meno preziosi, a seconda dell’importanza del possessore. I poveri, invece, non avevano quasi del tutto mobilia: spesso dormivano su un pagliericcio, magari infestato da insetti, appoggiato direttamente sul pavimento. Le biblioteche private A partire dalla fine della Repubblica e dall’inizio del periodo imperiale cominciarono a sorgere, nell’antica Roma e nelle principali città di provincia, le biblioteche private. Sia per i costi elevatissimi dei libri, sia per la (relativamente) scarsa diffusione della cultura, solo gli aristocratici, ricchi proprietari terrieri, potevano permettersi un tale lusso. È interessante notare come molti libri dell’antichità siano giunti a noi anche grazie a queste biblioteche private; le biblioteche pubbliche infatti erano molto più soggette a distruzioni, sia a causa di eventi bellici, sia per disastri naturali. Memorabile, ad esempio, fu la distruzione della famosa biblioteca di Alessandria a causa di un incendio. La illuminazione delle strade Le strade delle città, nell’impero romano, non erano illuminate. Solo alla fine dell’impero, a Roma, iniziò un tentativo di pubblica illuminazione delle strade. Di notte era quindi pericoloso uscire in strada, se non accompagnati da servi, possibilmente armati. In aggiunta, c’era anche il pericolo di ricevere in testa rifiuti vari, gettati dalle finestre dei piani alti. Le immondizie in strada Gli antichi Romani curavano le fognature pubbliche (dette “cloache”) per lo smaltimento dei rifiuti, ma non altrettanto bene i rifiuti privati. Gli edifici pubblici erano, in genere, collegati alle fogne, mentre pochi di quelli privati lo erano. Quindi i rifiuti, anche quelli delle latrine, dovevano essere “portati” alle fogne. In realtà, gli abitanti dei piani alti trovavano spesso più comodo gettarli dalla finestra. Non essendoci un servizio pubblico di pulizia delle strade, nei quartieri poveri la situazione doveva essere particolarmente disagevole, sia per gli odori sia per il rischio di malattie. Il traffico nelle strade romane Sicuramente, nelle metropoli dell’impero romano il traffico non aveva nulla da invidiare a quello attuale: pedoni, lettighe, muli, cavalli, carretti spinti a mano, carri trainati, carri da trasporto, carri da corsa, tutto contribuiva a creare congestione. I numerosi interventi legislativi dimostrano lo stato delle cose. Cesare stesso fece una legge per proibire il traffico privato nelle prime 10 ore della giornata (su 12 in totale!). Il risultato fu che i trasporti commerciali si facevano di sera oppure di notte, e che per i viaggi bisognava partire all’alba o di sera. Naturalmente c’erano le eccezioni, per esempio per i generali, i sacerdoti, per chi lavorava per l’imperatore... con molta analogia con i divieti di traffico odierni. Il foro delle città romane Il foro era, in origine, la piazza centrale della città, dove avvenivano gli scambi commerciali. Essendo il luogo più frequentato, nel tempo assunse altri ruoli: il centro del dibattito politico, il luogo delle discussioni legali-giuridiche, il luogo di amministrazione della giustizia ed il luogo di funzioni pubbliche, il luogo di diffusione delle notizie, e così via. Date queste funzioni, in ogni città, il foro fu architettonicamente molto curato e si adornò di importanti edifici pubblici.

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PARTE II: ALIMENTAZIONE e MODA Qui si racconta della vita quotidiana dei romani, di cosa mangiavano e come si vestivano. La prima colazione La prima colazione dei Romani era relativamente frugale, a base di focaccia (o pane) bagnata nell’acqua o nel latte, se non addirittura nel vino. A questo si aggiungevano cose salate come formaggio, carne o pesce, o gli avanzi della cena precedente. Il pranzo Il pranzo dei Romani non era molto elaborato o ricco. Spesso i Romani, sia i ricchi sia i poveri, mangiavano fuori per pranzo. Molto presenti erano piatti a base di cereali (il farro soprattutto), le immancabili olive, le verdure e i legumi. C’erano anche i formaggi, freschi o stagionati. A pranzo non era abitudine bere il vino, nemmeno per i ricchi. La cena Quando non si trattava di un banchetto, la cena dei Romani era relativamente frugale. Molto usate, nell’antichità, erano delle preparazioni a base di cereali, simili alla nostra polenta. Il farro era l’ingrediente più usato, ma anche i ceci, le fave, il miglio e l’orzo. A volte, alla polenta si aggiungevano pezzi di formaggio o di carne e pesce. In età imperiale, il pane cominciò a sostituire la polenta. C’erano vari tipi di pane: da quello nero dei poveri, a quello bianco candido dei ricchi. Il banchetto Un banchetto iniziava con degli antipasti (“gustatio”): olive, uova, funghi, verdure. Poi c’erano le portate principali, a base di carne e pesce. Alla fine venivano serviti i dolci. La carne poteva essere di maiale o di bovino, ma anche di altro genere, per esempio cinghiali e ghiri. Erano molto apprezzati sia la cacciagione che volatili vari, tra cui fagiani e pavoni, e i pesci, che venivano anche allevati in grandi vivai. La carne veniva cucinata soprattutto arrosto o in umido. Nei grandi banchetti si utilizzavano, a volte, ricette molto particolari con presentazioni fantasiose che dovevano stupire i commensali. Il vino nei banchetti I Romani amavano bere il vino: bianco e soprattutto rosso. Il vino antico, rispetto ai vini di oggi era piuttosto pesante, per cui veniva quasi sempre allungato con acqua e a volte anche mescolato con miele ed altre spezie. Tra i vini più noti si ricordano dalla Campania il Marsico e il Falerno, e dal Lazio l’Albano, il Cecubo e il Sabino. I vini di grande pregio venivano anche invecchiati ed offerti poi, con grande orgoglio, nei banchetti. Il “ketchup” dei Romani: garum La cucina dei Romani amava le salse (a base di pesce o anche di frutta) da aggiungere alle pietanze a base di carne, sostanzialmente mascherandone il sapore. La salsa più famosa era il “garum”, ottenuta facendo fermentare interiora di pesce mescolate con sale, vino e aceto. Dopo tre mesi di fermentazione al sole in un recipiente di terracotta, il liquido veniva filtrato, posto in ampolle di vetro e venduto a caro prezzo. I “fast food” dei Romani Le botteghe degli artigiani, chiamate “tabernae”, utilizzate come deposito di cereali o di vino, si trasformarono poco alla volta in locali dove i cibi si vendevano o anche venivano consumati. Si possono quindi considerare una sorta di “fast-food”. Tipicamente, in una

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“taberna” c’erano un bancone di pietra con vari contenitori, una piccola cucina ed un locale per il consumo. In viaggio, si poteva consumare del cibo nelle “mansiones”, dove si potevano anche cambiare le cavalcature e riposarsi, o nelle “cauponae”, più povere e anche più malfamate. L’abbigliamento Il vestito di base per gli antichi Romani era la tunica: più corta per gli uomini e più lunga per le donne. Era un indumento molto semplice: due pezzi di stoffa cuciti assieme con una apertura per la testa e corte maniche. La tunica quotidiana era di tessuti molto grezzi, e di tessuti più raffinati per i ricchi. Nelle occasioni ufficiali e molto importanti, i patrizi indossavano la toga, costituita di un pezzo di stoffa molto lungo ed avvolto in modo elaborato e complesso, che oggi non comprendiamo bene. I vestiti delle matrone Le matrone indossavano tuniche più lunghe degli uomini, a volte lunghe fino ai talloni. I tessuti erano semplici per il giorno, e più raffinati per la sera. Sopra la tunica, in situazioni importanti, le matrone potevano indossare una “stola”, una tunica più elegante e lunga. Le matrone cingevano la vita con cinture fermate con eleganti chiusure dette “fìbule”. Molto eleganti e complesse erano le acconciature dei capelli. Nelle serate, le matrone indossavano monili, tra cui braccialetti e orecchini, di materiali preziosi, e arricchiti con ambra e pietre varie.

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PARTE III: EDUCAZIONE e TEMPO LIBERO Qui si racconta di come venivano educati i giovani romani: i maschi in maniera colta, le femmine alla conduzione domestica. Si racconta poi degli svaghi per il tempo libero, dalle terme ai crudeli spettacoli dell’anfiteatro. Leggere ad alta voce Nell’antichità era abituale leggere ad alta voce, non in silenzio come facciamo oggi. In parte, la motivazione era economica: i libri erano pochi e costosi, e quindi era conveniente avere un solo lettore e tanti ascoltatori. C’era anche un aspetto sociale culturale: leggere ad alta voce in un gruppo rafforzava la condivisione di ciò che veniva letto. Era tale l’abitudine, che anche un lettore solitario, presumiamo, leggeva ad alta voce. Sant’Agostino infatti, nel suo libro “Le confessioni”, riporta con stupore di avere visto Sant’Ambrogio leggere in silenzio, mentre “la voce e la lingua stavano a riposo”. I pedagoghi Nell’antica Roma i figli erano spesso seguiti dai loro genitori solo indirettamente: le nutrici si prendevano cura dei neonati e dei piccoli, gli educatori (o “pedagoghi”) si occupavano dei più grandi. Spesso i pedagoghi erano greci, perché si riteneva che il modo di fare greco fosse, in generale, più raffinato di quello tradizionale dei Romani. Il pedagogo sostituiva i genitori in tutti gli aspetti della educazione: da quelli comportamentali (ad esempio come stare a tavola, come mangiare, come salutare o rivolgersi agli anziani), a quelli più formativi come la grammatica, la letteratura, la retorica, la matematica etc. Spesso i pedagoghi usavano anche maniere forti e punizioni per convincere i loro allievi. L'educazione delle fanciulle Tradizionalmente, l’educazione delle fanciulle nella antica Roma era limitata alle attività considerate femminili: la gestione della casa, filare, tessere, cucire e così via. Per le future matrone era anche importante apprendere il modo di comportarsi in situazioni come le cerimonie e l’organizzazione dei banchetti. Verso la fine del periodo repubblicano, e ancor più nell’impero, anche le fanciulle dell’aristocrazia cominciarono ad avere una qualche forma di educazione, su grammatica e letteratura soprattutto: gli aristocratici romani apprezzavano il fatto che le loro spose sapessero leggere (in latino e greco) e parlare di letteratura. L’educazione femminile, tuttavia, restò sempre marginale rispetto a quella maschile. Andare al circo Il circo romano era costituito da una pista stretta e allungata, chiamata “arena”, per le corse dei carri e dei cavalli. Sui due lati lunghi e sul lato breve di fondo, curvilineo, c’erano le gradinate per gli spettatori (dette “cavea”), accessibili attraverso passaggi collegati all’esterno ( “vomitoria”). Ai piedi delle gradinate comuni c’era una piattaforma riservata agli spettatori di riguardo. L’altro lato breve del circo ospitava l’ingresso, con una struttura piuttosto complessa (“oppidum”): sopra il vero e proprio ingresso c’erano le tribune per gli ospiti di riguardo, per gli organizzatori dello spettacolo e per i giudici. C’erano poi i recinti (“carceres”) da cui partivano i carri, fiancheggiati da due torri. L’arena era suddivisa in due corsie, nel senso della lunghezza, dalla “spina”, un lungo basamento sul quale potevano trovarsi statue, fontane, edicole e colonne o altre decorazioni. Il basamento aveva, alle sue estremità, due piattaforme semicircolari dette “metae”. Su queste piattaforme erano disposte ad una estremità sette uova di pietra,

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all’altra sette delfini. Questi elementi mobili venivano fatti ruotare per funzionare da contagiri. Il percorso standard prevedeva 7 giri completi. Dopo la gara c’era la cerimonia di premiazione. Il vincitore usciva da una porta trionfale aperta al centro della curva, dal lato opposto rispetto all’ingresso. Andare alle terme Frequentare le terme per i Romani divenne uno dei modi preferiti per occupare il tempo libero, fin dal I secolo a.C., quando, accanto alle terme private delle ville dei ricchi, sorgono i primi impianti pubblici, accessibili a tutti con poca spesa. Queste terme pubbliche sono tra gli edifici monumentali più grandiosi dell’architettura romana, e si diffusero in tutto l’impero. Divennero sempre più lussuosi, decorati con marmi, mosaici, statue ed oggetti preziosi: la loro realizzazione era un modo per celebrare la grandezza di chi sosteneva i costi (privati cittadini o magistrati); gli edifici più grandiosi furono realizzati dagli stessi imperatori, e ne portavano il nome. Il percorso nelle terme Un tipico percorso nelle terme iniziava con una sosta negli spogliatoi, per poi passare alla sala del bagno caldo (“calidarium”), ad una stanza riscaldata (“tepidarium”) e quindi alla sala del bagno freddo (“frigidarium”). Il funzionamento delle terme è garantito da grandi cisterne e sistemi di condutture in piombo e terracotta per l’approvvigionamento idrico. Al riscaldamento provvedono forni a legna, caldaie per l’acqua e sistemi basati sulla circolazione di aria calda all’interno di pareti cave e sotto i pavimenti. Negli impianti più grandi il percorso poteva essere doppio, e poi potevano esserci un vasto spazio aperto circondato da portici per gli esercizi fisici e i giochi sportivi (“palestra”), una piscina per i tuffi e il nuoto, e una serie di vani secondari, quali latrine e stanze per la sauna (“laconicum”) o i vapori caldi (“sudatorium”). Chiudevano il giro massaggi, frizioni con oli profumati e depilazione. Le terme a volte si trovavano all’interno di complessi più vasti che potevano includere giardini, biblioteche, auditori per la pubblica lettura o per la musica e addirittura edifici per spettacoli scenici. Andare a teatro I Romani affollano i teatri non per spettacoli “seri” come le tragedie dei Greci, ma soprattutto per assistere a spettacoli che oggi definiremmo di intrattenimento. Il mimo, farsa burlesca e popolare, traeva spunto dal repertorio comico (spesso licenzioso). Lo spettacolo si basava sull'espressività dei volti di attori e attrici che recitavano senza maschera, sulla loro abilità nel cantare, ballare e gesticolare, sulle invenzioni sceniche e addirittura su veri e propri spogliarelli. Nel pantomimo, ispirato alla tragedia e al mito, gli attori con maschera, rigorosamente uomini, illustravano con gesti le vicende, accompagnati da orchestra e coro. Gli spettacoli all’anfiteatro L’anfiteatro era il luogo di uno degli spettacoli più apprezzati dai Romani: duelli, quasi sempre all’ultimo sangue. I gladiatori erano schiavi, prigionieri di guerra addestrati o, più raramente, dei “professionisti”. Ogni gladiatore aveva la sua specializzazione, caratterizzata dall’equipaggiamento: • Il reziario aveva rete e tridente; • Il “secutor” aveva elmo a calotta; • Il mirmillone aveva una corta spada e scudo rettangolare; • Il trace combatteva con spada ricurva, piccolo scudo ed elmo crestato;

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• L’oplomaco (tipico avversario del trace), era munito di spada, grande scudo ed elmo piumato. I gladiatori vivevano in scuole-caserme gestite da un impresario-allenatore e, in caso di successo, conquistavano enorme prestigio e cospicui guadagni, divenendo idoli del pubblico. Gli spettatori partecipavano attivamente, spesso determinando la sorte dello sconfitto: ucciso o graziato. Il tifo raggiungeva forme di fanatismo che portavano spesso a gravi disordini: proprio per motivi di ordine pubblico gli anfiteatri sorgevano, quasi sempre, all’esterno delle città. Gli anfiteatri ospitavano anche lotte tra animali e simulazioni di battute di caccia (“venationes”). Gli animali esotici erano trasportati dalle più remote province dell’impero e offerti con grande spesa dalle autorità pubbliche o da munifici privati; erano leoni, tigri, elefanti, ippopotami, coccodrilli, orsi…. Più rare perché costosissime, ma spettacolari e amate dal pubblico, erano le battaglie navali (“naumachie”) che si svolgevano nell’arena allagata dell’anfiteatro.

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PARTE IV: LA SOCIETÀ Qui si raccontano alcuni aspetti della società romana, dalla condizione femminile a quella degli schiavi a chi, infine, aveva potestà di governo. La struttura dei nomi Nel mondo romano il nome per gli uomini attesta il loro stato di “liberi” e la posizione che essi occupano nella società. È formato, generalmente, da tre nomi (“tria nomina”): • “praenomen”: nome generico, di solito abbreviato, che tende a scomparire; • “nomen”: simile al nostro attuale cognome, individua la famiglia di appartenenza,

per cui è anche detto “gentilizio” (da “gens” = famiglia); • “cognomen”: simile al nostro attuale nome proprio; spesso deriva da attributi fisici

o morali. Le donne erano indicate anche con il nome del padre e del marito, i liberti con il prenome e il nome del padrone che li aveva liberati, gli schiavi solo con il nome spesso accompagnato dall’indicazione S (“servus”) e il nome del padrone. A partire dalla seconda metà del IV sec. d.C. i tre nomi tendono a scomparire, sostituiti dal nome unico, che è l’elemento caratterizzante dell’epigrafia cristiana. Gli anni e il calendario Per gli antichi Romani gli anni erano tipicamente identificati con il nome della magistratura più importante: i consoli, che restavano in carica giusto un anno. Più tardi si usò anche il riferimento alla presunta fondazione di Roma (avvenuta nel 753 a.C.), con la espressione “Ab urbe Condita”, “dalla fondazione della città”. La suddivisione in mesi era simile a quella odierna, ma molto imprecisa quanto al numero dei giorni, per cui doveva spesso essere aggiustata con delle riforme: famosa fu quella di Giulio Cesare, che creò il cosiddetto “calendario Giuliano”, che restò in uso fino alla fine del XVI secolo. Un giorno era diviso in 12 ore diurne (dalla “prima” alla “duodecima”) e 12 notturne. Essendo basate sul levarsi e calare del sole, corrisponderebbero, secondo i nostri orologi, a ore diverse, a seconda della stagione. La condizione degli schiavi L’uguaglianza proclamata dal Cristianesimo aveva valore solo sul piano religioso: tutti avevano diritto alla salvezza eterna, senza distinzioni sociali. Ma questo non rendeva tutti gli uomini uguali nei loro diritti politici e sociali. Nella Lettera di Pietro agli Efesini (6,5) si legge: “Servi, obbedite ai vostri padroni di quaggiù” e in molte altre testimonianze di Paolo e di altri padri della chiesa si trova la stessa idea di incondizionata sottomissione. La schiavitù, che forniva la forza-lavoro gratuita essenziale per l’economia delle grandi proprietà terriere, non fu considerata contraria alla religione cristiana. È notevole che proprio al tempo di Costantino, noto per aver ribadito la tolleranza verso il Cristianesimo, siano sempre più frequenti i collari per gli schiavi, con iscrizioni che indicano a quale indirizzo dovesse essere riportato lo schiavo fuggitivo. I liberti Nella società romana, oltre all’aristocrazia e agli uomini liberi, c’era una ulteriore categoria: quella dei “liberti”, gli schiavi liberati. Gli schiavi colti e di talento potevano divenire importanti per la gestione degli affari del loro proprietario. A volte potevano anche arricchirsi, mediante una percentuale sugli affari. Succedeva quindi che per

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gratitudine o per interesse (in corrispondenza di un riscatto) il padrone di uno schiavo lo liberasse. Il liberto restava comunque legato all’ex-proprietario, acquisendone anche il “nomen” di famiglia. I liberti erano spesso attivi in varie attività economiche ed artigianali, diventando, a volte, molto ricchi. Potevano anche diventare importanti funzionari o sacerdoti o fare carriera nella Chiesa. Non potevano, tuttavia, accedere alle cariche politiche ordinarie. I seviri augustali La carica di “Seviro Augustale” era molto ambita dai liberti, gli schiavi liberati, che non potevano accedere alle cariche politiche ordinarie. Come dice il nome, i Seviri erano sei (“Sex Vires”, cioè sei uomini). In origine era una magistratura locale, affidata a sei membri nati liberi. Augusto creò invece i Seviri Augustali, adibiti al culto imperiale, appunto per gratificare i ricchi liberti. Il titolo di “Seviro”, anche se privo di potere reale, soddisfaceva l’ambizione di riconoscimento sociale, in quanto comportava un ruolo speciale in alcune cerimonie (concernenti il culto dell’imperatore) ed anche alcuni segni di distinzione, tra cui dei posti speciali “doppi” a teatro: la “tribuna VIP”, diremmo oggi. I Seviri Augustali venivano scelti dal senato locale, ma dovevano anche versare un notevole contributo in denaro per essere effettivamente nominati. I Seviri erano spesso oggetto di satira, come il famoso Trimalcione, protagonista del Satyricon di Petronio, che fa rappresentare sul suo sepolcro le navi che gli avevano permesso di arricchirsi e di essere promosso alla carica di Seviro Augustale. Il governo delle città: i decurioni In tutte le città dell’impero l’organismo di massimo prestigio a livello locale era il senato municipale (“Curia”), accessibile a coloro che potevano disporre di un reddito di 100.000 sesterzi. Era composto da un numero variabile di decurioni, da 30 a 100. Le competenze del collegio dei decurioni riguardavano onoranze funebri, conferimenti di onori municipali, nomine di sacerdoti pubblici, elevazioni di statue in luoghi pubblici, concessioni di diritti di superficie o di usufrutto di suoli pubblici, come attestato da alcune epigrafi milanesi. Dall’ordine dei decurioni uscivano, per elezione da parte del popolo, i supremi magistrati della città, che al termine dell’incarico rientravano nel senato. Magistrature locali erano i “quattuorviri iure dicundo”, incaricati di amministrare la giustizia, e i “quattuorviri aedilìcia potestate”, per la gestione amministrativa e il controllo dell’edilizia, delle strade, dei mercati e degli archivi. I “clientes” Nell’antica Roma anche gli uomini liberi avevano bisogno di protezione in senso lato: assistenza giudiziaria ed economica, aiuto negli affari, etc. Coloro che si trovavano in questa situazione diventavano “clientes” di un “patronus”, personaggio altolocato e con buona disponibilità economica. I clienti avevano degli obblighi di fedeltà verso i loro patroni, il che includeva anche procurare dei voti durante le elezioni o arruolarsi in caso di reclutamento di truppe. Il rapporto di clientela era di lunga durata e, spesso, anche ereditario. La condizione femminile Il mondo romano assegna alle donne un ruolo domestico e materno. Le bambine trascorrono la vita tra le pareti domestiche educate dalla madre al matrimonio, alla gestione della casa (“domum servare”), a filare la lana (“lanam facere”) e alla cura dei figli.

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Il grado d’istruzione delle donne dipende dal ceto sociale e sappiamo che, soprattutto nelle province orientali, l’istruzione femminile poteva raggiungere buoni livelli. Il divorzio è comunque pratica corrente fra i ceti aristocratici che utilizzano il matrimonio come strumento per alleanze politiche. Nel tempo la situazione femminile in qualche modo si evolse, consentendo un certo livello di autonomia economica: sono noti casi di matrone, dotate di cospicui patrimoni, divenute imprenditrici o attive in opere di pubblica utilità. Questo, tuttavia, non implicava alcuna apertura verso diritti politici come il diritto di voto, riservato esclusivamente ai cittadini romani maschi. Il Cristianesimo influisce profondamente sulla condizione femminile, sottolineando valori di castità e purezza e riportando la donna al tradizionale ruolo di moglie e madre. Il riconoscimento dei figli Nel mondo Romano (come in altre società, ad esempio il mondo greco) un neonato rischia l’“esposizione”, cioè di non essere riconosciuto dal padre e abbandonato all’aperto, a morire. I motivi sono diversi: una malformazione, l’essere frutto di una relazione illecita, la necessità - per i ricchi - di preservare il patrimonio a favore del primogenito, il bisogno – per i poveri – di liberarsi di una bocca in più da sfamare. Le femmine rischiano ancora più dei maschi, perché debbono essere fornite di dote per il matrimonio. La povertà spingeva anche a vendere i propri figli a trafficanti che li vendevano come schiavi, o li avviavano, se maschi, al mestiere di gladiatore, se femmine, alla prostituzione. Solo nel 374 d.C. una disposizione degli imperatori Valentiniano, Valente e Graziano, conservata nel Codice di Giustiniano, vietò l’esposizione, senza peraltro riuscire ad eliminare quest’uso. Tale fenomeno appare, infatti, diffuso nell’Italia settentrionale, e anche nella diocesi milanese, durante il IV-V secolo, nonostante le aspre critiche di Ambrogio e di altri vescovi. Le tasse Il sistema di tassazione del mondo Romano è essenzialmente basato sul censo. Essendo la ricchezza basata sull’economia agricola, la produzione agricola era particolarmente oggetto di tassazione. Quando era difficile individuare il censo dei singoli, si tassavano intere comunità (come piccole municipalità o comunità etnico-religiose), lasciando loro autonomia nella ripartizione al loro interno dei tributi richiesti. Nel tardo periodo imperiale ai tributi ordinari si aggiunsero due tributi speciali: l’Annona Civile, raccolta nel centro-sud e che serviva a mantenere la plebe di Roma, e l’Annona militare, raccolta nel nord, e che serviva a finanziare le spese militari. Evasione fiscale Il vescovo Ambrogio denuncia e condanna, nei suoi scritti, le speculazioni dei grandi possidenti terrieri della valle padana. Questi accumulavano grandissime scorte di frumento, sottraendolo al mercato corrente e provocando artificialmente, con l’arrivo dell’inverno, carestie e aumento dei prezzi. I proprietari di terreni approfittavano della fame pubblica per realizzare enormi guadagni sfruttando il basso costo di produzione e l’alto costo di vendita dei prodotti agricoli. I proprietari terrieri della valle padana appaiono infatti preoccupati non da una possibile insufficienza dei raccolti ma, al contrario, dal rischio di una sovrapproduzione e dal conseguente ribasso dei prezzi sul mercato. La speculazione sul rialzo dei prezzi del

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grano è attestata anche da altri vescovi come Zeno di Verona e Massimo di Torino per l’Italia settentrionale, Agostino in Africa e Basilio in Asia.

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I funzionari dell’Imperatore Durante l’impero molte delle funzioni affidate alle magistrature elettive furono mano a mano trasferite a funzionari imperiali. Questi funzionari si occupavano della gestione dei territori delle province, della gestione militare, della raccolta dei tributi e dell’approvvigionamento, civile e soprattutto militare. I funzionari imperiali erano delegati dell’imperatore che agivano da collegamento con le amministrazioni e le élites locali (rappresentate dai possidenti e dalla aristocrazia locale).

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PARTE V: RELIGIONE CRISTIANA Qui si racconta di come il cristianesimo pian piano si diffuse fino a diventare, con l’editto di Teodosio, religione di stato. Si racconta poi del vescovo Ambrogio, figura fondamentale della Milano romana cattolica del IV secolo. Il cristianesimo nel settentrione Nell’Italia settentrionale il Cristianesimo si diffonde solo dalla metà del III secolo (mentre a Roma e nel meridione era iniziato attorno alla metà del I secolo). Milano e Aquileia sono le prime a costituirsi come diocesi, con un vescovo. Comunità cristiane esistono anche in altre città come Pavia, Bergamo, Brescia, Vercelli. La diffusione del Cristianesimo ricevette impulso dall’editto di Costantino (313 d.C.) e soprattutto dall’opera di Ambrogio, vescovo a Milano nella seconda metà del IV secolo, che incentivò la creazione di diocesi in tutta l’Italia settentrionale. Cattolicesimo e arianesimo All’inizio si svilupparono all’interno del Cristianesimo, diverse “opinioni”, alcune delle quali divennero ufficiali (accettate cioè da tutta la Chiesa), mentre altre, sconfitte, furono in seguito denominate “eresie”. Ario, sacerdote in Alessandria d’Egitto all’inizio del IV secolo, sostenne che il Figlio è Dio, ma inferiore al Padre e da Lui creato. Inoltre tutta la creazione del mondo e dell’universo materiale sarebbero opera del Figlio. La Chiesa d'Oriente, in maggioranza, sostenne le tesi di Ario. Tuttavia, nel Concilio ecumenico di Nicea (convocato dallo stesso imperatore Costantino, preoccupato dalle divisioni all'interno della Chiesa) Ario fu scomunicato. Nel Concilio venne proclamato il Credo Niceno: “Il Figlio è Dio da Dio, Dio vero da Dio vero, generato e non creato …”, che continua ad essere professato dalla Chiesa cattolica ancora oggi. L’arianesimo restò tuttavia molto diffuso, sia presso la chiesa d’Oriente, sia presso le popolazioni barbare, che da questa erano state convertite al Cristianesimo. L'editto di Costantino Incredibilmente, non esiste alcun documento del famosissimo editto di Costantino, promulgato da Milano nel 313 d.C. Sappiamo, tuttavia, che Licinio, collega di Costantino in Oriente, conferma, a nome suo e di Costantino, la tolleranza di tutte le religioni, che in realtà era stata già concessa dall’imperatore Galerio, nel 311 d.C., poco prima della sua morte. L’erede di Costantino, Costanzo II, è di fede ariana, allora dominante a Costantinopoli. Costanzo impone l’arianesimo in gran parte dell’impero e a Milano, dopo aver esiliato in Cappadocia il vescovo cattolico Dionigi, nomina un vescovo di fede ariana, Mercurino Aussenzio. Costanzo II attua anche una serie di misure antipagane, nel 353 e nel 354. Nel 357 a Roma fa rimuovere l’altare della Vittoria dal Senato. Ripresa del paganesimo Fra il 360 e il 363 d.C. si ha un breve ritorno al paganesimo con l’imperatore Giuliano, detto spregiativamente l’Apostata dagli scrittori cristiani, che si adopera anche per la ripresa del culto della Grande Madre Cibele, a cui dedica componimenti letterari. In realtà, Giuliano emise un editto di tolleranza verso tutti i culti, proteggendo anche i cattolici dagli ariani, e viceversa. L’editto di Teodosio

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Gli imperatori successivi a Giuliano, dopo il 363 d.C., sono sia cattolici che ariani, ed applicano una sostanziale politica di tolleranza. Con l’avvento di Teodosio, imperatore dal 379, le cose cambiano. Nel 380, seguendo anche le indicazioni di Ambrogio, vescovo di Milano, Teodosio promulga (insieme a Graziano e Valentiniano II) l’Editto di Tessalonica: si impone il Credo Niceno (stabilito al concilio di Nicea) dei cattolici, e contemporaneamente si proibiscono l’arianesimo e i culti pagani. Con successivi decreti (nel 391 a Milano, Concordia e Aquileia e nel 392 a Costantinopoli), il Cristianesimo diventa effettivamente l’unica religione di Stato. I templi pagani vengono chiusi nelle città. Per chi effettua sacrifici agli dei sono stabilite pesanti pene: il pagamento di cospicue multe, la perdita dei diritti civili (come votare ed essere eletto, commerciare, sposarsi legalmente, fare testamento ed ereditare), la confisca delle abitazioni e in alcuni casi, la morte. Gli editti di Teodosio causarono ribellioni e scontri fra cristiani e pagani, ancora numerosi. Ambrogio vescovo di Milano Ambrogio fu un famosissimo vescovo di Milano, alla fine del IV secolo. Prima di essere eletto vescovo, era governatore di “Aemilia” e Liguria (comprendente all’epoca anche l’attuale territorio della Lombardia). Quando nel 374, a 35 anni, venne eletto vescovo a furor di popolo, non era ancora battezzato! Esercitò per ventitré anni grande autorità sull’imperatore Valentiniano, sui suoi due figli, Graziano e Valentiniano II, ed anche sul successivo imperatore Teodosio. Ritenendo che fosse il potere civile (l’Impero) a doversi sottomettere al potere religioso (la Chiesa), ebbe spesso forti conflitti con la corte imperiale, da cui uscì quasi sempre vincitore. Ebbe grande influenza in tutta la Chiesa occidentale. Divenne anche estremamente popolare per il suo impegno nella predicazione contro lo sfrenato lusso delle classi abbienti, intollerabile al confronto della miseria in cui viveva la plebe urbana. Inoltre, si dedicò a combattere l’abbandono dei figli non desiderati, pratica già da tempo vietata ma tuttavia ancora presente. Il battesimo alle origini All’inizio del Cristianesimo, essere battezzati, non era affatto facile: il catecumeno (cioè l’aspirante cristiano) doveva sottoporsi ad un vero e proprio tirocinio che, nel III secolo d.C., durava tre anni e richiedeva, tra l’altro, digiuni, astinenza sessuale, preghiere, esercizi e lunghi “corsi”, detti “catechesi” (dal verbo greco “katexeo” che vuol dire istruire, ammaestrare). Fino al II secolo si esclude che il battezzato possa essere perdonato in caso di peccati gravi come apostasia, adulterio, omicidio. Dal III sec. è ammessa una “paenitentia secunda”, che si concede però una volta sola e dopo lunga espiazione. Per questa ragione, molti decidono di ricevere il battesimo tardi: ad esempio l’imperatore Costantino alla fine della vita e Sant’Agostino alla fine della giovinezza. Il battesimo all’epoca di Ambrogio All’epoca di Ambrogio il catecumeno, l’aspirante cristiano, è ammesso in chiesa fino all’omelia (cioè fino all’ascolto della parola divina), ma è escluso dall’Eucarestia. Dall’inizio del IV secolo l’ammissione al Cristianesimo diviene più complessa, con un rituale che esprime, simbolicamente, la morte del peccatore e la rinascita ad una nuova vita. Dopo l’iniziazione morale e filosofica, per il Battesimo, si deve superare un esame per potersi iscrivere nel registro dei candidati (nome che deriva da “candida”, la veste bianca che verrà indossata). Segue poi una serie di istruzioni religiose ed esercizi ascetici, con astinenza, preghiera e digiuno nel periodo della Quaresima, che precede la Pasqua.

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Il Battesimo (dalla parola greca “baptisma”, che vuol dire immersione) viene celebrato dal vescovo il giorno di Pasqua e in seguito, anche a Pentecoste ed Epifania. Il candidato, spogliato delle vesti, rinuncia a Satana attraverso un rito di esorcismo (unzione della fronte) e viene immerso completamente per tre volte nell’acqua benedetta del fonte battesimale. Riceve quindi l’unzione con il segno di Cristo (cresima), una veste bianca e una candela accesa con cui parteciperà alla processione dal battistero alla cattedrale. Ambrogio: liturgia e inni Ambrogio fu un instancabile costruttore di chiese, tanto che Milano è, dopo Roma, la città in Italia con la maggiore presenza di edifici paleocristiani. Ambrogio fu anche uno straordinario innovatore liturgico, tanto è vero che ancora oggi nella diocesi di Milano, per le celebrazioni religiose, si usa il “rito Ambrosiano”, invece del “rito Romano”, usato in tutto l’Occidente. Tra le altre innovazioni, durante il suo vescovato, venne introdotto nella chiesa milanese il canto “antifonato”, in cui i versetti dei salmi erano cantati alternativamente da due cori, all’interno dell’assemblea dei fedeli. Ambrogio rese anche diffusi gli inni, che costituiscono uno degli elementi più tipici della liturgia ambrosiana. Ad Ambrogio viene attribuita la composizione di almeno 13 inni. Lo scopo era pastorale: egli era ben consapevole della forza di coesione generata dal canto corale. La terminologia ecclesiastica Il Cristianesimo delle origini utilizza la lingua greca mentre Gesù, probabilmente, parlava aramaico, un dialetto semitico. In greco furono scritti i principali testi canonici, che furono tradotti in latino solo alla fine del IV secolo. Anche la struttura gerarchica della Chiesa utilizza termini presi dal greco, come “diocesi” (il territorio gestito da un vescovo, da una parola che vuol dire “amministrazione”), “ecclesia” (l’assemblea del popolo, da cui derivano i termini “chiesa” ed “ecclesiastico”), “episcopo” (il vescovo, capo di una diocesi, da un verbo che vuol dire “guardarsi intorno”), “presbitero” (il sacerdote, da una parola che vuol dire “anziano”) e “diacono” (da una parola che vuol dire “servitore”). Il diacono in particolare ha compiti amministrativi e assistenziali, di distribuzione dell’eucarestia e di predicazione. Le sepolture I Romani potevano sia seppellire sia cremare i loro morti: la scelta dipendeva dal luogo, dall’epoca ed anche dalla tradizione di ciascuna famiglia. Dal I secolo d.C. la sepoltura diviene la modalità pressoché esclusiva, anche per l’influenza crescente del Cristianesimo. La sepoltura singola, con sarcofago e monumento, era riservata alla classe dominante. I poveri venivano sepolti in spazi angusti (“columbaria”) o gettati in fosse comuni. Era regola, probabilmente per motivi sanitari, che le sepolture avvenissero fuori dai limiti delle città, raggruppate per le classi medie e isolate per le sepolture monumentali. Le sepolture si trovavano spesso lungo le importanti vie consolari che uscivano dalle città. Spesso, le chiese paleocristiane sorsero vicino ad antiche aree di sepoltura. Ambrogio e i nemici della chiesa Ambrogio fu estremamente deciso contro coloro che considerava nemici della Chiesa, come ariani, pagani ed ebrei. Non esita ad esigere la chiusura dei templi pagani, e l’abbattimento delle statue di culto delle antiche religioni.

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Ambrogio è ispiratore di provvedimenti imperiali contro la tolleranza e il pluralismo religiosi, come l’Editto di Teodosio del 380 che pone il Cristianesimo come unica religione lecita in tutto l’Impero. La richiesta di una basilica da parte degli ariani di Milano, supportati dall’Imperatrice Giustina, vede il vescovo impegnato in prima persona per impedire che qualsiasi chiesa passi in mano eretica. Lo scontro raggiunge il suo culmine nella settimana di Pasqua del 386, quando Ambrogio e i suoi fedeli occupano, per non cederla agli ariani, la basilica Portiana, (cioè fuori Porta), che non è ancora stata identificata con certezza. Una delle ipotesi più accreditate è che si trovasse dove oggi sorge la chiesa di S. Vittore al Corpo.

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PARTE VI: RELIGIONE PAGANA Qui si racconta del rapporto (e del conflitto) tra paganesimo e cristianesimo nei secoli in cui quest’ultimo si affermò come religione di stato. Il termine “pagano” Il termine “pagano” deriva dal latino “pagus” (campagna) e quindi vuol dire letteralmente “abitante della campagna”. Ad un certo punto divenne sinonimo di “non-cristiano”, cioè legato agli idoli e alle antiche religioni: uno dei primi a usarlo in questo senso fu Tertulliano, nel IV secolo. Una prima interpretazione è che gli abitanti delle campagne furono più lenti ad accettare il Cristianesimo, anche perché la religione tradizionale, con le sue offerte agli dei, era molto legata alle stagioni e alla propiziazione dei raccolti. C’è però anche un’altra interpretazione, legata al fatto che “paganus” nel latino classico voleva dire anche “civile”, e questo creava una differenza rispetto ai Cristiani che si qualificavano come “soldati di Cristo”. Si può notare come l’uso dispregiativo di termini caratterizzanti gli abitanti della campagna sia rimasto fino ai nostri giorni: ne sono esempi parole come “bifolco” (ovvero colui che ara la terra con i buoi) o “cafone” (contadino del Sud Italia). Cristianesimo e paganesimo Il Cristianesimo prende piede in Italia Settentrionale dalla metà del III secolo, soprattutto nelle città. Grazie all’autorità di Ambrogio, la diocesi di Milano, dalla seconda metà del IV secolo, acquisisce un ruolo di preminenza sulle altre città. Proprio Ambrogio consacra il primo vescovo di Como, Felice, nel 386. Nelle campagne invece, ancora nel IV secolo e agli inizi del V secolo, la popolazione è prevalentemente pagana, come risulta dai sermoni di alcuni vescovi. La triste vicenda dei tre missionari inviati dal vescovo Ambrogio nel 387 a convertire le popolazioni trentine è emblematica della situazione: dopo dieci anni, il 29 maggio del 397, vengono uccisi e bruciati dai contadini, durante una festa in onore delle divinità agricole. Distruzione dei templi pagani Non ci sono importanti resti di templi pagani a Milano. Dappertutto, ma soprattutto a Milano, anche grazie all’energica azione del vescovo Ambrogio, i templi furono demoliti, per riusarne il materiale, oppure furono direttamente trasformati in chiese cristiane. Questo era un fenomeno diffuso in epoca tardo imperiale in tutte le aree dell’Impero Romano. A Milano tuttavia non sono state ancora rinvenute tracce certe di templi al di sotto di un edificio ecclesiastico. Ad esempio la Basilica del Salvatore, che esisteva in piazza Duomo, era stata costruita sopra un altro edificio, ma non abbiamo la certezza che fosse un tempio. Il culto domestico e i Lari Presso i Romani era molto diffuso il culto domestico, che veniva praticato su di un piccolo altare in una apposita stanza. Destinatari del culto erano i Lari e i Penati. I “Lari di famiglia” (distinti dai Lari pubblici) erano gli spiriti degli antenati, che vegliavano sul buon andamento delle cose della famiglia. Venivano rappresentati con delle piccole statue di terracotta, di fronte alle quali si accendeva, in determinate occasioni, una fiammella per onorarli. Ai Lari si fa anche risalire l’abitudine di scambiarsi auguri e doni verso la fine dell’anno, data poi assunta dal Natale cristiano.

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Altri spiriti protettori della famiglia erano i Penati, non associati però agli antenati ma simili per certi versi agli “angeli custodi”. Il culto di Cibele Il culto di Cibele arrivò ai Romani dai Greci, ma era probabilmente di origine frigia. Era legato alla “terra madre”, alla morte e alla rinascita, come narrato nel mito di Attis: colto dall’estasi mistica, Attis, sposo di Cibele, si castrò e fu poi resuscitato da Cibele. Da questo mito derivò la pratica, di alcuni sacerdoti di Cibele, di castrarsi. A Roma il culto di Cibele era molto diffuso ed una sua immagine vi era stata trasferita dall’Asia Minore fino a Roma. Una solenne processione in primavera (la stagione della rinascita) portava la immagine della dea fino al circo, gremito di spettatori in attesa delle gare. Il Cristianesimo ridusse e poi eliminò il culto di Cibele, a volte riusandone i templi, come avvenne ad esempio a Roma, in cui la chiesa di santa Maria Maggiore, dedicata alla “madre di Dio”, fu edificata sopra il tempio della “terra madre”. Il culto ebbe una breve rinascita, anche a Milano, durante il breve impero di Giuliano l’Apostata. I dendrofori Nel mondo romano il collegio era una sorta di corporazione professionale ma non solo: spesso gli appartenenti ad uno stesso collegio veneravano in maniera particolare una divinità. Così era per i dendrofori (dal greco “déndron” = albero, “foréo” = portare). Il loro collegio fu stabilito dall’imperatore Claudio nel I secolo d.C. per riconoscere professionalmente quella categoria di lavoratori che avevano a che fare con il commercio e la lavorazione del legname. Inoltre, assegnò loro il compito di trasportare il pino sacro al dio Attis per onorare la dea Cibele durante la festa delle dendroforie. Divennero così strettamente connessi con il culto di Cibele. La presenza dei dendrofori a Milano è attestata dal rinvenimento di ben tre epigrafi appartenenti a personaggi che in vita furono dendrofori. Una di queste fu riconosciuta in uno scalino della rampa che porta al matroneo nella chiesa di S. Lorenzo.

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PARTE VII: STORIA, ECONOMIA Qui si raccontano alcuni aspetti della storia ed economia dei secoli IV, V e VI d.C., in cui lentamente, sotto la pressione crescente dei barbari, l’impero romano andò morendo. Le residenze imperiali Diocleziano, eletto imperatore dai soldati nel 284 d.C., decide che un solo uomo non può governare efficacemente un territorio vasto come l’Impero Romano. Crea quindi un governo collegiale basato su due imperatori, detti "Augusti"; i primi due sono Diocleziano stesso e Massimiano. Ci sono poi due successori designati, che collaborano alla gestione: sono i cosiddetti "Cesari"; i primi due sono Galerio e Costanzo. Questo sistema, noto come “tetrarchia” (che in greco vuol dire “governo dei quattro”) divideva l'Impero in quattro grandi aree, ciascuna residenza di uno dei tetrarchi. Diocleziano sceglie come residenza Nicomedia in Bitinia (oggi Izmit in Turchia); l’altro Augusto, Massimiano, sceglie Mediolanum (Milano); Galerio sceglie Sirmium sulla Sava (oggi Sremska Mitrovica in Serbia) e Costanzo sceglie Augusta Treverorum (oggi Trier, Treviri, in Germania). Si apre così un periodo di grande splendore per Milano, divenuta residenza imperiale e capitale effettiva dell’Italia Settentrionale. Le diocesi Diocleziano, imperatore tra il 284 e il 305 d.C., è ideatore di una rivoluzionaria ristrutturazione delle province dell'impero da un punto di vista territoriale, amministrativo e fiscale. Le province, aumentate di numero e raggruppate in diocesi (macro-regioni), sono rette da vicari che rispondono direttamente all’imperatore. L'Italia (secondo la maggioranza degli storici) viene suddivisa in due diocesi: • “Italia Annonaria”: è governata da Milano ed è costituita da tutte le province del

nord fino all’Arno. • “Italia suburbicaria”: include tutte le altre province, esclusa Roma, governata da un

prefetto urbano. La “annona” era una tassa per mantenere gli eserciti e la corte imperiale, che non ha più sede solamente a Roma ma anche a Milano e in altre città strategicamente importanti. L'Annona Alla fine del IV secolo la “diocesi” “Italia Annonaria” include tutte le province del Nord, tra cui la provincia “Emilia e Liguria”, della quale fa parte il territorio della attuale Lombardia occidentale, che solo nel VI secolo si staccherà e prenderà il suo nome attuale (derivato da quello dei Longobardi, i barbari conquistatori). L’imperatore impone ai ricchi possidenti delle regioni settentrionali, oltre ai consueti tributi pagati in tutta Italia, una nuova tassa per provvedere di “annona” (cioè i viveri necessari per l’anno: grano, olio, vino, carne) la corte e l’esercito, ormai residenti a Milano con continuità. L’annona militare diventa quindi una tassa specifica dell’Italia del Nord, famosa per le sue abbondanti produzioni di grano e vino. L’annona civile, invece, è caratteristica solo di Roma e serve al mantenimento della plebe urbana, a spese dello Stato. L’agricoltura nel nord Italia Il vino rappresenta, secondo le fonti antiche, il primo prodotto della Valle Padana, seguito dal frumento. La produzione del vino era così abbondante che il prezzo della qualità più comune si abbassò sempre di più nei secoli. Lo sbocco naturale era quindi l’esportazione

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verso i paesi del Danubio, che per ragioni climatiche avevano pochissima produzione di vino e offrivano in cambio pelli e schiavi. Ambrogio stesso ricorda il largo consumo di vino nelle “tabernae” e nelle case private presso tutte le classi sociali. La seconda coltivazione tipica della Valle Padana è il frumento, coltivato intensivamente dai grandi proprietari terrieri attraverso l’opera di schiavi di campagna (servi rustici) o liberi braccianti salariati. La coltivazione del frumento era molto redditizia ed era alla base della ricchezza dei grandi proprietari terrieri, anche se obbligati a cederne parte (come tassa annonaria) allo Stato per il mantenimento dell’esercito e della corte a Milano. Erano inoltre diffusi legumi, cibo importante nell’alimentazione dei contadini, alberi da frutto e olivi. Dagli scritti di Sant’Agostino sappiamo, però, che l’olio (usato sia come condimento sia come combustibile) alla fine del IV secolo scarseggia nella Valle Padana. Vendita dei cereali Mentre la produzione agricola dell’Italia meridionale e dell’Africa, pagata come tassa, era destinata a Roma, la produzione agricola del nord era destinata al mantenimento della corte di Milano e dell’esercito stanziato nelle province settentrionali o nelle province retico-danubiane (attuale Austria e Ungheria) al di là delle Alpi. Malgrado le forti tasse (e forse anche grazie alle evasioni delle medesime) restava un surplus di produzione, che poteva essere commerciato liberamente, con grandi profitti, e che spesso prendeva la strada di Roma. Tra il 395 e il 398, infatti, la situazione delle forniture di grano, carne e olio a Roma (per l’annona civile che serviva a mantenere la plebe urbana a spese dello Stato) è molto grave: il Conte (“Comes”) d’Africa, Gildone, comandante dell’esercito che spalleggiava l’usurpatore Eugenio (sconfitto da Teodosio nel 394), aveva bloccato le consegne di vettovaglie dall’Africa. La plebe di Roma si solleva e i senatori (che sono anche i ricchi proprietari terrieri) debbono sopperire alla mancanza dell’Annona con una distribuzione di carne e frumento a loro spese. Lodi vecchia In una zona vicino alla attuale Lodi (a sud di Milano), nella località che ora si chiama Lodi Vecchia, sorgeva un importante municipio romano: “Laus Pompeia”. Nella seconda metà del IV sec. Ambrogio la promuove a diocesi ecclesiastica, con il primo vescovo, Bassiano; questi nel 387 dedica ai Dodici Apostoli, fuori dalle mura, la prima basilica cristiana di “Laus”. La basilica, sopravvissuta alle distruzioni di Lodi (operate da Milano all’epoca del Barbarossa), venne ricostruita nel XIV secolo. I barbari Il termine “barbari” deriva dal greco (“oi barbaroi”) e designava in origine tutti coloro che non parlavano greco. Sembra di origine onomatopeica (in cui cioè il suono rimanda al significato della parola stessa), risultante dal raddoppiamento del suono “bar”, a indicare i popoli che parlavano una lingua rozza e incolta, di suono non comprensibile, quasi balbettante. In origine per i Greci indicava, con scherno, soprattutto i Persiani; per i Romani indicava principalmente i popoli germanici, con cui combatteva (o trafficava) l’impero. Il settentrione tra IV e V secolo Nell’ultimo decennio del IV secolo, l’Italia Settentrionale diviene teatro di lotte per la conquista della parte occidentale dell’impero. Prima l’usurpatore Massimo, nel 387, e poi

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un altro usurpatore, Eugenio, nel 388, scendono dalla Gallia, ma entrambi vengono sconfitti dall’imperatore Teodosio. Il vescovo Ambrogio in una lettera all’Imperatore ricorda la grave crisi della valle padana in tale circostanza, dovuta alle razzie di frumento fatte da Massimo per rifornire il suo esercito. Dal 400 si susseguono ininterrottamente calate di barbari nella Valle Padana: prima Alarico, a capo dei suoi Goti, a causa del quale la corte imperiale lascia Milano trasferendosi a Ravenna che diviene la nuova capitale; poi Radagaiso, sconfitto nel 406 da Stilicone, comandante dell’esercito imperiale. Le omelie del vescovo Massimo di Torino descrivono le devastazioni compiute in molte città, tra cui Milano. Infine, nel 451 Attila, a capo degli Unni, distrugge Aquileia e nel 452 entra nel palazzo imperiale di Milano. Il settentrione dopo la metà del V secolo Dopo la metà del V secolo gli imperatori romani d’occidente debbono contrastare i Vandali (Germanici) e gli Alani (Iraniani) con spedizioni militari costosissime e fallimentari. L’oro speso nell’impresa contro i Vandali di Ricimero, conclusasi nel 468 in un disastro, è di 130.000 libbre, una somma enorme, pari a tutto il bilancio annuale dell’impero, secondo lo storico Procopio. Nel 476 il giovanissimo imperatore Romolo Augustolo, ultimo imperatore d’Occidente, viene deposto dal re degli Sciri e degli Eruli, Odoacre, che dichiara di voler governare l’Occidente, in nome dell’imperatore d’Oriente, con il titolo di Patrizio. Odoacre sarà sconfitto nel 490 da Teodorico, re degli Ostrogoti. Il settentrione tra V e VI secolo La situazione della Valle Padana precipita negli ultimi anni del V secolo: nel 493 i Burgundi, guidati dal re Gundobado, calano in Italia settentrionale e deportano nella Savoia migliaia di coloni e schiavi dalle campagne e dalle città. Milano soprattutto, ma anche altre città della Valle Padana, cadono in stato di desolazione. Nel 494 il re goto Teodorico è impegnato in prima persona nelle trattative per la restituzione dei prigionieri. Nel frattempo, il vescovo milanese Lorenzo si dedica alla ricostruzione della città, che solo dieci anni prima offriva al viaggiatore lo spettacolo di un territorio fiorente. Nel 539, Milano cede per fame al re goto Uraia, dopo circa un anno di assedio e una terribile carestia, che imperversava a causa dell’abbandono dei campi per via delle incursioni barbariche. Secondo lo storico Procopio, 300.000 cittadini maschi (ma la cifra sembra sicuramente esagerata) vengono uccisi mentre le donne vengono deportate nella Savoia e nel Vallese, dai Burgundi, alleati dei Goti. Dopo la strage di Uraia, inizia il decadimento di Milano nonostante alcuni interventi di restauro del generale bizantino Narsete nel 568. Il potere temporale del vescovo Nel V secolo, mentre il potere imperiale si sgretola sotto le invasioni germaniche, anche le magistrature civili perdono di potere. La Chiesa diventa quindi intermediario tra stato e popolo, per il suo prestigio morale, per la sua importante organizzazione amministrativa e assistenziale e, infine, per il suo peso economico di grandissima proprietaria terriera. I vescovi si occupano non solo del controllo sull’Annona (la fornitura annuale di vettovaglie alla popolazione) ma anche delle opere di restauro di edifici pubblici, la assistenza ai poveri, il riscatto dei prigionieri, ecc. Con il V secolo inizia quindi a

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svilupparsi il potere del vescovo, che inizia a sostituirsi alla burocrazia statale, anche in senso economico-amministrativo, fino a divenire nel medioevo una delle più importanti magistrature cittadine. I vescovi sono ormai protettori della popolazione latina e conservatori della civiltà classica. Spesso il vescovo è l’unica autorità che si pone come interlocutore del potere germanico, fornendo gli strumenti per il nuovo apparato politico-amministrativo.

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PARTE VIII: REPERTI Qui si presentano i più importanti reperti milanesi, molti dei quali sono conservati nel Civico Museo Archeologico di Milano, vera memoria storica della città e delle sue antiche origini. Il Civico Museo Archeologico di Milano Il Civico Museo Archeologico di Milano ospita le memorie più antiche di Milano, conservando diversi oggetti antichi di straordinario interesse. Il museo è collocato nell’ex Monastero di S. Maurizio, che la tradizione vuole fondato tra l'VIII e il IX secolo d.C. L’area occupata dal Museo, tra via Nirone, Corso Magenta, via Luini e via Anspèrto, costituisce uno dei più intatti e ricchi depositi archeologici della città, con strutture di età romana e medioevale ben conservate in alzato. Visitando il museo si possono quindi vedere resti architettonici unici per Milano: • I resti di una ricca casa (“domus”) romana del I sec. d.C. • Un tratto delle mura romane del IV sec. d.C. • Una torre poligonale (parte delle mura), riutilizzata in epoca medioevale come

cappella del monastero di San Maurizio Maggiore. • Una seconda torre quadrata appartenente al circo romano, che segnava il luogo da

cui partivano le corse dei cavalli. Prima del Mille venne aggiunta una loggia con colonne e divenne torre campanaria del monastero.

Epigrafe di Probo L’epigrafe di Probo, dall’area di San Vittore al Corpo, è la più antica epigrafe cristiana rinvenuta a Milano. Si tratta di un epitaffio funebre di un tal Probus, morto nel 368 d.C. ad 80 anni (un’età quasi incredibile per l’epoca) che fu presbitero, una carica ecclesiastica vicina al vescovo. Si ricorda anche che rimase sposato per 30 anni. Epigrafe per Attica Lea Dall’area di San Vittore al Corpo proviene l’epigrafe della giovane Attica Lea, morta a 24 anni. L’epitaffio funebre è veramente commovente e recita testualmente: “Ad Attica Lea, che prematuramente cadde come una pianta e lasciò frutti ancora immaturi di cui neppur la voce poté conoscere: così all’improvviso rese il suo debito alla natura”. Si trattava infatti di una giovane madre, morta troppo presto. Epigrafe di Publio Vettio Gallo Nel secondo chiostro del Museo Archeologico è possibile ammirare una monumentale epigrafe che testimonia la ricchezza di un tal Publio Vettio Gallo. Si tratta di una lastra di marmo alta più di due metri. Il messaggio è tuttavia molto stringato. Si ricordano il dedicatario e tre sue liberte per le quali fu eretto il monumento funebre. Il testo, pur breve, non omette la carica di “seviro iuniore” detenuta da Publio Vettio, a cui evidentemente era molto affezionato, avendo in vita raggiunto un buon grado di ricchezza, ma forse non altrettante cariche onorarie. Epigrafe dei trasportatori Risale al II secolo d.C un’epigrafe onoraria offerta dai trasportatori di porta Vercellina e porta Giovia. Apparteneva ad un monumento funebre e fu reimpiegata come materiale edilizio per la chiesa di San Dionigi. C’è una dedica a Metilio, membro della corporazione dei “cavallanti” (coloro cioè che facevano trasporti su animali), attivi presso due porte nella zona dell’attuale Castello Sforzesco: Porta Vercellina (tra l’attuale Corso Magenta e

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Via S. Giovanni al Muro) e Porta Giovia. Il monumento si trovava nel quartiere Bardomago, nome di origine celtica. La scritta dice: “A ... Metilio, figlio di ..., iscritto alla tribù Oufentina, Messore, (dedica) il collegio dei cavallanti della porta Vercellina e Giovia, (a lui in quanto) benemerito, su uno spazio dato ... dai proprietari del quartiere Bardomago.” Il cippo di Pilade Uno “pseudonimo” per molti pantomimi fu quello di “Pilade”, per evocare Pilade di Cilicia, che aveva introdotto il genere della pantomima a Roma nel 22 a.C. Tra i numerosi “Pilade”, uno famoso era attivo a Milano, ed ebbe come cavalli di battaglia lo Ione e le Troiane, derivate da due tragedie di Euripide, nelle quali impersonava Creusa e Atena; lo si deduce dalle raffigurazioni sul suo cippo funerario, che lo mostrano con i costumi di scena, quasi a cercare gli ultimi applausi del pubblico. La statua di Ercole La colossale statua di marmo di Ercole (Eracle in greco) è di origine greca e risale alla prima metà del II secolo. Il modello, riusato per molte statue di epoca romana, deriva dal famoso scultore greco Lisippo: l’eroe si riposa appoggiato alla clava, ricoperta dalla pelle del leone di Nemea; nella mano destra, dietro la schiena, stringe i pomi d’oro delle Esperidi. La scultura è stata ritrovata presso la chiesa di San Vito al Pasquirolo (nell'area compresa fra gli attuali corso Vittorio Emanuele e corso Europa), dove scavi archeologici hanno riportato in luce i resti delle “terme erculee”, edificate dall’imperatore Massimiano (286-305 d.C.), detto “Erculeo”. Non sappiamo dove fosse la collocazione originaria della statua, che sicuramente fu ricollocata per adornare le terme, edificate quasi due secoli dopo. Testa colossale di Giove La maestosa testa di Giove, in marmo, risale alla prima metà del I secolo. Proviene forse dall’area del Castello Sforzesco, nota nell’antichità come "porta Giovia" per la probabile presenza di un tempio dedicato a Giove. Doveva appartenere ad una grandiosa statua, probabilmente ispirata al celebre modello creato da Fidia per il tempio di Zeus a Olimpia. Il naso, i baffi ai lati della bocca e la barba sul mento sono frutto di un restauro. Testa di un imperatore La testa di marmo del III secolo, ritrae un imperatore: forse Massimiano Erculeo (286-305 d.C.) o Diocleziano Giovio (284-305 d.C.). Dato che queste immagini “ufficiali” sono spesso prive di dettagli personali, è difficile riconoscere esattamente il soggetto. Il modello è infatti tipico per la rappresentazione degli imperatori dell’epoca. In ogni caso questa testa, originariamente collocata sopra una statua, è un capolavoro della ritrattistica del III secolo: raffigura un uomo maturo, ma energico, con capelli, barba e baffi cortissimi. L’espressione intensa e concentrata è sottolineata dalla direzione obliqua dello sguardo. La coppa diatreta Trivulzio La coppa in vetro traforato, realizzata nel IV secolo, è un esempio straordinario dell’artigianato di lusso. Viene detta “coppa diatreta” (dal greco “diatretos” che vuol dire traforato) o “coppa Trivulzio”, dal nome del collezionista che la comprò nel Settecento. Fu realizzata con estrema abilità da artigiani, specializzati in forniture imperiali, forse dell’area Renana attorno Treviri o itineranti. La tecnica richiedeva la realizzazione di una

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coppa di vetro massiccio che veniva poi traforato, lasciando due coppe, una dentro l’altra, tenute insieme da esili ponticelli (risparmiati dalla traforazione). Era un oggetto ornamentale e non usato per bere. Fu trovato in un corredo funebre, all’interno di un sarcofago di marmo rinvenuto nella zona di Novara. Monete del IV secolo d.C. A Milano sono state trovate monete romane del IV secolo, con immagini e nomi di imperatori. Effigiare l’imperatore sulle monete serviva sia ad affermare l’autenticità della moneta, sia a diffondere il ritratto e il nome dell’Imperatore in tutto l’Impero. Per il secondo motivo le monete sono importanti per gli archeologi: consentono di associare i nomi degli imperatori a delle fisionomie precise. Un bracciale e una collana d’oro Al museo archeologico si possono ammirare diversi esempi di oreficeria antica; tra di essi spiccano sicuramente un grosso bracciale in oro e una collana in oro, perle e smeraldi. Il bracciale è ricavato da una lamina d’oro decorata a triangoli e rombi impreziositi da elementi floreali. I gioielli erano il segno della ricchezza e del prestigio delle matrone romane sia in vita che dopo la morte e si ritrovano perciò nelle tombe. La patera di Parabiago Straordinaria testimonianza della persistenza del paganesimo a Milano in età tardo-imperiale è un lussuoso vassoio cerimoniale (“patera”) in argento dedicato al culto di Cibele. La patera rappresenta, in rilievi a sbalzo, il trionfo di Cibele e Attis al cospetto delle divinità del Cielo, delle Acque, della Terra e delle personificazioni del Tempo e della Natura. Probabilmente fu realizzata durante il breve impero (dal 360 al 363 d.C.) di Flavio Claudio Giuliano, bollato dagli scrittori cristiani come “Apostata”. Giuliano era un uomo imbevuto di cultura classica e di influssi spirituali orientali. Con la sua critica all’editto di Costantino, determinò a Milano un clima di rinascita della tradizione e del paganesimo. La patera fu trovata a Parabiago nel 1907: è probabile che fosse stata sepolta sottoterra per sottrarla a mani ostili (barbari o cristiani che fossero). Una dedica al dio Mitra La targa in marmo, del II secolo d.C., è una dedica al dio Mitra, estremamente popolare, prima di essere soppiantato dal Cristianesimo, soprattutto tra i soldati e i funzionari. Un funzionario “delle poste”, Ulpio, usò la targa (riusata poi nelle mura della città) per dedicare un oggetto al dio, definito come “Invitto” e “Patrio”. Dato che un’iscrizione gemella è stata ritrovata a Klagenfurt (allora provincia del Norico, e attualmente Austria), si può ipotizzare che le due targhe rappresentassero i capolinea di un percorso transalpino di cui Ulpio aveva il controllo. La targa dice: “Al dio (Mitra) Invitto Patrio (dedica) Ulpio Gaiano sovrintendente ai veicoli della posta”. I mosaici nelle case A Milano sono stati trovati resti di pavimenti a mosaico risalenti alla prima metà del I secolo a.C. Questo è il principale indizio della presenza, fin da allora, di ricche residenze (chiamate “domus”) destinate all’aristocrazia locale. I più antichi pavimenti in mosaico presentano disegni semplici, con tessere bianche e nere. A partire dal II secolo d.C., si aggiungono tessere a più colori e i motivi decorativi diventano sempre più complessi. Nel III secolo si rappresentano delle vere e proprie scene figurate.

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Tra il IV e il V secolo compaiono anche tessere in pasta vitrea verde e blu che aumentano la gamma cromatica e la brillantezza dei soggetti raffigurati. Probabilmente appartenevano a sale di rappresentanza dell’alta aristocrazia o di funzionari imperiali. Risale al VI secolo (all’epoca del regno goto di Teodorico o dell’occupazione bizantina) l’ultima testimonianza di un pavimento a mosaico in una “domus” privata.

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LUOGHI e MONUMENTI a MILANO Qui si presentano i monumenti più rilevanti dell’antica Milano romana, i cui resti affiorano ancor oggi tra gli edifici moderni o sono semplicemente ricordati dal nome di una via. Il palazzo imperiale di Milano Il palazzo imperiale di Milano era collocato nel settore occidentale della città, nelle adiacenze del circo, anch’esso costruito nello stesso periodo. La tradizione vuole che sia stato costruito dall’imperatore Massimiano, che stabilì a Milano la sua residenza alla fine del III sec. d.C. Non era un semplice palazzo, come noi intendiamo oggi, ma un vero e proprio quartiere: vi risiedevano l’imperatore (quando era in città), ma anche la sua corte ed i principali funzionari. Includeva quindi appartamenti residenziali, ma anche uffici (veri e propri ministeri), sale di rappresentanza, luoghi di svago, terme, porticati, e così via. Un passaggio collegava il palazzo imperiale al circo, che lo fiancheggiava. Quando Milano era capitale, dal palazzo vennero emanate importanti leggi, come il famoso editto di Costantino, nel 313 d.C. Poi venne la decadenza: nel V secolo il palazzo era ancora agibile e ospitò il re degli Unni, Attila, che vi fece affrescare una parete per celebrare la sua vittoria sui Romani. Successivamente fu usato in modo parziale dai Longobardi: ad esempio, la regina Teodolinda presentò suo figlio nell’adiacente circo. Del palazzo sono visibili ancora alcuni resti archeologici in via Brisa, angolo corso Magenta. Le case dei ricchi Tra la fine del III e l’inizio del V secolo d.C. gli edifici residenziali privati della ricca borghesia milanese sembrano addensarsi nel centro cittadino e nella zona occidentale, non lontano dal nuovo quartiere del palazzo imperiale. Data la frammentarietà dei ritrovamenti, non è tuttavia possibile ricostruire la planimetria e le caratteristiche architettoniche degli edifici, talvolta complessi, con spazi aperti porticati e vani riscaldati. Si conservano, infatti, soltanto tracce delle fondazioni, brevi tratti di murature, frammenti delle decorazioni di pareti e soffitti (stucchi e intonaci dipinti) e, talora, pavimenti in mosaico o in piastrelle di pietra. Abitazioni residenziali sono state individuate in molte parti della città, tra cui piazza Duomo, via Tommaso Grossi, piazza Missori, via Moneta, via Nerino, vicolo Santa Maria alla Porta, via Soncino, e, più a ovest, via Amedei, piazza Borromeo, via Cesare Correnti. Il foro Il foro di Milano era al tempo stesso sede delle funzioni politiche, religiose e amministrative della città, ma anche il fulcro delle sue attività commerciali. La grande piazza rettangolare, di 55 metri per 160, era pavimentata in lastre di pietra di Verona, fiancheggiata sui lati lunghi da botteghe e ornata da statue onorarie. Parte della pavimentazione del foro è ancora visibile, nella sua collocazione originaria, nei sotterranei della Biblioteca Ambrosiana e nella cripta della chiesa di San Sepolcro. Non si hanno elementi per attribuire una funzione precisa ai due edifici rinvenuti rispettivamente a nord e a sud del foro e interpretati come la zecca (“moneta”) e il mercato (“macellum”) o un tempio. Le terme Il grandioso complesso delle terme, dette “Erculee” perché fatte costruire da Massimiano Erculeo, era uno degli edifici più importanti della Milano romana. L’impianto termale, che occupava un’area di circa 14.500 metri quadrati, fu costruito (alla fine del II secolo d.C.)

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in occasione dell’ampliamento della cinta muraria. Probabilmente, il luogo fu scelto per la presenza di un corso d’acqua, l’Acqualunga, ancora ricordato in fonti medioevali. Il complesso termale era costituito da un vasto spazio aperto porticato, la palestra, dal quale si accedeva agli imponenti edifici destinati alle diverse fasi dell’elaborato rituale del bagno. Mosaici, colonne in marmo e statue, tra cui una colossale di Ercole (il cui torso è stato recuperato nel 1827) adornavano le terme, che, gravemente danneggiate da un incendio, furono probabilmente abbandonate nel V secolo d.C. Le terme si trovavano nella zona compresa tra gli odierni Corso Europa e Corso Vittorio Emanuele. Il circo Edificato alla fine del III secolo d.C. dall’imperatore Massimiano, il circo sorge nella parte occidentale della città, circondato dall’ampliamento della cerchia muraria e in stretta relazione con la residenza imperiale. Sede di corse di carri molto amate dal popolo fino al VI secolo d.C., ancora nel 604 è teatro della proclamazione di Adaloaldo re dei Longobardi. Nei secoli successivi viene progressivamente spogliato e demolito, fino alla definitiva distruzione, probabilmente nel 1162, ad opera o del Barbarossa, o dei Milanesi stessi, per impedire che gli assedianti lo usassero come roccaforte contro la città. Prima della riscoperta del monumento nel 1939, si perde addirittura memoria della sua ubicazione, ricordata soltanto dai nomi di via Circo e delle chiese di Santa Maria “ad Circulum” e Santa Maddalena “ad Circulum”, sorte presso la curva dell’antico edificio e demolite nel 1789. Il circo milanese, lungo 470 metri e largo 85, era uno dei più grandi dell’impero. Di esso si conservano alcuni tratti inglobati nelle costruzioni di epoca successiva e una torre quadrata, visibile negli spazi del Museo Archeologico, riutilizzata nel medioevo come torre campanaria del Monastero Maggiore. Il teatro Il più antico edificio pubblico di Milano è il teatro, costruito dopo il 49 a.C., quando la città diventa municipio romano. A pianta semicircolare (con un diametro di 95 metri), l'edificio poteva ospitare circa 8.000 spettatori, che prendevano posto sulle gradinate sostenute da arcate e gallerie. Utilizzato per rappresentazioni teatrali, giochi, feste e riunioni, continuò a ospitare assemblee popolari fino al XII secolo, quando, in seguito alle distruzioni compiute dall'imperatore Federico Barbarossa nel 1162, venne abbandonato. La memoria dell’ubicazione dell’edificio non era mai andata perduta nel tempo ed era conservata dal nome della chiesa di San Vittore al Teatro e ricordata, dopo il suo abbattimento, dall’omonima via. Il teatro si trovava nell’area prossima all’attuale edificio della Borsa. L’anfiteatro L’anfiteatro milanese, uno dei più grandi dell’Italia settentrionale, misurava 155 metri per 125 e poteva ospitare 20.000 spettatori. Fu edificato nel I secolo d.C. Dopo il primo periodo imperiale, la diffusione del Cristianesimo ridusse la sua importanza a causa della crudeltà degli spettacoli, fino al completo arresto. Dopo l’abbandono, i materiali dell’anfiteatro, nel corso del V secolo d.C., furono usati per nuove costruzioni, come la vicina basilica di San Lorenzo, o per rinforzare alcuni tratti della cinta muraria urbana. È possibile tuttavia che l’anfiteatro sia stato ancora usato in epoca longobarda, nel VI e VII secolo d.C., come sede della guarnigione militare, per le sue caratteristiche di luogo protetto e fortificato.

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L’anfiteatro fu edificato fuori le mura, non lontano dall’attuale Porta Ticinese; le sue fondazioni sono attualmente visitabili nel Parco Archeologico dell’Arena. L’ “horreum” L'“horreum”, un grande magazzino destinato alla conservazione delle derrate alimentari per sostentare le truppe imperiali stanziate a Milano e dintorni fu costruito tra la fine del III e gli inizi del IV secolo d.C. L' “horreum” milanese è una delle rare testimonianze archeologiche della vasta rete di infrastrutture sorte per rifornire gli eserciti dislocati nei punti strategici dell'Impero. Si trattava di un’aula rettangolare di 18 metri per 68, suddivisa internamente da tre file di sedici pilastri ciascuna. Volte a crociera sorreggevano un secondo piano. Le fondazioni erano in ciottoli e malta. Le pareti erano rivestite in mattoni e all'esterno probabilmente decorate da arcate cieche che inquadravano le finestre. Un cortile, con un pozzo, probabilmente collegava l’edificio a un’aula identica, parallela e simmetrica, secondo la pianta degli “horrea” di Treviri e Aquileia. Il magazzino si trovava in una zona decentrata, a nord della città, non lontana dalla via di comunicazione con Como e dalla cerchia muraria urbana. Le cinte murarie La prima cinta muraria di Milano risale agli anni dopo il 49 a.C., quando la città divenne romana a tutti gli effetti. Il perimetro, della lunghezza di circa 3.500 metri, racchiudeva un’area di circa 80 ettari. Le mura, circondate da un fossato alimentato dalle acque del Seveso, furono costruite in tempo di pace e svolsero una funzione simbolica fino alla metà del III sec. d.C. quando servirono effettivamente a proteggere la città da scorrerie di barbari e da eserciti dei vari usurpatori. Il rinnovamento edilizio della fine del III sec. d.C., legato alla presenza in città dell’imperatore Massimiano e della sua corte, modificò il perimetro delle mura, ampliandolo ad Est fino a raggiungere una lunghezza di 4.500 metri. A Ovest, la cinta muraria comprese il circo di recente costruzione, dotato, nell’area della curva, di feritoie, probabilmente per migliorare la difesa in caso di attacco. Grandiosa testimonianza di questo intervento urbanistico resta, ben visibile nel giardino del Civico Museo Archeologico, un imponente tratto di mura con una torre poligonale di 24 lati. Le fondazioni delle mura continuano nei sotterranei del Museo. La torre delle mura La torre poligonale, di ben 24 lati, visibile all’interno del Civico Museo Archeologico, è l’unica che si sia conservata nonostante i rifacimenti di epoche successive della cerchia muraria, costruita alla fine del III secolo. È nota anche come “Torre di Ansperto”, poiché la tradizione milanese indicava il vescovo di Milano, Ansperto da Biassono (869-881), come il costruttore o il restauratore della struttura. Solo attorno al 1930 si capì che era di origine romana. La torre, alta 16,60 metri, è a ventiquattro lati all’esterno e circolare all’interno; poggia su fondazioni circolari in conglomerato di malta, ciottoli e frammenti laterizi. Fu sguarnita in antico per il recupero di materiale edilizio e in parte rifatta nell’Ottocento. La torre del circo Si tratta della torre quadrangolare che si affaccia su via Luini che, tra l’VIII e il IX secolo, fu trasformata in campanile della chiesa di S. Maurizio. Essa venne costruita nell’ultimo decennio del III secolo d.C. ed è ciò che rimane dell’imponente complesso del circo, voluto da Massimiano Erculeo. Era la torre del lato Ovest dei “carceres”, il luogo da cui

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partivano i carri delle corse. Tutt’oggi si possono ammirare alcuni elementi marmorei che ne costituivano la decorazione. Le porte della Milano imperiale Le mura costruite alla fine del III secolo erano fornite di torri (quadrangolari o poligonali), di pusterle (anguste porte di passaggio pedonale) e di larghe porte dove potevano passare anche cavalli e carri. Rispetto a quelle originarie, le nuove mura ampliavano la città sul lato orientale, e le nuove porte, aperte in corrispondenza degli assi viari principali (come l’attuale Via Manzoni e Corso Vittorio Emanuele), erano allineate con le precedenti porte risalenti alla fine della repubblica. Una porta, citata nel IX secolo come Porta Argentea (o Argenta), si trovava più o meno nella zona della attuale Piazza San Babila. Nell’attuale piazza Fontana era una pusterla, nota nel Medioevo come “pusterla di Santo Stefano”, un basamento della quale era ancora visibile nel 1920. Tra le porte della cerchia antica vi erano inoltre: la Ticinese (vicino alla attuale), la porta Romana (nella zona dell’attuale piazza Missori), le porte Giovia (vicino all’attuale Castello) e Vercellina. La piazza della doppia cattedrale In una lettera alla sorella Marcellina, il vescovo Ambrogio parla della piazza principale di Milano, citando una “basilica vetus”, una “basilica minor”, una “basilica nova”, una basilica “baptisterii” e la “domus” del vescovo. È probabile che le due basiliche “vetus” e “minor” costituissero, dopo l’editto di Costantino, del 313 d.C., un’unica cattedrale “doppia”. Causa diversi interventi che si sono susseguiti nei secoli nell’area di Piazza Duomo, molto poco resta della “basilica vetus”. Rimangono visibili, sotto il sagrato del Duomo, i resti del battistero di San Giovanni, edificato dal vescovo Ambrogio che vi battezzò Sant’Agostino, e la vasca del battistero di Santo Stefano, collocata a Nord del Duomo, dove venne probabilmente battezzato Ambrogio nel 374. La basilica cosiddetta “nova” venne poi dedicata al Salvatore e, dall’VIII secolo, a Santa Tecla. L'edificio, di cui restano visibili solo le absidi, era lungo ben 67,70 metri (esclusa l’abside) e largo 45,30; aveva cinque navate divise da colonne e una profonda abside affiancata da due vani a pianta quadrata. L’atrio che precedeva la chiesa aveva pianta lievemente trapezoidale, probabilmente per raccordare la basilica al percorso stradale (ricalcato dall'attuale via Torino) che dalla Porta Ticinese e dal palazzo imperiale giungeva al complesso episcopale. L’orientamento della basilica si spiega con la preesistenza di un asse stradale, di origine antichissima, che collegava Milano con Bergamo e Brescia e che costituisce una sorta di cerniera tra diversi settori della città. San Giovanni alle fonti Il battistero di San Giovanni alle Fonti era un edificio ottagonale collocato nei pressi della zona absidale della cosiddetta “basilica nova”. Modello architettonico per molte costruzioni successive, fu il luogo dove Sant’Agostino venne battezzato nel 387 d.C. per mano del vescovo Ambrogio, che presumibilmente lo aveva fatto costruire poco prima, nel 386 d.C. Fu ristrutturato all’interno dal vescovo Lorenzo I agli inizi del VI secolo e poi abbattuto, per costruire il Duomo, in epoca viscontea. L'edificio ha pianta ottagonale con lato di 7,40 metri ed era largo circa 19,30 metri. All’interno c’erano 8 nicchie (4 semicircolari e 4 rettangolari), con decorazioni a scacchiera e a esagoni, separate da colonne. La decorazione interna doveva essere splendida. Le pareti erano rivestite da tarsie marmoree policrome e da decorazioni pittoriche, mentre mosaici dorati ricoprivano il soffitto. Il pavimento di lastrine di pietra (ampiamente conservato) era a losanghe nere e

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parallelogrammi bianchi intorno alla vasca. I resti sono oggi visibili con accesso dall’interno del Duomo. La via porticata Nella seconda metà del IV secolo, Milano, (come altre sedi imperiali quali Costantinopoli – l’odierna Istanbul, Treviri – l’odierna Trier e Tessalonica – l’odierna Salonicco) viene dotata di un ingresso monumentale simbolo dell'importanza raggiunta: una via fiancheggiata da portici, proveniente da sud (la direzione di Roma) e sul tracciato dell’attuale corso di Porta Romana. La via fu probabilmente costruita durante il regno dell’imperatore Graziano, che soggiornò a più riprese a Milano e collaborò attivamente con il vescovo Ambrogio nella lotta contro paganesimo e arianesimo. La via era lunga circa 600 metri e larga 6, era affiancata da portici larghi 6,50 metri, forse ornati da statue. I portici (costruiti in mattoni, rivestiti di intonaco rosso, giallo e verde) erano probabilmente uno “shopping center” dell’epoca: erano dotati di locali, presumibilmente botteghe, e potevano anche sorreggere un piano superiore. Un arco onorario, che gli scrittori medievali descrivono sorretto da quattro pilastri e rivestito da pietre squadrate, concludeva la via, all’incrocio delle due strade per Roma e “Ticinum” (l’odierna Pavia). La via porticata viene incendiata e distrutta tra la fine del V e la metà del VI secolo sia per il conflitto tra Teodorico e Odoacre, che per la devastazione operata nel 539 dal re goto Uraia, che combatteva i Bizantini. La basilica dei Santi Apostoli La basilica dei Santi Apostoli fu eretta, a partire dal 382 d.C., per volere del vescovo Ambrogio, a metà della nuova via porticata, sull'area di una preesistente necropoli (scelta non usuale per le chiese paleocristiane). Fu consacrata nel giugno 386 con le reliquie dei Santi Apostoli. Un atrio, probabilmente, la collegava con la prestigiosa nuova via porticata. La sua collocazione, fuori dalle mura ma in direzione di Roma (a cui era simbolicamente collegata), in una zona resa “monumentale” per volontà dell’imperatore, esprime il desiderio del vescovo di riaffermare la simbologia cristiana nei luoghi importanti del tessuto urbano di Milano. La sua pianta a croce, mai usata fino a quel momento in Occidente, riprende quella della chiesa degli Apostoli a Costantinopoli, eretta dall’imperatore Costantino, che vi venne sepolto. La croce, simbolo della vittoria di Cristo sulla morte, era probabilmente intesa anche come simbolo della vittoria della Chiesa di Ambrogio sull'eresia ariana e sul paganesimo. L’edificio originario fu modificato pochi anni dopo la sua costruzione, per accogliere le reliquie di San Nazaro; la sua pianta è ancora riconoscibile nell'attuale chiesa del XI secolo. La statua del “Sciur Carera” La statua in marmo detta “Sciur Carera”, del III secolo d.C., rappresenta una figura maschile, in piedi con la gamba destra leggermente avanzata, vestita con una toga riccamente panneggiata. Mancano le braccia e la testa, molto rovinata, sicuramente non è quella originale. Sulla base c’è la scritta che ha dato origine allo scherzoso nomignolo di “sciur carera”: “carere debet omni vitio qui in alterum dicere paratum est”, che si può tradurre con “deve essere privo di ogni colpa chi è pronto a rilevarle negli altri”. La statua, attualmente collocata in Corso Vittorio Emanuele al 13, si trovava nel 1800 in via San Pietro all’Orto. In questo periodo risorgimentale (in cui veniva anche detta “omm de preja”, cioè “uomo di pietra”) veniva usata per affiggere satire e motti politici contro gli

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austriaci che occupavano Milano. Questo uso ricorda la famosa statua di Pasquino, a Roma, da cui deriva il termine “pasquinata” per i motti satirici. I “martiri dell'Anaunia” In quella che è l’attuale chiesa di San Simpliciano, il culto delle Vergini (cui la Basilica era dedicata) sembra intrecciarsi con il culto dei tre martiri dell’Anaunia (attuale Val di Non). I tre missionari (Martirio, Sisinnio e Alessandro) erano stati inviati da Ambrogio, nella remota valle, alla fine del IV secolo. Furono uccisi dai pagani, che temevano che l’abbandono delle pratiche tradizionali minacciasse i loro raccolti. Le loro reliquie furono inviate dal vescovo di Trento a Simpliciano, successore di Ambrogio. Il culto dei tre martiri si diffuse rapidamente, come testimonia il sorgere di un cimitero cristiano nell’area. Nel 1582 Carlo Borromeo trovò le reliquie dei tre martiri, di cui si era persa traccia, sotto l’altare insieme alle spoglie di San Simpliciano e a quelle di altri vescovi. Il cimitero lungo via san Vittore L’attuale via San Vittore era un antico asse stradale sul quale prospettava, fin dal I secolo d.C., una vasta necropoli. Nel IV secolo fu realizzato un imponente recinto a forma di ottagono schiacciato, con torri semicircolari agli angoli. Questo recinto, lungo 322 metri e largo 100, incluse al suo interno l’area cimiteriale (in prevalenza cristiana) e un sontuoso mausoleo imperiale ottagonale, commissionato forse dall’imperatore Massimiano, dove venne sepolto il giovane Valentiniano II. Un ingresso monumentale, fiancheggiato da torri, dava accesso all’area entro cui sono state trovate circa 90 tombe a sarcofago, in prevalenza cristiane. Gli scavi hanno riportato alla luce circa un quarto del mausoleo le cui fondazioni sono visibili nell’attuale Museo della Scienza e della Tecnica. Molto interessanti sono le epigrafi, cioè le scritte incise sulle tombe. Alcuni esempi: • Probus è sepolto accanto al mausoleo imperiale, in una posizione di evidente

prestigio. Sposato per trent’anni e sepolto nel 368 d.C. (anno indicato con il nome del console), si qualifica come “presbitero”, una carica ecclesiastica appena inferiore a quella di vescovo.

• Commovente è l’epitaffio della rimpianta Attica Lea, morta a ventiquattro anni, paragonata a una pianta che cade lasciando frutti immaturi.

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Conclusione Qui si concludono gli approfondimenti alla narrazione “Vita quotidiana a Milano nel IV secolo dopo Cristo”. Potete riascoltarli o tornare a seguire i passi dei nostri personaggi nella loro giornata a Milano antica.