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La tutela della sicurezza sul lavoro in materia civile e penale 13 dicembre 2017 Questioni sostanziali e processuali in tema di risarcimento del danno. Il pregiudizio risarcibile: il danno differenziale. L’azione di risarcimento in sede penale: ambiti, confini, problematiche. Relatore: dott. Lorenzo Gestri, Sostituto del Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Prato

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La tutela della sicurezza sul lavoro in materia civile e penale

13 dicembre 2017

Questioni sostanziali e processuali in tema di risarcimento del danno. Il pregiudizio risarcibile: il danno differenziale. L’azione di risarcimento in sede penale: ambiti, confini, problematiche.

Relatore: dott. Lorenzo Gestri,

Sostituto del Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Prato

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Questioni sostanziali e processuali in tema di risarcimento del danno.

Il pregiudizio risarcibile: il danno differenziale.

L’azione di risarcimento in sede penale: ambiti, confini, problematiche.

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Premessa. Il debito formativo.

I più accreditati ed attuali studi sulla buona tecnica della formazione concordano nel sottolineare

come costituisca premessa essenziale di qualsiasi intervento svolto in forma di relazione frontale la precisa

definizione dell’oggetto del debito formativo.

Qualsiasi esposizione avente contenuto formativo, infatti, è fonte di aspettative. Da un lato, il relatore

matura l’aspettativa di riuscire a trasmettere adeguatamente il proprio messaggio formativo, l’esperienza

professionale narrata, dall’altro, il discente auspica di acquisire un’informazione nuova, o quantomeno di

vedere rafforzata, implementata, attualizzata, un’informazione già rientrante nel bagaglio di propria

conoscenza.

La sintesi delle citate aspettative va a formare il cosiddetto “contratto d’aula”, il negozio ideale stipulato

fra chi è incaricato di assolvere al debito formativo, il relatore, ed i destinatari della relazione, appunto i

partecipanti all’incontro formativo.

É da qui che vorrei partire, dalla definizione di quello che sarà il confine dell’intervento formativo.

In tal senso, si impone innanzitutto una specificazione interpretativa del senso del titolo oggetto della

relazione.

Il minimo comune denominatore della “relazione a due voci” svolta sui due versanti, da un lato quello

del diritto civile e del lavoro e, dall’altro, quello del diritto penale, è senza dubbio costituito dalle forme di tutela

giurisdizionale apprestate dall’ordinamento alle posizione che caratterizzano il rapporto di lavoro, con

riferimento agli obblighi e alle garanzie previste in materia di sicurezza.

Il tema assegnato costituisce in tal senso il momento di sintesi dell’intero corso, dedicato appunto ad

affrontare il tema de “La tutela della sicurezza sul lavoro in materia civile e penale”.

Sul versante penalistico, l’affermazione della tutela delle situazioni soggettive lese per violazioni in

materia di sicurezza può avere ad oggetto accanto all’offesa penale, tipica del reato e perseguita dal pubblico

ministero in proprio, un’offesa civile, ossia la conseguenza di danno del reato, che determina un pregiudizio

risarcibile direttamente in sede penale dal titolare della pretesa.

Il segmento “penalistico” dell’intervento cercherà proprio di analizzare le forme, gli ambiti e le

problematiche connesse alla scelta di esercitare la pretesa risarcitoria nel processo penale mediante la

costituzione di parte civile, per far valere la pretesa di ristoro a fronte di un danno conseguenza della

commissione di reati in materia di sicurezza sui luoghi di lavoro.

Affidare ad un pubblico ministero la trattazione di tale tema, però, comporta un’ulteriore ed inevitabile

conseguenza in termini di delimitazione del confine di analisi e quindi, dell’oggetto del debito formativo. Il

pubblico ministero è l’organo pubblico che ha il compito di ricostruire il fatto storico, verificando se in esito a

tale percorso, in cui è sostanzialmente dominus, quello delle indagini preliminari, siano stati raccolti elementi

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idonei ad ipotizzare la sussistenza di un reato, così da poter esercitare l’azione penale nei confronti di colui

che ritiene responsabile della commissione dell’illecito. La parte civile, però, potrà essere - eventualmente –

tale, soltanto dopo che il pubblico ministero abbia sciolto positivamente in favore dell’esercizio dell’azione

penale il dubbio sulla modalità di definizione delle indagini, per come cristallizzato nel disposto di cui all’art.

405 c.p.p.. Da qui, dunque, la necessità di ampliare per esigenza di completezza la prospettiva di analisi del

tema della tutela in sede penale delle posizioni soggettive offese dal reato di lavoro, ossia per fatti connessi

alla violazione della normativa di sicurezza sul lavoro, anticipando la riflessione ai soggetti che sin dalla fase

delle indagini preliminari risultano offesi dal reato.

In sostanza, l’esigenza di garantire completezza alla trattazione del tema della tutela penalistica delle

vittime da reato di “lavoro” suggerisce di esplorare il tema della costituzione della parte civile ampliando ed

anticipando la riflessione alla fase procedimentale, per cogliere i profili di tutela previsti dall’ordinamento

penalistico nei confronti della vittima del reato di lavoro, potenziale costituenda parte civile.

Si tratterà, pertanto, in primo luogo di verificare a chi in detta fase, quella delle indagini preliminari,

possa essere riconosciuta la veste di persona offesa del reato in materia di sicurezza del lavoro, analizzando

in concreto quali diritti, facoltà e poteri l’ordinamento prevede a sua tutela, cercando di verificare criticamente

se tale sistema sia concretamente idoneo a fare fronte alle esigenze di difesa della vittima del reato di lavoro,

con particolare riferimento alla posizione del lavoratore, il principale creditore di sicurezza.

Verrà quindi analizzato il momento della partecipazione al processo penale in materia di sicurezza

della persona offesa, che sia anche danneggiata dal reato, attraverso il passaggio dalla condizione di

“soggetto” del procedimento, a “parte” – eventuale – processuale, sub specie appunto di parte civile, cercando

di tratteggiare solo per sintesi le questioni relative alla regolamentazione dell’istituto e quelle interpretative

ormai consolidate in giurisprudenza, per evitare di incorrere in un’esposizione eccessivamente dogmatica,

terreno su cui potrebbe facilmente scivolare il pubblico ministero “pratico”, oltre a incorrere nel rischio di

produrre un effetto di inutilità del contributo formativo, così tradendo l’aspettativa del debito formativo.

Sin qui con riferimento al perimetro degli “ambiti” e “confini” con cui verrà affrontato il tema dell’azione

di risarcimento in sede penale, fissati dalla traccia del titolo dell’intervento.

Quanto poi al passaggio dedicato dal titolo alle questioni “problematiche” connesse all’esercizio

dell’azione civile in sede penale, l’intervento cercherà di assolvere al “debito formativo” analizzando una serie

di situazioni che caratterizzano l’intero percorso della tutela in sede penale della domanda di risarcimento dei

danni conseguenza del reato di lavoro, per verificare in modo critico se il sistema risulti effettivamente

adeguato a fornire tutela alla vittima del lavoro, ed ancora una volta in particolare al lavoratore subordinato,

principale creditore di sicurezza.

Ciò avverrà cercando di verificare innanzitutto quali siano i criteri che solitamente presiedono ed

ispirare in concreto la scelta della vittima del reato di lavoro - in relazione anche alla singola situazione

soggettiva - a perseguire tutela risarcitoria in sede penale, anziché dinanzi al giudice del lavoro, avendo

riguardo anche alle peculiarità del sistema normativo di tutela del danno da lavoro previsto dalla disciplina

speciale sull’assicurazione obbligatoria del d.p.r. 1124/1965, ed al rapporto fra quest’ultima ed i principi e le

regole fissate dall’art. 75 c.p.p. fra giudizio civile e penale, proprio con riferimento alle scelte compiute dal

danneggiato in merito alla costituzione di parte civile.

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Si cercherà poi di verificare in che termini sul predetto momento della scelta della costituzione di parte

civile per ottenere in sede penale il risarcimento del danno-conseguenza di un reato commesso con violazione

della disciplina in materia di sicurezza sul lavoro, ed in particolare con riferimento a specifiche condizioni di

lavoratore connotato da particolare profili di particolare debolezza (il lavoratore irregolare, o addirittura

clandestino) possa in concreto svolgere un ruolo decisivo l’obiettivo della “completezza delle indagini”, cui

deve normativamente tendere sempre l’azione del pubblico ministero. La risposta, si anticipa sin d’ora, a

parere dello scrivente è certamente positiva, ed a supporto di tale assunto si procederà ad analizzare una

serie di vicende connesse all’esistenza di “situazioni fattuali” del rapporto di lavoro - che peraltro nel sistema

della sicurezza hanno come noto peculiare rilevanza in forza della positivizzazione del principio di effettività ex

art. 299 TUSL - o di delitti gravi, dolosi, commessi in danno del lavoro e dei lavoratori, quali in particolare

quello dell’omissione delle cautele antinfortunistiche (437 c.p.), e del favoreggiamento a fini di profitto della

permanenza di clandestini lavoratori (12 co.5 d.lgs. 286/98).

Verranno analizzate poi una serie di situazioni connesse al comune tema della tutela dell’interesse a

conseguire un risarcimento integrale ed effettivo del danno da reato di lavoro patito dalla parte civile costituta,

quali quelle aventi ad oggetto: gli effetti di accordi transattivi sulla pretesa di risarcimento; la tutela della

pretesa risarcitoria assicurata dal sequestro conservativo; la condizione di piena soddisfazione risarcitoria

della vittima quale condizione per riconoscere all’imputato del reato di lavoro di beneficiare dell’attenuante del

risarcimento del danno.

Si analizzeranno le forme di partecipazione al procedimento e al processo di alcuni organi di

“supporto” della vittima del lavoro, in particolare l’INAIL, il sindacato e gli enti rappresentativi di interessi diffusi

in materia di tutela delle condizioni di sicurezza del lavoro.

Verrà infine dedicata qualche riflessione anche alla questione controversa ed attuale della

ammissibilità o meno della costituzione di parte civile nei giudizi di responsabilità contro l'ente.

2 Persona offesa e vittime del reato in materia di sicurezza del lavoro

La persona offesa è il titolare dell’interesse giuridico protetto dalla norma incriminatrice che si assume

essere stata violata dal fatto storico reato. Per individuare la persona offesa è pertanto necessario fare

riferimento alla norma penale sostanziale, la fattispecie tipica, ed al fatto storico riferibile ad un soggetto

agente, che della fattispecie viene sussunto in concreto. La verifica della violazione della norma, nel caso del

fatto storico ricostruito attraverso prove, costituisce proprio l’essenza del giudizio penale.

L’ordinamento giuridico appresta tutela sostanziale e procedimentale alla persona offesa. Si tratta di

verificare quali siano i principali strumenti di tale tutela in generale, per poi confrontarli con quelli tipici della

persona offesa dal reato di lavoro.

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2.1 Uno sguardo di sintesi al ruolo assegnato alla persona offesa

Poiché ogni reato procura offesa o pericolo ad un interesse tutelato dalla legge, l’ordinamento

risponde all’offesa con la previsione di una sanzione (tutela sostanziale). L’accertamento della violazione e

l’irrogazione della sanzione avviene all’interno del procedimento penale (tutela processuale). Al pubblico

ministero spetta il compito di assicurare l’attuazione dell’interesse generale alla repressione del reato.

Il codice vigente attribuisce alla persona offesa la qualifica di “soggetto” del procedimento, cui ricollega

una serie di diritti, facoltà e poteri di varia natura fra cui, ad esempio, poteri sollecitatori (art. 90.1° c.p.p.), diritti

di informativa (artt. 369, 335, 360, 419, 429 c.p.p.), diritti di partecipazione al procedimento (artt. 360, 327 bis,

391 octies, 401 c.p.p.), di controllo dell’iniziativa del pubblico ministero (artt. 406, 408 c.p.p.).

Si tratta di un ruolo, quello assegnato alla vittima persona offesa e soggetto passivo del reato, che –

nonostante una significativa evoluzione anche rispetto al codice di rito previgente, ispirato al modello

inquisitorio - molti osservatori in dottrina non esitano ancora a definire “marginale”.

Non v’è dubbio che la giustizia penale della vittima sia stata in effetti soggetta a corsi e ricorsi storici.

Si è passati dal sistema feudale delle ordalie, dei duelli, delle vendette, in cui la giustizia penale era

sostanzialmente questione privata, alla giustizia penale caratterizzata dal modello processuale inquisitorio,

che nonostante le diverse declinazioni ispirate da logiche contingenti dei singoli ordinamento giuridici, ha

determinato una sostanziale marginalizzazione del ruolo dei privati.

Dalla logica della riparazione fra privati, ossia all’accordo fra vittima e reo, veri protagonisti della

giustizia penale riparativa, si è passati con il modello inquisitorio alla centralità dell’interesse statuale a

concepire la sanzione per il reato in una logica prettamente retributiva, funzionale a soddisfare ragioni ed

esigenze prettamente pubblicistiche.

L’avvento del codice Vassalli ha dato ingresso ad una concezione significativamente innovativa della

giustizia penale, tanto che si è parlato a più riprese dell’avvento di un nuovo sistema di giustizia consensuale,

giustizia patteggiata, giustizia negoziale.

Ciò però, al di là di quello che si potrebbe essere frettolosamente portati a pensare, non ha corrisposto

nella sostanza all’affermazione di una nuova frontiera di valorizzazione del ruolo della vittima all’interno del

processo penale. Le predette espressioni, infatti, sono servite più ad individuare nuovi istituti processuali che

hanno caratterizzato il modello accusatorio, quali in particolare i riti alternativi del patteggiamento e

dell’abbreviato, ispirati più dal perseguire logiche di pura deflazione del procedimento, anziché ad affermare

l’avvento di una nuova stagione della giustizia penale riparativa.

Appare in sostanza condivisibile affermare che la giustizia penale del vigente codice di rito, seppur a

più riprese interpolato nel tempo, in tema di diritti, poteri e facoltà della persona offesa vittima del reato se, da

un lato, torna a presentare aspetti consensuali, dall’altro, non può nuovamente definirsi giustizia riparativa, e

come tale “…inclusiva anche delle ragioni delle vittime dei reati”, in quanto al centro dell’interesse del

processo “…c’è ancora e sempre la pena-bene pubblico, alla cui tutela si asservono, perché capaci di

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deflazionare il carico giudiziario, gli istituti di natura consensuale” 1. É così che, si può affermare, alla “persona

offesa” il legislatore del codice del 1988 ha riconosciuto “….un ruolo meramente penalistico, cioè un interesse

ad ottenere soltanto la condanna del responsabile del reato” 2, con ciò distinguendola dalla parte civile che,

invece, in quanto persona offesa che ha anche subito un danno in conseguenza del fatto penale illecito, nello

scegliere di esercitare l’azione risarcitoria in sede penale rimane portatrice di un interesse prettamente

privatistico.

Ebbene, a tale logica generale non fa eccezione di certo la condizione delle “vittime del lavoro”, che

risentono del più generale orientamento culturale e giuridico di marginalizzazione del ruolo della persona

offesa.

2.2 La persona offesa e il danneggiato dal reato: poteri, diritti e facoltà

Alla persona offesa titolare dell’interesse giuridico protetto dalla norma penale violata, si è già detto

che il codice di rito assegna il ruolo di soggetto del procedimento.

Rileva sottolineare peraltro come non sempre la persona – o le persone – offesa(e) dal reato (vedasi

nel caso di reati plurioffensivi), sia anche persona(e) danneggiata(e) dal reato.

La distinzione fra persona offesa dal reato e persona danneggiata dal reato è importante perché ad

essa è ricollegato l’esercizio di poteri differenti, riconosciuto proprio in ragione della specifica qualifica.

Soltanto la persona offesa dal reato che sia anche persona danneggiata dal reato potrà avanzare una

pretesa risarcitoria del danno patrimoniale o non patrimoniale patito in conseguenza del reato. Laddove il

danneggiato intenda far valere tale pretesa nel processo penale istruito al fine di accertare proprio la

sussistenza del reato, e la responsabilità dell’imputato, ciò avverrà appunto attraverso la costituzione di parte

civile.

In tal caso, la persona offesa (danneggiata) soggetto del procedimento, muterà pelle per assumere la

veste di parte del processo, appunto sotto forma di parte civile, che rappresenta una parte eventuale del

giudizio.

Dunque, partendo dalla violazione della norma penale ipotizzata in concreto, in relazione al bene

giuridico offeso e al danno provocato dal fatto illecito possono essere individuate le seguenti figure: 1) la

persona offesa; 2) la persona offesa danneggiata; 3) la parte civile.

Mentre la prima è soltanto soggetto del procedimento, non potendo divenire mai parte, la seconda può

assumere la veste di soggetto nella fase delle indagini preliminari, per poi decidere (in via eventuale) di

esercitare la propria pretesa risarcitoria a tutela del danno patito dal reato costituendosi parte civile, facendo

1 Le vittime del lavoro, di Salvatore Dovere, atti convegno Formazione decentrata CSM Roma, 23.4.2009, p.3.

2 Manuale di procedura penale, di Paolo Tonini, Giuffrè ed., p.163.

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ingresso nel giudizio, - la fase processuale conseguente all’esercizio dell’azione penale da parte del pubblico

ministero – come vera e propria parte.

La dottrina risulta concorde nello spiegare quali sia stata la ragione sottesa alla scelta compiuta dal

codice del 1988 nel distinguere le qualità e i diritti di persona offesa da un lato, e parte civile, dall’altro,

desumendole in particolare dalla Relazione al progetto preliminare, da cui emerge un’evidente sfavore del

legislatore verso la possibilità che il danneggiato opti per esercitare l’azione civile nel processo penale, ed una

contestuale preferenza per un modello di separazione del processo penale da quello civile, per

salvaguardarne il ruolo di sede naturale per azionare la pretesa risarcitoria patrimoniale e non patrimoniale.

Affinché tale separazione fra processo civile e penale potesse rimanere tale anche in quei casi in cui il titolo di

danno sia stato il medesimo, ossia il reato, che per sua natura dovrà essere accertato in sede processuale

penale, il legislatore ha pensato che “…l’impedire al danneggiato di costituirsi parte civile durante le indagini

preliminari induca tale persona ad esercitare l’azione civile nel processo civile. Questo è il meccanismo di

ingegneria processuale che si è messo in atto…” 3.

Così spiegata la scelta di eliminare dalla fase delle indagini preliminari la presenza della parte civile è

residuato al legislatore la necessità di apprestare un sistema di norme che tutelasse la persona offesa,

tendenzialmente anche danneggiato dal reato.

Rileva pertanto in questa fase analizzare quali siano i poteri, le facoltà e i diritti riconosciuti alla

persona offesa, anticipando come essi attengano soprattutto alla fase delle indagini preliminari, in quanto con

la formulazione dell’imputazione alla persona offesa - che nel frattempo abbia fatto scelta di non costituirsi

parte civile in qualità di danneggiata dal reato - residua un ruolo assolutamente marginale, e tendenzialmente

non attivo, di fatto limitato alla possibilità di presentare memorie ed indicare elementi di prova (che l’art. 90.1

c.p.p. ancora ad “…ogni stato e grado del procedimento”).

La disciplina della persona offesa trova sede nel tiolo VI del Libro I, quello dedicato ai “soggetti” . L’art.

90.1.c.p.p. espressamente prevede che alla persona offesa dal reato sia riconosciuto l’esercizio di “…diritti e

facoltà…” espressamente riconosciutele dalla legge.

I “diritti” si identificano in quelle situazioni soggettive che fanno sorgere a carico dei destinatari

dell’esercizio degli stessi l’obbligo di emettere un provvedimento; le “facoltà”, invece, consistono in quei poteri

il cui esercizio non fa sorgere alcun dovere nel destinatario, di solito la parte pubblico del procedimento,

pubblico ministero o giudice.

Alla persona offesa sono innanzitutto riconosciuti poteri sollecitatori.

Il caso è quello della facoltà di presentare memorie ed indicare elementi di prova (che l’art. 90.1

c.p.p.).

Numerosi sono poi i diritti di informativa, funzionali a consentire alla persona offesa il successivo

esercizio di poteri di partecipazione attiva al procedimento e al processo. Fra questi si evidenzia che:

3 Manuale di procedura penale, di Paolo Tonini, Giuffrè ed., p.164.

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1) alla persona offesa è dovuta la notifica dell’avviso di garanzia da parte del pubblico ministero nel caso in

cui questi stia per compiere un atto garantito nei confronti dell’indagato (art. 369 c.p.p.);

2) alla persona offesa è riconosciuto il diritto ad accedere al registro delle notizie di reato, e di ricevere

informazioni delle iscrizioni pendenti, salvi i casi di divieto ed i poteri di segretazione (art. 335 c.p.p.);

3) alla persona offesa è riconosciuto il diritto di essere avvisata da parte del pubblico ministero del

conferimento di incarico tecnico per accertamenti irripetibili (art. 360 c.p.p.);

4) alla persona offesa deve essere dato avviso della data e del luogo nel quale si svolgerà l’udienza

preliminare (art. 419 c.p.p.);

5) alla persona offesa deve essere notificato il decreto che dispone il giudizio (art. 429 c.p.p.), la citazione

diretta (552 c.p.p.) nonché il decreto che dispone il giudizio immediato (art. 456, 458 c.p.p.);

6) alla persona offesa deve essere data informazione in caso di compimento degli atti urgenti

predibattimentali (art. 467 c.p.p.);

7) la persona offesa ha diritto a richiedere il dibattimento a porte chiuse (art. 472 c.p.p.);

8) la persona offesa deve essere citata in caso di nuove contestazioni avvenute nella fase dibattimentale del

procedimento (art.519 c.p.p.).

Accanto ai diritti di informativa vi è la previsione esplicita di alcune modalità di esercizio del potere di

partecipazione al procedimento. Fra questi si segnala:

1) il diritto di assistere agli atti di indagine irripetibili (art. 360 c.p.p.);

2) la facoltà di attivarsi svolgendo mediante difensore “investigazioni difensive” (art. 327 bis c.p.p.), e

ricercare elementi di prova da versare nel procedimento (art. 391 octies c.p.p.);

3) la facoltà di chiedere al pubblico ministero di avanzare domanda di incidente probatorio, ed in caso si

ammissione dello stesso il diritto ad essere avvisata, potendo parteciparvi anche sollecitando al giudice di

rivolgere domande alle persone esaminate (art. 410.5 c.p.p.).

É poi noto che la persona offesa può trovare ingresso nel processo penale anche come testimone.

I due ruoli si sovrappongono e si riuniscono nella stessa persona, seppur rimanendo del tutto

indipendenti l’uno dall’altra. Non esistono preclusioni alla prova testimoniale della persone offesa dal reato,

neppure laddove si sia costituita parte civile, non sussistendo le incompatibilità previste dall’art. 197 lett. c)

c.p.p.

Ed ancora. Alla persona offesa sono riconosciuti poteri di controllo sull’iniziativa del pubblico ministero,

al fine di tutelare il proprio interesse a perseguire il reato commesso ottenendo l’esercizio dell’azione penale

nei confronti dell’autore del fatto illecito. In particolare si segnala:

1) il diritto della persona offesa ad essere avvisata dell’eventuale richiesta di proroga delle indagini avanzata

dal pubblico ministero laddove, se ne sia fatta espressa richiesta (art. 406.3 c.p.p.);

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2) il diritto della persona offesa ad essere avvisata della richiesta di archiviazione del procedimento, qualora

ne abbia fatto espressa richiesta (art.408.2 c.p.p.);

3) la facoltà di sollecitare l’avocazione del procedimento al pubblico ministero “inerte” rivolgendosi al

Procuratore generale (art. 413 c.p.p.).

Anche successivamente all’intervenuto esercizio dell’azione penale residua poi un controllo diretto ed

indiretto sulla decisione giurisdizionale avente ad oggetto la richiesta, ed il successivo sviluppo processuale.

La persona offesa può infatti:

1) direttamente impugnare mediante “appello” la sentenza di non luogo a procedere nei casi di nullità ex art.

419.7 co. c.p.p. (art. 428 c.p.p.) (previsione di recente modificata con legge 23 giugno 2017, n. 103 a far

data dal 3.8.2017, mediante sostituzione dell’impugnazione dell’ “appello” alla previgente previsione del

“ricorso per cassazione”);

2) richiedere al pubblico ministero l’impugnazione della sentenza di primo grado (art. 572 c.p.p.)

2.3 Poteri, diritti e facoltà della persona offesa con particolare riferimento ai reati di sicurezza sul lavoro

Tutte le predette situazioni soggettive di diritto, facoltà e potere riconosciute alla persona offesa, sia

nella fase procedimentale delle indagini, che successivamente all’esercizio dell’azione penale nel giudizio, e

sino alla definizione dello stesso, valgono certamente anche nel processo penale del lavoro.

Rileva allora verificare in primo luogo a chi possa essere riconosciuta la qualifica di persona offesa

nell’ambito di procedimenti in materia di sicurezza del lavoro. La disciplina da un dato, e l’interpretazione

giurisprudenziale dall’altra, consentono di assegnare detta qualifica in astratto al lavoratore infortunato; ai

prossimi congiunti del lavoratore deceduto; ai sindacati e agli enti rappresentativi di interessi diffusi lesi dal

reato di lavoro. Più discusso il ruolo dell’INAIL, da considerare certamente legittimato a costituirsi parte civile,

ma non per questo normativamente individuabile anche come persona offesa.

Fra le suddette figure assume senza dubbio un ruolo centrale la posizione del lavoratore, la prima e

diretta vittima del reato di lavoro. Non tutti i procedimenti penali istruiti per reati in materia di sicurezza

consentono di assegnare al lavoratore la veste di persona offesa.

In tal senso, appare rilevante distinguere fra i procedimenti penali in materia di sicurezza aventi ad

oggetto la verifica della sussistenza o meno di una violazione a sole prescrizioni cautelari, in assenza di

infortunio o malattia, in sostanza i reati contravvenzionali del TUSL, da quelli che invece hanno ad oggetto in

modo specifico gli illeciti contro la persona, o contro la pubblica incolumità, cui si ricolleghino anche violazioni

cautelari in materia di sicurezza sui luoghi di lavoro.

Con riferimento alla prima tipologia di procedimenti la giurisprudenza di legittimità esclude che il

lavoratore possa qualificarsi quale persona offesa del reato, e pertanto ne esclude la legittimazione a

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costituirsi parte civile. Sul punto si richiama quanto osserva testualmente la Suprema Corte: “…nel caso di

violazione di norme antinfortunistiche, …, l'interesse leso è quello pubblicistico volto a prevenire situazioni di

pericolo o di danno per la comunità dei lavoratori ed anche per gli estranei che accedono all'ambiente di

lavoro. Si tratta, dunque, di contravvenzioni volte a tutelare una pluralità fungibile ed indeterminata di soggetti”.

Ragion per cui “…il singolo lavoratore è parte offesa potenziale, cioè titolare dell'interesse finale (protetto dai

reati contro la vita e l'incolumità individuale), ma non è parte offesa attuale delle contravvenzioni che tutelano

beni strumentali, costituiti dall'interesse pubblico volto a regolare un settore ed a prevenire situazioni di

pericolo in quel contesto” (ad esempio Cass. Sez. 3, sent. n. 555 del 14/11/2006 (dep. 15/01/2007).

La circostanza non è priva di implicazioni. Da ciò infatti ne discende che nonostante l’eventuale

accertamento della violazione cautelare nel caso concreto, soprattutto quando essa non sia di natura

meramente formale, e pertanto ne venga (processualmente) certificato l’avvenuta esposizione a pericolo del

lavoratore, a questi non è dato dal sistema processuale penale alcuno strumento per ottenere attraverso il

processo garanzie di un effettivo miglioramento delle condizioni di lavoro. Ma vi è di più. Sul punto semmai

rileva sottolineare quanto è stato già osservato in dottrina - condivisibilmente - in merito al particolare

meccanismo che si attiva una volta accertata la violazione prevenzionistica, che può addirittura prescindere

dal fornire al lavoratore una tutela, anche indiretta, di controllo giurisdizionale penale. L’organo di vigilanza,

infatti, è pensato dal sistema vigente come il solo soggetto deputato a valutare sia la sussistenza della

violazione, che le modalità atte a porre l’ambiente di lavoro in condizioni di regolarità, che ad accertarne

l’avvenuta regolarizzazione. Ebbene, tali pregnanti attività sono in definitiva tutte rimesse in via esclusiva

all’organo di vigilanza, che opera “…in assoluta solitudine, perché non è previsto un reale controllo del p.m.,

nonostante l’organo di vigilanza operi in qualità di polizia giudiziaria, né è prevista una qualche forma di

interlocuzione dei lavoratori o delle loro rappresentanze…, né è previsto un sindacato giurisdizionale sulla

bontà dell’operato dell’organo di vigilanza…”4. L’estinzione del procedimento iscritto a seguito della

comunicazione di notizia di reato originata dal controllo ispettivo si verifica senza che il giudice sia chiamato a

verificare in concreto l’effettiva eliminazione della situazione di irregolarità. Tale eliminazione viene certificata

soltanto dall’organo di vigilanza. Si tratta, in sostanza, di un meccanismo pensato più per perseguire logica di

deflazione del carico giudiziario, attraverso la rapida estinzione del reato, anziché volto a garantire effettività

alla condizione di sicurezza dei luoghi di lavoro, anche per effetto del controllo giurisdizionale ex post.

Diverso è il discorso che può essere svolto con riferimento ai reati contro l’incolumità individuale e/o

pubblica, commessi con violazioni prevenzionistiche.

In questi casi è ricorrente che il lavoratore sia persona offesa e danneggiato dal reato (o lo sono i suoi

prossimi congiunti). Come tale egli diviene soggetto del procedimento, a cui vengono riconosciute tutte le

facoltà, i diritti e i poteri poc’anzi esposti per la persona offesa del reato.

Ciò detto, se di per sé la persona offesa è soggetto solitamente debole, soprattutto laddove il reato

maturi in relazione ad una condizione soggettiva che lo pone in un rapporto relazionale pregresso con l’autore

del fatto illecito – si pensi ad esempio a tutti i reati maturati nel contesto familiare, in danno delle cosiddette

“fasce deboli” – tanto più lo è il lavoratore.

L’esperienza giudiziaria dimostra che in tal caso la debolezza può avere varie cause.

4 Le vittime del lavoro, di Salvatore Dovere, atti convegno Formazione decentrata CSM Roma, 23.4.2009, p.8.

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Essa può dipendere ad esempio dalla connaturale debolezza connessa al rapporto sinallagmatico di

lavoro, soprattutto in quei casi in cui il lavoratore sia vittima di un fatto reato maturato in un contesto lavorativo

in cui prosegue la sua attività anche successivamente al verificarsi dell’evento lesivo, ed all’avvio del

procedimento.

A maggior ragione la condizione di debolezza emerge in quei casi in cui il lavoratore risulti vittima di

un fatto reato maturato in ambiente di lavoro in cui ha esercitato soltanto in via di fatto la prestazione

lavorativa, al di fuori cioè da qualsiasi veste negoziale formale cristallizzata in un contratto di lavoro, e quindi in

assenza di qualsiasi tutela (formale) contrattualistica e legale. All’interno di tale categoria del lavoratore “a

nero”, ancor più debole risulta quella del lavoratore clandestino, che alla condizione di irregolarità della

posizione lavorativa è consapevole di aggiungere la condizione di irregolarità connessa al proprio status.

Da tutto ciò discende nella prassi che, se di per sé i casi nei quali il lavoratore infortunato si costituisce

parte civile sono piuttosto esigui, ancor più rari sono i casi in cui un lavoratore esercita attivamente diritti,

facoltà e poteri previsti dal codice di rito nei procedimenti penali in cui si indaga per l’accertamento di delitti

contro la persona, o contro la pubblica incolumità, commessi con violazioni prevenzionistiche.

A fronte di ciò appare utile chiedersi se il vigente sistema di tutela di penalistica sia in grado di

assicurare al “lavoratore vittima da reato di lavoro” un pronto soddisfacimento dei suoi diritti, senza che di per

sé proprio il procedimento penale possa essere esso stesso fonte di ulteriori danni.

La risposta al quesito necessita di operare dei distinguo in relazione a varie fasi del procedimento,

quantomeno analizzando separatamente la fase dell’avvio del procedimento, da quella del suo svolgimento, e

sino alla fase della definizione, con la decisione da parte del pubblico ministero di esercitare l’azione penale

laddove non debba richiedere l’archiviazione.

Positivo è il giudizio che può essere dato sul sistema di tutela apprestato dal vigente ordinamento alla

tutela del lavoratore vittima in merito alla modalità di rilevazione degli infortuni sul lavoro, ed alla conseguente

tempestiva acquisizione della notizia dell’infortunio.

Alla notitia criminis, infatti, si può addivenire senza richiedere il coinvolgimento dell’infortunato. La

denuncia del verificarsi di un infortunio deve sempre essere presentata dal datore di lavoro/committente

(indipendentemente da ogni valutazione di merito sulla rilevanza del caso) all'INAIL competente, entro due

giorni da quello in cui ha ricevuto il primo certificato medico con prognosi che comporta astensione dal lavoro

superiore a tre giorni. In caso di infortunio che determini la morte, o il pericolo di morte, il datore di lavoro deve

invece inviare un telegramma entro 24 ore, e per gli infortuni con prognosi superiore a tre giorni, deve inviare

entro due giorni copia della denuncia all'Autorità locale di P.S. del luogo dove è avvenuto l'infortunio.

Tale sistema di rilevazione dell’infortunio, da cui scaturisce l’avvio del procedimento penale, avendo

conseguentemente sia l’INAIL che l’Autorità di P.S. l’obbligo di comunicare la notizia di reato all’autorità

giudiziaria territorialmente competente, risulta certamente funzionale ed idoneo ad apprestare adeguata tutela

alla vittima dell’infortunio, il lavoratore.

Il procedimento trae infatti origine ex se, mettendo così al riparo la vittima dell’infortunio da eventuali e

possibili pressioni volte a nascondere l’accadimento, come nei casi sopra accennati. Il tutto, è ovvio, al netto di

quelle situazioni di gestione patologica del rapporto di lavoro, come accade ad esempio nei casi di impiego di

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lavoratori irregolari ed in particolare clandestini, in relazione alle quali il sistema della notitia criminis appena

descritto può incepparsi sin dall’origine, avendo in tal caso il datore di lavoro interesse a clandestinizzare

l’infortunio per non incorrere nelle conseguenze discendenti dalla sua ricostruzione processuale.

Più complesso è giudicare il sistema di tutela del lavoratore vittima in relazione alla fase di gestione

della notizia di reato, e del suo progressivo sviluppo procedimentale.

É noto al riguardo che con riferimento ai delitti contro l’incolumità individuale soltanto le lesioni

personali lievi sono perseguibili a querela. Per esse, pertanto, sarà imprescindibile l’apporto del lavoratore

vittima, che dunque dovrà vincere le (eventuali) resistenze dell’ambiente di lavoro a manifestare la propria

espressa volontà a perseguire in sede penale il fatto-reato causa anche del danno patito. Con riferimento

invece a quei procedimenti che hanno ad oggetto le lesioni di maggior rilevanza, ancora una volta il sistema

processuale vigente assicura che le indagini preliminari possano essere iniziate - e possano successivamente

svolgersi - senza che la vittima del reato debba esporsi, manifestando la volontà di vedere perseguito l’autore

del reato.

Anche in tal caso il giudizio sul sistema di tutela e protezione della vittima-lavoratore risulta quindi

positivo, finendo per sottrarre la decisione sull’avvio o meno delle indagini penali “…alla tensione tra

l’interesse a veder accertata la responsabilità per il reato e il timore di veder compromessa la propria

posizione lavorativa”5.

Ciò detto sulle modalità di acquisizione della notizia di reato, e della fase di avvio del procedimento

penale, resta da verificare se il sistema vigente appresti tutela adeguata al lavoratore vittima del reato di

lavoro.

Al riguardo il giudizio di sintesi non può essere altrettanto positivo, in quanto la risposta è

caratterizzata dalla compresenza di luci ed ombre. É certo, e si è ribadito in apertura di paragrafo, che tutti i

poteri, le facoltà ed i diritti della persona offesa trovano senza alcun dubbio piena esplicazione con riferimento

al lavoratore persona offesa dal reato di lavoro. Al contempo, non può non sottovalutarsi il fatto che nè il

sistema processuale vigente, né la legislazione di settore, apprestano un corredo di poteri ad hoc per il

lavoratore vittima, nonostante l’indubbia peculiarità della vicenda soggettiva ed oggettiva che fa solitamente da

sfondo alle indagini per infortunio di lavoro, caratterizzata da un lato - sul versante soggettivo – da dinamiche

interpersonali complesse relative allo svolgersi del rapporto fra datore di lavoro (o sui collaboratori) e

lavoratore e, dall’altro - sotto il profilo oggettivo -, per l’indubbia difficoltà di ricostruire le modalità di

realizzazione della condotta illecita e del verificarsi dell’evento lesivo, maturato solitamente in un contesto

troppo spesso impermeabile rispetto alla verifica dall’esterno, qual è appunto quella investigativa dell’indagine

penale.

Sempre prendendo le mosse da un’analisi degli spunti offerti dalla prassi giudiziaria, appare possibile

affermare che affinché il lavoratore vittima del reato di lavoro possa concretamente svolgere ed esercitare

appieno le facoltà, i diritti ed i poteri a lui riconosciuti in quanto persona offesa – attività questa che almeno

generalmente è fortemente collegata alla precondizione sociale dell’essere venuto meno il rapporto di lavoro

che ha dato causa all’evento lesivo - diviene essenziale che lo stesso si faccia assistere da un difensore.

5 Così Le vittime del lavoro, di Salvatore Dovere, atti convegno Formazione decentrata CSM Roma, 23.4.2009, p.6.

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Per mezzo della nomina di un difensore di fiducia, infatti, facoltà espressamente riconosciutagli in

quanto persona offesa ai sensi dell’art. 101 c.p.p., il lavoratore può meglio - ed appieno - esercitare in primo

luogo il potere di impulso generalizzato nei confronti del pubblico ministero nella fase delle indagini, in virtù

della clausola di cui all’art. 90 c.p.p. Ciò potrà avvenire, ad esempio, anche a mezzo del compimento di attività

difensive introdotte dalla novella al codice di rito con legge n. 397/2000, con cui - opportunamente - il

legislatore, nell’individuare il titolare dei poteri investigativi ha fatto riferimento genericamente al “difensore”,

consentendo in tal modo l’estensione della disciplina sia al difensore dell’indagato, che al difensore nominato

dalla persona offesa.

In sostanza, il lavoratore infortunato (o i congiunti del lavoratore deceduto) possono in teoria svolgere

attività di individuazione della prova, nei limiti definiti dagli artt. 391bis e seguenti c.p.p.

Nella prassi si ribadisce ciò accade quasi esclusivamente in quei rapporti di lavoro costituenti sfondo

della vicenda di reato in materia di sicurezza, che risultano o ormai cessati - per morte del lavoratore vittima, o

per interruzione del contratto di lavoro dovuta a cause diverse (scelta del lavoratore, inabilità sopravvenuta

alla mansione, o volontà del datore di lavoro) – o che si fondavano su situazioni di fatto illegali, che come tali

non possono proseguire dopo il verificarsi dell’evento lesivo e l’affiorare della responsabilità penale (si pensi al

caso di impiego di lavoratore “al nero”, o addirittura di impiego di manodopera clandestina).

In tutte queste situazioni la presenza di un difensore può giocare un ruolo decisivo “sollecitando”

l’ufficio del pubblico ministero a procedere spedito e secondo parametri di completezza verso la definizione

dell’indagine.

In concreto, detto ruolo viene statisticamente svolto, oltre che per l’ipotesi di cui agli artt. 391 bis c.p.p.

per:

contribuire all’accertamento tecnico per il caso di attività irripetibili, mediante nomina di un consulente di

parte che possa valorizzare elementi utili alla ricostruzione del fatto reato e della riferibilità soggettiva della

condotta illecita all’indagato;

sollecitare la proposizione di incidente probatorio da parte del pubblico ministero, con le finalità predette

anche in relazione a specifici segmenti della ricostruzione del fatto;

presentare memorie e documenti idonei a ricostruire il fatto lesivo ed individuare la violazione cautelare e

quantificare il danno conseguenza di reato.

Sin qui, dunque, le forme di tutela del lavoratore vittima del reato di lavoro nella fase procedimentale.

Quando poi l’indagine preliminare lascia il campo al giudizio, in conseguenza dell’esercizio dell’azione

penale, certamente auspicata ab origine dalla persona offesa, a questa residua la possibilità di restare

osservatrice esterna al processo, partecipando nei limiti in cui il codice di rito lo consenta alla persona offesa,

o decidere di assumere un ruolo più incisivo, passando da soggetto del procedimento a parte eventuale,

mediante la costituzione di parte civile, laddove abbia optato per far valere nel processo penale il diritto al

risarcimento del danno patito in conseguenza del “reato di lavoro”.

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3 Dal procedimento al processo: dalla persona offesa, al danneggiato, alla parte civile

Si è già detto che il danneggiato dal reato è “parte accessoria” del processo penale, colui che ha

subito il danno civile, patrimoniale o non patrimoniale, come conseguenza del reato, e che per questo si

distingue dalla persona offesa, che invece ha patito il danno criminale che si concreta nella lesione del bene

giuridico protetto dalla norma.

É proprio per tale motivo, l’aver patito un danno da reato, che il danneggiato è legittimato ad esercitare

l'azione civile nel processo penale.

Mentre la persona offesa dal reato gode della tutela di natura pubblicistica correlata all'interesse

pubblico alla repressione del reato di cui si fa ordinariamente carico il pubblico ministero, il danneggiato è

portatore di un interesse privato, del quale il pubblico ministero non si fa direttamente carico, salva

l'eccezionale ipotesi di cui all'art. 77 c.p.p., co. 4 c.p.p.6.

Dal punto di vista della legittimazione processuale, la distinzione tra persona offesa e danneggiato

civile si apprezza chiaramente dal raffronto tra i criteri di scelta del rappresentante del minore nell'esercizio

delle facoltà e dei diritti riconosciuti alla persona offesa nel processo penale (art. 90 c.p.p., co. 2) e le regole

che disciplinano la rappresentanza del minore nell'esercizio dell'azione civile (art. 77 c.p.p.), modellate sul

paradigma della rappresentanza dell'incapace nel processo civile, oltre che dal fatto che neppure in caso di

urgenza al pubblico ministero è consentito esercitare i diritti della persona offesa, non rinvenendosi nel codice

norma analoga a quella posta dall'art. 77 co. 4 c.p.p. con riguardo al danneggiato.

La persona offesa dal reato, la vittima del cosiddetto danno criminale, viene comunque messa in

condizione di esercitare l'azione civile (artt. 419 c.p.p., comma 1, art. 429 c.p.p., comma 4, art. 456 c.p.p.,

commi 3 e 4), laddove sia anche persona lesa civilmente, ossia abbia subito un danno patrimoniale o non

patrimoniale civilmente apprezzabile, e dunque risarcibile, mantenendo altrimenti le prerogative proprie della

persona offesa dal reato che non sia anche danneggiato civile.

6 Il nostro ordinamento processuale, tanto civile quanto penale, prevede che l’esercizio dell’azione giudiziaria a favore dei soggetti

incapaci, in assenza di coloro che ne abbiano la rappresentanza o nelle ipotesi di conflitto di interesse, sia regolata mediante la nomina di un curatore speciale. Ciò nonostante, l’art. 77 co. 4° c.p.p. prevede la possibilità per il pubblico ministero di esercitare l’azione civile nel processo penale a favore del danneggiato incapace, fino a che non subentri colui al quale spetta la rappresentanza od un curatore speciale. L’esercizio dell’azione civile in sede penale da parte del Pubblico ministero è prevista esclusivamente in casi di assoluta urgenza ovvero come extrema ratio di tutela degli interessi civili dell’incapace. Anche per questa ragione, la norma è interpretata restrittivamente. Per espressa previsione di legge, nei casi previsti dall’art. 77 co. 4° c.p.p., il pubblico ministero può altresì richiedere la citazione del responsabile civile. Tale facoltà gli è espressamente attribuita dalla legge proprio in virtù del fatto che la citazione del responsabile civile è solitamente contemporanea alla costituzione di parte civile ed è ammessa entro termini rigorosi (art. 83 co. 2° c.p.p.). La giurisprudenza ha ritenuto che il pubblico ministero costituitosi ex art. 77 co. 4° c.p.p. non possa chiedere il sequestro conservativo a tutela del soddisfacimento degli interessi civili (Cass. pen. sez. VI, 21.1.1997 n. 3565). Quest’ultimo orientamento non appare pienamente condivisibile. L’eccezionalità della rappresentanza del minore in capo al pubblico ministero, infatti, presuppone l’assoluta urgenza di tutelare i suoi interessi civili sotto il profilo dell’ an, ma non può riflettersi sulla limitazione degli strumenti di tutela, soprattutto laddove abbiano anch’essi natura cautelare e siano autonomamente esercitabili anche dal pubblico ministero (art. 316 co. 1° c.p.p.). In tal senso vedasi A. Aneschi, L’azione civile nel processo penale, Giuffrè, p.199.

Infine, si rileva che al pubblico ministero costituitosi ex art. 77 co. 4° c.p.p. non spetta neppure il diritto di impugnazione dei capi civili della sentenza.

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Tale annotazioni appaiono necessarie per affrontare il tema della costituzione di parte civile,

inquadrandolo nel vigente sistema processuale caratterizzato da una tendenziale indipendenza tra giudizio

penale e giudizio civile, anche quando quest'ultimo si svolga nell'ambito di un processo penale, secondo

quanto consentito dall'art. 74 c.p.p.

Si parla di tendenziale “indipendenza” perché, nonostante la disciplina processual-penalistica sia oggi

indirizzata a limitare le contaminazioni tra il giudizio espresso con riferimento all'accusa penale ed il giudizio

inerente al danno risarcibile da reato (ne sono un concreto esempio le norme che regolano l'efficacia della

sentenza penale nel giudizio civile di danno, artt. 651 e 652 c.p.p.), occorre tuttavia distinguere le situazioni

nelle quali si verificano reciproche influenze tra i diversi rapporti processuali, dalle situazioni in cui trova

conferma la predetta indipendenza.

Si allude in particolare a quei casi nei quali la commissione del reato abbia prodotto, oltre all'offesa del

bene tutelato dalla norma penale, anche un danno civile economicamente valutabile nei confronti della vittima

del reato, e quest'ultima abbia ritenuto di costituirsi parte civile nel processo penale, scegliendo dunque di

limitare la propria pretesa, nell'ambito dei più ampi rimedi riconosciutele dal diritto civile, al risarcimento ed alle

restituzioni previsti dall'art. 185 c.p.

Quanto alle “ragioni di tale scelta”, va detto che l'esercizio dell'azione civile nel processo penale

comporta, oltre il suddetto limite, anche talune alterazioni derivanti dal fatto che l'accertamento del danno civile

deve essere condotto secondo le regole del processo penale, e che l'azione penale non può subire

rallentamenti a causa dell'esercizio delle azioni extrapenali.

In particolare, al giudice penale è riservata l'incondizionata possibilità di affermare che le prove

acquisite non consentono di pervenire alla liquidazione del danno. Ciò comporta effetti anche per l'onere di

allegazione e di prova spettante alla parte civile, la quale può scegliere, senza incorrere in alcuna nullità, e a

differenza di quanto avviene nel processo civile (Sez. 3 civile, n. 10527 del 13/05/2011, Rv. 618210), di

allegare genericamente di aver subito un danno. Al giudice penale residuerà margine per stabilire, in

relazione al caso concreto, se valorizzare la funzione sanzionatoria della pronuncia risarcitoria, meno vincolata

alla concreta entità del danno, che sarà liquidato definitivamente ed equitativamente con la pronuncia di

condanna penale (ciò avviene, ad esempio, nei casi in cui il giudice penale emette sentenza di condanna

generica, avendo ritenuto accertata la potenzialità dannosa del fatto addebitato, ancorché non sia stata

raggiunta la prova dell'entità del danno risarcibile, valutando, in altre parole, che nel processo civile vi siano

margini di sviluppo di detta allegazione e della prova del danno), ovvero la funzione compensativa e

riparatoria, più strettamente legata alla prova del quantum del danno, indipendentemente dalla specificità della

domanda.

Prima di passare ad analizzare la costituzione della parte civile nel processo penale del lavoro

appare pertanto essenziale ripercorrere in sintesi alcuni passaggi fondamentali della disciplina dell’istituito

cristallizzato nel codice di rito, anche la fine di meglio cogliere le considerazioni che poi nel dettaglio si

cercherà di svolgere in riferimento alla scelta di agire in sede penale per ottenere il risarcimento del danno da

parte della vittima del lavoro.

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3.1 L’azione civile nel processo penale

La possibilità dei sistemi processuali penali di consentire l’esercizio dell’azione civile per le restituzioni

ed il risarcimento dei danni provocati dal reato costituisce tema risalente, sia per il nostro ordinamento che per

altri.

Il codice del 1865 tratteggiava il profilo della parte civile sul modello del diritto francese, attribuendole

poteri tipici in cui si esplica l’interesse pubblicistico alla condanna dell’imputato. L’azione civile era

caratterizzata da ampie garanzie, tanto da rivestire un “…ruolo principale e, sicuramente non accessorio”7, con

la persona offesa che poteva provocare la citazione diretta per tutti i reati procedibili a querela, ed il magistrato

giudicante tenuto a citare in giudizio la persona indicata come responsabile dei fatti previa verifica della sola

ammissibilità della domanda, laddove la stessa persona offesa avesse dichiarato di volersi costituire parte

civile. In tal sistema, alla parte civile veniva assegnato una “funzione ausiliaria” del pubblico ministero.

Con il codice del 1930, invece, ispirato al modello inquisitorio, il monopolio dell’azione venne

concentrato nelle mani dell’organo di rappresentanza dello Stato, il pubblico ministero, relegando la funzione

della parte civile a “posizione accessoria”.

Al legislatore del 1988 si poneva l’alternativa fra distinguere nettamente l’azione di danno

dall’accertamento penale e consentire l’esercizio dell’azione civile in sede penale. Quest’ultima soluzione è

quella che è prevalsa, ma se da un lato è indubbio che il codice del 1988 ha segnato una svolta di tipo

accusatorio, ispirato al favor separationis, con ciò rivoluzionando l’assetto dei rapporti tra giudizio civile e

giudizio penale, dall’altro emerge altresì la netta distinzione fra le figure di danneggiato e persona offesa, con

quest’ultima, come già detto, che resta l’unico soggetto portatore di un interesse pubblicistico a perseguire

l’offesa criminale.

Il tutto è accaduto non senza critiche, che si sono trasformate anche in vere e proprie censure di

legittimità costituzionale a seguito della riforma dell’art. 111 Cost.: ex plurimis, il Tribunale di Roma, che con

ordinanza emessa il 13 luglio 2001 mise in discussione la legittimità delle norme del c.p.p. che consentono

l’inserimento dell’azione civile nel processo penale, in quanto contrastanti con i principi del «giusto processo»,

che dovrebbe tradursi in un “...duello ad armi e forze pari”, oltre a rilevare che introducendo un nuovo thema

decidendum, e rendendo in tal modo necessari ulteriori adempimenti, si ostacolerebbe la ragionevole durata

del processo prescritta dall’art. 6 CEDU e dall’art. 111, co. II, Cost.

Ebbene, rileva sul punto evidenziare che la Corte costituzionale ebbe a dichiarare la questione

inammissibile, in quanto con la stessa il ricorrente aveva sottoposto al suo scrutinio ben 33 articoli del codice

di procedura penale “…di contenuto eterogeneo”, senza però perdere l’occasione per affermare che si trattava

di una critica ad “…una scelta di sistema (quella del possibile cumulo) operata dal Legislatore nell’esercizio

della sua discrezionalità» (C.Cost. 18 luglio 2002, n.364). In sostanza, con ciò implicitamente la Consulta

afferma che l’azione civile nel processo penale non costituisce una modalità di tutela necessaria, ma appunto

è una scelta del legislatore, per poi aggiungere che “…il diritto per il danneggiato dal reato di esperire l’azione

civile in sede penale non è oggetto di garanzia costituzionale” (vedasi C.Cost. 3 aprile 1996, n.98).

7 V.A. Pennisi, L’accessorietà dell’azione civile nel processo penale, Giuffrè, Milano, 1981, p.43

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L’analisi del sistema di norme che regolano l’esercizio dell’azione civile nel processo penale fanno

pertanto dire ad autorevole dottrina che l’azione civile è “ospite” nel processo penale8.

Tale considerazione discende dal fatto che l’azione resta comunque facoltativa e disponibile, in quanto

il danneggiato dal reato non solo può scegliere se costituirsi o meno parte civile, ma anche decidere di

revocarla una volta costituitosi.

Al contempo si rileva, che la funzione istituzionale della parte civile anche nel processo penale è

esclusivamente di natura privatistica9, e conserva la sua autonomia rispetto all’azione penale. Si tratta di

un’azione (quella civile) accessoria rispetto a quella penale, da cui discendono importanti conseguenze, quali

il fatto che il risarcimento del danno per cui si agisce, essendo il danno da reato, non potrà mai essere

riconosciuto in caso di sentenza di non doversi procedere perché l’azione non doveva essere iniziata o non

deve essere proseguita o per il caso dell’assoluzione dell’imputato. Ed ancora, siamo in presenza di un’azione

che è comunque soggetta alla prevalenza della normativa del processo penale, nel senso che i poteri ed il

comportamento processuale della parte civile sono disciplinati dal codice di procedura penale, che introduce

deroghe fondamentali a quelle che vigono per la parte che agisce nel processo civile, in particolare

dipendendo ella dal pubblico ministero nella fase della ricerca delle prove dell’illecito, attività questa peraltro

svolta in via quasi esclusiva durante le indagini preliminari, e come tale in una fase coperte da segreto anche

per il danneggiato (eventuale costituenda parte civile).

3.2 La regolamentazione della costituzione di parte civile: uno sguardo di sintesi

In estrema sintesi alcuni tratti essenziali della disciplina riservata dal codice di rito alla parte civile.

In primo luogo la dichiarazione di costituzione di parte civile, che deve essere fatta mediante una

apposita dichiarazione resa per scritto ai sensi dell’art. 78 c.p.p., sottoscritta dal difensore della parte civile, in

quanto il danneggiato sta in giudizio non personalmente, ma mediante un difensore munito di procura speciale

conferita con atto pubblico o scrittura privata autenticata (art. 100 co. 1 c.p.p.).

La dichiarazione svolge la funzione dell’atto di citazione in un processo civile e deve contenere a pena

di inammissibilità: 1) le generalità della persona fisica (o la denominazione dell’associazione o ente che si

costituisce parte civile e le generalità del suo legale rappresentante); 2) Le generalità dell’imputato nei cui

confronti viene esercitata l’azione civile (o le altre indicazioni personali che valgano ad identificarlo); 3) il nome

e il cognome del difensore e la indicazione della procura a questi rilasciata; 4) la esposizione delle “ragioni”

che giustificano la “domanda” 10; 5) la sottoscrizione del difensore11.

8 Manuale di procedura penale, di Paolo Tonini, Giuffrè ed., p.160.

9 A. Chiliberti, Azione civile e nuovo processo penale, Giuffrè, Milano, 2006, p.218

10 La domando altro non è che la richiesta al giudice di pronunciare la condanna dell’imputato al risarcimento del danno, ossia il petitum. Le “ragioni” consistono invece nei motivi per i quali si asserisce che il reato ha provocato un danno patrimoniale, ossia la causa petendi. I motivi consentono al giudice di valutare se il richiedente è legittimato a costituirsi parte civile. In questo momento sono indispensabili a pena di inammissibilità i motivi e la richiesta di condanna al risarcimento (causa petendi e petitum); viceversa, non è necessaria (anche se è possibile) quella parte del petitum che consiste nella precisazione del

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Questioni sostanziali e processuali in tema di risarcimento del danno.

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L’azione di risarcimento in sede penale: ambiti, confini, problematiche.

foglio nr. 18 di 89

La dichiarazione può essere presentata all’udienza (preliminare o dibattimentale) all’ausiliario del

giudice; prima dell’udienza, può essere depositata nella cancelleria del giudice (art. 78 co. 1 c.p.p.), ed in

quest’ultimo caso essa deve essere notificata, a cura della parte civile, alle altre parti, e cioè al pubblico

ministero e all’imputato (art. 78 , co. 2 c.p.p.), producendo effetto per ciascuna parte dal giorno nel quale è

eseguita la notificazione.

Quanto ai termini per la costituzione di parte civile il codice ne prevede due. Il primo scatta all’inizio

dell’udienza preliminare (art. 79 , co. 1 c.p.p.) nel momento in cui il giudice accerta la regolare costituzione

delle parti. Il secondo, è il momento in cui il giudice accerta la regolare costituzione delle parti prima dell’inizio

del dibattimento (art. 484 c.p.p.). Dopo tale momento la dichiarazione di costituzione di parte civile è

inammissibile, tanto che il relativo termine è stabilito a pena di decadenza (art. 79 , co. 2 c.p.p.).

Per il cosiddetto principio di immanenza della costituzione di parte civile (art. 76 co. 2 c.p.p.), la

costituzione di parte civile produce i suoi effetti in ogni stato e grado del processo, senza che la parte civile

abbia necessità di rinnovare la costituzione nelle successive fasi o nei successivi gradi del processo, finché la

sentenza non sia diventata irrevocabile.

L’esclusione della parte civile è possibile se non esistono i presupposti sostanziali o i requisiti formali

per la costituzione di parte civile. In tal caso il giudice con ordinanza non impugnabile ne dispone l’esclusione

su richiesta motivata del pubblico ministero, dell’imputato o del responsabile civile (art. 80 c.p.p.), ovvero

d’ufficio (art. 81 c.p.p).

La presenza della parte civile viene meno anche nelle ipotesi di revoca espressa o tacita. É espressa

la revoca effettuata con dichiarazione resa in udienza dalla parte civile personalmente o da un suo procuratore

speciale o con atto scritto depositato in cancelleria e notificato alle altre parti (art. 82 co.1 c.p.p.). La revoca

tacita invece si verifica quando la parte civile non presenta le proprie conclusioni scritte in dibattimento al

momento della discussione finale (art. 523 c.p.p.), o qualora ove essa promuova l’azione civile davanti al

giudice civile (art. 82 co. 2 c.p.p.).

Quanto ai poteri e alle facoltà riservate alla “parte civile” rileva evidenziare che con l’assunzione di tale

qualità non mutano le facoltà genericamente attribuite alla persona offesa.

Oltre ad esse, la parte civile può esercitare tutti quei diritti e quelle facoltà che le vengono

espressamente riconosciute dalla legge, nonché tutte quelle che vengono genericamente attribuite alle parti

processuali. Ai sensi dell’art. 121 c.p.p., ogni parte processuale, in qualsiasi fase e grado de l processo può

presentare al Giudice memorie o richieste scritte, mediante deposito in cancelleria, sulle quali il Giudice deve

ritualmente provvedere12. Secondo un diverso orientamento, la richiesta di rinvio dell’udienza può essere

presentata anche a mezzo telefax.

quantum dell’ammontare del risarcimento; la indicazione del quantum richiesto sarà invece indispensabile al momento della presentazione delle conclusioni scritte al termine del dibattimento (art. 523 comma 2 c.p.p.).

11 La procura speciale al difensore è apposta in calce o a margine della dichiarazione di parte civile ed il difensore certifica la autografia della sottoscrizione del danneggiato ( artt. 78 comma 3 e 100 comma 2); se la procura è conferita con atto separato (art. 100 comma 1), tale atto è depositato nella cancelleria del giudice o è presentato in udienza unitamente alla dichiarazione di costituzione (art. 78 comma 3).

12 Per i privati e i difensori non c’è alternativa all’adozione delle forme espressamente previste dalla normativa processuale, costituita dall’art. 121 c.p.p., che stabilisce che le memorie e le richieste delle parti devono essere presentate al Giudice per iscritto mediante deposito in cancelleria. L’art. 150 c.p.p., che contempla l’uso di forme particolari, quali il telefax, indica nei

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Questioni sostanziali e processuali in tema di risarcimento del danno.

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L’azione di risarcimento in sede penale: ambiti, confini, problematiche.

foglio nr. 19 di 89

Secondo la prevalente giurisprudenza, il rigetto immotivato dell’istanza di acquisizione di una memoria

difensiva, presentata ex art. 121 c.p.p., o la sua omessa valutazione determinano la nullità di ordine generale

prevista dall’art. 178 co. 1° lett. c) c.p.p., in quanto, oltre a costituire violazione delle regole che presiedono

alla motivazione della sentenza, comportano la lesione del diritto di intervento o assistenza difensiva (Cass.

pen. sez. I, 12.12.2005 n. 45104).

L’interpretazione rileva, in quanto espressiva di un atteggiamento di fondo rivolto a tutelare l’interesse

della parte civile a partecipare attivamente al processo.

Si evidenzia poi come alla parte civile in quanto parte processuale sia riconosciuto diritto a presentare

una propria lista di testimoni, periti o consulenti tecnici entro sette giorni prima della data fissata per il

dibattimento. Ciò nonostante, se la costituzione di parte civile avviene dopo la scadenza del termine previsto

dall’art. 468 co. 1° c.p.p., la parte civile non può avvalersi di tale facoltà (art. 79 co. 3° c.p.p.). In questi casi, la

stessa può chiedere esclusivamente il controesame dei testimoni, periti o consulenti eventualmente citati dalle

altre parti, salvo che nel caso di prove sopravvenute (art. 493 c.p.p.).

L’intervento della parte civile nel procedimento dibattimentale, in ordine alla richiesta ed all’assunzione

delle prove, nonché alla discussione finale, segue immediatamente quello del pubblico ministero e precede

quello delle eventuali altre parti private (responsabile civile e civilmente obbligato per la pena pecuniaria) e

dell’imputato (artt. 493 co. 1°, 496, 498 co. 2° e 523 c.p.p.), in coerenza con lo schema del modello

accusatorio in cui la parte privata portatrice dell’interesse privato al risarcimento del danno da reato,

accompagna, seguendola, la parte pubblica, appunto il pubblico ministero, che ha l’onere principale di prova in

ordine alla sussistenza del reato che ha recato di per sé offesa penale.

4 L’azione civile nel processo penale del lavoro

In materia di infortuni sul lavoro il nostro ordinamento detta un particolare regime per l’affermazione

della responsabilità civile del datore di lavoro. Si tratta di peculiarità connesse al sistema dell’assicurazione

obbligatoria contro gli infortuni disciplinata dal d.p.r. 30 giugno 1965, n. 1124.

Da tale sistema discendono conseguenze rilevanti in tema di diritto al risarcimento del danno da parte

dell’infortunato nei confronti del datore di lavoro che sia in regola con gli obblighi dell’assicurazione

obbligatoria.

funzionari di cancelleria gli unici soggetti abilitati ad avvalersene, sicché il mezzo in questione non può essere utilizzato per chiedere il rinvio dell’udienza (Cass. pen. sez. V, 22.2.2006 n. 6696; conforme Cass. pen sez II 12 1 2004 n 789).

La segnalazione di un impedimento del difensore di fiducia con contestuale richiesta di rinvio, spedita via fax ai sensi dell’art. 150 c.p.p., pervenuta alla cancelleria prima dell’inizio dell’udienza ma trasmessa al Giudice dopo la celebrazione del dibattimento, non costituisce motivo di nullità della sentenza in quanto la scelta di un mezzo tecnico non previsto specificatamente dalla legge per il deposito delle istanze, ai sensi dell’art. 121 c.p.p., espone il richiedente al rischio dell’intempestività con cui l’atto può pervenire alla conoscenza del Giudice (Cass. pen. sez. V, 19.4.2005 n. 14574).

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In particolare, ai fini che qui interessano, ossia nella prospettiva del lavoratore infortunato, da tale

sistema discendono effetti da un lato, sul presupposto della risarcibilità in favore dell’infortunato e, dall’altro,

sulla misura del risarcimento.

Sotto il primo profilo rileva dare conto del dibattito aperto sulla sussistenza o meno, in forza del

disposto dell’art. 10 d.p.r., di una regola peculiare di pregiudizialità per l’accertamento del reato che è causa di

danno per il lavoratore. Con riferimento al secondo profilo, invece, rileva la questione della possibilità per il

lavoratore di ottenere il risarcimento del solo c.d. danno residuale o differenziale, cioè di un danno nella

misura “eccedente” l’indennizzo liquidato dall’INAIL, che impone al giudice di operare il raffronto tra

l’ammontare complessivo del risarcimento per il danno patrimoniale e non, e quello delle indennità già

liquidate dall’ente assicuratore in ragione dell’infortunio, così evitando di poter determinare un’ipotesi di

ingiustificata locupletazione per il lavoratore infortunato o per gli altri aventi diritto, che in relazione al

medesimo infortunio percepirebbero sia le indennità che il risarcimento dell’intero danno.

Di seguito, quindi, l’analisi di dettaglio delle caratteristiche peculiarità del citato sistema.

4.1 L’art.10 co.2 d.p.r. 1124/1965: la “sentenza di condanna penale” fra condizione di merito all’azione civile e atto di accertamento

In via generale per effetto della normativa sull’assicurazione obbligatoria sugli infortuni sul lavoro,

disciplinata dal d.p.r. 30 giugno 1965, n. 1124 si può affermare che il datore di lavoro è esonerato dalla

responsabilità civile per gli infortuni sul lavoro, allorché nel caso concreto l’assicurazione sussista.

Tale esonero è diretta conseguenza dell’intervenuto versamento dell’indennità, come si desume

testualmente dall’art. 10 co.1 a mente del quale “L’assicurazione a norma del presente decreto esonera il

datore di lavoro dalla responsabilità civile per gli infortuni sul lavoro”.

Ciononostante, l’azione nei confronti del datore di lavoro sussiste comunque quando l’infortunio sia

conseguenza di un reato di lavoro, ascrivibile al datore di lavoro a suoi incaricati. Il passaggio rileva ai sensi

della stessa norma, art. 10 che ai commi 2 e 3 dispone rispettivamente; (co. 2): “Nonostante l’assicurazione

predetta permane la responsabilità civile a carico di coloro che abbiano riportato condanna penale per il fatto

dal quale l’infortunio è derivato”, e (co.3) : “Permane, altresì, la responsabilità civile del datore di lavoro

quando la sentenza penale stabilisca che l’infortunio sia avvenuto per fatto imputabile a coloro che egli ha

incaricato della direzione o sorveglianza del lavoro, se del fatto di essi debba rispondere secondo il codice

civile”. Di fatto, quest’ultimo comma implicitamente richiama la presunzione di responsabilità sancita dall’art.

2049 c.c.).

Si evidenzia come l’interpretazione offerta negli anni dalla giurisprudenziale della dizione di “infortunio”

di cui all’art. 2 del d.p.r. 1124/65 è stata estensiva, ricomprendendo nell’infortunio dovuto a causa violenta in

occasione del lavoro, anche quelli che solo in via indiretta o riflessa siano collegati al rischio specifico della

prestazione di lavoro, e comunque siano da esso dipesi.

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L’obiettivo di detta estensione interpretativa è stato evidentemente quello di assicurare massima tutela

all’integrità della pretesa risarcitoria del lavoratore, quando il fatto sia conseguenza di reato, ossia di un fatto

connotato da massimo disvalore.

É la ratio sottesa all’interpretazione giurisprudenziale che – per inciso – ha anticipato le riforme

legislative in tema di copertura assicurativa per il cosiddetto infortunio in itinere, ed ha esteso la copertura

assicurativa al danno biologico. Sul punto rileva infatti ricordare come il danno biologico non fosse in origine

contemplato nella copertura assicurativa obbligatoria, e peraltro si fosse affermato in via di elaborazione

giurisprudenziale e dottrinale affermatasi soltanto successivamente alla redazione del d.p.r. 1124/65. La

Corte Costituzionale con sent. 15 febbraio 1991, n.87 aveva già sottolineato che “…l’esclusione dell’intervento

pubblico per la riparazione del danno alla salute patito dal lavoratore in conseguenza di eventi connessi alla

propria attività lavorativa..” non poteva ritenersi in sintonia con il diritto fondamentale alla salute dell’individuo e

della collettività (32 C), ed al valore fondante dello Stato riconosciuto al lavoro (art. 1 C), sollecitando un

intervento che consentisse di fornire garanzia differenziata ed intensa anche al “…rischio della menomazione

dell’integrità psico-fisica del lavoratore, prodottasi nello svolgimento e a causa delle mansioni..”. La disciplina è

stata poi effettivamente novellata con il d.lgs.38/2000, il cui art. 13 ha ricondotto il danno biologico alla

copertura assicurativa obbligatoria. Il danno biologico è stato definito normativamente come la “…lesione

all’integrità psicofisica, suscettibile di valutazione medico legale, della persona” (art. 13 co.1). Il danno

biologico prevede un indennizzo per le menomazioni di grado pari o superiore a 6%, ed inferiore al 16%, gradi

valutati in base a specifiche “tabelle delle menomazioni”. In tali casi viene erogato in capitale, mentre per

menomazioni superiori al 16% in forma di rendita.

Ebbene, tornando dunque alla possibilità di agire da parte del lavoratore a tutela del danno da

infortunio, è necessario segnalare come il sistema disegnato dall’art. 10 co. 2 e 3 d.p.r. sia oggetto di una

diversa lettura interpretativa. La questione problematica discende in particolare dalla diversa lettura, e

conseguente significato, che si fornisce all’inciso “sentenza di condanna” di cui all’art. 10 co.2 d.p.r.1124/65.

Secondo una prima prospettazione la sentenza di condanna costituirebbe una condizione di merito

all’azione civile, da cui, appunto, l’idea che nella materia del danno da infortunio sul lavoro non dovrebbe

trovare applicazione l’art. 75 co.2 c.p.p., espressione più alta del principio del favor separationis, in quanto non

si potrebbe porre in concreto il caso di un’azione civile che “prosegue” autonomamente, in assenza

dell’intervenuta decisione (con sentenza di condanna) nel giudizio penale.

A tale impostazione si contrappone la tesi che interpreta il significato dell’inciso “sentenza di

condanna” come atto di accertamento. L’idea di fondo muove dalla rilettura dell’art. 10 co.2 d.p.r. 1124 che

viene interpretato in prospettiva sistematica, tenendo conto del rinnovato ordinamento processuale penale

ispirato dal principio della piena autonomia delle due giurisdizioni, civile e penale, che ha fissato nell’art. 75

c.p.p. la regola (appunto 75 co. 2 c.p.p.) della possibilità per il giudizio civile di procedere a prescindere dalle

decisioni che potranno essere adottate nell’ambito del giudizio penale, circoscrivendo le uniche due ipotesi

che possono portare a una “sospensione” del processo civile nel 3 co. dell’art. 75 c.p.p., ossia nel caso in cui

quest’ultimo sia iniziato dopo la costituzione di parte civile nel processo penale (atto che come detto vale a

revocare implicitamente la costituzione), o dopo che sia stata pronunciata la sentenza penale di primo grado.

Di seguito si passano in rassegna le due diversi opzioni interpretative e le conseguenze pratiche che

da esse discendono.

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Questioni sostanziali e processuali in tema di risarcimento del danno.

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L’azione di risarcimento in sede penale: ambiti, confini, problematiche.

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4.1.1 La tesi della condizione di merito all’azione civile: la pregiudizialità penale

Come anticipato secondo una prima chiave interpretativa dell’art. 10 co.2 d.p.r. 1124/65 la sentenza di

condanna costituirebbe una condizione di merito all’azione civile.

La norma, in sostanza, disegnerebbe un sistema caratterizzato dalla pregiudizialità del processo

penale rispetto a quello civile, per il caso dell’azione esercitata dal lavoratore a tutela del diritto al risarcimento

del danno quando questi derivi da reato.

Da ciò ne deriverebbe la conseguenza che nella materia del danno da infortunio sul lavoro non

potrebbe trovare applicazione l’art. 75 co.2 c.p.p., espressione più alta del principio del favor separationis, in

quanto non si potrebbe porre in concreto il caso di un’azione civile che “prosegue” autonomamente, in

assenza dell’intervenuta decisione (con sentenza di condanna) nel giudizio penale.

A sostegno di tale lettura il fatto che l’art. 10 d.p.r. 1126/65, seppur previgente rispetto

all’approvazione del codice di rito del 1988, non sarebbe stato formalmente mai abrogato, dovendo da ciò

pertanto trarsi argomento di sostegno interpretativo in ordine alla volontà del legislatore di mantenerlo in vita.

Una interpretazione, quella esposta, che avrebbe l’effetto di contraddistinguere la peculiarità del

sistema del risarcimento del danno da lavoro, rispetto alle regole generali che disciplinano il rapporto fra

giudizio civile e penale, quando si tratta di danno conseguenza di reato.

Ma vi è di più. Si osserva sempre su tale versante che la pregiudizialità introdotta dall’art. 10 d.p.r.

1124/65 non solo è legata al processo penale, luogo naturale di accertamento di un fatto reato, che si sia

concluso con un accertamento della penale responsabilità del datore di lavoro imputato o di “…coloro che egli

ha incaricato della direzione o sorveglianza del lavoro”, ma è altresì ancorata al fatto che il reato per cui vi è

stato giudizio sia un reato procedibile d’ufficio.

Sul punto, infatti, rileva il co. 4 dell’art. 10 d.p.r. 1124/65 laddove si prevede che “Le disposizioni dei

due commi precedenti non si applicano quando la punibilità del fatto dal quale l’infortunio è derivato sia

necessaria la querela della persona offesa”.

La circostanza si sottolinea non è irrilevante dal punto di vista della portata pratica nei procedimenti

penali in materia di sicurezza sul lavoro. Il sistema penale vigente, infatti, prevede la procedibilità a querela

degli infortuni sul lavoro che rechino offesa all’incolumità individuale laddove le lesioni refertate non superino i

40 giorni. Nei casi di lesioni lievissime e lievi, pertanto, anche laddove conseguenza di fatti reato commessi

con violazioni della disciplina antinfortunistica e di sicurezza sul lavoro, l’eventuale condanna del datore di

lavoro non potrà spiegare gli effetti di cui si dirà di seguito, connessi al criterio della pregiudizialità del

processo penale rispetto all’esercizio dell’azione risarcitoria in sede civile.

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4.1.2 La tesi della “sentenza di condanna” come atto di accertamento: l’interpretazione sistematica della pregiudizialità penale di cui all’art. 10.2 co. d.p.r. 1124/65

Alla predetta impostazione si contrappone l’orientamento della giurisprudenza di legittimità, della

Consulta e di parte della dottrina che interpreta il significato dell’inciso “sentenza di condanna” come atto di

accertamento.

L’idea di fondo muove – come anticipato - dalla rilettura dell’art. 10 co.2 d.p.r. 1124 che viene

interpretato in prospettiva sistematica, tenendo conto del rinnovato ordinamento processuale penale ispirato

dal principio della piena autonomia delle due giurisdizioni civile e penale positivizzato nell’art. 75 c.p.p., ossia

nella regola (75 co. 2 c.p.p.) della possibilità per il giudizio civile di procedere a prescindere dalle decisioni che

potranno essere adottate nell’ambito del giudizio penale, circoscrivendo le uniche due ipotesi, eccezioni, che

determinano sospensione del processo civile (75 co. 3 c.p.p.), al caso in cui quest’ultimo sia iniziato dopo la

costituzione di parte civile nel processo penale, o dopo che sia stata pronunciata la sentenza penale di primo

grado.

Il tema rileva non solo per la portata teorica, ma soprattutto per gli effetti pratici che da esso possono

scaturire. Assegnare infatti all’inciso “sentenza di condanna” di cui all’art. 10 co.2 d.p.r. la valenza di atto di

accertamento, anziché il significato di condizione di merito all’azione civile, determina concreti effetti sulla

possibilità per il lavoratore vittima di reato di perseguire tutela risarcitoria in sede civile a prescindere dalla

attesa della definizione del giudizio penale sul fatto reato da cui si ipotizza essere derivato come conseguenza

il danno di cui si chiede risarcimento.

In definitiva, i fautori di tale soluzione propongono di interpretare l’art. 10 co.2 d.p.r. 1124/65 come

norma che trovi applicazione limitatamente ai casi in cui oggi - in forza delle modifiche intervenute al sistema

processuale penale ed al rapporto fra giudizio civile e penale – è prevista espressamente la pregiudiziale

penale. Al di fuori di detti casi al giudice del lavoro adito residuerebbe un’autonoma competenza

nell’accertamento del reato.

Una simile soluzione sarebbe imposta proprio in considerazione dell’attuale - nuovo - assetto

disciplinato dal nuovo codice di procedura penale (d.p.r. 22.9.1988, n. 447) in tema di rapporto fra

giurisdizione civile e penale. Un sistema, si è detto, che ha abbandonato il principio di unità della giurisdizione

che aveva ispirato il codice del 1930 (con prevalenza del giudicato penale sul civile e pregiudizialità dell’azione

penale rispetto alla civile), propendendo per la scelta del principio dell’autonomia (o della separazione) dei

giudizi, a favore del diritto di difesa, ed anche a costo di pervenire a giudicati contrastanti.

Invero, viene osservato a sostegno di tale tesi, già prima della riforma dei codici di procedura era

stato sancito il venir meno del principio di pregiudizialità e di preminenza dell'azione penale sulla civile,

riconoscendo al giudice civile il potere di accertare incidenter tantum se il fatto fonte dell’illecito possa

configurabile reato o meno, senza attendere il giudice penale. In particolare Corte cost. n.102/1981 (seguita

da Corte Cost. n. 118/1986) – pur in regime di vigenza del principio (oramai caduto) di pregiudizialità e

preminenza dell'azione penale su quella civile – era addivenuta alla "…dichiarazione di illegittimità del 5°

comma dell'art. 10 del d.p.r. n. 1124/1965, nella parte in cui non consente...che l'accertamento del fatto di

reato possa essere compiuto dal giudice civile… anche nei casi in cui il procedimento penale nei confronti del

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L’azione di risarcimento in sede penale: ambiti, confini, problematiche.

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datore di lavoro o di un suo dipendente si sia concluso con proscioglimento in sede istruttoria o vi sia

provvedimento di archiviazione", asserendo che, se nel suddetto regime (si ripete, oramai non più vigente)

"…si giustifica che l'azione civile non sia proponibile in pendenza del processo penale, non trova invece

alcuna razionale giustificazione che sia anche…limitata ad ipotesi tassative la possibilità di chiedere al giudice

civile, ai fini dell'azione di sua competenza, l'accertamento dell'illecito…".

Dopo la Consulta sulla caduta del principio di pregiudizialità e di preminenza dell'azione penale sulla

civile si è affermato un pacifico e consolidato orientamento giurisprudenziale, che ha riconosciuto piena

sussistenza di una effettiva autonomia del giudice civile nell'accertamento del reato.

Si veda per tutte Cass. civ. Sez.Lav. 29.10.2003, n.16250 secondo cui: "…ai fini del risarcimento del

danno patrimoniale, l’inesistenza di una pronuncia del giudice penale, con efficacia di giudicato (a norma degli

artt. 651, 652 c.p.p.), comporta che il giudice civile possa accertare incidenter tantum l’esistenza del reato, nei

suoi elementi obiettivi e soggettivi, individuandone l’autore e procedendo al relativo accertamento nel rispetto

dei canoni della legge penale (vedi anche nel senso di insussistenza di una pregiudiziale penale nel vigore

dell’attuale codice di procedura Cass.S.U. 6223/97, Cass.Sez.Lav. 13425/00).

Ed ancora, sempre in senso conforme all'autonomia del giudice civile nel riscontro del reato, si veda

quando affermato dalla Corte cost. 18.7.1991, n. 356 secondo cui: "…è noto che, secondo la prevalente

giurisprudenza di legittimità, l'accertamento che l'infortunio o la malattia professionale sono stati determinati da

negligenza o da inosservanza di disposizioni di legge e quindi dei doveri posti dallo stesso art. 2087 c.c.,

implica l'affermazione dell'esistenza nel fatto degli estremi costitutivi del reato di lesioni colpose. Ove…il

giudice (civile, n.d.r.) non assecondando detto indirizzo giurisprudenziale…abbia escluso di poter identificare

un reato, questa Corte non può che prenderne atto…sì che in difetto di sentenza di condanna penale ed

avendo comunque escluso il giudice di merito l'esistenza di un fatto reato… la questione sollevata

relativamente alla legittimità costituzionale dell'art. 10 d.p.r. n. 1124/1965 è rilevante".

Sul tema del venir meno della pregiudizialità dell'azione penale sulla civile – e conseguentemente

della "sospensione necessaria" di quest'ultima rispetto alla prima si richiama anche la sentenza della

Cassazione del 13 maggio 1997, n. 4179, che ha sostenuto: " Con riguardo alla sospensione del giudizio civile

ex art. 295 c.p.c. (come novellato dall'art. 35 l. n. 353 del 1990) in pendenza di procedimento penale …occorre

distinguere l'ipotesi del giudizio civile avente ad oggetto l'azione riparatoria ed il risarcimento del danno, che è

disciplinata dall'art. 75 c.p.p. ed è tendenzialmente dominata dal principio dell'autonomia delle giurisdizioni e

quindi dal divieto di sospensione del processo civile se non nelle due ipotesi previste dal 3° comma della

citata disposizione (se l'azione è stata proposta in sede civile nei confronti dell'imputato dopo la costituzione di

parte civile nel processo penale o dopo la sentenza penale di primo grado) e l'ipotesi di ogni altro giudizio

civile, che invece è retta (ex art. 211 norme att., coord. e trans., c.p.p.) dal principio della prevenzione della

possibile contraddittorietà di giudicato, sicché la sospensione (necessaria) del giudizio pregiudicato è in tal

caso condizionata alla ricorrenza della duplice condizione dell'avvenuto esercizio dell'azione penale e della

rilevanza e dell'opponibilità del giudicato penale formatosi a seguito di giudizio dibattimentale nei limiti previsti

dall'art. 654 c.p.p.".

Altrettanto uniformità interpretativa vi è in ordine all'autonomia del potere di scelta da parte del

lavoratore ricorrente fra azione civile risarcitoria di danno per reato penale, ed azione penale di accertamento,

quando l'azione civile attenga ad ipotesi di "restituzione o di risarcimento danno". L'autonomia tra i due tipi di

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Questioni sostanziali e processuali in tema di risarcimento del danno.

Il pregiudizio risarcibile: il danno differenziale.

L’azione di risarcimento in sede penale: ambiti, confini, problematiche.

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azione trova il suo fondamento di diritto positivo nell'art. 75, 2° e 3° comma, c.p.p. Il 2° comma sancisce il

principio della separazione del giudizio civile per il risarcimento del danno e per le restituzioni ed il giudizio

penale, disponendo che “…l'azione civile prosegue in sede civile se non è trasferita nel processo penale o è

stata iniziata quando non è più ammessa la costituzione di parte civile”. L'art. 75 c.p.p. non lascia molti dubbi

all'interprete: spetta al danneggiato la facoltà di scelta in ordine alla sede in cui esercitare l'azione riparatoria,

e qualora egli ritenga di adire il giudice civile, il relativo giudizio proseguirà senza che al danneggiato possa

opporsi l'eventuale sentenza di assoluzione pronunciata dal giudice penale, salvo – si ribadisce ancora - le

due sole eccezioni previste dall'art. 75, 3° comma, c.p.p., in forza del quale il processo civile rimane “sospeso”

nel caso in cui inizi dopo la costituzione di parte civile nel processo penale o dopo che sia stata pronunciata

la sentenza penale di primo grado.

Dunque, a seguito degli artt. 651-654 del vigente codice di procedura penale e delle innovazioni al

codice di procedura civile (si noti che dopo che l'art. 35 della l. 26 novembre 1990, n. 353 è intervenuto sull'art.

295 c.p.c. cancellando il rinvio all'art. 3 c.p.p. che era sopravvissuto all'abrogazione di questa norma, anche la

Consulta con sentenza n. 182/1996 ha affermato che "…proprio la recente riforma della norma citata (art.

295 c.p.c.) nell'attenuare il nesso di pregiudizialità penale in consonanza con l'autonomia voluta dal nuovo

codice di procedura penale per le azioni civili restitutorie e risarcitorie, ha espresso, più in generale, il

disfavore nei confronti del fenomeno sospensivo in quanto tale”), deve ritenersi ormai pacifico il principio del

c.d. “doppio binario” o della separazione ed autonomia dei giudizi penale e civile.

Da qui la portata pratica dell’interpretazione proposta, che incide direttamente sulla possibilità di scelta

del (lavoratore) danneggiato da un fatto reato di dove agire per ottenere tutela risarcitoria del danno derivante

da reato (art. 185, 2° co., c.p.), potendo optare per un esercizio sia in sede civile, che in sede penale mediante

la costituzione di parte civile ex art 74 e ss. c.p.p.

L’azione risarcitoria potrà essere esercitata innanzi al giudice civile secondo i principi generali oppure

potrà essere esercitata nel processo penale (art. 74 c.p.p.) mediante la costituzione di parte civile (art. 76

c.p.p.). Nel caso in cui il danneggiato scelga di agire in sede civile, e non intervenga un giudicato penale

vincolante, sarà il giudice civile a dover accertare la sussistenza del reato, ovviamente al solo fine di decidere

sulla domanda risarcitoria (in particolare, l’accertamento del reato è indispensabile per il risarcimento del

danno morale soggettivo (art. 2059 c.c.; art. 185, 2° co., c.p.), altrimenti non dovuto).

In sede civile al lavoratore danneggiato non sarà opponibile neppure l’eventuale giudicato penale

assolutorio ex art. 652, 1° co., c.p.p., secondo il quale la “sentenza penale irrevocabile di assoluzione…ha

efficacia di giudicato, quanto all’accertamento che il fatto non sussiste…, nel giudizio civile…, salvo che il

danneggiato dal reato abbia esercitato l’azione in sede civile a norma dell’art. 75, 2° co., c.p.p.”.

La casistica può essere varia. Ad esempio il lavoratore che si ritenga danneggiato da un reato del

datore di lavoro – normalmente dal reato di lesioni personali colpose, ex art. 590 c.p., per violazione delle

norma dell’art. 2087 c.c., in tema di prevenzione e sicurezza e a tutela della personalità morale ovvero per

violazione del divieto di demansionamento, ex art. 2103 c.c., del rispetto della normativa in tema di riposi,

trasferimenti, controlli, sanzioni disciplinari, licenziamenti ovvero dai reati ricollegabili alle molestie sessuali

(rinvenibili usualmente negli artt.610, 621, 660 c.p.) – ha una doppia chanche, poiché da un lato può invocare

nel giudizio civile l’autorità dell’eventuale giudicato penale di condanna ex art. 651 c.p.p. (anche quando non

abbia partecipato al processo penale) e dall’altro lato, evitando di costituirsi parte civile, può tentare, anche in

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Questioni sostanziali e processuali in tema di risarcimento del danno.

Il pregiudizio risarcibile: il danno differenziale.

L’azione di risarcimento in sede penale: ambiti, confini, problematiche.

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presenza di un giudicato penale di assoluzione, di far accertare dal giudice civile la colpevolezza del datore di

lavoro (ex art. 75, 2° co., e 652, 2° co., c.p.p.), possibilità quest’ultima, che addirittura gli è garantita perfino in

caso di avvenuta costituzione di parte civile, qualora l’assoluzione sia stata pronunciata sulla base di una

prova assunta con incidente probatorio a cui il danneggiato dal reato non è stato posto in grado di partecipare

(art. 404 c.p.p.)13.

13 Ancora conferme sulla pacifica sussistenza di una autonoma facoltà del giudice civile di riscontro del reato (ai fini della

risarcibilità del danno in sede civile), provengono da tutte le sentenze civili che hanno deciso, in presenza di "molestie sessuali sul luogo di lavoro", la spettanza - in capo alle lavoratrici vittime - del risarcimento del danno biologico e separatamente (in ragione del requisito delittuoso ex art. 2059 c.c.) del risarcimento del danno morale. In tal senso si citano, Pret. Trento 22.2.1993 (riscontro da parte del pretore del lavoro del reato ex art. 610 c.p. e/o di quello ex art. 56 e 521 c.p. (14) ; Pret. Milano 14.8.1991 (riscontro da parte del pretore del lavoro del reato ex art. 521 c.p. o ex art. 56-519 c.p. (15), confermata da Trib. Milano 19.6.1993 (16); Trib. Milano 21.4.1998 (riscontro da parte del pretore del lavoro del reato ex art. 660 c.p., (17). Incisiva, relativamente all'affermazione di tale autonomia del giudice civile nel riscontro del reato penale, la già citata Pret. Milano 14.8.1991, la quale ha rivendicato tale autonomia in concorrenza di un'azione penale conclusasi con l'archiviazione. Ha, al riguardo, asserito il Pretore: "spetta inoltre (cioè addizionalmente al risarcimento del danno biologico, n.d.r.) alla Neposteri il risarcimento del danno morale, dal momento che la condotta messa in atto nei suoi confronti dall'Azienda, oltre che un inadempimento contrattuale, integra anche l'ipotesi delittuosa (ed, in particolare, il reato p. e p. dall'art. 521 c.p., se non già quello p.e p. dagli artt. 56-519 c.p.). Può incidentalmente osservarsi che tale configurazione giuridica dei fatti compiuti dall'Azzali in danno della Neposteri mal si concilia con il provvedimento di archiviazione, emesso dal giudice penale – a quanto risulta senza l'espletamento di alcuna attività istruttoria – e prodotto dalla difesa della ricorrente alla prima udienza. Ma tale discrepanza non può produrre alcun immediato effetto sull'esito della presente causa, sia perché il giudice civile conserva pur sempre la sua autonomia e possibilità di valutare anche diversamente da quello penale i fatti delittuosi sottoposti al suo esame per la decisione sugli aspetti e conseguenze civili del fatto-reato; sia perché nel caso di specie la valutazione dei fatti di causa è giustificata da un'attività istruttoria, che è –invece – mancata in sede penale , sia perché – infine – il diverso andamento dei due procedimenti trova, ad avviso di questo pretore, una possibile spiegazione nel diverso e maggiore interesse manifestato dalla parte lesa a trovare soddisfazione in sede civile, piuttosto che penale, per i torti subiti ".

A favore della libertà per il giudice civile di procedere all'accertamento delle responsabilità penali datoriali a fini di risarcimento del danno morale, si è recentemente espresso anche Trib. Milano 12 dicembre 1998 (18) secondo cui: "Per il riconoscimento del danno morale non occorre un accertamento penale che il fatto costituisce reato e non occorre neppure che le parti che lo chiedono specifichino di volere un accertamento incidentale di tale tipo. E' sufficiente – secondo il noto principio che il giudice deve interpretare la domanda - che sia chiaro che le parti assumono nel fatto il carattere di reato al fine di ottenere il danno morale . E così è nella specie".

Conformemente si è espressa Cass. 20 aprile 1998, n. 4012 (19) attinente alla fattispecie di un lavoratore bancario colpito da grave malattia nervosa per essere rimasto coinvolto in tre rapine nel luogo di lavoro, successivamente licenziato per superamento del periodo di comporto per malattia o comunque per sopravvenuta inidoneità all’espletamento delle mansioni.

Tale decisione atteneva e perveniva al riscontro di omissione da parte datoriale delle misure a tutela della salute rinvenibili nell’ampia norma tutoria dell’art. 2087 c.c. (nella specie costituite dalla presenza alla porta d’ingresso dell’agenzia bancaria della “vigilanza armata”, a fini di scoraggiamento della criminalità, in luogo della sola “doppia porta con metal detector” approntata dalla Banca).

Merita sottolineare come oltre al riconoscimento del danno biologico e del danno patrimoniale – conseguente alla grave malattia nervosa contratta dal ricorrente in conseguenza delle rapine subite dall’agenzia - la predetta decisione della Cassazione, confermando la decisione del Tribunale, ha riconosciuto al ricorrente anche il danno morale da reato. Al riguardo ha ritenuto infondata l’eccezione della difesa della Banca – secondo cui tale richiesta costituiva un nuovo petitum avanzato in sede di appello – in quanto, come correttamente ha rilevato la Corte di Cassazione, il ricorrente aveva fin dall’inizio richiesto nel ricorso “l’affermazione della responsabilità della Banca Popolare Pugliese per tutti i danni patrimoniali e morali derivanti dalla dedotta violazione dell’obbligo di sicurezza previsto dall’art. 2087 c.c.”

Ha quindi concluso la Suprema Corte sul punto, che “su tale indiscutibile presupposto si è conseguentemente determinato a condannare la stessa banca a risarcire i danni morali subiti dal lavoratore, osservando (correttamente e coerentemente con principi ripetutamente affermati dalla giurisprudenza, puntualmente richiamati nella decisione ora gravata) che non può escludersi ‘il rilievo anche penale della colpa per mancata adozione delle misure di sicurezza obbligatorie ex art. 2087 c.c., colpa posta a fondamento della responsabilità civile riconosciuta in sentenza (v. Cass. pen. sez IV 8 marzo 1988, Corbetta; Cass. pen. sez. IV 13 gennaio 1989, Marocco)’. E da siffatta premessa, lo stesso giudice di appello è pervenuto all’esatta conclusione che le lesioni colpose costituiscono proprio quella fattispecie criminosa tipica, procedibile d’ufficio, (art. 590 c.p.), che giustifica il risarcimento dei danni morali (art. 2059 c.c. e 185 c.p.)”.

E la stessa Corte di Cassazione, nella successiva decisione n. 10405 del 20 ottobre 1998 (Pres. Sommella, Rel. Coletti, inedita a quanto consta) ha statuito, con innegabile chiarezza, che: “Ai fini del risarcimento del danno morale, il giudice civile ha il potere

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Un’interpretazione, in definitiva, quella proposta ed accolta dalla prevalente giurisprudenza, in forza

del quale il sistema di tutela apprestato al fine di fare fronte al danno da reato patito dal lavoratore, sembra

potersi ritenere adeguato e forte.

4.2 Le eccezioni (comunque) alla pregiudizialità penale ex art. 10 d.p.r. 1124/1965

A prescindere dalla lettura sopra accennata in ordine alla portata e significato da assegnare alla

pregiudizialità di cui all’art. 10 d.p.r. 1124/65, la stessa norma prevede comunque alcune ipotesi in cui la

pregiudizialità, seppur interpretata nel senso più estensivo di condizione di merito all’accertamento civile, non

opererebbe per la previsione normativa di eccezione ad essa.

Si tratta in sintesi di ipotesi nelle quali al giudice civile investito della domanda risarcitoria non è mai

precluso svolgere accertamento sul fatto che abbia natura di reato.

Le prime ipotesi sono quelle di cui al co. 5 dell’articolo citato, ossia i casi in cui la sentenza penale non

sia stata pronunciata nel merito, bensì abbia dichiarato estinto il reato per morte del reo, amnistia o

prescrizione.

A ciò si aggiunga il caso del procedimento penale conclusosi con sentenza di non luogo a procedere o

decreto di archiviazione, a seguito della pronuncia interpretativa della Corte Costituzionale, sent. 118 del 24

aprile 1986, trattandosi di accertamenti “neutri” del giudice penale, che non possono precludere una autonoma

ricostruzione del fatto reato in sede civile.

4.2. (segue) La sorte dei provvedimenti definitori nei procedimenti speciali

Al di là delle espressa previsioni delle “eccezioni” normative del co.5 dell’art. 10 d.p.r. 1124/65, e di

quelle oggetto della pronuncia della Consulta alla regola della pregiudizialità penale rispetto all’accertamento

del giudice civile sul fatto (anche in astratto reato) causativo del danno patito dal lavoratore, residuano alcune

ipotesi non fatte oggetto di espressa previsione normativa, rispetto alle quali comunque è possibile proporre

una soluzione in via interpretativa e sistematica.

Si pensi ad esempio al caso del decreto penale di condanna nei confronti del datore di lavoro,

divenuto irrevocabile perché non opposto.

di accertare autonomamente se il fatto dannoso, dal quale trae origine la pretesa risarcitoria, integri gli estremi di un reato, nonostante non sia stata promossa l’azione penale nei confronti dell’autore materiale di esso, ovvero il procedimento penale sia stato definito con una declaratoria di estinzione del reato ovvero sia stato emesso un provvedimento di archiviazione della notizia di reato o di proscioglimento istruttorio”.

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Non v’è dubbio che esso debba essere equiparato agli effetti penali alla sentenza di condanna, ma –

anche secondo la tesi della pregiudizialità penale - solo quale condizione di presentazione della domanda di

risarcimento avanzata dal lavoratore al giudice civile, non potendo il decreto spiegare gli effetti previsti dall’art.

651 c.p. soltanto per la sentenza di condanna.

Quanto alla sentenza di patteggiamento per un reato a carico del datore di lavoro deve aversi riguardo

all’art. 445 c.p.p., da cui non emerge equiparazione alla sentenza di condanna di merito, con riferimento agli

effetti che quest’ultima può dispiegare nei giudizi civili. Il giudice civile, pertanto, anche in tal caso sarà libero

di valutare la sussistenza del fatto reato.

Resta infine la sentenza emessa all’esito di procedimento deciso allo stato degli atti, ossia con rito

abbreviato.

Laddove si tratti di sentenza di condanna essa non potrà che fare stato al pari della sentenza

dibattimentale nel giudizio civile, ai sensi e con gli effetti previsti dall’art. 651 c.p.p. Ciò, però, si evidenzia,

soltanto nel caso in cui la condanna abbia direttamente coinvolto il datore di lavoro per il fatto reato connesso

alla violazione della disciplina antinfortunistica, mentre nell’ipotesi in cui imputato e condannato sia stato un

soggetto diverso dal datare di lavoro, un suo dipendente e collaboratore, in quanto egli non avrà potuto

prendere parte al giudizio penale, in cui non ha cittadinanza il responsabile civile, la sentenza non potrà fare

stato nei suoi confronti nel giudizio civile instaurato dal lavoratore per il risarcimento del danno.

Nel caso di sentenza di assoluzione è invece indubbio che il lavoratore infortunato che abbia

esercitato l’azione penale in tale sede non potrà pretendere il risarcimento in sede civile, avendo accettato il

rito14.

Ultime notazioni attengono alla sentenza di non doversi procedere per difetto di querela e del perdono

giudiziale.

Nel primo caso, sia che la sentenza sia stata emessa all’esito dell’udienza preliminare, che in sede di

giudizio dibattimentale, trattandosi di pronuncia meramente processuale, non può precludere la valutazione e

qualificazione del fatto reato da parte del giudice civile.

Un’autonoma valutazione da parte del giudice civile pare invece doversi escludere a fronte di una

sentenza di non luogo a precedere per perdono giudiziale, ai sensi dell’art. 32 d.p.r. 488/1988. Tale pronuncia,

infatti, si fonda su un accertamento della penale responsabilità, di tal che sarebbe illogico negare la risarcibilità

se il fatto è stato giudicato integrare il reato.

14 Analoga soluzione secondo autorevole dottrina, vedasi Carlo Brusco in L’azione civile nel processo penale, p.796, dovrebbe

imporsi nei casi in cui il lavoratore infortunato: non sia stato posto in grado di costituirsi parte civile; o comunque non lo abbia fatto; o dopo averlo fatto non abbia accettato il rito. Si osserva infatti che: “…anche tale sentenza è assistita dall’irrevocabilità ex art. 648 c.p.p., e non si versa in alcuna delle situazioni che consentono un autonomo accertamento da parte del giudice civile.

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4.3 Gli effetti della sentenza penale di condanna e di assoluzione sul processo civile per il risarcimento del danno da reato di lavoro

Gli effetti delle sentenze penale emesse in esito al giudizio dibattimentale in un processo per reato in

materia di sicurezza sul lavoro sono disciplinate dagli artt. 651, 652 c.p.p.

Ai sensi dell’art. 651 c.p. la sentenza di condanna irrevocabile, emessa nei confronti dell’imputato, o

responsabile civile (citato o intervenuto nel processo penale), condizioni queste che possono entrambe essere

rivestite dal datore di lavoro, a seconda della singola vicenda processuale per reati di sicurezza sul lavoro, ha

efficacia di giudicato nel giudizio civile azionato per le restituzioni e il risarcimento del danno promosso nei

confronti del datore di lavoro quanto a: sussistenza del fatto; illiceità penale del fatto; affermazione che

l’imputato lo ha commesso.

Ne discende che nel giudizio civile azionato dal lavoratore leso, o dai suoi aventi diritto, laddove il fatto

illecito sia anche penalmente rilevante e sia stato accertato con condanna non dovrà più essere oggetto di

prova, al pari della riferibilità dello stesso al datore di lavoro, convenuto in giudizio. Il giudizio civile in tal caso

dovrà pertanto svolgersi per verificare quale debba essere l’entità del danno risarcibile.

All’opposto, ai sensi dell’art. 652 c.p.p. la sentenza penale dibattimentale divenuta irrevocabile che

abbia assolto il datore di lavoro, o il suo dipendente collaboratore, rispetto al quale egli abbia svolto ruolo di

responsabile civile, avrà efficacia di giudicato quanto all’accertamento che il fatto non sussiste, o che

l’imputato non lo ha commesso, o che il fatto è stato compiuto in adempimento di un dovere o nell’esercizio di

una facoltà legittima, nel giudizio civile promosso per il risarcimento del danno da parte del lavoratore

danneggiato. Il tutto, si evidenzia, a condizione però che il danneggiato (il lavoratore vittima del reato di lavoro

o i suoi prossimi congiunti) si sia costituito, o sia stato posto in condizione di costituirsi parte civile. A questo

punto la seconda parte dell’art. 652 co.1 c.p.p. aggiunge “…salvo che il danneggiato dal reato abbia esercitato

l’azione civile a norma dell’art. 75 co. 2 c.p.p.”, norma quest’ultima che costituisce la massima espressione del

favor separationis fra accertamento giurisdizionale penale e civile, prevedendo che l’azione civile può

proseguire senza essere sospesa sino all’esito del giudizio penale nel caso in cui sia iniziata in sede civile e

non sia stata trasferita in sede penale, oppure se sia iniziata quando non era più ammessa la costituzione di

parte civile.

In proposito rileva la diversa interpretazione di cui si è detto sul significato da assegnare alla

pregiudizialità penale di cui all’art. 10 d.p.r. 1124/1965.

Laddove si opti per la soluzione della sentenza come condizione di merito per l’accertamento, e

pertanto della peculiarità del sistema di pregiudizialità penale ancora vigente in tema di risarcimento del danno

da lavoro conseguenza di reato, secondo autorevole dottrina15 dovrebbe escludersi l’applicazione dell’art. 75

co. 2 c.p.p. con riferimento allo specifico settore del danno da infortunio sul lavoro costituente anche fatto

illecito penale. Al riguardo, infatti, si osserva che l’applicazione in detto settore dell’art. 75 co.2 c.p.p. deve

“…essere esclusa non potendosi svalutare il dato letterale dell’art. 10, comma 2, t.u., tuttora in vigore, in

mancanza di un intervento del legislatore o del giudice delle leggi, che porta a ritenere che la responsabilità

15 vedasi Carlo Brusco in L’azione civile nel processo penale, p.799.

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civile permanga solo a seguito di sentenza penale di condanna, salvi i casi in cui questa non possa intervenire

a causa di fattori estintivi del reato o per pronunce che non consentano un accertamento che sia assistito

dall’irrevocabilità: un opportuno intervento consentirebbe l’esercitabilità dell’azione differenziale anche nei casi

di sentenza di assoluzione che sia inopponibile per violazione del principio costituzionalmente garantito del

contraddittorio”.

La soluzione a cui giunge detta tesi è pertanto che qualora la pronuncia penale sia ancora possibile, il

processo civile dovrà essere sospeso: ovviamente ciò non accadrà se la causa estintiva del reato è maturata,

senza che occorra una formale declaratoria del giudice penale. Si aggiunge inoltre che, avuto riguardo alla

specialità che contraddistingue la normativa in materia di risarcimento del danno da infortunio sul lavoro, le

regole da essa fissate e sin qui analizzate paiono non superabili neppure laddove il lavoratore infortunato

abbia deciso di optare per agire in sede penale, mediante costituzione di parte civile, a tutela del diritto al

risarcimento del danno da fatto reato.

Diversa, come detto, la soluzione proposta dalla tesi che interpreta la sentenza di condanna come atto

di accertamento.

In tal caso il lavoratore che ha agito solo in sede civile per vedersi risarcito un danno derivante da fatto

illecito che integra anche un ipotesi di reato, da un lato potrà invocare nel giudizio civile l’autorità

dell’eventuale giudicato penale di condanna ex art. 651 c.p.p., anche laddove non abbia partecipato al

processo penale e, dall’altro lato, evitando di costituirsi parte civile, potrà addirittura tentare, anche in presenza

di un giudicato penale di assoluzione, di far accertare dal giudice civile la colpevolezza del datore di lavoro (ex

art. 75, 2° co., e 652, 2° co., c.p.p.).

Ciò appunto perché secondo detta tesi il giudice civile resta libero, in forza del principio generale di

separazione e autonomia dei giudizi, fatta eccezione che per le ipotesi di cui al 75 co.3 c.p.p., le uniche che

determinano sospensione del processo civile, di decidere a prescindere dalle decisioni che potranno essere

adottate nell’ambito del giudizio penale, o che sono state adottate

4.4 I reati di sicurezza del lavoro che legittimano l’esercizio dell’azione civile nel processo penale per reati in materia di sicurezza sul lavoro ed i soggetti legittimati

La qualità di parte processuale, ossia la possibilità di costituirsi parte civile, ai sensi dell’art. 74 c.p.p.

spetta al soggetto al quale il reato ha recato danno, ovvero ai suoi successori universali.

Nel processo penale del lavoro la vittima del “reato di lavoro” può dunque essere in primo luogo il

lavoratore che ha subito un infortunio sul lavoro16, o che ha contratto una malattia professionale17, che in tali

casi oltre che essere persona offesa – ossia titolare del bene giuridico leso, l’incolumità individuale -,

16 L’infortunio sul lavoro è l’evento traumatico, violento, che in occasione di lavoro provoca una lesione all’operatore.

17 La malattia professionale è l’evento dannosa che, correlata alla prestazione lavorativa, agisce lentamente e progressivamente sulla capacità lavorativa del soggetto assicurato.

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danneggiata, può decidere di proseguire la tutela civile del risarcimento del danno e delle restituzioni nel

processo penale, costituendosi parte civile.

Laddove l’infortunio e la malattia professionale siano invece stati causa della morte del lavoratore,

l’opzione sulla sede processuale ove perseguire la tutela del risarcimento del danno da “reato di lavoro”

spetterà ai successori universali.

Sia il lavoratore che i suoi successori universali, potranno inoltre costituirsi parte civile negli illeciti

contro l’incolumità pubblica che si connettono a violazioni cautelari in materia di sicurezza sul lavoro, mentre

la giurisprudenza ne esclude la legittimazione a costituirsi parte civile in processi per violazione delle

prescrizioni cautelari, ossia per le contravvenzioni al TUSL.

Sul punto si richiama (Cass. Pen. Sez. II, sent. 555 del 14.11.2006, cui ha fatto seguito giurisprudenza

conforme) che ha escluso che i lavoratori possono qualificarsi persone offese del reato e costituirsi parte civile

in processi per violazione di norme antinfortunistiche, nei quali “… l’interesse è quello pubblicistico volto a

pervenire situazioni di pericolo e di danno per la incolumità dei lavoratori ed anche per gli estranei che

accedono all’ambiente di lavoro” , ossia una pluralità fungibile ed indeterminata di soggetti, rispetto ai quali il

lavoratore è “… parte offesa potenziale, cioè titolare dell’interesse finale, ma non è parte offesa attuale …”.

4.5 Le categorie di danno risarcibile ed i soggetti legittimati all’azione

Affrontare il tema del danno risarcibile presuppone di fissare alcuni concetti ormai tendenzialmente

condivisi con riferimento al sistema della tutela risarcitoria della persona. Senza alcuna pretesa di

completezza, basti in proposito ricordare che la giurisprudenza ha ricostruito nelle due sentenze 31.5.2003 nn.

8827 e 8828 della Suprema Corte, la predetta tutela secondo un nuovo sistema “bipolare di danno”,

patrimoniale e non patrimoniale, il primo risarcibile ex art. 2043 cc., ed il secondo ex art. 2059 cc.

Nella categoria di danno non patrimoniale viene ricompreso ogni danno di natura non patrimoniale

derivante da lesioni di valori inerenti la persona fra cui: il “danno morale soggettivo”, inteso come turbamento

transuente dello stato d’animo della vittima; il “danno biologico”, inteso come lesione dell’interesse all’integrità

psicofisica della persona; il “danno esistenziale”, derivante dalla lesione di (altri) interessi di rango

costituzionale inerenti la persona.

A tali categorie di danno patrimoniale e non patrimoniale può quindi guardare la vittima del reato di

lavoro, laddove decida di perseguire nel processo penale, mediante la costituzione di parte civile, il

risarcimento e le restituzioni che siano conseguenza del reato medesimo ex art. 185 c.p..

Si è detto che al fine della legittimazione alla costituzione di parte civile occorre distinguere il diritto al

risarcimento iure proprio, consistente nel diritto del soggetto al quale il reato ha direttamente recato danno, dal

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Questioni sostanziali e processuali in tema di risarcimento del danno.

Il pregiudizio risarcibile: il danno differenziale.

L’azione di risarcimento in sede penale: ambiti, confini, problematiche.

foglio nr. 32 di 89

diritto al risarcimento iure successionis, che spetta solo ai successori universali del danneggiato principale che

sia venuto a mancare successivamente alla commissione dell’illecito.

In tema di legittimazione iure successionis, però, rileva evidenziare che l’art. 74 c.p.p., diversamente

da quanto avviene ai sensi dell’art. 90 co. 3° c.p.p., non distingue i casi in cui il de cuius sia venuto a mancare

in conseguenza dell’illecito oppure per altre cause.

Ne consegue che:

le facoltà ed i diritti attribuiti dalla legge alla persona offesa possono essere esercitati dai suoi prossimi

congiunti solamente se la morte della stessa è conseguente al fatto illecito (Cass. pen. sez. VI,

23.11.2006 n. 38872).

i successibili che non siano, in concreto, anche eredi, non potranno esercitare l’azione civile in sede

penale iure successionis, a meno che non siano anche “prossimi congiunti della vittima”, i quali possono

essere legittimati ad agire iure proprio per il ristoro dei danni patrimoniali e non patrimoniali sofferti a

causa della morte del congiunto (Cass. pen. sez. II, 11.4.2011 n. 14251; Cass. pen. sez. IV, 21.10.2005 n.

38809).

La legittimazione alla costituzione di parte civile spetta pertanto:

a) jure successionis nei confronti degli eredi della vittima deceduta, indipendentemente dal fatto che il

decesso sia avvenuto in conseguenza del fatto illecito o meno.

La legittimazione alla costituzione di parte civile ricade in tal caso singolarmente in capo a ciascuno di

essi.

b) ai congiunti della vittima principale, qualora dal fatto illecito abbiano riportato un danno risarcibile jure

proprio.

I successori universali

Sotto il profilo sostanziale, i successori universali del de cuius danneggiato dal reato, sono in primo

luogo i congiunti legittimari, ovvero quei familiari ai quali la legge riserva una quota di eredità. Ai sensi dell’art.

536 c.c. e ss., il coniuge, i figli e gli ascendenti legittimi, mentre la qualità di erede non viene attribuita al

coniuge al quale sia stata addebitata la separazione ed al coniuge divorziato (artt. 548 c.c. e 9 bis, 1.

1.12.1970 n. 898).

Al di là dei familiari legittimari, successori universali del de cuius danneggiato dal reato possono

essere anche gli eredi nominati tali in via testamentaria, ancorché estranei alla famiglia.

La costituzione di parte civile non rientra tra le facoltà attribuite al chiamato all’eredità ex art. 460 c.c.

In mancanza di accettazione espressa dell’eredità, la costituzione di parte civile integra pertanto, di per sé

stessa, un atto di accettazione implicita dell’eredità, sempreché non sia espressamente effettuata a tutela di

un interesse proprio.

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Questioni sostanziali e processuali in tema di risarcimento del danno.

Il pregiudizio risarcibile: il danno differenziale.

L’azione di risarcimento in sede penale: ambiti, confini, problematiche.

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La legittimazione attiva alla costituzione di parte civile da parte degli eredi del de cujus danneggiato

dal reato è esclusa nei confronti dell’indegno, sia esso o meno familiare, in quanto l’istituto dell’indegnità

esclude la qualità di erede (art. 463 c.c.)18.

I prossimi congiunti.

Si è detto che ai congiunti della vittima principale, qualora dal fatto illecito abbiano riportato un danno

risarcibile possono agire jure proprio costituendosi parte civile.

La giurisprudenza ha da tempo riconosciuto la risarcibilità del danno jure proprio nei confronti dei

prossimi congiunti, in conseguenza di un fatto illecito subito da un familiare (Cass. pen. sez. Ili, 21.7.2010 n.

28732; Cass. civ. sez. Ili, 19.1.2007 n. 1203; Cass. civ. sez. Ili, 4.6.2006 n. 13754; Cass. civ. sez. Ili,

31.5.2003 n. 8827, Gl 2004, 1129; Cass. civ. sez. Ili, 1.7.2002 n. 9556, FI 2002, 3060), ammettendo la

costituzione di parte civile per familiari più stretti (solitamente genitori, figli e coniuge) ed in generale per i

parenti conviventi.

Tale legittimazione ricorre sicuramente quando il congiunto sia deceduto in conseguenza del fatto

illecito, ma può sussistere anche nel caso in cui quest’ultimo sia sopravvissuto al reato, nel caso in cui il fatto

sia ritenuto particolarmente grave ed efferato, come ad esempio in caso di gravi reati contro l’incolumità

personale o la libertà individuale. Una simile situazione può certamente verificarsi in molti processi in materia

di lavoro, ove vengano ipotizzate condotte lesive per il lavoratore vittima di infortunio o di malattia

professionale.

Ai congiunti della vittima nel caso di decesso (ossia di “danno da morte”), spetta la possibilità di

costituirsi parte civile jure proprio per ottenere il risarcimento sia del danno patrimoniale (consistente nella

perdita dei contributi patrimoniali e delle utilità economiche che presumibilmente il lavoratore vittima avrebbe

apportato), che del danno non patrimoniale, nella suddetta triplice declinazione di danno biologico, morale ed

esistenziale. Per la prevalente giurisprudenza (Cass. S.U. 22.7.2015, n. 15350) non sarebbe però risarcibile il

c.d. danno tanatologio, ossia il “danno alla vita”19.

18 Altre situazioni particolari. Se nel corso del procedimento incidentale di archiviazione di cui agli artt. 408 c.p.p. e ss. si verifica il

decesso della persona offesa, l’erede non può succedere nella posizione sostanziale e processuale del defunto, in quanto la qualità di persona offesa è strettamente personale e correlata al rapporto processuale penale che si instaura con l’indagato e non è trasmissibile iure hereditatis. Se la persona offesa invece decede successivamente, quando abbia già provveduto a costituirsi parte civile, per ottenere il risarcimento dei danni patrimoniali e morali cagionati dal reato, si trasmette all’erede il diritto al risarcimento dei detti danni, nonché la relativa posizione processuale nel contesto dell’esercizio dell’azione civile nel processo penale (Cass. pen. sez. VI, 20.10.2002 n. 35518).

19 Il danno tanatologico rientra nella categoria del danno di natura “non patrimoniale” ex art. 2059 c.c., il cui fondamento è rinvenibile negli artt. 2 e 32 della Costituzione, ovvero nella Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo del 1948, nella Convenzione Europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali del 1950 e nel Patto internazionale sui diritti civili e politici del 1966. Il Codice del 1942 disciplinava il risarcimento del danno morale derivante da reato (ex artt. 2059 c.c. e 185 c.p.) quale compensazione pecuniaria del dolore subito. Il danno morale era, pertanto, risarcibile solo se connesso ad un danno patrimoniale. Successivamente, con la sentenza n. 88 del 26 luglio 1979, la Corte Costituzionale consentì la diffusione del concetto di danno alla persona, statuendo che la salute è un “diritto fondamentale, primario ed assoluto dell’individuo, il quale, in virtù del suo carattere privatistico, è direttamente tutelato dalla Costituzione (art. 32) e, nel caso di sua violazione, il soggetto può chiedere ed ottenere il giusto risarcimento, in forza del combinato tra il medesimo articolo costituzionale e l’art. 2059 del codice civile”. Tale sentenza ha dato il passo ad una successiva pronuncia della Consulta, n.184 del 1986, ritenuta di fondamentale importanza per l’affermazione del danno alla persona. Con la suddetta sentenza, la Corte Costituzionale ha

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Questioni sostanziali e processuali in tema di risarcimento del danno.

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Al contempo, ai prossimi congiunti è riconosciuto di poter agire jure proprio anche nei casi di infortunio

che non determini decesso del lavoratore, ma anche soltanto una grave lesione.

sancito definitivamente la summa divisio tra il danno-evento e il danno-conseguenza, facendo rientrare nella prima categoria il danno biologico, e nella seconda il danno morale subiettivo e quello patrimoniale. Per quanto riguarda il danno tanatologico si sono delineati distinti orientamenti: nella suddetta pronuncia era stata indicata la natura del danno-evento come peculiare del pregiudizio arrecato alla salute. Pertanto, il danno alla salute, subìto dai prossimi congiunti a seguito della morte del soggetto, era azionabile iure proprio. Attualmente il quadro giurisprudenziale prevalente è orientato a riconoscere l’autonoma risarcibilità del danno catastrofico e del danno biologico terminale trasmissibili iure hereditario, ma a negare la risarcibilità del danno tanatologico in sé, salvo però riconoscere e liquidare agli eredi della vittima il danno tanatologico subito per la perdita del congiunto. Le problematiche relative alla risarcibilità del danno tanatologico sono state, e sono ancora, oggetto di un vivace dibattito giurisprudenziale. L’orientamento maggioritario non condivide l’esistenza del danno tanatologico, in quanto mancherebbe un titolare del diritto al risarcimento del danno da morte, atteso che il soggetto leso è quello deceduto, ed il diritto al ristoro non sarebbe trasmissibile agli eredi. Altra parte della dottrina sostiene, invece, la configurabilità dell’esistenza di soggetti legittimati all’indennizzo, come del resto avviene nel caso di risarcimento da danno biologico riconosciuto agli eredi. Tra le tesi che negano la risarcibilità, vanno menzionate le sentenze delle Sezioni Unite n. 26972 e n. 26973 dell’11 novembre 2008, con le quali la Corte di Cassazione, dopo aver effettuato una netta separazione tra danno patrimoniale ex art. 2043 e danno non patrimoniale ex art. 2059, ha definito le varie categorie di danno biologico, danno per morte, danno esistenziale, e così via, come “descrittive”, concepite dalla dottrina come differenti estrinsecazioni del concetto di danno non patrimoniale. Secondo la Suprema Corte, il danno tanatologico puro non è risarcibile, ma lo sono i riflessi morali dell’evento lesivo sulla sfera giuridica degli eredi. In tale contesto, si inserisce la sentenza dell'8 aprile 2010, n. 8360 in virtù della quale la Corte di Cassazione, ha riconosciuto trasmissibile agli eredi il diritto al risarcimento del danno tanatologico qualora la morte del soggetto sopraggiunga immediatamente oppure a breve distanza di tempo dall’azione lesiva, in quanto l’evento lede non il diritto alla salute, ma il diritto alla vita. Spetterà al giudice, in sede di liquidazione, comprendere i danni morali subiti iure proprio dai parenti della vittima, nonché l’importo dovuto per le sofferenze psichiche subìte dalla vittima prima di morire. Pertanto, il giudice dovrà personalizzare la liquidazione dell'unica somma dovuta in risarcimento dei danni morali, tenendo conto anche del c.d. tanatologico, qualora le parti interessate ne facciano specifica richiesta. Le tesi contrarie al risarcimento del danno tanatologico sono state argomentate sulla base dell’esame della natura personale del diritto de quo. In particolare, la Corte di legittimità ha ritenuto non risarcibile “il danno da perdita della vita”, in quanto un conto sono le lesioni e le sofferenze morali collocate in un arco temporale apprezzabile, un conto è la morte stessa, che elimina ogni conseguenza pregiudizievole per il defunto, conseguenze necessarie perché si possa parlare di risarcimento. In senso restrittivo si è pronunciata la Corte di Cassazione civile, sentenza n. 15706/10 del 02/07/2010, secondo cui la lesione dell'integrità fisica con esito letale è configurabile come danno risarcibile agli eredi solo se sia trascorso un lasso di tempo apprezzabile tra le lesioni subite dalla vittima del danno e la morte; in questo caso è configurabile un danno non patrimoniale risarcibile e trasferibile agli eredi iure hereditatis. Esclude il risarcimento anche la Terza Sezione della Corte di Cassazione, con la sentenza del 24/03/2011, n. 6754, qualora il defunto non abbia avuto una lucida cosciente percezione della sua condizione. Occorre menzionare anche la sentenza n. 6273/2012, con la quale la Corte di Cassazione ha escluso la risarcibilità del danno tanatologico qualora la vittima non abbia patito alcun dolore di natura psichica, ad esempio nel caso di un soggetto in coma, rimasto in tale stato fino al decesso. In tale panorama, assume particolare rilievo la sentenza n. 1361/2014 con cui la Corte di Cassazione, per la prima volta, ha riconosciuto il diritto al risarcimento del danno da morte della vittima trasmissibile iure hereditatis agli eredi, ai quali spetterà la liquidazione dei danni statuendo che la perdita del bene della vita sia risarcibile oggettivamente ex se, trattandosi di un diritto assoluto ed inviolabile. Tale orientamento è stato superato – appunto - in senso contrario, dalla sentenza della Cassazione Civile, SS.UU., del 22/07/2015 n° 15350, nella quale è stato rilevato che, nel caso di morte immediata o che segua entro brevissimo lasso di tempo alle lesioni, non può essere invocato un diritto al risarcimento del danno iure hereditatis. In particolare, la Suprema Corte ha fondato tale pronuncia sull’argomentazione che il danno da morte non lede il bene giuridico “salute”, ma il bene “vita”, che “…è fruibile solo in natura da parte del titolare e insuscettibile di essere reintegrato per equivalente”. Pertanto, poiché nel momento in cui si verifica l’evento morte, il legittimo titolare viene a mancare, non potrebbe sussistere il diritto al risarcimento del danno tanatologico. Quanto infine al tema della “quantificazione del danno tanatologico”, deve rilevarsi che del pari si registrano numerose incertezza. In primo luogo rileva il fatto che la liquidazione del danno non patrimoniale sfugge ad una certa definizione, per cui essa viene rimessa agli apprezzamenti e valutazioni equitative del giudice. Questi dovrà tener conto delle effettive sofferenze patite dalla vittima del danno, compresa la dimensione temporale, ovvero la gravità dell’illecito da cui deriva la morte, e tutte le circostanze peculiari al caso concreto. Trattandosi di una valutazione equitativa, il giudice non sarà tenuto a dare una minuziosa elencazione di tutti gli elementi su cui si è basata la sua decisione, cercando però di procedere ad una personalizzazione dell’ammontare del danno riferita al caso concreto.

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Questioni sostanziali e processuali in tema di risarcimento del danno.

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L’azione di risarcimento in sede penale: ambiti, confini, problematiche.

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Rileva poi distinguere quali siano i familiari che agli effetti della legge penale abbiano diritto alla

costituzione di parte civile jure proprio.

Il primo riferimento è dato dall’art. 307 co. 4° c.p., che qualifica “prossimi congiunti” agli effetti della

legge penale gli ascendenti, i discendenti, il coniuge, i fratelli e le sorelle, gli affini dello stesso grado (in questo

caso, sempreché non sia morto il coniuge e non vi sia prole) e gli zii ed i nipoti.

Tale nozione però è stata ritenuta troppo ampia rispetto alle finalità alle quali è rivolta la costituzione di

parte civile. Fra di essi la giurisprudenza ha considerato legittimati il coniuge, anche se separato, ed i

discendenti. Per il coniuge separato con addebito ed il coniuge divorziato, è necessario che il giudice operi

una valutazione più circostanziata, e ciò indipendente dalla mera sussistenza o meno di aspettative

economiche. La legittimazione dei figli, od in loro mancanza degli altri discendenti, deve viceversa certamente

ritenersi pacifica, anche nel caso in cui dipenda da rapporti di adozione. Altrettanto pacifica è la legittimazione

dei genitori, indipendentemente dalla sussistenza di un legame di convivenza con la vittima principale e la

presenza o meno del coniuge o di figli. La giurisprudenza ha ammesso anche la legittimazione dei genitori

affidatari (Cass. pen. sez. IV, 27.9.2001 n. 35135, FD 2002, 277). Allo stesso modo viene ammessa la

legittimazione degli ascendenti e dei fratelli, laddove vi sia un significativo rapporto affettivo o di convivenza e

manchino altri congiunti di grado più prossimo. Lo stesso vale nei confronti degli altri parenti meno prossimi,

laddove vi sia un particolare rapporto giuridico, oltreché affettivo, come nei casi di adozione non legittimante.

Tendenzialmente nella prassi giudiziaria penale la legittimazione a costituirsi parte civile per i prossimi

congiunti non conviventi viene riconosciuta o nelle situazioni di assenza di parenti conviventi di grado più

stretto, o comunque quando abbiano subito un danno rilevante ed astrattamente evidente.

Nei processi penali del lavoro, tenuto conto del tipo ed alle circostanze relative al fatto illecito

oggettivamente perpetrato, recante offesa alla persona od altri beni giuridici rilevanti come l’incolumità

pubblica, si può registrare una maggiore apertura della giurisprudenza a giustificare la legittimazione alla

costituzione di parte civile dei prossimi congiunti. In tal senso anche la giurisprudenza che ha precisato che la

legittimazione alla costituzione di parte civile sussiste anche nei confronti dei congiunti della vittima principale

che siano stranieri residenti all’estero (Cass. pen. sez. IV, 6.2.2009 n. 5471).

Qualche considerazione ad hoc merita la situazione della convivenza more uxorio.

Sul punto si possono registrare orientamenti discordanti. La tesi prevalente ammette la possibilità di

costituirsi parte civile se si dimostra che la vittima era tenuta per legge o contratto ad una prestazione

patrimoniale a suo favore (Cass. pen. sez. I, 31.3.1994 n. 3790; Cass. pen. sez. IV, 24.8.1987 n. 9305). Rileva

in sostanza il fatto che la situazione di “convivenza” sia dotata di un minimo di stabilità, tale da non farla

definire episodica, al punto da innestarsi su di essa un’attesa di apporto economico futuro e costante, che

diviene la legittima causa petendi di una domanda di risarcimento danni proposta di fronte al giudice penale

chiamato a giudicare dell’illecito che tale lesione ha causato (Cass. civ. sez. IV, 4.10.2002 n. 33305). Secondo

un orientamento più estensivo, la lesione giuridicamente rilevante in capo al convivente more uxorio può

evidenziarsi indipendentemente dalle aspettative patrimoniali nei confronti della vittima principale del fatto

illecito, quando quest’ultimo sia stato in grado di ledere apprezzabilmente anche le sole aspettative affettive

del convivente, rimettendo poi al giudice la valutazione in concreto sul tipo, la natura, la durata del rapporto

che caratterizzano la manifestazione estrinseca della convivenza, anche in rapporto al fatto illecito perpetrato.

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Questioni sostanziali e processuali in tema di risarcimento del danno.

Il pregiudizio risarcibile: il danno differenziale.

L’azione di risarcimento in sede penale: ambiti, confini, problematiche.

foglio nr. 36 di 89

Secondo, invece, un diverso orientamento, rimasto oramai minoritario e desinato ad essere superato

definitivamente, la convivenza more uxorio non costituirebbe un legame sufficiente a legittimare la costituzione

di parte civile (Cass. pen., sez. I, 8.10.1992 n. 9708; Cass. pen. sez. IV, 27.8.1987 n. 9424, RP 1988, 253).

Nel corso degli ultimi anni la giurisprudenza si è orientata verso il riconoscimento del risarcimento del

danno jure proprio puro (Cass. civ. sez. Ili, 2.2.2001 n. 1516, GD 2001, 40; Cass. civ. sez. IlI, 1.8.1987 n.

6672, RCS 1988, 102) o verso una soluzione compromissoria con il danno jure hereditario (Cass. civ. sez.

I,30.10.1998 n. 10896; Cass. civ. sez. Ili, 10.9.1998 n. 8970, Gl 1998, 2283). Anche la Corte Costituzionale ha

riconosciuto la risarcibilità del congiunto jure proprio (Cort. cost. 27.10.1994 n. 372, FI 1994, 3297).

Di conseguenza, possono riconoscersi in capo al familiare sia istanze risarcitone jure proprio che jure

hereditario, le quali possono concorrere, alternarsi o mancare entrambe a seconda delle circostanze. La prima

consiste in una lesione che deriva dall’illecito direttamente al congiunto della vittima, mentre la seconda si

verifica quando al familiare viene trasmesso il diritto al risarcimento che sarebbe spettato alla vittima.

In entrambi i casi, il congiunto diventa parte offesa del reato, tuttavia nel primo caso il diritto al

risarcimento del danno nasce in funzione di un particolare rapporto, sempre da accertare, che lega il

congiunto alla vittima, mentre nel secondo caso si costituisce automaticamente in capo al parente, in qualità di

erede a titolo universale della vittima. Questo comporta anche conseguenze in merito alla legittimazione attiva

che nel primo caso deve sempre essere fondato su un rapporto di intensa affettività o di stabile convivenza.

Inoltre, mentre il risarcimento del danno jure proprio richiede il verificarsi di una grave lesione nei confronti

della vittima - congiunto, indipendentemente dalla sua natura (la quale costituisce il presupposto per il danno

diretto al danneggiato), il risarcimento del danno jure hereditario, per sua stessa natura richiede

necessariamente la morte della vittima.

Per quanto riguarda il danno subito dal nascituro a causa della perdita del genitore avvenuta per fatto

illecito commesso prima della sua nascita, la Cassazione Penale ha recentemente riconosciuto la

legittimazione a costituirsi parte civile. I danni di cui si discute non costituiscono danni del nascituro ma di una

persona effettivamente nata che, dal fatto illecito, compiuto anteriormente alla sua nascita (ma dopo il

concepimento) ha subito danni le cui conseguenze si manifestano successivamente alla sua nascita. Quando

si parla di danni subiti dal nascituro si sottintende quindi che sia avvenuta successivamente la nascita (Cass.

pen. 13.11.2000 n. 11625, GC 2001, 348).

Un’altra distinzione tra gli artt. 74 e 90 co. 3° c.p.p. attiene alla portata applicativa delle due norme con

riferimento ai diritti ed alle facoltà loro attribuite, nel corso del procedimento.

L’art. 90 co. 3° c.p.p. trova applicazione in tutto il corso del procedimento penale. Viceversa, il

disposto di cui all’art. 74 c.p.p. sembrerebbe presupporre che la morte del danneggiato sia avvenuta

precedentemente alla costituzione di parte civile e pertanto, che il danneggiato non abbia già provveduto a

costituirsi parte civile nel procedimento penale e non sia stato ancora aperto il dibattimento (art. 79 c.p.p.).

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Contrariamente all’ordinamento civile, il codice di rito penale non regola espressamente l’ipotesi di

successione delle parti private diverse dall’imputato nel corso del processo penale. Secondo l’orientamento

prevalente, in mancanza di specifiche norme ad hoc, trovano applicazione analogica le norme previste in sede

civile. In questo senso, troverebbe applicazione analogica l’art. 76 co. 2° c.p.p., il quale sancisce gli effetti

permanenti della costituzione di parte civile per tutta la durata del processo.

Ne deriva che il decesso della parte civile avvenuto prima della pronuncia del giudice penale sulle

richieste formulate nell’interesse di quest’ultima, non ha alcun effetto sulla validità del procedimento e quindi

sulle statuizioni disposte a favore della stessa parte civile, delle quali possono pertanto avvalersi anche gli

eredi (Cass. pen. sez. VII, 13.11.2003 n. 43478).

Al contempo, il decesso della parte civile in corso di causa non potrà essere interpretato come revoca

tacita della costituzione stessa (Cass. pen. sez. V, 2.12.2003 n. 46200). Alla morte della persona costituitasi

parte civile, non conseguono effetti interruttivi del rapporto processuale; la costituzione resta valida e gli eredi

del defunto titolare del diritto possono pertanto intervenire nel processo senza effettuare una nuova

costituzione, ma semplicemente spendendo e dimostrando la loro qualità di eredi (Cass. pen. sez. V,

23.6.2005 n. 23676).

Ciononostante in caso di morte della parte civile nel corso del procedimento penale, non è prescritta

né la citazione dell’erede, se non quando. Ciò significa che è l’erede a doversi attivare al fine di subentrare

nella posizione processuale del de cuius, nel caso in cui il dibattimento sia ancora aperto.

4.5.1 Il danno differenziale

Si è anticipato che dalla disciplina sull’assicurazione obbligatoria per gli infortuni sul lavoro discendo

conseguenze anche in punto di misura del risarcimento avanzato dal lavoratore vittima del reato di lavoro.

In particolare, una volta risolto il problema della pregiudizialità dell’accertamento penale sul fatto reato,

e fermo restando gli effetti che le pronunce penali possono avere in sede civile in ordine all’accertamento del

fatto lesivo, al lavoratore che si veda riconosciuto il diritto ad ottenere il risarcimento del danno spetterà

soltanto il c.d. danno residuale o differenziale, ossia la liquidazione di un quantum che rappresenti la misura

eccedente del danno provato rispetto all’indennizzo già liquidato dall’INAIL.

Il giudice civile pertanto – tenuto conto che di fatto sul punto il processo penale non riesce mai a

provare anche l’esatta quantificazione delle diverse voci di danno, limitandosi la sentenza ad una condanna

generica, al più corredata da provvisoria esecutività – dovrà operare il raffronto tra l’ammontare complessivo

del risarcimento per il danno patrimoniale e non, e quello delle indennità già liquidate dall’ente assicuratore in

ragione dell’infortunio.

La ratio sottesa a tale regola appare facilmente intuibile, volendosi evitare ipotesi di ingiustificata

locupletazione da parte del lavoratore infortunato o degli altri aventi diritto, che in relazione al medesimo

infortunio percepirebbero sia le indennità, che il risarcimento dell’ intero danno.

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5 Problematiche in tema di integralità ed effettività del risarcimento del danno da reato di lavoro

Osservare la pretesa risarcitoria del danno da lavoro dall’angolo visuale del processo penale

suggerisce alcuni spunti di riflessione sull’operatività di istituiti regolamentati dal codice di rito, o comunque

sugli effetti che su di essi si possono produrre in seguito al verificarsi di fatti che prescindono dal processo (e

avvengono fuori di esso).

Si tratta di situazioni diverse tra di loro, e comunque accomunate dal minimo comune denominatore di

poter incidere sulla garanzia di integralità ed effettività della pretesa risarcitoria.

Di seguito si tratteranno in particolare le questioni connesse: 1) agli effetti degli accordi transattivi

stipulati fuori dal processo penale (e prima di esso) sulla legittimazione a fare valere in sede penale la pretesa

risarcitoria; 2) alla possibilità per l’imputato che abbia risarcito il danno di vedersi riconosciuta l’attenuante

speciale di cui all’art. 62 n.6) c.p.; 3) il ricorso al sequestro conservativo a tutela della garanzia di integralità

della pretesa risarcitoria del lavoratore danneggiato; 4) la condanna generica e la provvisionale.

5.1 Gli accordi transattivi e la loro efficacia preclusiva sull’azione per risarcimento del danno

Una volta evidenziato che l’interesse che muove la costituzione della parte civile è quello di

perseguire il risarcimento dei danni, patrimoniale e non, che siano conseguenza del reato, rileva verificare

quale effetto possa svolgere la stipula di accordi transattivi fra le parti del rapporto illecito, ossia indagato e

imputato da un lato, ed eventualmente responsabile civile (dopo l’esercizio dell’azione penale) e, dall’altro, la

vittima del “reato di lavoro”, infortunato e prossimi congiunti.

Il tema assume una peculiare rilevanza nelle vicende illecite che traggono origine dalla violazione

della disciplina antinfortunistica, nelle quali viene colpiscono la parte debole, il lavoratore, del vincolo

sinallagmatico.

La condizione di squilibrio fra le parti, connaturata proprio alla specifica tipologia del rapporto

contrattuale, rende essenziale svolgere una verifica pregnante sul contenuto dell’accordo e sull’esatto confine

delle rinunce che da esso sovente discendono, onde evitare che con essi venga travolta la garanzia di

integralità ed effettività del diritto riconosciuto dall’ordinamento al risarcimento del danno alle vittime di reato di

lavoro.

La giurisprudenza di legittimità si è occupata della portata di accordi transattivi e della loro efficacia a

precludere l’azione civile - o la prosecuzione di essa - in sede penale.

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Questioni sostanziali e processuali in tema di risarcimento del danno.

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L’azione di risarcimento in sede penale: ambiti, confini, problematiche.

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Almeno due appaiono le questioni di maggior interesse ossia, da una parte quella relativa alla portata

soggettiva dell’accordo transattivo e, dall’altra, quelle che ottengono all’interpretazione della portata

contenutistica della rinuncia.

Sotto il primo profilo, rileva segnalare che vi possono essere casi in cui l’accordo transattivo sia stato

raggiunto, anche in corso di processo , fra la parte civile ed un soggetto estraneo al processo, ma comunque

parte del rapporto di lavoro. É il caso, ad esempio, in cui l’imputato sia un soggetto cui il TUSL attribuisca

specifici obblighi di sicurezza, quale il coordinatore per la sicurezza nel cantiere, mentre quest’ultimo sia

riferibile alla gestione di una persona giuridica, non “chiamata” nel processo neppure come responsabile civile.

Il tema che può porsi in dette ipotesi - qui richiamato a titolo meramente esemplificativo e prescindendo da un

analisi di dettaglio delle molteplice variabili che la fenomenologia pratica, e i processi di lavoro, conoscono in

concreto - è quello se a fronte dell’intervenuto accordo transattivo fra la parte civile e la società titolare del

cantiere ove si è verificato l’infortunio sul lavoro, gli effetti di esso possano estendersi anche all’imputato, così

precludendo alla parte civile di continuare nel processo penale a perseguire il diritto al risarcimento del danno

da reato a lui imputato.

La soluzione sembra risiedere nel disposto dell’art. 1304 c.c. , a mente del quale la “… transazione

fatta dal creditore con uno dei debitori in solido non produce effetto nei confronti degli altri, se questi non

dichiarino di volerne profittare”.

Nel caso che si è sopra esposto, all’imputato deve assegnarsi agli effetti civili, il ruolo di debitore in

solido con la società gestrice del cantiere, luogo di lavoro in cui si è verificato l’infortunio sul lavoro per cui vi è

processo penale. Proprio nell’ottica di garantire piena, e comunque effettiva ed integrale soddisfazione alla

pretesa risarcitoria della vittima di lavoro che abbia agito in sede penale, la giurisprudenza di legittimità ha in

tali casi interpretato in modo rigoroso il significato dell’inciso “… dichiarino di volerne profittare”, stabilendo che

detta dichiarazione seppur non sia soggetta a particolare forma, né a termini di decadenza, potendo anche

essere contenuta sia in un atto giudiziario, che extragiudiziale nel caso del procedimento, deve essere

esplicita, non ritenendo sufficiente la mera enunciazione che l’accordo - stipulato fra la parte civile e un terzo

debitore in solido -, sia di per sé idoneo a far conseguire alla prima il risarcimento del danno, con ciò

implicitamente manifestando la volontà di profittare, ex art. 1304 cc., degli effetti di quella transazione (sul

punto vedasi Cass. pen., Sez IV, sent. 26664 del 30.6.2009).

La seconda questione attiene alle problematiche connesse all’interpretazione del contenuto

dell’accordo transattivo e, per l’effetto, alla portata degli effetti che da essi possono discendere sulla

costituzione della parte civile.

Ancora una volta sembra di poter affermare che la giurisprudenza di legittimità individui come criterio

risolutivo quello della necessaria soddisfazione integrale della pretesa risarcitoria della vittima del reato di

lavoro.

Esemplificativo è un caso deciso dalla Suprema Corte avente ad oggetto un infortunio sul lavoro

occorso al dipendente di una società, che, nell’atto di effettuare operazioni di pulizia in un reparto di

lavorazione, veniva colpito da una parte di un macchinario spostatosi dal piano ove si trovava, in quanto non

adeguatamente bloccato, per poi precipitare dall’alto per assenza di presidi anticaduta. Per il fatto lesivo

riportato dal lavoratore venivano tratti a giudizio il preposto del reparto, titolare della posizione di garanzia e

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quindi gravato dall’obbligo di attuare nel caso specifico le misure necessarie a garantire la sicurezza dei

macchinari durante le operazioni di pulizia, ed il titolare datore dell’impresa di ponteggi dal quale era caduto il

macchinario a causa dell’assenza di presidi di sicurezza anticaduta. I due imputati venivano condannati sia in

primo grado che in appello. Avversa quest’ultima sentenza proponevano ricorso per cassazione deducendo,

fra gli altri punti, la violazione ed errata applicazione della legge con riferimento alla condanna solidale al

risarcimento del danno. Veniva in particolare lamentato che la Corte di Appello avrebbe disatteso l’efficacia

negoziale dell’atto di transazione sottoscritto dalla parte offesa con cui quest’ultima testualmente rinunciava “

… anche ad eventuali azioni penali di responsabilità intraprese (querela) in merito all’infortunio occorsogli in

data 9 marzo 2001”.

Significativo appare il passaggio argomentativo con cui la Suprema Corte ha rigettato il ricorso sul

punto specifico. In particolare osservano i giudici di legittimità che anche laddove nel caso di specie vi sia

stata remissione di querela, tale circostanza di per sé non implica rinuncia al risarcimento del danno. La

transazione fra le parti, infatti, aveva avuto ad oggetto soltanto la questione lavoristica, ossia nel caso

concreto la revoca del licenziamento del lavoratore persona offesa del reato, e la risoluzione delle

conseguenti vertenze economiche, ma non le questioni risarcitorie connesse al danno, patrimoniale e non,

conseguenza del reato. In sostanza, una transazione con la quale il lavoratore rinuncia al profilo penale e

lavoristico della vicenda, e non anche all’aspetto civilistico e risarcitorio, rispetto al quale il ricorrente non ha

fornito prova di un integrale soddisfazione delle pretese connesse alle lesioni patite dal lavoratore (vedasi

Cass. pen., Sez. IV , sent. 308999 del 3.8.2010).

Ancora una volta, dunque, un’interpretazione volta a garantire effettività ed integralità al diritto a

perseguire civilisticamente, anche in sede penale, la pretesa di risarcimento del danno patito dal lavoratore.

In punto di interpretazione del contenuto degli accordi transattivi stipulati in relazione a vicende

connesse ad infortuni sul lavoro fonte di responsabilità penale, appare rilevante fare riferimento anche ad una

vicenda processuale complessa, seppur non ancora approdata in sede di legittimità, che si connota per profili

di assoluta peculiarità. Il caso è quello che ha tratto origine da un incendio che il 1.12.2013 ha distrutto la

sede produttiva di una confezione tessile gestita in forma di impresa individuale, ed in cui hanno perso la vita a

causa di intossicazione da fumi di monossido e cianuri sette operai cinesi, tutti impiegati a nero, e cinque dei

quali clandestini. All’esito delle indagini preliminari che consentivano di ricostruire la dinamica dell’evento

incendio e dell’infortunio sul lavoro (tutti gli operai venivano sorpresi dalle fiamme e dalla rapida diffusione dei

fumi mentre dormivano in piccoli vani di un dormitorio realizzato abusivamente all’interno del sito produttivo),

e di riferire soggettivamente le responsabilità ai gestori di fatto dell’attività di lavoro e, limitatamente alle

contestazioni colpose (omicidio plurimo aggravato e incendio aggravato), anche proprietari dell’immobile per

aver concesso in locazione il bene nella consapevolezza degli interventi edilizi abusivi e pertanto dell’uso

promiscuo che il conduttore avrebbe fatto dell’ambiente, sia a fini abitativi che lavorativi, veniva esercitata

l’azione penale nella forma della richiesta di emissione del giudizio immediato anomalo, ossia cautelare (nei

confronti di tutti gli indagati era stata infatti disposta misura dal gip confermata dal riesame). Dopo la notifica

del decreto di giudizio immediato gli imputati optavano per una diversa definizione, da un lato, gli imputati

cinesi datori di lavoro richiedevano di essere giudicati nelle forme del sito abbreviato e, dall’altro, gli imputati

italiani proprietari accedevano al sito ordinario. Per tale ragione in primo grado venivano emesse due distinte

sentenze, la prima del GUP, e la seconda, del Tribunale in composizione monocratica in esito al giudizio

dibattimentale.

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Ai fini che qui rilevano interessa evidenziare come sia gli imputati giudicati nelle forme del rito

abbreviato, sia quelli sottoposti al rito ordinario, hanno proposto eccezione alla costituzione delle parti civili,

parenti delle vittime decedute. Punto nodale dell’opposizione è stata proprio la constatazione della già

intervenuta soddisfazione delle pretese risarcitorie, assicurata prima ancora dell’inizio del giudizio alle

costituende parti civili, in esito ad accordi transattivi intercorsi con le imputate cinesi. Sia nel giudizio

abbreviato, che in quello dibattimentale, gli imputati chiedevano ed ottenevano la produzione di un accordo

transattivo concluso in Cina fra gli imputati datori di lavoro e almeno un parente in rappresentanza di ciascuno

nucleo familiare di ognuno degli operai deceduti. Con tale accordo i datori di lavoro di fatto, prima ancora

addirittura che nei loro confronti venisse eseguita ordinanza di custodia cautelare, ed esercitata azione penale,

corrispondevano ad ogni nucleo familiare degli operai deceduti una somma di denaro in valuta cinese,

corrispondente a circa centodiecimila euro. A fronte di tale erogazione, espressamente a titolo di risarcimento

del danno conseguente all’infortunio sul lavoro, i parenti delle vittime, in proprio, ed in alcuni casi

qualificandosi come procuratori speciali di altri appartenenti al nucleo, sottoscrivevano un atto in cui

testualmente rinunciavano “ … a perseguire civilmente e penalmente in Italia e in Cina la ditta Teresa Moda

(ndr. questo il nome dell’impresa) ed il proprietario”.

Ebbene, sia la sentenza pronunciata dal GUP in esito alla celebrazione del rito abbreviato, che quella

del Tribunale monocratico del dibattimento, hanno valutato l’efficacia “liberatoria” del negozio transattivo.

Il GUP ha affrontato la questione solo in punto di effettività e integralità del risarcimento.

Nel giudizio abbreviato, infatti, si sono costituiti soltanto parenti di alcune delle vittime che non

risultavano aver preso parte all’accordo transattivo in Cina, né personalmente, né perché rappresentati da

procuratore speciale. Nei loro confronti, pertanto, il GUP ha dapprima verificato la sussistenza della

legittimazione attiva, risolvendola positivamente in quanto riconosceva trattarsi di soggetti che avevano

documentato mediante dichiarazione delle autori consolari cinesi il rapporto di parentela con gli operai

deceduti - e, come tali componenti della cosiddetta “famiglia nucleare”, a prescindere dal requisito di

convivenza (nel caso di specie anzi escluso perché vivevano in Cina) e, successivamente, li ha riconosciuti

titolari di un diritto al risarcimento del danno non patrimoniale da uccisione del congiunto, che trova come noto

tutela risarcitoria nell’alveo dell’art. 2059 cc..

A fronte di tale pretesa risarcitoria ha poi concluso che quanto oggetto dell’accordo transattivo e delle

somme già versate in Cina, a favore del “nucleo familiare” del congiunto deceduto nell’infortunio sul lavoro,

non poteva certamente considerarsi “satisfattivo”, oltre che non efficace nel processo in Italia la “clausola

liberatoria” contenuta nell’accordo stipulato in Cina, a maggior ragione senza che fra i rinuncianti vi fossero le

parti civili costituite.

Parzialmente diversa la questione che è stato chiamato a dirimere il giudice del dibattimento. Dinanzi

a lui si sono costituite parti civili non solo soggetti che non avevano preso parte agli accordi transattivi in Cina,

ma anche parte di questi, sul presupposto che la loro rinuncia all’azione civile in Italia, anche eventualmente in

sede penale, doveva ritenersi operante nei confronti dei gestori e datori di lavoro di fatto cinesi dell’impresa

incendiata, e non con riguardo invece alla proprietà dell’immobile, nei confronti della quale, solo

successivamente all’accordo, erano emerse ipotesi di responsabilità penale, soggettivizzate a carico degli

imputati, per aver posto in essere condotte colpose autonome ed indipendenti ma casualmente collegate al

verificarsi dell’incendio e delle morti.

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Il percorso decisionale del giudice del dibattimento è stato articolato ed ha finito per riconoscere diritto

al risarcimento del danno soltanto ad alcune delle parti costituite. Degli accordi transattivi è stata chiesta

produzione nel fascicolo del dibattimento e gli stessi sono stati tradotti dalla lingua cinese. Alle parti civili

costituite, introdotte in giudizio anche come testimoni persone offese, è stato chiesto di riconoscere la

paternità delle dichiarazioni di rinuncia inserite nell’accordo transattivo. Il giudice ha qualificato le dichiarazioni

come manifestazioni di volontà di remissione di debito ai sensi dell’art. 1236 c.c., per la quale il nostro

ordinamento non prevede alcuna forma specifica ai fini di validità e della prova. Ha poi rilevato come ai sensi

dell’art. 1304 cc., la remissione a favore di uno dei debitori in solido libera anche gli altri debitori, salvo che il

creditore abbia riservato il suo diritto verso gli altri. Nella vicenda di specie, ha osservato quindi il Tribunale, i

prossimi congiunti degli operai deceduti in quanto danneggiati, e quindi creditori, avrebbero rimesso il debito in

favore dei datori di lavoro cinesi, che in quanto coimputati dei proprietari dell’immobile luogo di lavoro, erano

da considerarsi con questi coobbligati (condebitore in solido). In assenza di riserva nei confronti di quest’ultimi

coobbligati, appunto gli imputati proprietari, anche questi ultimi dovevano considerarsi liberati al pari del

debitore destinatario della espressa remissione del debito.

In definitiva, prescindendo da questioni in ordine alla validità della procedura per la legalizzazione

delle dichiarazioni ivi in questione (gli imputati avevano rilevato che si trattasse di atti privati privi di

“legalizzazione”, questione ritenuta non rilevante in quanto tale procedura avrebbe in astratto potuto

riguardare solo in caso di l’atto formato all’estero da autorità estere che debba produrre effetti in Italia),

superate in ossequio al principio della libertà delle forme con cui poter manifestare la volontà di remissione del

debito, il Tribunale ha ritenuto di escludere il diritto al risarcimento del danno a tutte le parti civili costituite che

risultavano aver partecipato all’accordo transattivo in Cina, sottoscrivendo in proprio e in quanto procuratore

speciale di altri parenti. Il diritto al risarcimento pieno ed effettivo, in conseguenza del fatto reato per cui gli

imputati sono poi stati condannati, è stato quindi riconosciuto soltanto in favore delle parti costituite che non

veniva resa la dichiarazione unilaterale di rinuncia, ossia di remissione del debito.

Una scelta, in conclusione, quelle compiuta nel caso di specie dal Tribunale, che facendo ricorso alla

suddetta interpretazione formale, ha in tal caso disatteso il criterio della verifica della effettività e integralità del

diritto al risarcimento del danno da reato di lavoro.

5.2 Il risarcimento del danno e l’attenuante ex art. 62 n.6) c.p.

L’art. 62 1° co n. 6) c.p. prevede fra le ipotesi di attenuanti generiche il caso in cui l’imputato abbia “…

riparato prima del giudizio, interamente il danno, mediante il risarcimento di esso e, quando sia possibile,

mediante le restituzioni …”.

La norma può trovare applicazione anche con riferimento ai processi per reati in materia di sicurezza

sul lavoro. Non è raro il caso in cui nel corso del procedimento si verifichi l’intervenuto risarcimento del

danneggiato da reato di lavoro, sia esso il lavoratore infortunato, o in caso di morte dello stesso i suoi prossimi

congiunti. Sovente ciò accade quando la vittima di lavoro, persona offesa e danneggiata, si è già costituita

parte civile.

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L’azione di risarcimento in sede penale: ambiti, confini, problematiche.

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Rileva in tali casi capire a quali condizioni la giurisprudenza ancori la possibilità che il giudice del

processo riconosca la sussistenza dell’attenuante per l’imputato del reato commesso con violazione della

disciplina antinfortunistica.

Sul punto rileva innanzitutto evidenziare come la giurisprudenza sia ferma nel richiedere una puntuale

e pregnante verificare della sussistenza nel caso concreto di tutte le condizioni previste dalla legge.

In primo luogo è necessario che il risarcimento sia volontario e antecedente al giudizio di primo grado,

cioè avvenga in una fase antecedente alle formalità di apertura del dibattimento di primo grado (vedasi Cass.

Pen. , Sez. IV sent. 36249 del 27.8.2014). In detta fase, è evidente, il danneggiato si sarà già costituito parte

civile laddove abbia deciso di optare di percorrere nel processo penale il risarcimento del danno; ciò sarà

accaduto o nel corso dell’udienza preliminare (laddove tale fase processuale sia prevista per il tipo di reato

oggetto di procedimento, ad esempio l’omicidio colposo con violazioni antinfortunistiche, o l’omissione dolosa

di cautele antinfortunistiche), oppure negli atti preliminari nel giudizio a citazione diretta (ad esempio nei casi di

lesioni colpose con violazioni della disciplina antinfortunistica).

In secondo luogo, la riparazione del danno deve essere integrale ed effettiva. É questo il passaggio

che ha maggiormente costituito oggetto di dibattito giurisprudenziale. La giurisprudenza di legittimità ha

sottolineato come l’attenuante di cui all’art. 62 n. 6) c.p. è soggettiva quanto agli effetti ai sensi dell’art. 70 c.p.,

ma è oggettiva quanto al suo contenuto. Nel conflitto di interessi fra autore del fatto reato e vittima, la

prevalenza deve cioè sempre riconoscersi a quest’ultimo, di tal che non rileva tanto il comportamento

espressivo di un sicuro ravvedimento dell’imputato, quanto la verifica in concreto che il riconoscimento sia

integrale per la vittima, ossia ne soddisfi la pretesa in via esclusiva, garantendone un riequilibrio patrimoniale

pieno (si osserva in proposito che neppure il più evidente tra gli indici di ravvedimento, quale in astratto

potrebbe essere il trasferimento pieno e spontaneo dei suoi beni da parte dell’imputato datore di lavoro, o

comunque responsabile del reato di lavoro sottoposto a processo, potrebbe essere sufficiente al

riconoscimento dell’attenuante laddove il “riequilibrio patrimoniale” per la vittima non fosse pieno) (così vedasi

Cass. pen., Sez. IV, sent. 18470, del 5.5.2014).

Ciò detto, la giurisprudenza di legittimità è altresì concorde nel sottolineare che le modalità per

garantire l’integrale “riequilibrio patrimoniale” della vittima del reato di lavoro sono il risarcimento e, laddove

possibile, insieme anche le restituzioni, in quanto la norma non pone fra risarcimento e restituzione una

condizione alternativa (non utilizzando la norma la disgiuntiva “o”), bensì le configura come cumulative

(utilizzando la congiunzione “e”). Il risarcimento, poi, come è ovvio, dovendo essere ancorato alla riparazione

del danno risarcibile, obbligherà al risarcimento sia del danno patrimoniale che non patrimoniale, come si

desume dal combinato disposto dell’art. 185 c.p., 2043 – 2059 c.c..

Rilevante è la questione della prova del risarcimento. Proprio perché la ratio della norma è quella

poc’anzi esposta di garantire effettività all’integrale riequilibrio patrimoniale della vittima del reato, la

giurisprudenza di legittimità è ferma nell’affermare che la valutazione dell’attenuante in concreto spetta

d’ufficio al giudice penale. Da qui, le decisioni che non hanno ritenuto sufficiente la mera dichiarazione della

persona offesa (eventualmente costituitasi parte civile) di essere stata risarcita, senza alcuna indicazione circa

il relativo ammontare, in modo da non consentire al giudice in controllo sull’effettività del “riequilibrio”

conseguito (vedasi Cass. pen. Sez. IV, sent. 45131). Per gli stessi motivi, non è stata ritenuta sufficiente la

mera attestazione di pagamento di una somma in favore degli “aventi diritto”, impersonalmente rappresentati

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L’azione di risarcimento in sede penale: ambiti, confini, problematiche.

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da un procuratore (vedasi Cass. pen, Sez. IV , sent. 4344 del 2.2.2016). Discusso è invece – e l’orientamento

al riguardo non è pacifico - se l’imputato possa vedersi riconosciuto l’attenuante nel caso in cui la vittima del

reato lavoro abbia ottenuto integrale riequilibrio patrimoniale del danno patito in conseguenza del reato per

effetto del risarcimento del danno effettuato dalla compagnia assicuratrice del datore di lavoro, in virtù di un

contratto stipulato da quest’ultimo.

5.3 Il sequestro conservativo a tutela della pretesa risarcitoria

Esempio concreto di come la completezza dell’indagine penale di cui si dirà nel dettaglio in prosieguo

possa giovare in concreto alla vittima del reato di lavoro costituitasi parte civile è costituita dall’applicazione

dell’istituto del sequestro conservativo.

Ai sensi dell’art. 316 c.p.p., infatti, il pubblico ministero “…in ogni stato e grado del processo di merito”

può chiedere al Giudice il sequestro conservativo. Condizione preliminare è quindi che vi sia stato esercizio

dell’azione penale, in quanto è esplicito il riferimento al “processo”, fase procedimentale che si instaura

appunto dopo l’esercizio dell’azione penale. Oggetto del sequestro conservativo, ai fini che qui interessano,

possono essere i “…beni mobili e immobili dell’imputato e delle somme e cose a lui dovute nei limiti in cui la

legge ne consente il pignoramento”.

La domanda di sequestro può essere avanzata anche dalla parte civile nei casi in cui vi sia “fondata

ragione”, ossia il periculum in mora, che “…manchino e si disperdano…” le garanzie delle obbligazioni

derivanti dal reato.

I beni in tal caso aggredibili possono essere sia quelli dell’imputato, che del responsabile civile.

Rileva evidenziare che la giurisprudenza di legittimità (Cass. Sez. Un. , 25.9.2014, n. 51660) ha

precisato che ai fini dell’adozione del provvedimento di sequestro è “… sufficiente che vi sia il fondato motivo

per ritenere il manchino le garanzie del credito, ossia che il patrimonio del debitore sia attualmente

insufficiente per l’adempimento delle obbligazioni … non occorrendo invece che sia simultaneamente

configurabile un futuro depauperamento del debitore”. Anche la giurisprudenza successiva (Cass. Pen., Sez.

IV, Sent. n. 29919 del 13.7.2015) ha i due eventi richiesti dall’art. 316 c.p., “manchino” e “disperdono”, rilevano

autonomamente, in forza della formula disgiuntiva, non dovendo perciò ricorrere entrambi.

In tal senso si intuisce come nel processo penale del lavoro possa essere fondamentale al fine di

garantire piena ed effettiva tutela alla vittima del reato di lavoro e/o ai suoi prossimi congiunti, la completezza

dell’investigazione. In esito all’esercizio dell’azione penale, soprattutto per fatti gravi di offesa o ad una

pluralità di persone fisiche, titolari del bene dell’incolumità individuale e della vita, o di entrambi (si pensi alle

ipotesi di cui all’art. 589 I – II – IV co c.p.p.), alternativamente o cumulativamente (nei casi di concorso formale

e di continuazione) con delitti di offesa all’incolumità pubblica (ad esempio l’art. 437 I – II co c.p.), è concreta la

possibilità di compiere una prognosi di rischio sulla capacità del patrimonio dell’imputato di garantire le

obbligazioni derivanti dal reato, ossia il risarcimento dei danni dovuti alle parti civili costituite, per il caso della

sua eventuale condanna.

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In tale situazione può quindi verificarsi in concreto l’interesse della parte civile a chiedere il sequestro

conservativo.

La giurisprudenza di legittimità sottolinea che il Giudice richiesto deve in tal caso compiere un giudizio

prognostico sulla capacità di conservazione o meno della garanzia patrimoniale del debito imputato. Tale

prognosi avrà ad oggetto, come detto, in modo autonomo fra di loro la situazione della “mancanza di garanzie”

e quella della “dispersione” delle garanzie. Il pericolo di dispersione, inoltre, sarà poi rilevante non solo quando

scientemente sia stato procurato dall’imputato (come nel caso in cui compia atti di discussione non giustificati

economicamente del proprio patrimonio), ma anche quando sia conseguenza di ragioni indipendenti dalla

propria volontà, e nel compiere tale giudizio di prognosi il giudice ben potrà poi tenere conto di “indici di

allarme inequivoci”, quali sono ad la permeabilità del patrimonio nelle società di persone, o l’assenza di una

copertura assicurativa.

Ebbene, proprio in previsione di offrire al giudice destinatario della domanda di sequestro tutti gli

elementi fattuali, gli “indici di allarme inequivoci” (così testualmente ad esempio Cass. Pen., Sez. IV, sent.

36365 del 28.8.2014), essenziali per decidere, risulta fondamentale la completezza dell’investigazione

condotta dal pubblico ministero sia nella fase antecedente alla chiusura delle indagini, con successivo

deposito delle risultanze degli elementi di prova raccolti, sia successivamente all’esercizio dell’azione penale,

ai sensi dell’art. 430 c.p.p. nella forma di indagine suppletiva.

I profilo di completezza dovranno avere ad oggetto non solo la compiuta ricostruzione dell’evento

lesivo e dei profili di riferibilità soggettiva della condotta, ma anche gli aspetti che attengono allo specifico

profilo del soggetto responsabile, colui nei confronti del quale è stato elevato addebito con l’esercizio

dell’azione penale. Gli strumenti che in tal caso rilevano sono in particolare quelli che mirano a ricostruire la

situazione patrimoniale dell’imputato, ad esempio gli accertamenti patrimoniali, verifiche che purtroppo

sovente non vengono coltivate dal pubblico ministero in procedimenti come quelli relativi ai reati in materia di

sicurezza del lavoro, neppure nei fatti più gravi di danno procurato alla vita, all’incolumità individuale ed a

quella pubblica, anche perché solitamente costituiscono espressione del bagaglio di competenza investigativa

“specialistica” tipica delle forze di polizia che si occupano di reati economici e fiscali, e che invece esulano dal

tradizionale perimetro dell’accertamento tipico degli organi di polizia che svolgano attività di vigilanza sui

luoghi di lavoro.

É proprio per tale ragione che sarà fondamentale in tali casi il ruolo del pubblico ministero, chiamato a

coordinare, anche stimolandole, investigazioni specializzate condotte da forze di polizie diverse tra loro, che

operino all’unico fine di addivenire ad un’affermazione giurisdizionale in ordine ad una ipotizzata violazione di

reato, con l’obiettivo che da essa, per il caso di riconoscimento della responsabilità dell’imputato, possa

discendere non solo l’applicazione di una pena, ma anche l’effettiva soddisfazione del diritto della vittima del

reato a vedersi riconosciuto il diritto al risarcimento del danno patrimoniale e non patito in conseguenza del

reato.

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5.4 Condanna generica e provvisionale

In caso di decisione di condanna, il giudice penale è chiamato a decidere anche sulla domanda di

risarcimento e restituzione proposta dalla parte civile (538 co. 1 c.p.p.). Quando poi il giudice penale pronunci

condanna dell’imputato al risarcimento del danno, deve altresì provvedere alla liquidazione, salvo che sia

prevista la competenza di altro giudice (538 co.2 c.p.p.).

Ciò vale in termini generali per ogni pretesa risarcitoria civile azionata in sede penale. Altrettanto deve

dirsi per l’azione civile proposta nel processo penale per reato di lavoro.

Il giudice penale in veste di giudice della liquidazione del danno da risarcire fa ricorso ai medesimi

criteri utilizzati in sede civile. Ad esempio, al fine di procedere alla quantificazione del danno non patrimoniale

risarcibile, egli fa normalmente ricorso alle tabelle predisposte dal Tribunale di Milano. É noto che la

giurisprudenza di legittimità ha affermato che dette tabelle per la liquidazione del danno non patrimoniale

derivante da lesione all’integrità psicofisica costituiscono un valido e necessario criterio di riferimento ai fini

della valutazione equitativa ex art. 1226 c.c., ed ha ammettesso l’impugnazione avverso le situazioni civili, per

violazione di legge, nell’ipotesi in cui si contesti che il giudice del merito non abbia fatto applicazione del

criterio di liquidazione fissato dalle tabelle, (vedasi Cass. Pen. , Sez. IV, sent. 27162 del 30.6.2017). Al

contempo, sempre la Suprema Corte di recente ha ribadito che dette tabelle non escludono in concreto il

potere del giudice di verificare se la liquidazione del danno non patrimoniale riesca nel caso concreto a tenere

conto di tutti i profili di danno non patrimoniale, in particolare il “danno esistenziale”, ossia l’alterazione e il

cambiamento della personalità del soggetto che si estrinsechi in uno sconvolgimento dell’esistenza. Laddove,

infatti, tali profili di danno relativi agli aspetti relazionali dell’infortunato e dei prossimi congiunti non siano

integralmente “riequilibrati” dalla liquidazione secondo i criteri delle tabelle citate, il giudice è chiamato a

procedere alla cosiddetta “personalizzazione” del danno patrimoniale, per ricomprenderli nella liquidazione

(vedasi Cass. Pen, Sez. IV, sent. 3802 del 27.1.2015).

Nella prassi dei processi penali in genere, ed in particolare in quelli in cui si deve giudicare della

responsabilità per reati in materia di sicurezza di lavoro, cui si collega anche una domanda di risarcimento

danni per l’infortunio sul lavoro, accade spesso che il giudice penale non sia in possesso di prove che gli

consentano una liquidazione del danno.

In tal caso, egli ai sensi dell’art. 539 co.1 c.p.p. potrà pronunciare “condanna generica”, rimettendo le

parti davanti al giudice civile per l’esatta determinazione del quantum di danno risarcibile, fermi restando la

necessità per quest’ultimo di limitare la determinazione finale del risarcimento al danno differenziale.

Al fine di pronunciare la “condanna generica” al risarcimento dei danni, il giudice dell’offesa criminale

non è tenuto ad espletare accertamenti in ordine alla concreta esistenza del danno risarcibile, potendo limitare

il suo accertamento alla potenziale capacità lesiva del fatto dannoso (Cass.pen. Sez IV sent. 3807 del

27.1.2015).

Ed ancora. La “condanna generica” al risarcimento dei danni in favore del lavoratore o dei suoi

prossimi congiunti in favore dei quali sia già stata disposta la rendita INAIL deve parimenti considerarsi

legittima, sia per il valore indennitario della rendita, come tale non connotata da una funzione di integrale

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Questioni sostanziali e processuali in tema di risarcimento del danno.

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L’azione di risarcimento in sede penale: ambiti, confini, problematiche.

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ristoro del danno patito, sia in considerazione del fatto che la condanna generica al risarcimento del danno

non esclude la pronuncia di rigetto della domanda di liquidazione in sede civile (vedasi Cass.pen, Sez. IV,

sent. 43387 del 28.9.2007).

Accanto alla “condanna generica” vi può essere la previsione di una “provvisionale”, che il giudice può

disporre su richiesta della parte civile, condannando l’imputato e il responsabile civile “…nei limiti del danno

per cui si ritiene raggiunta la prova” (art. 539 co.2 c.p.p.).

In tema di natura della “provvisionale” costituisce orientamento consolidato nella giurisprudenza di

l’affermazione che si tratti di pronuncia caratterizzata; da precarietà, essendo destinata ad essere travolta o

assorbita dalla decisione conclusiva del processo e quindi insuscettibile di passare in giudicato (Cass pen.

Sez. IV sent. 36760 del 4.6.2004); dalla discrezionalità nella determinazione dell’ammontare, rispetto alla

quale non vi è obbligo di specifica motivazione (Cass.pen. Sez. V sent. 32899 del 25.5.2011); dell’inidoneità a

condizionare le statuizioni civili concernenti l’entità del danno definitivamente risarcibile (Cass.pen. Sez IV

sent. 3807 del 27.1.2015).

Discussa è la questione dell’ impugnabilità. Se da un lato sembra certo che possa escludersi il ricorso

per cassazione, tenuto conto della decisone essenzialmente ispirata da criteri di discrezionalità e merito

(vedasi Cass.pen. Sez. IV, sent. 36760 del 23.6.2010), dall’altro è ammessa impugnazione in grado di merito,

con la possibilità anche di adire in pendenza di ricorso per cassazione la Corte al fine di ottenere la

sospensione dell’esecuzione della condanna civile, laddove da essa possa derivare un danno grave e

irreparabile, ossia un pregiudizio eccessivo per il debitore, che può consistere nella distruzione di un bene non

reintegrabile, oppure nel caso di beni fungibili come il denaro, nel fatto di incidere sensibilmente sullo stato

economico del debitore, rendendolo pressoché insolvibile (Cass.pen. Sez. IV sent. 49975 del 5.10.2015).

6 La completezza delle indagini: quali possibili effetti sulla scelta della vittima a perseguire in sede penale l’azione di risarcimento per danno conseguenza da reato in materia di sicurezza del lavoro?

Analizzare dalla specifica prospettiva del pubblico ministero le problematiche connesse alla

partecipazione della vittima del reato di lavoro al processo penale, per ottenere in detta sede il diritto al

risarcimento del danno patito, suggerisce ancora alcuni spunti.

La ricognizione della prassi giudiziaria sembra infatti evidenziare come la scelta di costituirsi parte

civile in processi penali del lavoro possa essere condizionata oltre che dal peculiare sistema positivizzato

dall’art. 10 d.p.r. 1124/65, per come interpretato dalla giurisprudenza prevalente alla luce dei principi di

autonomia e separazione fra giudizio civile e penale, anche dalla natura del rapporto di lavoro in cui l’evento

lesivo, il danno da lavoro, integrante anche illecito penale, è maturato.

Tendenzialmente, con i rischi che sono connessi a qualsiasi operazione logica di generalizzazione,

sembra delinearsi un quadro in cui tanto più il rapporto di lavoro sia “regolare”, tanto più la scelta del

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Questioni sostanziali e processuali in tema di risarcimento del danno.

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lavoratore di decidere se agire in sede civile o in quella penale a tutela del risarcimento del danno da reato di

lavoro potrà essere effettivamente libera.

Ciò discende, in primo luogo, dalle regole probatorie che fondano la pretesa risarcitoria in sede civile.

Mentre, infatti, a fronte di un contratto di lavoro formalizzato il lavoratore dovrà semplicemente allegare il

contratto a dimostrazione dell’esistenza dell’obbligazione lavorativa, nel caso del contratto “non formalizzato”,

ossia di un vincolo sinallagmatico di fatto, il lavoratore che voglia vedersi risarcito il danno dal datore di lavoro

dovrà dimostrare l’esistenza stessa del rapporto, le modalità di svolgimento, il tempo ed il luogo della

prestazione lavorativa e, solo dopo, fornire allegazione del danno patito in conseguenza della condotta

colpevole del datore di lavoro.

Ecco allora che in queste ultime situazioni, ossia quelle dell’impiego a “nero”, dal cui svolgimento ha

avuto origine l’evento lesivo per il lavoratore, la via dell’esercizio in “sede penale” del risarcimento del danno

appare costituire una opzione molto più concretamente percorribile, ed in parte necessitata.

Ed è proprio a fronte di tali contesti di lavoro che fanno da sfondo all’infortunio, peraltro quelli che

disvelano il massimo grado di offesa al lavoratore, che il procedimento penale può svolgere un’azione di

compensazione della riduzione degli spazi di libera individuazione e scelta delle sede giudiziaria in cui

perseguire il risarcimento del danno.

Con riferimento a dette vicende viene quindi in gioco direttamente il ruolo del pubblico ministero, il

quale con le sue indagini, tanto più queste riusciranno ad essere complete, potrà non solo ricostruire

compiutamente il fatto reato, ma anche disvelarne in concreto le modalità di accadimento ed il contesto di

lavoro in cui esso è maturato. É proprio che partendo da tali ricostruzioni investigative “complete” che la

vittima del lavoro “debole” - nel senso sopra esposto - ossia priva di un contratto di lavoro, potrà trarre spunti

ed elementi per ottenere soddisfazione alla pretesa risarcitoria per le conseguenze del danno reato da lavoro.

In tali casi, la prassi dimostra senza dubbio che la scelta della vittima del lavoro è quella di agire in

sede penale, costituendosi parte civile, per ottenere il risarcimento del danno.

Si procederà pertanto ad analizzare quale possa essere il ruolo svolto dalla completezza delle indagini

penali. A parità di completezza si potrà concordare sul fatto che tale ultima caratteristica può rilevarsi molto più

decisiva per offrire occasione di tutela piena ed effettiva alla pretesa di ottenere il risarcimento del danno della

vittima di lavoro che ha svolto in via di fatto la propria prestazione lavorativa.

6.1 La prima e vera scelta: i reati di lavoro perseguibili a querela

La “vera e piena scelta” del danneggiato da reato di agire in sede civile e in sede penale a tutela del

danno conseguenza di reato esiste solo con riferimento ai reati procedibili a querela. Qui, infatti, è solo il

danneggiato che potrà decidere se presentare querela. Laddove opti per non farlo, il procedimento penale non

potrà mai giungere a giudizio per una valutazione di merito sulla sussistenza del fatto, la sua rilevanza penale,

e l’eventuale responsabilità dell’imputato.

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Questioni sostanziali e processuali in tema di risarcimento del danno.

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foglio nr. 49 di 89

In tal senso, si comprende che per tali reati, procedibili a querela, la vittima, persona offesa e

danneggiato, compie la sua scelta ab origine, nei termini di legge per la presentazione della querela.

Nel caso del lavoratore vittima di lavoro, si tratta delle ipotesi di lesioni colpose lievi e lievissime20.

Laddove abbia deciso di presentare querela, peraltro, al lavoratore vittima non necessariamente verrà

sin dall’origine preclusa la possibilità di scelta di dove agire a tutela del risarcimento del danno, residuandogli

comunque la possibilità di decidere negli ordinari tempi di legge se costituirsi parte civile o meno nel processo

penale, laddove le indagini effettivamente sfocino nell’esercizio dell’azione penale.

La prima “vera e piena” scelta di agire in sede civile e penale è invece preclusa per tutti quei reati che

sono procedibili d’ufficio, rispetto ai quali la notitia criminis che attiva il procedimento penale prescinde dalla

volontà della persona offesa danneggiata.

Nel caso del procedimento penale del lavoro, per tutti i fatti che determinano lesioni almeno gravi

all’incolumità individuale, alla vita, o per fatti lesivi di incolumità pubblica (si pensi all’art. 437 e 451 c.p.).

In tutte queste ipotesi la scelta di agire in sede civile anziché in sede penale viene temporalmente

ancorata soltanto al momento ultimo della scelta di costituirsi parte civile nel procedimento penale, nel quale

nel frattempo sia stata esercitata azione penale da parte del pubblico ministero.

Ciò detto, diversa è la questione della possibilità di individuare un criterio di valutazione cui ancorare

la scelta di agire in sede civile anziché in quella penale a tutela del danno patito.

6.2 I criteri di scelta “astratti” per l’esercizio dell’azione di risarcimento da “danno di lavoro” in sede civile e penale

Individuare in astratto quali siano i criteri attraverso i quali viene orientata la scelta della vittima di

lavoro per decidere ove esercitare, in sede civile o penale, l’azione del risarcimento del danno è questione di

non facile soluzione. Se almeno in astratto alcuni di questi criteri possono valere per ogni situazione di lavoro,

alcuni di essi appaiono invece condizionati dalla specifica natura del rapporto lavorativo, ed in particolare dalla

regolarità o meno del sinallagma contrattuale.

Di seguito se ne analizzano alcuni, senza pretesa di individuare un elenco completo.

20 In proposito corre l’obbligo di segnalare come peraltro non sia pacifica in tal caso la possibilità di agire a tutela del danno da

lavoro originato da un fatto reato procedibile a querela, tenuto conto proprio del regime particolare positivizzato dall’art. 10 d.p.r.

1124/65. I sostenitori dell’esistenza di un peculiare sistema di pregiudizialità penale in materia di danno da lavoro, infatti, rilevano

come l’azione civile non sarebbe consentita proprio per effetto della normativa derogatoria nei confronti del datore di lavoro per un

reato procedibile a querela, dato che questi è esentato, in virtù dell’assicurazione obbligatoria, dalla responsabilità civile salvo il caso

che si accerti che l’infortunio è frutto di un reato perseguibile d’ufficio.

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Questioni sostanziali e processuali in tema di risarcimento del danno.

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Tendenzialmente sembra poter dire che l’azione per il risarcimento del danno in sede civile sia per il

danneggiato opzione preferibile quanto meno perché ivi è più favorevole per il ricorrente agente dare prova del

nesso causale ai fini dell’affermazione della responsabilità. In sede civile, infatti, il nesso causale è fondato sul

principio del “più probabile che non”. Il giudice è chiamato a ragionare in termini di mera probabilità, di

regolarità statistica, di verosimiglianza (elevato grado di credibilità razionale). Il giudice penale, invece, al fine

dell’affermazione del fatto reato, fonte di danno civile di cui con la costituzione di parte civile si chiede il

risarcimento, è invece vincolato ai criteri della quasi certezza, della probabilità scientifica qualificata, al fine di

rispettare il parametro della prova della responsabilità al di là di ogni ragionevole dubbio.

Altrettanto più favorevole sembra il criterio dell’onere della prova. Tale onere risulta a carico del

pubblico ministero nel processo penale, con conseguente rischio anche per l’interesse della parte civile

costituita nell’ipotesi di una impossibilità di soddisfarlo al fine della declaratoria di responsabilità dell’imputato,

autore non solo dell’offesa criminale, ma anche soggetto obbligato – da solo o con altri – a risarcire il danno

provocato alla parte offesa danneggiata dal reato. Dinanzi al giudice civile, invece, si viene a determinare

un’inversione dell’onere della prova. La responsabilità civile e contrattuale del datore di lavoro riveste

caratteristiche peculiari. Dalla natura contrattuale del rapporto di lavoro consegue la ripartizione degli oneri

probatori nel processo del lavoro (cfr. art. 414 e 416 c.p.c) ex art. 1218 c.c.21. Si afferma che la responsabilità

del datore di lavoro ex art. 2087 cod. civ. è di carattere contrattuale, atteso che il contenuto del contratto

individuale di lavoro risulta integrato per legge, ai sensi dell’art. 1374 cod. civ., dalla disposizione che impone

l’obbligo di sicurezza e lo inserisce nel sinallagma contrattuale. Dalla natura contrattuale del contratto di

lavoro ne consegue che il riparto degli oneri probatori nella domanda di danno da infortunio sul lavoro si pone

negli stessi termini dell’art. 1218 cod. civ. circa l’inadempimento delle obbligazioni. In sostanza, al lavoratore

il quale agisca per il riconoscimento del danno differenziale da infortunio sul lavoro, sarà richiesto di allegare

e provare l’esistenza dell’obbligazione lavorativa, l’esistenza del danno ed il nesso causale tra quest’ultimo e

la prestazione, mentre al datore di lavoro invece, sarà richiesto provare la dipendenza del danno da causa a

lui non imputabile cioè, di aver adempiuto interamente all’obbligo di sicurezza, apprestando tutte le misure per

evitare il danno.

Dalla natura contrattuale del rapporto di lavoro, infatti, consegue la ripartizione degli oneri probatori nel

processo del lavoro (art. 414, 414 e 416 c.p.c) ex art. 1218 c.c..

Il creditore deve provare ed allegare i fatti costitutivi della pretesa, essendo necessario e sufficiente

l’allegazione dell’inadempimento colpevole. Incombe quindi sul lavoratore, nell’atto introduttivo del giudizio

risarcitorio: 1) fornire tutti gli elementi in fatto ed in diritto affinché possa essere accertabile l’inadempimento

datoriale, con specifica allegazione delle norme antinfortunistiche che si assumono violate (la mera

enunciazione generica e il richiamo alla normativa ex art. 2087 c.c. è inammissibile e impedisce di fatto la

difesa datoriale trasformando il regime dell’imputazione dalla colpa a quello della responsabilità oggettiva); 2)

indicare allegandole le circostanze in fatto atte a ricostruire la dinamica dell’infortunio e prova dell’evento

lesivo (infortunio o malattia professionale), dimostrando le condizioni lavorative ed ambientali, le misure di

sicurezza concretamente adottate o meno, della formazione ed informazione concretamente ricevuta; 3)

allegare gli elementi utili a connotare la condotta datoriale in materia di sicurezza (estratto del DVR, eventuali

21 Sulla natura contrattuale della responsabilità datoriale la giurisprudenza di legittimità è pacifica (vedasi Cass. Sez. L, Sentenza

n. 21590 del 13/8/2008 Rv 604175).

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Questioni sostanziali e processuali in tema di risarcimento del danno.

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L’azione di risarcimento in sede penale: ambiti, confini, problematiche.

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Ispezioni ASL ARPA, acquisizione registro infortuni); 4) allegare tutti gli elementi utili alla liquidazione del

danno derivato (eventuale CTU, allegazione in fatto del cambiamento dell’agenda di vita.

Per liberarsi nel merito (salvo cioè le eccezioni in rito sull’estinzione del diritto) dell’affermazione di

responsabilità il datore di lavoro dovrà quindi dimostrare: 1) il fatto estintivo dell’inadempimento ossia la

concreta adozione di tutte le misure di sicurezza ambientali ed individuali secondo il miglior progresso

tecnologico e secondo gli standard di sicurezza propri di quel settore di attività; 2) di aver effettuato una

corretta valutazione del rischio (cfr DVR); 3) di aver adeguatamente formato, informato ed addestrato i

lavoratori sui rischi; 4) di aver dotato i lavoratori delle misure di sicurezza ambientali ed individuali, vigilando

sulla loro concreta adozione; 5) di aver predisposto idonee prassi operative aziendali e la sorveglianza

sanitaria; 6) l’eventuale concorso di colpa del lavoratore o l’interruzione del nesso causale per fatto abnorme

dello stesso. In caso di difetto di “prova liberatoria”, il datore di lavoro risponderà del danno patito dal

lavoratore per violazione/inadempimento all’obbligo di sicurezza di cui è garante.

Rileva poi considerare il profilo dei diversi obblighi, gravidi di conseguenze per il caso della loro

violazione, che possono gravare sulla persona offesa danneggiata. In particolare, mentre la parte civile

costituita laddove venga citata come testimone nel processo in cui si procede per l’accertamento del reato che

si ritiene essere causa del danno civile da lei patito, ha l’obbligo di dire la verità, nel processo civile le parti, e

quindi anche il lavoratore danneggiato ricorrente, non possono essere chiamate a deporre come testimoni con

l’obbligo penalmente sanzionato di dire la verità.

Nel procedimento penale inoltre la parte civile non anticipa le spese.

Il procedimento penale gode solitamente di tempi più ristretti rispetto a quello civile.

Solitamente il giudice penale anche in esito ad un’affermazione di responsabilità penale per il reato

oggetto di processo non quantifica il danno risarcibile, limitandosi ad una condanna generica, salvo poi

rimettere dinanzi al giudice civile l’esatta determinazione del quantum, così di fatto imponendo al lavoratore

danneggiato da reato di lavoro una inevitabile “coda” al processo penale, da svolgersi in sede civile.

6.3.1 I rapporti di lavoro “clandestinizzati” sul versante del lavoratore

Come anticipato se almeno in astratto alcuni dei suddetti criteri possono valere per ogni situazione di

lavoro, alcuni di essi appaiono invece condizionati dalla specifica natura del rapporto di lavoro, ed in

particolare dalla regolarità o meno del sinallagma contrattuale.

Il riferimento è ad esempio al criterio dell’onere della prova. Ferme restando le condizioni sopra

esposte richieste al creditore lavoratore danneggiato per ottenere tutela alla propria pretesa risarcitoria,

appare intuibile come in concreto tale onere possa essere molto più gravoso in quelle situazioni in cui il

sinallagma contrattuale non sussista, ossia il rapporto di lavoro non sia stato formalizzato, o per volontà delle

parti (di solito del datore di lavoro in ragione della posizione di forza nel rapporto), o perché non

regolarizzabile.

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Si tratta, in una sola parola, dei rapporti di lavoro “a nero”, ossia irregolari, di cui fa parte anche la

sottocategoria dei lavoratori clandestini.

In tal caso, infatti, agendo dinanzi al giudice civile per il risarcimento del danno, il lavoratore si troverà

costretto a fornire tutti gli elementi in fatto ed in diritto affinché possa essere accertabile l’inadempimento

datoriale, con specifica allegazione delle norme antinfortunistiche che si assumono violate e le circostanze in

fatto atte a ricostruire la dinamica dell’infortunio e provare l’evento lesivo, dimostrando le condizioni lavorative

ed ambientali, le misure di sicurezza concretamente adottate o meno, la formazione ed informazione

concretamente ricevuta.

La mera circostanza di dover provare l’esistenza di un rapporto di lavoro che è nei “fatti”, e non

semplicemente ictu oculi ricavabile dalla lettura di un contratto di lavoro, rende certamente più complesso

l’onere probatorio, per assolvere il quale, peraltro, il lavoratore si deve esporre a spese immediate e a tempi

più lunghi tendenzialmente di quelli del processo penale, difficilmente conciliabili soprattutto con lo status del

lavoratore non solo irregolare, ma in particolare anche clandestino.

Ebbene, proprio in tali casi accade sovente che il danneggiato dal reato opti per “inserirsi” nel

meccanismo del processo penale, rinunciando alle più articolate scansioni del rito civile in cui la domanda

risarcitoria verrebbe ad assumere il ruolo di domanda principale, in vista da un lato della maggiore pressione

che il processo penale può esplicare sull'autore del danno per indurlo a soddisfare la sua pretesa risarcitoria e,

dall’altro, della possibilità di contare sul lavoro del pubblico ministero in ordine alla ricostruzione del fatto reato

fonte di danno, e del contesto in cui esso è maturato.

É proprio a questo proposito, quindi, che come anticipato può giocare un ruolo decisivo la

completezza delle attività di indagine, fornendo supporto rassicurante alla scelta del lavoratore danneggiato,

facendolo decisamente propendere per l’opzione di percorrere la tutela risarcitoria nel processo penale.

Tanto più completa sarà l’indagine penale, tanto più ampia sarà l’occasione di fornire tutela al

lavoratore vittima del reato di lavoro, con conseguente minimizzazione del rischio per la stessa di vedere

preclusa l’aspettativa verso il raggiungimento di una tutela risarcitoria piena.

6.3.2 I rapporti di lavoro “clandestinizzati” sul versante del datore di lavoro

La prassi delle indagini penali in materia di sicurezza offre anche altri esempi di situazioni di rapporto

di lavoro “clandestinizzato” da cui può derivare pregiudizio in concreto per il lavoratore danneggiato dal reato

di ottenere tutela risarcitoria in sede civile, utilizzando i vantaggi che quella sede offre sul versante dell’onere

probatorio in genere e nesso causale fra condotta ed evento rispetto al giudizio penale.

Si tratta delle situazioni in cui la clandestinizzazione “copre” il versante del creditore di sicurezza del

rapporto sinallagmatico, ossia il datore di lavoro. Ciò avviene solitamente nella gestione di attività di impresa in

forma individuale, il cui impatto statistico in termini numerici risulta significativo in molte realtà del territorio

nazionale, soprattutto per la conduzione di attività afferenti al settore manifatturiero ed edile, a loro volta

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ambito in cui possono verificarsi con elevata incidenza rischi di infortunio nello svolgimento dell’attività

lavorativa.

L’imprenditore individuale occulto può poi rilevare sia con riferimento a rapporti di lavoro con lavoratori

irregolari, che a lavoratori regolari.

Nella prima ipotesi la violazione al debito di sicurezza raggiunge almeno in astratto il massimo livello

di disvalore. Si tratta ad esempio delle ipotesi nelle quali il “reale datore di lavoro”, schermato da una

intestazione della titolarità formale del rapporto giuridico ad un prestanome, gestisce un rapporto di lavoro con

un lavoratore “a nero”, e in alcuni casi, addirittura di lavoratori “clandestini”.

In altri casi, invece, può verificarsi il caso di un rapporto gestito sempre da un imprenditore occulto,

che però utilizza per lo svolgimento delle proprie attività di lavoro la prestazione di lavoratori regolari, come

accade ad esempio nelle ipotesi in cui l’intestazione a prestanome dell’attività costituisca per il reale gestore

un mero strumento per sottrarsi agli obblighi di natura civile, amministrativa, penale, fiscale e previdenziale

connessi alla gestione dell’attività di impresa.

Ebbene, in tutte le predette ipotesi diviene determinate la completezza dell’attività di indagine penale.

La misura di tale completezza per il pubblico ministero risiede in definitiva proprio nella finalità del processo

penale. Se è vero, infatti, che il processo rappresenta il luogo e lo strumento mediante il quale viene ricostruito

mediante prove un fatto storico e, per il caso di una positiva verifica sia della qualificazione della rilevanza

penale dello stesso, che della certa riferibilità soggettiva all’imputato, si addiviene ad una affermazione della

responsabilità penale ed all’irrogazione di una sanzione, si comprende quanto sia rilevante ai fini della

completezza dell’indagine – sede naturale di preparazione del processo, e solo di quello necessario –

risolvere la questione della individuazione del soggetto responsabile.

La corretta, e completa, individuazione del soggetto responsabile assume peraltro un rilievo del tutto

specifico in materia di reati di sicurezza sul lavoro, avuto riguardo all’impianto normativo vigente che elenca e

definisce nel TUSL una serie di posizioni soggettive gravate da obblighi di garanzia, non limitandosi al datore

di lavoro, ma ricomprendendovi anche la figura del dirigente, del preposto, del medico competente fino

addirittura al lavoratore, le quali in relazione alle concrete modalità del verificarsi dello specifico evento lesivo

possono venire in rilievo, ed assumere pertanto veste di soggetto responsabile, per la concreta partecipazione

causale penalmente rilevante all’evento lesivo.

Ebbene, focalizzando all’interno della “filiera delle responsabilità” soggettive quella che direttamente

attiene all’area di rischio e alla sfera di responsabilità di competenza del datore di lavoro, il primo garante del

rischio lavorativo, nonché principale debitore di sicurezza nelle realtà imprenditoriali gestite in forma di ditta

individuale, rileva evidenziare come grazie al disposto di cui all’art. 299 TUSL il legislatore abbia fornito al

pubblico ministero un parametro certo cui ancorare la responsabilità soggettiva, estendendo il novero dei

soggetti responsabili (tenuto conto del significato assegnato all’inciso “..altresì”) o, nei casi limite in cui vi sia

prova che l’imprenditore occulto sia stato l’unico soggetto gestore di fatto dell’impresa – ad esempio

utilizzando l’identità schermante di un terzo inconsapevole -, addirittura fornendo supporto normativo per

riferire al datore di lavoro di fatto la responsabilità in via esclusiva.

L’articolo 299 del T.U., significativamente rubricato “Esercizio di fatto dei poteri direttivi” dispone che

“…le posizioni di garanzia relative ai soggetti di cui all’articolo 2, comma 1, lettere b), d) ed e) [rispettivamente,

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appunto, il datore di lavoro, il dirigente e il preposto, N.d.A.] gravano altresì su colui il quale, pur sprovvisto di

regolare investitura, eserciti in concreto i poteri giuridici riferiti a ciascuno dei soggetti ivi definiti”. La norma

determina un’equiparazione tra l’esercizio di fatto dei poteri giuridici riferiti alla qualifica datoriale e l’acquisto

della corrispondente posizione di garanzia penalmente rilevante, traducendo in termini legislativi un

orientamento giurisprudenziale già da tempo consolidato in tema di “soggetti di fatto” (Cfr., ad esempio, Cass.

pen., sez. IV, 20 giugno 2006, n. 38428, Puglisi)22, che prevede che al pari di una valida ed efficace investitura

civilistica, è altresì rilevante lo svolgimento, in concreto, delle funzioni o mansioni tipiche del datore di lavoro.

Fin qui il quadro normativo. Più complesso il passaggio dal diritto al fatto, o meglio dalla previsione

astratta del parametro di riferibilità soggettiva alla prova in concreto della riferibilità del ruolo ad una persona

fisica individuata.

Colui che agisce in via di fatto solitamente agisce con l’obiettivo precipuo di sfuggire all’accertamento

di responsabilità in proprio, e pertanto avrà normalmente cura di adottare tutte le cautele necessarie a sottrarsi

anche a posteriori alla responsabilità per fatti connessi alla gestione del luogo di lavoro.

É in tale contesto che si comprende possa agire in modo più efficace e penetrante l’azione del

pubblico ministero, utilizzando tutti i tradizionali strumenti di ricerca della prova previsti dal codice di rito,

sicuramente più penetranti, e pertanto in astratto idonei, a consentire una ricostruzione compiuta non solo

dell’evento infortunio maturato nel contesto di un’impresa gestita con prestanome da un imprenditore occulto,

ma anche delineare il quadro oggettivo del contesto lavorativo.

Non solo. Deve infine evidenziarsi come il principio di effettività rappresenti non soltanto un criterio per

ampliare il quadro dei soggetti responsabili gravati da posizione di garanzia, ma anche criterio interpretativo

22 Sul punto si riporta testualmente quanto affermato dalla giurisprudenza di legittimità (Cass. Pen. Sez. IV, 19 marzo 2012, n.

10704), chiamata nella vicenda di specie a pronunciarsi su un ricorso proposto da un imputato condannato come datore di lavoro di fatto, che assumeva che la contestazione elevata nei suoi confronti fosse frutto di inammissibile analogia della norma incriminatrice prevista dall’allora vigente D.Lgs 626/94, adducendo, a riprova della bontà di tale argomento, che il legislatore, preso atto del vuoto normativo, aveva solo con il D.Lgs 81/2008 espressamente disciplinato all’art. 299 la responsabilità anche del datore di lavoro di fatto: “… Ai fini di interesse, si osserva che il Decreto Legislativo n. 81 del 2008, articolo 299 stabilisce che le posizioni di garanzia riguardanti il "titolare del rapporto di lavoro", il "dirigente" ed il "preposto" gravano altresì su colui il quale, pur sprovvisto di regolare investitura, eserciti in concreto i poteri giuridici riferiti a ciascuno dei soggetti ora richiamati. La disposizione in commento ha formalizzato la "clausola di equivalenza", che risultava da anni utilizzata in sede giurisprudenziale, nella individuazione dei soggetti in concreto destinatari della normativa antinfortunistica e quindi possibili responsabili delle relative violazioni. Con l'articolo 299, cit. il legislatore ha cioè codificato il principio di effettività, elaborato dalla giurisprudenza, al fine di individuare i titolari della posizione di garanzia, secondo un criterio di ordine sostanziale. Invero, il principio funzionalistico, in base al quale occorre fare riferimento alle mansioni disimpegnate in concreto e non alla qualificazione astratta del rapporto, è stato affermato dalle Sezioni Unite della Suprema Corte di Cassazione sin dal 1992 e tale teorica è stata seguita in maniera costante dalla giurisprudenza successiva. Le Sezioni Unite hanno, infatti, chiarito che l'individuazione dei destinatari degli obblighi posti dalle norme sulla prevenzione degli infortuni sul lavoro e sull'igiene del lavoro deve fondarsi non già sulla qualifica rivestita, bensì sulle funzioni in concreto esercitate, che prevalgono, quindi, rispetto alla carica attribuita al soggetto, ossia alla sua funzione formale (Cass. Sez. U, Sentenza n. 9874 in data 01/07/1992, dep. 14/10/1992, Rv. 191185). Come pure rilevato da voci di dottrina, la codificazione del 2008 non ha pertanto comportato alcuna modificazione, rispetto ai criteri di imputazione della responsabilità penale, atteso che il panorama giurisprudenziale risultava già consolidato nel dare prevalenza alle funzioni in concreto esercitate, rispetto alla qualifica formale, ai fini della individuazione del soggetto responsabile, secondo la teorica del "datore di lavoro di fatto". Chiarito che la norma di cui al Decreto Legislativo n. 81 del 2008, articolo 299, ove si prevede che la posizione di garanzia gravi anche su colui che, pur sprovvisto di regolare investitura, eserciti in concreto i poteri giuridici riferiti al datore di lavoro o ad altri garanti, ha natura meramente ricognitiva, rispetto ad un principio di diritto consolidato, non è chi non veda che il riferimento alla nozione di datore di lavoro di fatto, contenuto nella imputazione elevata al Di. Ba. , non determina alcuna applicazione retroattiva della disposizione di cui all'articolo 299, cit., rispetto a fatti commessi prima della entrata in vigore del testo unico del 2008, atteso che la nozione di datore di lavoro di fatto - funzionale alla selezione del soggetto titolare dell'obbligazione di sicurezza - risultava già acquisita al diritto vivente, come sopra evidenziato”.

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Questioni sostanziali e processuali in tema di risarcimento del danno.

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foglio nr. 55 di 89

per individuare nel singolo caso dato, il reale titolare della posizione di garanzia, a fronte del danno

conseguente all’esposizione al rischio lavorativo. In tal senso il principio sembra voler imporre all’interprete di

non fermarsi all’ “apparenza” della posizione di garanzia, limitandosi in sostanza ad individuare il datore di

lavoro in colui che riveste per legge (garante originario), o per delega (garante derivato) la posizione di

garanzia, ma gli richiede di verificare se in concreto a quel ruolo di garanzia formale corrisponda il reale

esercizio dei poteri organizzativi del lavoro, in cui è maturato l’evento di danno. É in tale ottica che si spiegano

le decisioni della giurisprudenza di legittimità secondo le quali si afferma che non è solo, e non tanto, la

qualifica astratta, ma anche e soprattutto la funzione assegnata e svolta, ad individuare il garante del rischio

(cfr. Cass. pe., Sez. IV29 marzo 2007 n. 12794; Cass. 7 luglio 1999 RV215065; Cass. 21 dicembre 1995 RV

204972). Proprio facendo applicazione di tale principio si registrano decisioni sempre della Suprema Corte che

hanno fatto ricorso al principio di effettività per attribuire responsabilità in caso di invalidità della delega delle

funzioni; così Cass. pen. Sez. IV sentenza 29 dicembre 2008 n. 48295 che osserva “..l’invalidità della delega

impedisce che il delegato possa essere esonerato da responsabilità, ma non esclude la responsabilità del

delegato che di fatto abbia svolto le funzioni delegate”.

Ebbene, tali situazioni possono sostanziare anche rapporti di lavoro formalmente regolari, in contesti

imprenditoriali esercitati in forma di impresa collettiva, di medie e grandi dimensioni. Anche in tal caso

l’indagine penale “completa” può contribuire in modo decisivo a disvelare elementi fattuali che difficilmente

potrebbero altrimenti essere allegati nel giudizio del lavoro dal parte del ricorrente lavoratore danneggiato, al

fine di ottenere in quella sede adeguata tutela risarcitoria.

Ecco perché, in definitiva, nelle suesposte situazioni si verifica sovente che in concreto la scelta della

vittima del lavoro è quella di optare per l’esercizio dell’azione civile in sede penale.

La vittima del reato di lavoro sin dalla fase delle indagini preliminare può partecipare attivamente, con

funzione di impulso ed integrazione dell’attività di ricerca della prova condotta dal pubblico ministero. Si tratta

di una partecipazione che laddove mediata da un assistenza tecnica difensiva può produrre anche attività di

indagine difensiva o mediante produzione di memorie in cui indicare nuove fonti di prova, oltre che sollecitare

accertamenti ed iniziative ritenuti essenziali per l’acquisizione della prova (vedi nel caso di incidente

probatorio). In esito alle indagini svolte dal pubblico ministero, laddove quest’ultimo opti per una richiesta di

archiviazione, la vittima del lavoro potrà attivare il controllo stringente del giudice per le indagini preliminari

mediante opposizione alla richiesta di archiviazione. Il controllo sull’indagine della vittima del reato può inoltre

spingersi sino a sollecitare il potere di avocazione del Procuratore generale per il caso di inerzia dell’organo

della pubblica accusa nello svolgimento dei suoi compiti.

Per il resto, invece, laddove appunto l’indagine sia riuscita a soddisfare mediante accertamenti

completi l’esigenza di un compiuta ricostruzione del fatto lesivo, e della riferibilità soggettiva al garante

dell’area di rischio della condotta illecita, la vittima del reato di lavoro potrà definitivamente optare per agire

civilmente in sede penale, sfruttando i vantaggi del processo penale, in particolare quello della celerità

tendenziale dell’accertamento, e della gratuità dello stesso.

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6.4 La tutela della vittima di lavoro a fronte di “reati complessi”: art. 437 c.p. e art. 12 co.5 d.lgs.286/98

Oltre alle “situazioni fattuali” che caratterizzano determinati rapporti di lavoro, nei quali come detto per

il caso del verificarsi di un evento infortunio possono realizzarsi condizioni concrete tali da indurre il lavoratore

vittima del reato di lavoro ad optare preferibilmente per esercitare in sede penale l’azione civile, la prassi

giudiziaria fornisce anche ulteriori spunti per evidenziare come la medesima condizione possa venire a

realizzarsi laddove il fatto reato causa di danno, sia connotato da particolari profili di complessità, sia in ordine

alla configurabilità giuridica astratta, che alla sussistenza in concreto.

Rilevano in tal senso con specifico riferimento alla vittima del lavoro, il delitto di omissione dolosa delle

cautele antinfortunistiche (437 c.p.), ed delitto di favoreggiamento della permanenza di clandestini a fini di

profitto, laddove la stessa sia commessa in danno di lavoratori (art. 12 co.5 d.lgs. 286/98) (come ipotesi maior

rispetto a quella di cui all’art. 22 co.12 d.lgs. 286/98).

In entrambe le circostanze la prova del reato presuppone investigazioni articolate, complesse e

complete, in ragione proprio delle questioni problematiche sottese all’individuazione del bene oggetto di tutela,

alla materialità del fatto, ed alla natura dolosa dei reati in questione.

A fronte di tali aspetti problematici si ripropone il modello della necessaria completezza delle indagini,

quale criterio cui la vittima del lavoro può ancorare la scelta di agire in sede penale a tutela del risarcimento

del danno patito, evitando in tal modo i rischi connessi all’allegazione di elementi complessi in ordine alla

configurabilità del fatto reato, sulla cui astratta configurabilità dovrebbe comunque pronunciarsi, seppur

incidenter tantum il giudice del lavoro.

Di seguito si segnalano alcune delle difficoltà che l’indagine penale sui citati delitti deve affrontare e

risolvere. La specificità delle questioni consente ictu oculi di intuire quanto altrettanto difficile sarebbe per il

giudice civile pronunciarsi sulla configurabilità astratta di tali ipotesi delittuose per addivenire poi alla decisione

sull’an e quantum del danno risarcibile.

6.4.1 La tutela della vittima di lavoro a fronte del delitto di cui all’art. 437 c.p.

Quanto al delitto di omissione dolosa delle cautele antinfortunistiche in via preliminare vale la pena

sottolineare che non vi è alcuna incompatibilità logica e giuridica tra detto delitto doloso aggravato dall’ “evento

infortunio” c.p., e le ipotesi colpose di cui all’art. 589 o 590 aggravati dalla violazione di norme

antinfortunistiche, in quanto la giurisprudenza di legittimità in più occasioni ha affermato la possibilità di

configurare un concorso formale fra le fattispecie incriminatrici. Da qui, la possibilità del verificarsi in concreto

di situazioni in cui il lavoratore, o i suoi prossimi congiunti, possano divenire persone offese danneggiate di

entrambi i delitti, o anche solo persone offese del delitto di cui all’art. 437 c.p., inserito fra le aggressioni al più

ampio bene della pubblica incolumità. Con tale ultimo delitto, infatti, secondo la comune opinione dei

commentatori ormai stratificatasi sia in dottrina, che nelle motivazioni delle decisioni giudiziarie di merito e di

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legittimità, il legislatore punendo colui che omette di collocare impianti, apparecchi o segnali destinati a

prevenire disastri o infortuni sul lavoro, ovvero li rimuove o li danneggia, ha voluto vietare qualsiasi forma di

attentato alla sicurezza del lavoro.

Da ciò ne discende la natura giuridica del delitto in questione come reato di pericolo, astratto o

presunto, ai fini della cui sussistenza, pertanto, non è richiesta la dimostrazione che la situazione di pericolo

interessi la collettività, o un numero rilevante di persone, essendo invece sufficiente che il fatto sia idoneo ad

arrecare offesa all’incolumità dei singoli lavoratori, o di singole persone che si trovino sul luogo di lavoro. In

proposito, ancora una volte per le ricadute pratiche che possono derivare nel caso concreto, si evidenzia

come sia la dottrina dominante che la giurisprudenza costante, muovendo dall’inciso letterale del secondo

comma della norma, laddove il legislatore ha utilizzato al singolare l’espressione “disastro o infortunio”,

ritengono che il pericolo idoneo ad integrare il reato de quo sia quello che non necessariamente deve

coinvolgere un numero indeterminato di lavoratori, ma anche un solo lavoratore (Sez. 1, Sentenza n. 3280 del

08/10/1987 Ud. [dep. 14/03/1988]; Sez. 4, Sentenza n. 6638 del 12/01/1984 Ud. [dep. 16/07/1984]; Sez. 4,

Sentenza n. 2699 del 05/12/1983 Ud. [dep. 22/03/1984]).

Significativo è stato poi il dibattito giurisprudenziale sulla natura di pericolo astratto o presunto del

delitto in questione. In passato, secondo parte della giurisprudenza proprio dalla natura di reato di pericolo

astratto, o presunto, si è sostenuto che sarebbe dovuto conseguire, sotto il profilo processuale, l’inutilità

dell’accertamento della effettiva situazione di pericolo, in ragione del fatto che, appunto, tale pericolo, in

quanto presunto ab origine dal legislatore come necessaria conseguenza della condotta omissiva o

commissiva, sussisterebbe per il fatto della sola realizzazione della condotta tipica da parte del soggetto attivo

(vedi da ultimo Cass. Sez. 5, sentenza n. 5215 del 28 ottobre 1999 ud. [dep. 2.12.1999] - proc. Florimonte - rv.

215563 secondo cui: "....il pericolo.... non è quindi inserito tra i requisiti della fattispecie incriminatrice, ma

viene presunto <iuris et de iure>. Pertanto, non solo non deve essere accertata la concreta esistenza dello

stato di pericolo, ma neanche è ammessa prova contraria...”). Invero, a fronte di tale primo orientamento della

giurisprudenza di legittimità, deve rilevarsi come nel tempo il “concetto di pericolo”, anche in relazione al delitto

de quo, abbia subito una notevole evoluzione nell’interpretazione offertane dalla stessa giurisprudenza della

Suprema Corte, in conseguenza anche della più generale evoluzione interpretativa che ha finito per sfumare

sempre più l’originaria contrapposizione che distingueva le categorie dei reati di pericolo astratto da quelli di

pericolo concreto, soprattutto in considerazione del fatto che lo stesso “concetto di pericolo”, in quanto frutto di

astrazione affidata ad una valutazione soggettiva, risulta difficilmente inquadrabile in schematiche categorie.

Secondo l’orientamento della più recente giurisprudenza di legittimità anche per i reati di pericolo c.d. presunto

o astratto, ai fini della sussistenza del reato e della affermazione di responsabilità penale si è ritenuto non

essere sufficiente la sola presunzione di pericolosità intrinseca fissata dal legislatore. Secondo tale ultimo

approdo della giurisprudenza di legittimità, infatti, laddove fosse adottata la soluzione della pericolosità ex lege

della condotta, si determinerebbe di fatto l’inutilità di qualsiasi tipo di accertamento investigativo prima, e

processuale poi, anche nell’eventuale contraddittorio delle parti, al punto da rischiare di violare princ ipi

costituzionalmente tutelati quali quelli di legalità, determinatezza, tassatività e, soprattutto di offensività della

fattispecie penale. In sostanza, ai fini dell’affermazione processuale di responsabilità penale, anche con

riferimento alla categoria di reati in cui si ritiene sufficiente la sola condotta per l’integrazione della fattispecie,

occorrerà pur sempre che il procedimento penale fornisca adeguata risposta, in termini probatori, in ordine

all’intrinseca idoneità offensiva della condotta posta in essere dal soggetto attivo. La conseguenza che ne

discende ai fini della valutazione della sussistenza del delitto di cui all’art. 437 c.p. che qui ci occupa è che il

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giudice non potrà limitarsi a verificare che le cautele necessarie a prevenire disastri o infortuni siano state

omesse, rimosse o danneggiate, ma dovrà pure accertare che tali cautele possano avere l’intrinseca capacità

di prevenire infortuni e disastri. Solo in presenza di tale intrinseca capacità di prevenire l’infortunio o il disastro,

la loro mancanza – o la rimozione – diventerà condotta rilevante, poiché si potrà in concreto affermare esser

intervenuta la prova che si tratta di cautele, almeno astrattamente, idonee a evitare il pericolo di offesa al bene

giuridico tutelato. Si noti che la natura di reato di pericolo del delitto di cui all’art. 437 c.p., per effetto di detta

evoluzione nell’interpretazione giurisprudenziale, non viene meno, con la conseguenza che, se da un lato è

pur vero che il giudice ai fini della sussistenza del reato dovrà verificare una situazione di effettivo pericolo,

dall’altro, trattandosi comunque di un pericolo e non di un danno, ossia di una difficile valutazione tendente a

stabilire la sussistenza di una qualificata “probabilità” di effettiva lesione del bene giuridico tutelato,

l’accertamento della relativa sussistenza dovrà essere effettuato con giudizio ex ante, utilizzando il metodo

c.d. di prognosi postuma.

Uno standard probatorio, quello appena esposto e richiesto ai fine dell’affermazione della sussistenza

della materialità della condotta, che da solo vale a confermare la necessità di accertamenti investigativi

complessi, articolati, connotati da elevata specializzazione, che possono richiedere ricorso anche ad apporti

consulenziali. Tutte condizioni che, in astratto, ragionevolmente fanno solitamente propendere la vittima del

reato di lavoro per decidere di “accompagnare” il pubblico ministero nella fase del processo, soprattutto

laddove l’indagine svolta possa essere in via prognostica giudicata “forte”, ossia completa23.

Analoghe considerazioni possono svolgersi con riferimento alla prova dell’elemento psicologico del

delitto in questione. La giurisprudenza di legittimità è costante nel richiedere ai fini della sussistenza del reato

il dolo generico, consistente non soltanto nella piena consapevolezza della condotta posta in essere, omissiva

o commissiva, ma anche della destinazione antinfortunistica dei dispositivi omessi, rimossi o danneggiati. Con

riferimento alla necessità che la consapevolezza dell’agente debba avere o meno ad oggetto anche la

23 Il delitto di cui all’art. 437 c.p., nell’ipotesi oggetto di imputazione, punisce il comportamento di colui – datore di lavoro - che

omette di collocare impianti, apparecchi o segnali destinati a prevenire disastri o infortuni sul lavoro. Ai fini della verifica della sussistenza della responsabilità la prima questione è pertanto quella di stabilire cosa debba intendersi per “impianti, apparecchi o segnali”. Secondo la costante giurisprudenza, anche di legittimità, con tale espressione è pacifico che il legislatore abbia voluto intendere qualsiasi strumento o sistema tecnologico utile a prevenire eventi dannosi e garantire maggiore sicurezza sul lavoro. Dalla natura giuridica di reato di pericolo, l’omissione di cautele che rileva è quindi quella finalizzata a prevenire una situazione di pericolo, che per effetto della mancata adozione della cautela medesima rischia potenzialmente di realizzarsi in concreto. Tale elemento consente fra l’altro, secondo la giurisprudenza della Suprema Corte, di distinguere il più grave delitto di cui all’art. 437 c.p. dalle contravvenzioni antinfortunistiche (su tutte vedasi, Cass. Sez. 1, sent n. 350 del 20 novembre 1998 ud. - dep. 14 gennaio 1999 - imp. Mantovani ed altro), in quanto, mentre per la configurazione del delitto “…occorre che la rimozione od omissione di cautele abbia posto in pericolo la pubblica incolumità e che l'agente abbia tenuto la condotta vietata nonostante la consapevolezza di tale pericolo..”, ai fini della sussistenza delle contravvenzioni in materia antinfortunistica “…non occorre che si sia verificata una situazione di pericolo per la pubblica incolumità ed è sufficiente la semplice colpa..”. Ne consegue, secondo il medesimo costante orientamento di legittimità, che il delitto di cui all'art. 437 c.p. e le contravvenzioni in materia antinfortunistica, presentando elementi strutturali diversi sotto l'aspetto sia oggettivo che soggettivo, non danno luogo a conflitto di norme, potendo anzi concorrere tra loro. In proposito è rilevante sottolineare come nella definizione del contenuto della nozione di impianti, apparecchi o segnali destinati, e come tali idonei, a prevenire disastri o infortuni sul lavoro, il legislatore abbia inteso richiamare non solo la legislazione speciale in materia di prevenzione infortuni, che impone l’adozione di particolari accorgimenti nell’ambito delle specifiche lavorazioni – essendo evidente che la stessa è ab origine formulata in modo da cristallizzare procedure aventi valenza prevenzionistica - ma anche fare rinvio all’intero complesso di disposizioni e cognizioni derivanti da altre fonti normative, ovvero dall’esperienza relativa a determinati settori produttivi, o dallo stato delle conoscenze tecnico-scientifiche in materia di prevenzione infortuni e tutela della salute dei lavoratori. Sarà infatti proprio in relazione a tali omesse cautele che il giudice dovrà stabilire, secondo un giudizio ex ante con prognosi postuma, se in concreto la violazione abbia determinato esposizione a pericolo di danno o, addirittura, nel caso della contestazione dell’aggravante dell’ “infortunio su l lavoro”, come previsto dal secondo comma dell’art. 437 c.p., se fra tale omissione e l’evento infortunio sussista nesso causale.

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circostanza che dalla sua condotta derivi un pericolo per la pubblica incolumità e, in particolare, per

l’incolumità dei lavoratori, la Suprema Corte (vedasi su tutte Cass., Sez. 1, sent. n. 17214, 1 aprile 2008 ud.

[dep. 24 aprile 2008] - imp. Avossa - rv. 240002) è ferma nel richiedere, quanto meno, l’esistenza del dolo

eventuale, nel senso che: “…nel reato di rimozione od omissione dolosa di cautele contro infortuni sul lavoro, il

dolo è correlato alla consapevolezza dell'esistenza di una situazione di pericolo discendente dal

funzionamento di un'apparecchiatura, segnale o impianto destinato a prevenire l'infortunio e privo della cautela

imposta, e alla volontà di accettare il rischio di quest'ultimo, consentendo il funzionamento senza la cautela

stessa….”. In sintesi, il dolo dell’agente dovrà avere ad oggetto: da un lato, la consapevolezza della condotta

di omessa adozione delle cautele e dispostivi antinfortunistici; dall’altro, la consapevolezza che da lla predetta

condotta omissiva derivi un pericolo per l’incolumità dei lavoratori. Tale dolo assumerà normalmente la forma

di manifestazione del dolo “minimo”, così come viene da taluno definito il dolo eventuale, che si verificherà

nell’ipotesi in cui appunto l’agente, consapevole dell'esistenza di una situazione di pericolo discendente dal

funzionamento di un'apparecchiatura, segnale o impianto destinato a prevenire l'infortunio e privo della cautela

imposta, si determini comunque ad agire, facendo si che l’attività di impresa si svolga, così di fatto

dimostrando “… di accettare il rischio di quest'ultimo, consentendo il funzionamento senza la cautela stessa”,

ma non può escludersi che in relazione alla singola situazione concreta, possa essere connotato anche da

profili di maggior gravità in termini di intensità dolosa, assumendo la forma del dolo diretto, laddove l’obiettivo

finalistico dell’agente, seppur ultroneo ed esterno rispetto all’evento pericolo costituente l’elemento costitutivo

della fattispecie de qua, lo determini anche a costo di commettere l’illecito. In tal caso, dunque, l’azione tipica,

ossia l’esposizione a rischio di pericolo dell’incolumità pubblica e in particolare quella dei lavoratori, per effetto

dell’omessa adozione di impianti finalizzati alla prevenzione del rischio stesso, diviene mezzo per un fine

ultimo che si caratterizza per essere l’obiettivo dell’agente, seppur esterno alla fattispecie. Il conseguimento di

tale obiettivo finisce per determinare il soggetto agente a scegliere di agire, anche a costo di commettere il

reato, integrando la fattispecie nei suoi elementi materiali tipici, quali appunto quelli dell’omessa adozione di

cautele antinfortunistiche. L’azione tipica, insomma, viene necessariamente messa in conto dall’agente come

mezzo per il conseguimento del proprio fine, così consentendo di definire il dolo come dolo diretto. In

definitiva, secondo la Suprema Corte il “dolo necessario” per l’integrazione del delitto di cui si tratta si

caratterizza per la consapevolezza della destinazione dei dispositivi omessi o rimossi, accompagnata dalla

decisione di continuare a far uso di tale situazione di fatto nell’esercizio dell’impresa, potendo ciò avvenire sia

nel caso “minimo” in cui l’agente si determini ad agire accettando il rischio dell’evento di pericolo connesso

all’attività di impresa specificatamente esercitata senza adozione di cautele antinfortunistiche (dolo eventuale),

sia nell’ipotesi, più grave in termini di intensità di dolo, in cui l’agente si determini a fare impresa in assenza di

cautele antinfortunistiche al fine precipuo di conseguire, per la via più breve, il conseguimento di un obiettivo

ultroneo rispetto alla fattispecie tipica, di modo che l’azione tipica, scelta con piena consapevolezza, diviene

un mezzo per il conseguimento di tale obiettivo (dolo diretto).

Ebbene, è fin troppo evidente che al fine di raccogliere circostanze fattuali da cui poter inferire,

secondo argomenti di prova logica (dovendo escludere in generale la possibilità di acquisire una prova diretta

del dolo del delitto in questione) la prova del dolo dell’agente, il datore di lavoro, le attività di indagine da

mettere in campo dovranno essere ancora una volta articolate e complete.

Da qui ancora una volta la possibilità di comprendere come una investigazione completa diviene

condizione decisiva per indirizzare la scelta della sede giudiziaria ove il lavoratore possa percorrere la propria

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pretesa risarcitoria in relazione al danno di lavoro, oltre ad offrire alla vittima occasione concreta per

conseguire detta soddisfazione.

6.4.2 La tutela della vittima di lavoro a fronte del delitto di cui all’art. 12 co.5 d.lgs.286/98

Passando invece al secondo delitto doloso, il favoreggiamento della permanenza di clandestini nel

territorio dello Stato a fini di profitto, si ricorda come l’art. 12 co. 5 del d.lgs 286/98 punisce “…chiunque, al fine

di trarre un ingiusto profitto dalla condizione di illegalità dello straniero o nell’ambito delle attività punite a

norma del presente articolo, favorisce la permanenza di questi nel territorio dello Stato in violazione delle

norme del presente testo unico …”. Trattasi di delitto a “condotta libera” per la cui consumazione non è

richiesta la verificazione dell’evento del reato dato dalla permanenza effettiva dello straniero sul territorio dello

Stato. Sotto il profilo dell’elemento psicologico, il fine di ingiusto profitto non può essere individuato nel mero

impiego dello straniero come manodopera senza il rispetto delle norme sul lavoro subordinato, occorrendo la

sussistenza di un quid pluris che distingua tale fattispecie da quella di cui all’art. 22 dello stesso decreto

legislativo.

L’elaborazione giurisprudenziale sul punto è dunque oramai orientata nel senso di riconoscere che

tale specifica finalità perseguita dal datore di lavoro può ritenersi sussistente in presenza di determinate

condizioni, ovvero ogniqualvolta ai cittadini extracomunitari siano imposte condizioni gravose e discriminatorie,

diverse e ulteriori rispetto al mancato pagamento dei contributi, come nel caso ad esempio che gli stessi siano

impiegati in condizioni disumane tali da poter essere accettate solo per la mancanza di ogni forza contrattuale

(ciò è stato ritenuto sussistere quando gli stranieri lavorino in ore notturne e dormano negli stessi locali in

condizioni fatiscenti).

In tal senso, anche l’offerta da parte di un datore di lavoro di un alloggio a lavoratori extracomunitari

impiegati irregolarmente può divenire espressione di tale illecita finalità, ma a condizione che, in concreto, si

dia prova che tale concessione di alloggio sia divenuta funzionale allo specifico impiego di detta manodopera

“in nero”, creando una commistione tra due rapporti sinallagmatici, quello di lavoro e quello di cessione di un

alloggio.

Ciò può ricorre sia quando le condizioni a cui viene ceduto l’alloggio siano deteriori rispetto a quelle

legali, come nell’ipotesi di previsione di una locazione a prezzo esorbitante o, ancor più, quando l’alloggio sia

fornito dal datore di lavoro come parziale contropartita della prestazione lavorativa, che al contempo si svolga

nei medesimi ambienti in cui si viene in concreto a realizzare una situazione di interferenza lavorativa ed

alloggiativa, travolgendo le regole legali di tutela minimale che debbono presiedere il vincolo sinallagmatico.

Ebbene, è intuibile immaginare come anche a fronte di una simile ipotesi di contestazione del delitto di

cui all’art. 12 co. 5 d.lgs 286/96 nello specifico settore del rapporto di lavoro, divenga essenziale ricostruire nel

dettaglio e mediante un’indagine completa e articolata che faccia impiego di plurime fonti di prova, di natura

dichiarativa e non, quali siano state le specifiche forme di impiego dei lavoratori clandestini, ricostruendo il

contesto di organizzazione del lavoro, al fine di verificare quanto esso si allontani dal modello astratto “legale”

della tutela del lavoratore, sotto il profilo – ad esempio – del diritto alla retribuzione, dell’orario di lavoro, del di

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Questioni sostanziali e processuali in tema di risarcimento del danno.

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diritto al godimento di periodi di riposo, della copertura previdenziale ed assicurativa, oltre alla garanzia di

svolgere la prestazione in ambienti sicuri sotto il profilo della normativa antinfortunistica.

Certamente, dunque, anche nel caso che integra il delitto di cui all’art. 12 co. 5 d.lgs. 286/98, di

lavoratore vittima di una modalità organizzativa di questo tipo, sfruttato dal datore di lavoro nella prospettiva di

assicurarsi massimizzazione del profitto, potrà essere meno complesso per la vittima del lavoro agire in sede

penale, mediante costituzione di parte civile per il risarcimento del danno, anziché optare per la via diretta del

giudizio civile, in cui comunque il giudice che dovrà pronunciarsi sulla sussistenza del delitto seppur incidenter

tantum (e salvi i casi di pregiudizialità penale), con inevitabile difficoltà, in particolare, di fornire prova – come

nel caso di cui all’art. 437 c.p. - dell’elemento psicologico, integrato dal dolo e non dalla sola colpa.

Il tutto, senza considerare le difficoltà di agire in sede civile per il clandestino e, all’opposto, la

possibilità invece per questi di beneficiare in quanto vittima di reato di una disciplina di tutela connessa proprio

allo svolgimento del processo penale, ed al ruolo che in esso il lavoratore danneggiato potrebbe svolgere, ad

esempio come testimone (si pensi al caso di concessione di permessi di soggiorno ex artt. 11 e 18 TU

stranieri per motivi di protezione sociale o di giustizia)24.

6.5 Un esempio paradigmatico di casistica processuale di sintesi

L’esperienza processuale che meglio sintetizza le considerazioni in merito alla problematiche sin qui

esposte, almeno con riferimento alla realtà territoriale oggetto del diretto osservatorio dello scrivente, è quella

scaturita dall’incendio avvenuto in Prato il 1.12.2013, di cui si è già fatto cenno allorquando si è parlato degli

effetti del risarcimento del danno sulla pretesa azionata dalla parte civile. Le finalità del presente intervento

non consentono di ripercorrere la complessa vicenda procedimentale originata che ha tratto origine da uno dei

più gravi infortuni sul lavoro registrati negli ultimi anni sul territorio nazionale. Da qui la scelta di procedere

soltanto a brevi notazioni di sintesi per consentire di meglio comprendere i fatti accaduti.

L’incendio ha distrutto un capannone industriale sede operativa di una ditta individuale cinese

denominata Teresa Moda, operante nel settore delle confezioni tessili, provocando la morte di sette operai

cinesi, cinque dei quali risultati clandestini sul territorio nazionale, e come tali impiegati al nero, peraltro al pari

anche degli altri operai deceduti.

Le indagini hanno da un lato consentito di addivenire ad una compiuta ricostruzione dell’evento lesivo,

sia con specifico riferimento all’individuazione delle cause che hanno determinato l’originarsi delle fiamme e il

loro sviluppo, nonché del nesso causale intercorso con le morti e, dall’altro, sul versante della riferibilità

24 Rileva evidenziare in proposito che il lavoratore clandestino potrebbe decidere anche di agire a tutela di un danno non

patrimoniale diverso da quello biologico, nei casi in cui sia stato vittima di una condizione di lavoro rischiose, conseguenza di un ambiente di lavoro e di un’organizzazione della prestazione lesiva priva delle minimali cautele e condizioni di sicurezza, come accade appunto nei delitti contro l’incolumità individuale, non solo nella forma dolosa di cui all’art. 437 c.p., ma anche di quella colposa ex art. 451 c.p. In detti, casi, infatti, a prescindere dalla prova di un danno alla salute – come nei casi in cui processualmente il lavoratore clandestino non sia fornito di adeguata certificazione medica – potrà comunque agire costituendosi parte civile per vedersi riconosciuto il diritto al risarcimento del danno della sfera psichica, ottenendo la giudice una liquidazione della stessa in via equitativa.

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Questioni sostanziali e processuali in tema di risarcimento del danno.

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L’azione di risarcimento in sede penale: ambiti, confini, problematiche.

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soggettiva della condotta illecita hanno permesso l’individuazione dei “responsabili di fatto” della gestione

dell’impresa, in esito ad una dettagliata ricostruzione del sistema di organizzazione del lavoro. Nel corso delle

indagini preliminari è stata avanzata una richiesta di emissione di provvedimenti cautelari personali sia nei

confronti degli indagati di nazionalità cinese, individuati quali “gestori di fatto” dell’attività, come tali destinatari

della posizione di garanzia connessa al debito di sicurezza, sia i titolari italiani della società immobiliare

proprietaria dell’immobile distrutto dalle fiamme. Nei confronti di tutti gli indagati il Giudice per le Indagini

Preliminari ha emesso provvedimenti cautelari, differenziati in ragione dei singoli ruoli svolti, poi confermati dal

Tribunale della Libertà di Firenze, adito in sede di riesame dagli indagati cautelati.

Le indagini sono poi state con richiesta di emissione di decreto di giudizio immediato cautelare, che

veniva accolta dal Giudice per le indagini preliminari. I reati oggetto della contestazione cautelare, poi confluita

nel decreto di giudizio immediato, sono risultati in parte comuni agli imputati “datori di lavoro di fatto” ed ai

proprietari dell’immobile, in particolare con riferimento al delitto di omicidio plurimo pluriaggravato (dalla

violazione della disciplina antinfortunistica e dalla colpa cosciente) (art 589 1°,2°,4° co., 61 n.3 c.p.) e

l’incendio colposo aggravato (art. 449, 61 n.3 c.p.), ed in parte limitati ai soli gestori dell’attività di impresa,

quanto al delitto di omissione dolosa aggravata delle cautele antinfortunistiche (art. 437 1°-2° co. c.p.), e del

favoreggiamento a fini di profitto della condizione di clandestinità (art. 12.5°co. d.lgs 286/98). In esito

all’emissione del decreto che ha disposto il giudizio immediato il processo ha seguito un distinto percorso in

ragione delle scelte difensive compiute dagli imputati. Quanto agli imputati cinesi, appunto i datori di lavoro e

gestori di fatto dell’attività, è stato celebrato un giudizio abbreviato condizionato, conclusosi con sentenza di

condanna per tutte le ipotesi di reato in contestazione. Nei loro confronti è già stato deciso anche il grado di

appello, che ha confermato il quadro delle responsabilità - e della sanzione - nei confronti della principale

posizione, ritenuta sin dal principio svolgere il ruolo di vero e proprio datore di lavoro di fatto della ditta

individuale intestata a prestanome. Gli imputati italiani, invece, hanno optato per il rito ordinario, che si è svolto

pertanto dinanzi al giudice monocratico in forma dibattimentale, conclusosi con sentenza di condanna per

entrambi, in relazione alle ipotesi di concorso per cause indipendenti nella condotta colposa dei datori di

lavoro, sia per le morti dei lavoratori, che per l’incendio colposo. La sentenza è stata impugnata, ed è

attualmente in corso di svolgimento il processo di appello.

Nell’impossibilità di approfondire in questa sede le questioni giuridiche di maggior interesse che hanno

caratterizzato i due epiloghi processuali di primo grado, si segnalano per gli aspetti giuridici sostanziali della

materia della sicurezza sul lavoro, da un lato, la problematica della riferibilità soggettiva al “datore di lavoro di

fatto”, risolta mediante il ricorso al criterio di imputazione soggettiva dell’evento positivizzato dall’art. 299 del

TUSL e, dall’altro, la configurabilità e sussistenza del delitto aggravato di omissione dolosa delle cautele

antinfortunistiche ed antincendio (art. 437 1°-2° co. c.p.), oltre al concorso fra tale delitto doloso, e quelli

colposi – aggravati dalla colpa cosciente – dell’omicidio plurimo con violazioni di cautele antinfortunistiche e

dell’incendio colposo, a loro volta fattispecie avvinte dal vincolo del concorso formale.

Questioni queste ultime, di rilevante ed attuale portata interpretativa giuridica, poste al centro del

dibattito giurisprudenziale anche dalle Sezioni Unite della Suprema Corte, in relazione alla nota vicenda del

“caso Thyssen”, contraddistinta fra l’altro, in gran parte, dalle medesime contestazioni che hanno

caratterizzato il processo per il rogo del 1.12.2013.

Ebbene, in questo processo vi è prova tangibile di come le vittime del lavoro, un superstite e i prossimi

congiunti degli operai clandestini o comunque impiegati “a nero” presso la ditta individuale Teresa Moda

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intestata a prestanome, abbiano scelto di agire in sede penale per perseguire il diritto al risarcimento del

danno. Tale scelta è stata senza dubbio fortemente condizionata dal quadro delle emergenze investigative

raccolte durante le indagini preliminari.

Dette indagini, infatti, a prescindere da quanto compiuto in ordine alla ricostruzione dell’evento lesivo,

ed alle modalità con le quali lo stesso si è verificato, hanno chiarito al di là di ogni ragionevole dubbio chi fosse

il soggetto che realmente gestiva l’attività di impresa clandestinizzata, ossia la reale controporte del rapporto

sinallagmatico di lavoro. Ad un simile risultato, però, si è potuti addivenire solo in esito ad un complesso lavoro

che ha coinvolto varie forze di polizia, facendo ricorso a vari strumenti di ricerca della prova anche molto

penetranti. Si pensi alle risultanze delle attività di captazione telefonica, che ad esempio hanno certificato sin

da pochi giorni dopo il fatto le richieste dei parenti delle vittime di risarcimento del danno in via stragiudiziale

indirizzata proprio al reale gestrice del luogo di lavoro, che non si è mai sottratta a dette richieste, avviando

con esse addirittura una trattativa conclusa con la corresponsione di denaro per ogni nucleo di lavoratore

ucciso, con ciò fra l’altro implicitamente dando conferma all’esterno della riferibilità soggettiva alla stessa

dell’attività di impresa in cui era maturato l’evento lesivo. Ed ancora, sono state rilevanti le attività di ricerca di

possibili testimoni condotte attraverso l’analisi di una serie di documenti recuperati all’interno dell’impresa, non

andati distrutti dall’incendio. Da detti documenti sono emersi i riferimenti ai soggetti che si sono interfacciati nel

tempo con l’attività di lavoro dell’impresa, e ciò ha permesso di individuare coloro che avevano svolto attività

con o per conto dell’impresa, dai fornitori della merce, agli installatori e manutentori dei macchinari, ai

professionisti incaricati di curare la contabilità sia relativa alla fatturazione che alla gestione del personale.

Tutti questi soggetti sono poi stati sentiti a verbale, fornendo spunti decisivi non solo per riferire

soggettivamente l’attività di impresa all’imprenditrice occulta, ma anche per ricostruire nel dettaglio le modalità

di organizzazione del lavoro, i tempi della prestazione, la selezione del personale, il quantum corrisposto per

la prestazione lavorativa.

Una pletora di elementi investigativi che, come è intuibile, mai sarebbero potuti entrare a far parte

della disponibilità del prestatore di lavoro (in tal caso un superstite) o ancor meno dei prossimi congiunti, molti

dei quali all’epoca dei fatti non dimoranti neppure in Italia, e quindi non in possesso di informazioni di dettaglio

sulla vita dell’impresa ove avevano lavorato i loro partenti deceduti.

In tal caso rispetto alla scelta compiuta di agire in sede penale mediante la costituzione di parte civile,

al lavoratore superstite ed ai parenti delle vittime sarebbe residuata la possibilità di chiedere tutela in sede

civile, al giudice del lavoro, ma avrebbero in tal caso dovuto assolvere ad un onere probatorio “rafforzato”,

allegando prova prima ancora che del danno patito, dell’esistenza del rapporto di lavoro in cui tale danno era

maturato, con la difficoltà di acquisire a tal fine le informazioni necessarie.

Ed ancora, trattandosi di danno da reato di lavoro, seppur tenuto conto dell’orientamento

giurisprudenziale secondo cui il giudizio civile non sarebbe condizionato da una pregiudizialità penale ai sensi

dell’art. 10 co.2 d.p.r.1124/65, se non nei limiti delle ipotesi di sospensione necessaria ex art. 75 co. 3 c.p.p.,

avrebbero comunque dovuto allegare la sussistenza di un fatto integrante in astratto un reato perseguibile

d’ufficio (in tal caso almeno il 589 co.1, 2, 4 c.p. e il 437 co.1, 2 c.p.), al fine di consentire a detto giudice di

esercitare il potere-dovere di accertare, seppur incidentalmente, la sussistenza del reato. La circostanza, si

evidenzia, non sarebbe risulta però di pronta e facile soluzione per i danneggiati, superstite lavoratore e

prossimi congiunti della vittima, in quanto generalmente la giurisprudenza richiede a tal fine che l’atto

introduttivo del giudizio contenga una ricostruzione quanto più dettagliata possibile dell’ambiente di lavoro,

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delle circostanze che hanno reso possibile il verificarsi dell’evento infortunio, in quanto solo la puntuale

deduzione e il concreto accertamento dei fatti consentono al giudice di addivenire ad un giudizio in ordine alla

sussistenza di un nesso di causalità tra l’evento, così come accertato, e l’eventuale inadempienza datoriale.

Da qui la scelta di agire in sede penale, sfruttando la ricostruzione del fatto e dell’ambiente di lavoro

oltre che delle modalità concrete di svolgimento della prestazione di lavoro, compiuta dal pubblico ministero.

Una scelta che ha permesso alle parti di ottenere soddisfazione in tempi molto più brevi, di conseguire una

pronuncia di condanna generica a tutela delle pretese risarcitorie, ed una liquidazione immediata di

provvisionale.

Il tutto, con riferimento non solo con riferimento al delitto contro la pubblica incolumità e sicurezza del

lavoro di cui all’art. 437 c.p. aggravato appunto dell’evento infortunio (le morti e le lesioni), e dal delitto di

omicidio colposo pluriaggravato e commesso con violazione delle normative antinfortunistiche, ma anche dal

delitto di favoreggiamento a fini di profitto dei cinque lavoratori clandestini deceduti25.

In definitiva, la prova concreta offerta dall’esperienza processuale, tanto più significativa perché si

presta a rappresentare caso paradigmatico di situazioni diffuse della gestione patologica del rapporto di

lavoro, di come la completezza dell’indagine penale possa rappresentare un decisivo parametro di scelta per

la persona offesa danneggiata dal reato in materia di sicurezza, per agire direttamente in sede penale,

25 Le indagini hanno accertato come tutti gli operai che lavoravano presso la ditta Teresa Moda – clandestini e non – operassero in

condizioni di sfruttamento. Ciò sulla base di prove dichiarative sia dei superstiti, che di alcuni parenti delle vittime del rogo e di coloro che ebbero l’occasione di venire a contatto con tale realtà lavorativa, valutate alla luce dei dati obiettivi emersi dall’osservazione diretta degli ambienti di lavoro, rispetto ai quali si pongono in relazione di assoluta coerenza sotto il profilo logico probatorio. Sintetizzando quanto emerso dagli atti di indagine è possibile affermare secondo il giudice “…che l’attività lavorativa si protraesse ininterrottamente per almeno tredici ore al giorno (di regola aveva inizio sul tardi della mattinata, potendo - nei casi di maggiore produzione – arrivare fino addirittura a sedici ore di lavoro); il lavoro si articolava anche in orario notturno e capitava che non fosse previsto alcun tipo di riposo settimanale. Sotto il profilo retributivo, certamente, la remunerazione non era proporzionata all’impegno lavorativo ed erano applicate forme di pagamento a cottimo (…)”. Dal confronto fra le ore lavorate dai lavoratori deceduti all’interno della ditta distrutta dall’incendio ed il contratto collettivo nazionale applicabile al medesimo settore produttivo (“dipendenti delle aziende industriali esercenti la confezione in serie di abbigliamento”), è emerso come la prestazione di lavoro fosse gestita dal datore di lavoro “…con assoluta arbitrarietà”. Continua la motivazione della sentenza di condanna di primo grado che “…solo al fine di evidenziare lo squilibrio di tale rapporto di lavoro se ne richiama il contenuto: l’orario di lavoro si articola su cinque giorni lavorativi di otto ore giornaliere, per un massimo di quaranta ore settimanali. Il lavoro straordinario non deve superare le 8 ore settimanali e ciò non può avvenire con riferimento ad ogni mensilità dell’anno, bensì solo per un massimo di quattro/sei mesi annui. La retribuzione mensile netta risulta compresa fra un minimo di € 1.127 sino ad un massimo di € 1.946, in ragione del diverso livello, ed esclusi gli straordinari. Evidente come nessuna di tali condizioni sia stata rispettata, ma sia stata gravemente disattesa, sia in termini di orario di lavoro, che di retribuzione. Senza considerare la circostanza che la retribuzione a cottimo risulta in massima parte vietata…”.

Ed ancora, sempre in punto di prova della materialità della condotta e di prova del dolo dell’agente, il giudice osserva nella motivazione della sentenza che “…gli imputati allo scopo di assicurare continuità a tale attività di lavoro, hanno realizzato, e comunque gestito, il quotidiano uso di ambienti promiscui, lavorativi e destinati abusivamente a civile abitazione, così consentendo agli operai di dimorare, mangiare e dormire, all’interno dello stesso luogo di lavoro, ove erano stati realizzati i locali soppalcati mediante strutture in legno e cartongesso in totale violazione delle prescritte autorizzazioni amministrative edilizie, da destinare a ricovero dei lavoratori, adibiti ad uso dormitorio e refettorio. La condizione di assoluta promiscuità fra ambienti di vita e di lavoro ha costituito strumento essenziale per favorire la permanenza degli operai clandestini sul territorio dello Stato, con l’evidente finalità di poter massimizzare il profitto ingiusto del loro lavoro. Inoltre si è visto che si trattava di condizioni abitative deteriori, in quanto erano assenti i requisiti igienici e di abitabilità. Agendo in tal modo gli imputati hanno peraltro potuto fare leva sulla contingente condizione personale degli operai, ossia sullo stato di clandestinità, consapevoli che esso avrebbe loro impedito di trovare autonomamente un luogo ove dimorare. In tal senso fornire loro un alloggio integrato proprio nell’ambiente di lavoro ha certamente rappresentato una condizione per “forzare” il normale costituirsi del rapporto di lavoro subordinato che, quanto poi alla fase esecutiva, si è sviluppato secondo modalità che, quanto ad orario di lavoro e a retribuzione effettivamente corrisposta, risulta completamente disancorato rispetto al modello legale”.

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L’azione di risarcimento in sede penale: ambiti, confini, problematiche.

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mediante costituzione di parte civile, al fine di ottenere il risarcimento del danno patito, anziché percorrere la

sede civile.

7 Gli enti di supporto alla vittima-persona offesa del reato di lavoro

Si è già detto della peculiarità del rapporto sotteso al fatto reato da lavoro, causa dell’infortunio o della

malattia. L’evento illecito affonda le sue radici nello svolgersi del rapporto sinallagmatico, in cui le parti del

negozio, datore di lavoro da un lato, e lavoratore dall’altro, non si trovano in condizioni di parità sostanziale.

É la prassi dei procedimenti di lavoro che dimostra quanto sia limitata la partecipazione attiva, prima

come persona offesa, e poi come parte civile, del lavoratore danneggiato vittima del reato di lavoro. Ciò tanto

più in quelle ipotesi in cui il rapporto di lavoro sia proseguito anche dopo il verificarsi dell’evento lesivo.

In dette ipotesi è stato osservato che il lavoratore “…si trova effettivamente in una condizione di

notevole problematicità, stretto com’è tra la tensione a vedere punto il colpevole e la preoccupazione di

ricevere un danno dal contributo che egli può portare all’accertamento della responsabilità di chi gli dà

lavoro”26.

Da qui la necessità di analizzare il ruolo svolto anche nel processo penale del lavoro da istituzioni ed

enti che svolgono compiti di supporto all’azione di prevenzione e sicurezza sui luoghi di lavoro, e che anche

nel processo penale possono “assistere” l’azione svolta, dal pubblico ministero ed, eventualmente, dalla parte

civile lavoratore leso o dai sui prossimi congiunti, a vedere accertato il reato di lavoro, ponendo in tal modo le

condizioni per addivenire ad una sentenza di condanna foriera anche del ristoro per il danno procurato dal

reato.

É in quest’ottica che verranno affrontate le prerogative, con particolare riferimento alla costituzione di

parte civile, dell’INAIL, dei sindacati, e di enti esponenziali di interessi diffusi afferenti alla tutela e sicurezza sui

luoghi di lavoro.

7.1 L’INAIL: la partecipazione al processo penale del lavoro

L’Istituto Nazionale per l’Assicurazione contro gli Infortuni sul Lavoro può costituirsi parte civile nel

processo penale del lavoro con danno all’incolumità individuale o alla vita del lavoratore, o nelle ipotesi di

delitti contro l’incolumità pubblica.

L’azione è finalizzata in primo luogo ad agire in via di regresso per il recupero delle somme erogate al

lavoratore infortunato o, in caso di decesso, ai prossimi congiunti del vittima del lavoro.

26 Così Salvatore Dovere in Le vittime del lavoro, atti convegno Formazione decentrata CSM Roma, 23.4.2009, p.9.

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In secondo luogo, l’azione può essere fatta valere in sede penale anche per reclamare il risarcimento

dei danni subiti in proprio, quali solitamente i pregiudizi patrimoniali per le sostenute spese inerenti alla

gestione del sinistro, e danni non patrimoniali derivati dalla lesione dell’immagine patita dall’istituto.

Tutto ciò accade soprattutto nei procedimenti più complessi, in relazione ai quali può concretamente

capitare che l’istituto si trovi ad affrontare rilevanti spese per la sua gestione amministrativa, che verranno così

a rappresentare costi di cui correttamente potrà chiedere rimborso nella costituzione di parte civile.

Altrettanto dicasi per il ristoro del danno all’immagine, tenuto conto del ruolo centrale e delle funzioni

istituzionali rivestite dall’ente, in tema di controllo del rispetto delle norme inerenti alle condizioni, strutturali e

non, dei luoghi di lavoro, che nel caso di infortunio sul lavoro, sia per l’ipotesi di lesione di beni giuridici

individuali che collettivi, può determinare la lesione dell’immagine dell’istituto, con il conseguente diritto, in

capo al medesimo, al risarcimento del pregiudizio non patrimoniale (in tali casi, si evidenza per inciso, è

frequente il caso che l’istruttoria non consenta però di addivenire ad una compiuta liquidazione dei costi di

gestione sostenuti, e del danno non patrimoniale subito, con la conseguenza che il giudice in esito alla

sentenza di condanna si limiterà ad una condanna soltanto generica, rimettendo al giudice civile la

determinazione del quantum esatto di risarcimento).

Si evidenzia inoltre come la giurisprudenza di legittimità abbia avuto occasione di affermare che la

costituzione di parte civile dell’INAIL può spiegare i suoi effetti nei confronti del responsabile civile (nel caso d i

specie si trattava di committenti in un processo a carico del datore di lavoro della ditta appaltatrice per

infortunio), a prescindere dal fatto che l’ente abbia mai chiesto la sua citazione in giudizio, potendo comunque

beneficiare degli effetti della chiamata fatta già da altre parti costituite, e fermo restando la necessità chi vi sia

stata formulazione di una specifica domanda risarcitoria (nel caso di specie l’INAIL aveva formulato domanda

risarcitoria anche all’indirizzo del committente), che costituisce il nucleo essenziale della citazione del

responsabile civile (vedasi Cass. Pen. Sez. IV sent. n. 46991 del 26.11.2015).

7.1.1 L’azione di regresso INAIL nel processo penale del lavoro

Venendo invece alla prima questione, ossia alla partecipazione al processo penale in veste di parte

civile da parte dell’INAIL per far valere la domanda di regresso, rileva innanzitutto ricordare che quest’ultima è

prevista dalla normativa in materia di assicurazione obbligatoria contro gli infortuni sul lavoro di cui al D.P.R. n.

1124 del 30.06.65.

Ai sensi degli artt. 10 e 11 D.P.R. n. 1124/65, nel caso di responsabilità civile a carico di coloro che

abbiano riportato condanna penale per il fatto dal quale l’infortunio è derivato, l’istituto assicuratore deve

pagare ugualmente le indennità (art. 105 D.P.R. cit.), salvo il diritto di regresso per le somme pagate a titolo

d’indennità e per le spese accessorie contro le persone civilmente responsabili, dovendo la persona civilmente

responsabile versare, altresì, all’istituto assicuratore una somma corrispondente al valore capitale dell’ultima

rendita dovuta, calcolato in base alle tabelle previste.

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L’azione civile nel processo penale da parte dell’INAIL risulta oggi esperibile sulla base di un dato

testuale, vale a dire l’art. 2 L. 123/2007 che ha introdotto nell’ordinamento un dovere di informazione del P.M.,

del quale è destinatario proprio l’INAIL, nei casi di esercizio dell’azione penale in relazione ad alcuni delitti

quali l’omicidio e le lesioni colpose con violazione della disciplina antinfortunistica.

Sul punto anche l’uniforme giurisprudenza di legittimità afferma che la “ … legittimazione dell’ente

pubblico assicurativo, … al fine di esercitare azione di regresso nei confronti del datore di lavoro, discende

direttamente dalla legge (art. 2 legge n. 123/2007)” (vedasi Cass. Pen. Sez. IV, sent. n. 22965 del 3.6.2014).

Proprio l’ art.2 della legge delega n. 123/07 per il riordino della normativa in materia di sicurezza e

salute dei luoghi di lavoro - previsto al fine di rafforzare la tutela dei lavoratori - è stato poi trasfuso

integralmente nell’ art. 61 del TUSL, rappresentando il momento cruciale, sotto il profilo normativo, che ha

sancito, senza più fraintendimenti o possibili diverse interpretazioni, la legittimazione dell’ INAIL alla

costituzione di parte civile.

L’art. 61 citato stabilisce infatti che “…in caso di esercizio dell’azione penale per i delitti di omicidio

colposo o lesioni personali colpose, se il fatto è commesso con violazione delle norme per la prevenzione

degli infortuni sul lavoro o relative all’ igiene del lavoro o che abbia determinato una malattia professionale, il

pubblico ministero ne dà immediata notizia all’ INAIL ai fini dell’eventuale costituzione di parte civile e

dell’azione di regresso.”

La dottrina ha però osservato come in realtà il percorso che ha portato negli anni, a far data

dall’entrata in vigore della novella del 1965 (D.P.R. 1124 c.d. T.U. sugli infortuni e malattie professionali) fino

all’esplicito riconoscimento della legittimazione dell’INAIL ad intervenire, come parte civile, nei giudizi penali

per reati di cui agli artt. 589 e 590 c.p., è passato attraverso una graduale e significativa evoluzione

giurisprudenziale, sia in materia di regresso dell’INAIL, sia in tema di connotazione della figura di “danneggiato

dal reato”.

In forza del combinato disposto degli artt. 10, 11 del D.P.R. 1124 c.d. T.U. sugli infortuni e malattie

professionali, all’INAIL con azione da esercitarsi innanzi al giudice civile (dal 1973 giudice del lavoro,

trattandosi di materia devoluta alla competenza di quest’ultimo), veniva riconosciuto il diritto di ripetere le

somme corrisposte agli infortunati, agendo in “regresso” nei confronti dei datori di lavoro responsabili

dell’infortunio, sempre che il fatto generatore dell’illecito avesse integrato gli estremi di un reato perseguibile di

ufficio e per il quale fosse intervenuta sentenza di condanna penale, con la possibilità di richiederne

l’accertamento incidenter tantum al giudice civile in caso di declaratoria di non doversi procedere per morte del

reo, per amnistia o prescrizione del reato.

La Corte Costituzionale, con sentenza n. 22 del 9 marzo 1967 ha esteso poi tale principio anche per i

fatti commessi da qualunque dipendente, non solo preposti, per i quali opera il criterio di responsabilità di cui

all’art. 2949 c.c. Quindi, non solo il lavoratore, ma anche i soggetti incaricati della direzione e sorveglianza del

cui operato lo stesso debba risponderne ai sensi del codice civile.

Con la stessa sentenza della Consulta venne effettuato un ulteriore ampliamento dei confini

dell’azione di regresso INAIL, stabilendo che questa non potesse essere condizionata comunque dall’esito del

giudizio penale nei confronti del datore di lavoro o dei suoi collaboratori, potendo decidere il giudice civile

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Questioni sostanziali e processuali in tema di risarcimento del danno.

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l’accertamento del fatto reato a prescindere dal giudizio penale, nei casi in cui l’ente non fosse stato in grado

di partecipare al procedimento.

Orbene, se nessun vincolo rispetto all’esito del procedimento penale poteva condizionare l’esercizio

dell’azione di regresso da parte dell’INAIL, l’avvio dell’azione di regresso restava ancora soggetta alla

completa definizione del procedimento penale, se sorto, o alla definitiva prescrizione in astratto del reato,

nell’ipotesi di mancato esercizio dell’azione penale.

La situazione cambia con il superamento del vecchio codice di procedura penale (c.d. Codice Rocco

dal nome del Guardasigilli del 1930), fondato sul c.d. “sistema inquisitorio”. Il nuovo codice, caratterizzato da

una diversa impostazione di tipo “accusatorio”, sancisce la fine di uno dei principi fondamentali che avevano

caratterizzato per il passato i rapporti tra giudizio civile e giudizio penale, ossia la pregiudizialità di quest’ultimo

rispetto al primo. E così che viene a cadere l’obbligo di attendere l’esito del giudizio penale, previsto dal

legislatore del 1965 per l’azione di regresso di cui agli artt. 10 e 11 del D.P.R. 1124, seppur le norme non

siano state formalmente modificate sul punto.

Nel decennio successivo, e nei primi anni del ‘2000, anche la giurisprudenza iniziò a riconoscere

all’INAIL la possibilità di agire in regresso senza attendere l’instaurazione o l’esito del procedimento penale,

non sussistendo più, come sopra detto, alcuna pregiudizialità tra i due giudizi, pur essendo ancora vive le

disposizioni normative di cui all’art. 10 T.U. 1124/65. Sul punto vedasi quanto affermava la Corte di

Cassazione nella sentenza n. 9601 del 14 luglio 2001 specificando che “….in base al diritto vivente formatosi

anche in seguito ai numerosi interventi della Corte Costituzionale in materia, l’azione di regresso dell’INAIL nei

confronti del datore di lavoro o dei suoi preposti alla direzione dell’azienda o alla sorveglianza dell’attività

lavorativa, ritenuti civilmente responsabili di un infortunio verificatosi in danno di un dipendente è esercitatole

autonomamente senza dover necessariamente attendere l’instaurazione o l’esito del procedimento penale per

il fatto da cui è derivato l’infortunio e senza che, quindi, assuma rilievo l’eventuale conclusione di tale ultimo

procedimento con un provvedimento di archiviazione o di proscioglimento in sede istruttoria”.

Ad oltre trenta anni dall’entrata in vigore del T.U. 1124/65, quindi, l’azione di regresso dell’INAIL

risultava ormai svincolata non solo dall’esito del giudizio penale, ma anche, temporalmente, dalla definizione

di quest’ultimo.

Residuava ancora però un limite per l’INAIL, ossia la necessità di agire in “regresso”, azione distinta

ed autonoma rispetto ad una comune azione di restituzione o risarcimento del danno, solo in sede civile, in

quanto non veniva riconosciuto all’INAIL il diritto di costituirsi parte civile perché non si riteneva che l’Istituto

potesse essere considerato soggetto “offeso” dal reato, e come tale legittimato ad esercitare nel processo

penale l’azione civile per le restituzioni ed il risarcimento del danno nei confronti dell’imputato o del

responsabile civile e non rinvenendosi alcuna legge speciale che ne consentisse la costituzione di parte civile

pur nei limiti di quanto previsto dall’art. 212 disp. att. c.p.p.

Per comprendere, però, come sia stato possibile per l’INAIL approdare nelle aule penali ed esercitare

direttamente in quella sede l’azione di regresso, occorre ricordare l’ulteriore e decisivo passaggio, appunto

quello dell’attribuzione all’Istituto della qualifica di “soggetto danneggiato” nei reati di lesioni ed omicidio

direttamente collegati alla violazione della normativa antinfortunistica, qualifica resa ancor più evidente dagli

interventi legislativi in materia di sicurezza sul lavoro succedutisi negli ultimi venti anni dal D.Lgs 626/94 al

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D.L.vo 81/2008. Al riguardo si evidenzia come l’evoluzione della giurisprudenza di legittimità in tema di

“soggetto danneggiato dal reato” aveva già avuto modo di evidenziare come quest’ultimo non si identificasse

solo nel “soggetto passivo” del reato, potendosi in realtà ben verificare il caso di “danneggiati” diversi dal

soggetto passivo” che avessero subito, in via riflessa, un danno dall’azione delittuosa e, come tali, titolari del

diritto alla restituzione ed al risarcimento del danno, esercitabile tramite la costituzione di parte civile (Cass. 4

luglio 2002 n. 34310; Cass. 18 novembre 2004 n.3996; Cass. 4 novembre 2004 n. 7259). In tale ottica, non

poteva residuare dubbio in ordine al fatto che anche all’INAIL dovesse riconoscersi la qualifica di

“danneggiato” in relazione ai fatti di condotta illecita di chi cagioni la morte o le lesioni personali con violazione

della normativa antinfortunistica. L’ente infatti subisce in tal caso un danno che costituisce conseguenza

diretta ed immediata del reato, a nulla rilevando né la fonte giuridica, né la disciplina di tutela infortunistica

dell’intervento INAIL, ma soltanto il rapporto di causalità, ex art. 40 e 41 c.p. tra la condotta illecita e

l’erogazione delle prestazioni in favore della vittima del reato.

Alla luce del suddetto rapporto di causalità appare chiaro che la condotta di chi abbia posto in essere

la fattispecie tipica della norma penale, violando la normativa antinfortunistica e causando così le lesioni

personali o la morte di un lavoratore, costituisca conditio sine qua non e, quindi, causa della erogazione delle

prestazioni che, in assenza di tale condotta, e, quindi, in assenza dell’evento lesivo, non sarebbero state

erogate.

É proprio nel solco di detta interpretazione giurisprudenziale che già prima degli interventi normativi

del 2007 e 2008 avevano giustificato la costituzione dell’INAIL come parte civile nel processo penale per

esercitare l’azione di risarcimento del danno e, in particolare di “regresso”, per ottenere il rimborso della

prestazioni erogate in conseguenza dell’evento infortunio, che si giunge appunto all’introduzione dell’art. 61

TULS, con il quale il legislatore si propone l’evidente obiettivo di conferire all’INAIL un ruolo e dei poteri più

incisivi, al fine di migliorare la tutela della salute dei lavoratori, anche con azioni aventi carattere di deterrente

e strumenti punitivi più efficaci nei confronti dei responsabili degli infortuni.

É per questo che la Suprema Corte, nella giurisprudenza affermatasi anche dopo gli interventi del

2007 e 2008, nelle occasioni in cui ha avuto modo di ricostruire incidenter tantum l’evoluzione del sistema di

esercizio del potere di regresso INAIL ha affermato che il novum normativo ha voluto accentuare e valorizzare

“…in chiave prevenzionistica” la stessa “…attività istituzionale dell’ente assicuratore” facendo della stessa

azione di regresso uno strumento attraverso il quale l’ordinamento persegue un “…più elevato livello di

prevenzione dei sinistri, giacchè quella concorre ad incentivare l’adempimento dell’obbligo del datore di lavoro

di adottare ogni misura idonea a prevenire gli infortuni e le malattie professionali”.

In definitiva, l’avviso che è chiamato a fare oggi ex art. 61 TUSL il pubblico ministero all’INAIL ha non

soltanto lo scopo di agevolare il compiuto dell’istituto “…di conoscenza degli infortuni verificatisi su tutto il

territorio nazionale..”, ma anche quello di divenire “…strumentale a consentire al medesimo di esercitare a

propria scelta l’azione civile, di risarcimento o di regresso, nel processo penale ovvero in sede civile” (vedasi

Cass.pen.Sez. IV sent. n. 30206 del 12.7.2013).

Sono le medesime considerazione che già nel 2005, durante l’inaugurazione dell’anno giudiziario,

avevano fatto dire all’allora Procuratore Generale della Cassazione Favara che l’INAIL è “primario mezzo di

prevenzione”, discutendo della piaga degli infortuni sul lavoro.

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Resta allora da chiedersi se l’INAIL non possa essere considerata anche “parte offesa”, anziché solo

danneggiata, visto e considerato che solo alla persona offesa come detto il codice di rito riserva facoltà di

partecipazione alla fase delle indagini preliminari, con possibilità quindi di incidere sulla stessa azione penale.

Si tratta di una proposta interpretativa che ha registrato numerosi consensi, tenuto conto che da un lato, che

l’art. 61 TULS riconosce già all’INAIL la qualifica di danneggiato, mentre per gli enti del secondo comma è

stata prevista solo l’equiparazione alla persona offesa e, dall’altro, del fatto che l’INAIL è portatore di un

proprio interesse diretto al risarcimento del danno (inteso come recupero di denaro pubblico), ma anche

portatore di un interesse pubblico alla riduzione degli infortuni e delle malattie professionali.

7.1.2 Questioni processuali problematiche sulla partecipazione INAIL al processo penale del lavoro

Prima di concludere si segnalano alcune questioni processuali connesse alla partecipazione del ai

processi penali del lavoro.

In particolare:

a) Le conseguenze patologiche dell’omesso avvisto ex art. 61 TULS da parte del P.M. all’INAIL

La Cassazione si è occupata delle conseguenze della violazione da parte del pubblico ministero

dell’obbligo di informativa ex. art. 61 TULS, sancendo che da essa non discende un caso di nullità di

ordine generale a regime intermedio ex art. 178 lett. C), 180 c.p.p., bensì un caso di mera irregolarità.

Potrà essere soltanto l’INAIL ad esercitare l’interesse processuale a dolersi dell’asserita inosservanza del

disposto dell’art. 61 TULS, trattandosi di disposizione che mira a “stimolare” l’eventuale costituzione di

parte civile dell’ente (vedasi Cass. Sez. pen. IV – Sent. n. 29665 del 17.7.2012).

b) Il destinatario dell’azione di regresso INAIL

Il tema è quello relativo all’an dell’esperibilità dell’azione anche con riferimento in relazione alla qualifica

dell’imputato, ossia all’imputato che non sia soggetto individuato in proprio come “garante” del rischio

lavorativo.

Può capitare che le difese eccepiscano la legittimazione dell’INAIL a costituirsi parte civile per far valere in

sede penale l’azione di regresso nei confronti di imputati che non sono datori di lavoro, chiamati a

rispondere con questo del fatto colposo proprio, a titolo o di cooperazione ex art. 113 c.p.p., oppure

secondo lo schema delle cause autonome ed indipendenti ex art. 41 c.p.p., salva comunque l’azione

surrogatoria dell’assicuratore.

L’eccezione può essere proposta sia nel processo in cui ancora coesista la condizione di imputati titolari

della posizione di garante del rischio e di soggetto estraneo, o di giudizio a carico soltanto di quest’ultimo,

come ad esempio accade nei casi in cui il simultaneus processo è venuto meno per la diversa scelta di

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definizione compiuta dagli imputati, alcuni dei quali, soltanto, abbiano optato per l’accesso a riti alternativi.

Tale eccezione si fonda sulla considerazione per cui la tutela ex art. 11 D.P.R. 1124/65 sarebbe

approntata a favore dell’istituto soltanto nei confronti di coloro che, violando le norme per la prevenzione

degli infortuni sul lavoro, abbiano dato causa all’infortunio, riportando per questo condanna penale.

Proprio da ciò discenderebbe l’inesistenza, in capo all’I.N.A.I.L., del diritto di regresso nei confronti di

quanti siano chiamati a rispondere per condotte causalmente efficienti rispetto al danno, ma totalmente

estranee al rapporto di lavoro.

Ebbene, a prescindere dalla sussistenza in concreto della coesistenza della pluralità di imputati con

diversa qualifica del fatto lesivo nel medesimo giudizio, detta eccezione appare secondo la giurisprudenza

priva di pregio. In realtà nella disciplina del suddetto testo unico il riferimento al “rapporto di lavoro” serve

esclusivamente ad identificare, sul piano sia oggettivo che soggettivo, il rischio coperto dall’assicurazione

obbligatoria, dovendosi escludere il riconoscimento dell’indennizzo, con i conseguenti effetti di legge, nel

caso di sinistro avvenuto in circostanze del tutto estranee alla situazione lavorativa o comunque

all’occasione di lavoro. In sostanza, il riferimento al “rapporto di lavoro” non assurge a criterio di selezione

dei soggetti nei cui confronti possa promuoversi l’azione di regresso, risultando quest’ultima tutela

approntata, in favore dell’istituto erogatore delle prestazioni, nei confronti di chiunque abbia dato causa,

con il suo comportamento, all’evento lesivo, purché ovviamente quest’ultimo si verifichi per l’appunto in

una situazione lavorativa, o comunque nell’ambito di un’occasione di lavoro.

Decisivo pare l’argomento testuale che si ricava dal combinato disposto degli artt. 10 e 11, che definisce

persona civilmente responsabile, contro la quale può venire promossa l’azione di regresso, colui che abbia

riportato condanna penale per il fatto dal quale l’infortunio è derivato, senza alcun limite con riguardo al

titolo fondante la responsabilità, avente perciò una potenziale origine anche diversa dalla violazione della

normativa sulla sicurezza dei luoghi di lavoro.

Dal combinato delle due norme emerge che nel caso INAIL l’azione di surroga si identifica nella speciale

azione di regresso. É ciò che ha finito per far affermare anche alla Suprema Corte che “…tale azione è

quindi esperibile non solo nei confronti del datore di lavoro, ma anche verso i soggetti corresponsabili

dell’infortunio a causa della condotta da essi tenuta…” (Cass.pen.Sez. IV sent. n. 30206 del 12.7.2013)27.

c) La determinazione del quantum per il caso del procedura di indennizzo non esaurita.

La questione è quella delle modalità di determinazione del quantum dovuto in caso di condanna

dell’imputato per un reato di “lavoro” per cui vi sia avvio della procedura di indennizzo ma non della sua

conclusione.

27 Si discute molto del rapporto fra azione di regresso e azione di surroga in termini generali. In base all’art. 1916 c.c. l’ente che

abbia indennizzato il lavoratore infortunato può surrogarsi nei diritti del danneggiato nei confronti del terzo responsabile ed ottenere da questi l’equivalente di quanto versato in ragione del rapporto assicurativo. Tale azione trova esplicazione non nei confronti del datore di lavoro ma del terzo responsabile dell’infortunio esterno al rischio protetto dall’assicurazione obbligatoria contro gli infortuni. L’azione di surroga deve ritenersi esclusa dalla possibilità di essere esercitata nel processo penale, sul presupposto che gli assicuratori non possono essere considerati né danneggiato né offesi dal reato. Per essi viene quindi meno la legittimazione a costituirsi parte civile (vedasi sul punto sempre Cass.pen.Sez. IV sent. n. 30206 del 12.7.2013).

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Con riguardo invece al secondo aspetto, quello della determinazione del quantum da riconoscere all’INAIL

a titolo di regresso per la procedura di indennizzo non esaurita si evidenzia come nella pratica possa

capitare – seppur invero raramente - che i tempi del processo penale siano più brevi di quelli richiesti per

la definitiva erogazione delle erogazioni corrisposte dall’ INAIL al lavoratore leso o ai prossimi congiunti

del lavoratore deceduto. Ciò accade ad esempio nei processi penali per omicidio colposo, nei casi più

gravi anche aggravato dal numero degli infortunati, che si definiscono in udienza preliminare con rito

abbreviato o, più raramente, addirittura prima dell’udienza preliminare, come nel caso di procedimento

definito con richiesta di rito abbreviato richiesto nei termini di legge in esito alla notifica del decreto che

dispone il giudizio abbreviato, per i casi di cui all’art. 453 co.1 c.p.p., oppure nell’ipotesi di decreto di

giudizio immediato “anomalo”, ossia cautelare, come può avvenire - ad esempio - nel caso in cui il titolo

per il fatto colposo sia stato emesso nell’ambito di procedimento in relazione al quale sussista titolo

cautelare anche per un connesso delitto doloso, quale l’art. 437 c.p. aggravato dall’infortunio mortale (in

relazione al delitto doloso si evidenzia che le esigenze cautelari legittimanti il titolo cautelare solitamente

possono attenere non solo al pericolo di inquinamento probatorio – come di solito accade per i titoli

colposi, per i quali è realmente residuale, se non eccezionale, la possibilità di applicazione di misura

cautelare – ma anche per il rischio di reiterazione.

In tal caso, in esito alla definizione del giudizio penale, laddove esso si concluda con condanna

dell’imputato, accadrà che il quantum richiedibile a titolo di azione di regresso da parte dell’INAIL dovrà

essere limitato a quanto effettivamente erogato – e documentato – ai beneficiari per legge, ed il giudice

penale altro non potrà fare che parametrare la provvisionale al cui pagamento condannare l’imputato alla

somma della quale può ritenersi essere raggiunta la prova, per poi rimettere le parti per la quantificazione

del residuo importo richiesto a titolo di regresso (e non ancora erogato), ed eventualmente del danno,

patrimoniale e non, risarcibile innanzi al giudice civile.

7.2 Il Sindacato: la partecipazione al processo penale del lavoro

Il tema della costituzione come parte civile dei sindacati nei processi penali in materia di lavoro è

comune a quello, più generale, dell’ammissibilità della costituzione di parte civile degli enti collettivi.

Trattasi di quei soggetti che, diversi dalla persona fisica, siano dotati o meno di personalità giuridica,

mirino in quanto potenziali soggetti danneggiati dal reato ad ottenere nel processo penale il ristoro per i danni

(patrimoniali e non) subiti in conseguenza del reato, sulla base delle disposizioni generali di cui agli artt. 185

comma 2 c.p., 74 c.p.p. e 2059 c.c..

La giurisprudenza di legittimità (vedasi su tutte Cass. SS. UU. n. 38.343/14) ha affermato che

un’associazione, anche non laddove riconosciuta, deve considerarsi legittimata ad avanzare, iure proprio, la

pretesa risarcitoria, laddove assuma di avere subito per effetto del reato un danno non patrimoniale,

consistente nell’offesa all’interesse perseguito dal sodalizio e posto nello statuto quale ragione istituzionale

della propria esistenza ed azione, con la conseguenza che ogni attentato a tale interesse si configura come

lesione di un diritto soggettivo inerente alla personalità o identità dell’ente.

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Ciò è ammissibile - si ribadisce - a prescindere dalla qualifica di tali enti come persone offese, titolari

del bene giuridico protetto dalla normativa penale.

Ebbene, non si ritiene in questa sede necessario ripercorrere l’elaborazione giurisprudenziale che ha

permette oggi di ritenere un dato oramai acquisito che i sindacati, al pari degli altri enti collettivi, come quelli

territoriali, ed addirittura a prescindere dalla iscrizione dei lavoratori vittima del reato a quello specifico

sindacato, siano titolari di situazioni giuridiche garantite dall’ordinamento, per le quali vi può essere lesione e

danno ingiusto rilevante ai sensi dell’art. 2043 c.p.p..28

Pare piuttosto più rilevante soffermare l’attenzione sui criteri di individuazione dell’ an e del quantum

del risarcimento.

Quanto all’an rileva osservare come il sindacato annoveri tra le proprie finalità la tutela delle condizioni

di lavoro intese non soltanto nei profili collegati alla stabilità del rapporto ed agli aspetti della contrattazione

collettiva, ma anche per quanto attiene alla tutela delle libertà individuali e dei diritti primari del lavoratore, tra i

quali quello, costituzionalmente riconosciuto, della salute.

Non solo. La tutela delle condizioni di lavoro – che peraltro risultano essenziali a garantire la tutela

della salute del lavoratore - costituisce sicuramente uno dei compiti delle organizzazioni sindacali, di ciò

potendosi trovare ampio riconoscimento in plurime fonti normative

Risulta pertanto evidente la ratio sottesa alla giurisprudenza di legittimità che nel tempo ha condotto a

riconoscere legittimazione al sindacato a costituirsi parte civile in processi penali “del lavoro”, che coinvolgano

la lesione della sicurezza delle condizioni di lavoro normativamente richieste a tutela della salute della vittima

lavoratore, e ciò addirittura indipendentemente dall’iscrizione del lavoratore vittima al sindacato.

L’organizzazione sindacale, infatti, per effetto del reato in materia di sicurezza del lavoro subisce un

danno autonomo e diretto, di natura non patrimoniale, costituito dalla perdita di credibilità dell’azione di tutela

delle condizioni di lavoro, svolta dalle associazioni con specifico riferimento alla sicurezza dei luoghi di lavoro.

Trattasi, in particolare, di un danno all’immagine, rappresentato dalla diminuzione della considerazione

dell’ente da parte dei consociati in genere, o di categorie o settori di essi, con i quali l’ente di norma

interagisca (si veda fra le altre Cass. pen. Sez. IV sent. 27183 del 30.6.2015).

Il tema del quantum del risarcimento viene invece risolto in relazione alla singola vicenda concreta, in

ragione della capacità o meno da parte dell’ente sindacale costituitosi parte civile di dimostrare in concreto il

danno patito. L’esperienza dimostra che generalmente le organizzazioni sindacali non riescono a dare prova

di aver patito un danno economico diretto (danno patrimoniale), mentre è più concreta l’eventualità che

riescano a dare prova di aver subito un danno all’immagine, a fronte del quale al giudice penale residua

possibilità di procedere ad una liquidazione in via equitativa, solitamente facendo ricorso come parametri del

28 Cass. pen. sez. IV n. 10048/93 e Cass. pen. sez. IV n. 22558/10, che ha sancito il principio di diritto dell’ammissibilità,

indipendentemente dall’iscrizione del lavoratore al sindacato, della costituzione di parte civile delle associazioni sindacali nei procedimenti per reati di omicidio o lesioni colpose commessi con violazione della normativa antinfortunistica, quando l’inosservanza di tale normativa possa cagionare un danno autonomo e diretto patrimoniale o non alle associazioni sindacali per la perdita di credibilità dell’azione di tutela delle condizioni di lavoro dalle stesse svolta con riferimento alla sicurezza sui luoghi di lavoro e alla prevenzione delle malattie professionali.

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calcolo a quelli della gravità delle violazioni riscontrate alla normativa sulla sicurezza dei luoghi di lavoro

all’interno dell’azienda. Tanto più grave sia l’accertata assenza di sistemi di sicurezza e tutela della salute del

lavoratore, ossia di mancanza di adeguata gestione del rischio lavorativo, nonché del numero dei lavoratori

lesi o esposti a pericolo, e delle conseguenze riportate, tanto più elevata sarà la liquidazione del danno

risarcito per l’organizzazione sindacale costituitasi. In esito a tale decisione sulla determinazione del quantum,

al Giudice residuerà poi, come per qualsiasi altro danno risarcibile conseguenza del reato accertato con

sentenza di condanna, di verificare se sussistano in concreto motivi per la concessione della provvisoria

esecutività, e della richiesta provvisionale.

Prima di concludere in tema di partecipazione al processo penale del sindacato per reati in materia di

sicurezza, appare opportuno affrontare un’ultima questione tratta dall’osservatorio dei giudizi di primo grado.

Il tema della ammissibilità o meno della costituzione del sindacato viene talvolta ancora a porsi in

riferimento a quei contesti lavorativi in cui è maturato l’evento lesivo, che in forza delle attività di indagine sono

stati ricostruiti facendo emerge non solo l’assenza di iscrizione del lavoratore leso al sindacato, ma addirittura

l’assenza di qualsivoglia presenza dell’organismo sindacale, anche solo in forma embrionale.

Si tratta nella prassi dei casi più gravi, che si caratterizzano per la peculiarità e diffusa illegalità del

contesto lavorativo, quali ad esempio i procedimenti a carico di datori di lavoro che abbiano impiegato

lavoratori clandestini a “nero”, privi di tutela previdenziale ed assicurativa, e sovente anche costretti anche a

corrispondere una prestazione lavorativa al di fuori delle minimali garanzie previste dalla contrattazione

individuale o collettiva di settore, oltre che appunto ad operare in ambienti di lavoro non sicuri, in cui sia

maturato in concreto l’evento lesivo, individuale o addirittura collettivo.

Si tratta sia dei procedimenti per art. 589 o 590 c.p. aggravati dalla violazione della normativa

infortunistica, ma anche di quelli per le violazioni di cui all’art. 451 c.p. o addirittura per l’ipotesi dolosa di cui

all’art. 437 c.p.. In tali situazioni può capitare che alla richiesta di costituzione dell’organizzazione sindacale

come parte civile nel processo a carico del datore di lavoro, la difesa dell’imputato obietti che quell’ente non

solo non costituisca l’associazione dei riferimento del lavoratore (dato come detto non ostativo all’ammissibilità

della costituzione del sindacato), ma addirittura sino al momento del reato non abbia compiuto nulla per

proporsi in concreto come strumento di tutela e garanzia della condizione di salute di chi opera in quello

specifico contesto di lavoro.

In sostanza, si obietta all’ammissibilità della costituzione del sindacato “richiedente” la sua completa

estraneità ed assenza, anche solo in forma embrionale, da quel contesto illecito di lavoro.

La soluzione che la giurisprudenza in tal caso offre rimane quella sin qui già esposta, ossia comunque

della piena ammissibilità della costituzione dell’organismo sindacale. Gli argomenti posti a sostegno di tali

decisioni appaiono sempre quelli che muovono in generale dalle finalità statutarie perseguite da tali enti

collettivi, e risultanti dai rispettivi Statuti costitutivi, ossia la tutela in genere delle condizioni di lavoro con

riferimento a tutti gli aspetti rilevanti nella materia, dalla sicurezza sui luoghi di lavoro, alla salute del

lavoratore, agli aspetti economici del rapporto di lavoro, al rispetto delle condizioni di libertà ed autonomia

nella relazione con il datore di lavoro.

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In proposito vale peraltro la pena ricordare che la giurisprudenza di legittimità (vedasi Cass.pen. Sez.

IV sent. 27162 del 30.6.2015) ha evidenziato come il riconoscimento del ruolo delle organizzazione sindacali

come organi di tutela delle condizioni di lavoro, anche con specifico riferimento alla sicurezza dei luoghi di

lavoro ed alla prevenzione degli infortuni e delle malattie professionali, trovi ampio riconoscimento in varie fonti

normative. Fra queste, in primo luogo, l’art. 9 dello Statuto dei lavoratori, che ha costituito il primo

riconoscimento della presenza organizzata dei lavoratori a tali fini, consentendo la costituzione di proprie

rappresentanze con il compito di controllare l’applicazione delle norme per la prevenzione degli infortuni sul

lavoro e delle malattie professionali e di promuovere la ricerca al fine della migliore tutela della loro salute e

integrità fisica. In secondo luogo, la direttiva CEE n. 391 del 2 giugno 1989 che, con riferimento alla sicurezza

sul lavoro, sollecitava gli Stati membri a garantire ai lavoratori e ai loro rappresentanti un diritto di

partecipazione conforme alle prassi e/o alle legislazioni dei singoli Stati. In terzo luogo, gli artt. 18 e 20 del

D.Lgs 19 settembre 1994, n. 626, che dando attuazione alla direttiva, hanno previsto che in tutte le aziende o

unità produttive debba essere eletto o designato il rappresentante dei lavoratori per la sicurezza, con funzioni

di accesso, consultazioni e proposizioni espressamente previste e con garanzie di libertà per l’esercizio dei

suoi compiti e la costituzione, a livello territoriale, di organismi paritetici, tra le organizzazioni sindacali dei

datori di lavoro e dei lavoratori, con funzione orientamento e di promozione di iniziative formative nei confronti

dei lavoratori. Infine, il d.lgs 9 aprile 2008, n. 81, che ha confermato ed anzi rafforzato il descritto sistema,

distinguendo tre tipologie di rappresentanti dei lavoratori per la sicurezza, rispettivamente al livello aziendale,

territoriale o di comparto, e di sito produttivo, assicurando loro una specifica formazione i cui contenuti sono

demandati alla contrattazione collettiva.

In sostanza, il sistema normativo vigente non lascia dubbio in ordine al fatto che in casi di tragici

eventi lesivi maturati nel contesto dell’ambiente di lavoro, oltre che naturalmente la lesione di beni primari alla

vita e alla salute propri del lavoratore destinatario di quelle norme, determini anche la lesione dei suddetti

interessi dell’associazione di categoria, in ragione della capacità del fatto illecito di ledere al tempo stesso più

interessi non patrimoniali (plurioffensività del fatto illecito), di cui siano titolari la stessa persona (fisica o

giuridica), o invece riconducibili a diversi titolari (come accade nella specie).

Per l’organizzazione sindacale si tratterà, come sopra accennato, di pregiudizio di carattere non

patrimoniale, sub specie di danno di immagine, in quanto la commissione di determinati reati offende i beni

giuridici della salute del lavoratore e, più in genere, dei diritti allo stesso riconosciuti e sottratti alla libertà

negoziale riconosciuta al contratto di lavoro, svalutando la funzione ed il ruolo di tali enti collettivi e frustrando

l’effettività ed efficacia dei compiti fatti propri dalle organizzazioni sindacali.

Tale danno non può certamente ritenersi in astratto venire per la mera constatazione fattuale della

pregressa (rispetto all’evento lesivo) assenza di qualsivoglia presenza del sindacato, anche solo in forma

embrionale, poiché tale mancata presenza è semmai conseguenza della peculiarità del contesto lavorativo

esaminato, ossia espressione proprio della “assoluta impermeabilità” di tali ambienti di lavoro, da un lato, per

la mancanza di voce del lavoratore (addirittura obbligato a rimanere muto per il rischio di non far emergere la

propria condizione di clandestinità), dall’altro, a causa della mancanza di qualsiasi dialettica con il datore di

lavoro.

La soluzione della ammissione, anche in tali casi “estremi” della possibilità di costituzione del

sindacato come parte civile appare pertanto pienamente condivisile e, peraltro, si osserva, proprio la

presenza del sindacato quale parte civile in processi di questa natura appare funzionale a sublimarne il ruolo

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Questioni sostanziali e processuali in tema di risarcimento del danno.

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L’azione di risarcimento in sede penale: ambiti, confini, problematiche.

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dell’organismo di rappresentanza dei lavoratori come strumento di “supporto e tutela” del lavoratore (o dei suoi

prossimi congiunti), ancor più nelle vicende di offesa al sistema di sicurezza che si connotano per massima

gravità.

7.3 La partecipazione di altri enti esponenziali di interessi diffusi lesi dal reato di lavoro

Il tema della possibile costituzione di parte civile degli enti e delle associazioni è stato oggetto di una

progressiva evoluzione giurisprudenziale nel tempo. Mentre la giurisprudenza più risalente era restrittiva, con

il passare degli anni si è progressivamente aperta a soluzioni estensive. Si è così progressivamente affermato

il principio secondo cui anche gli enti e le associazioni sono legittimati all’azione risarcitoria in sede penale,

mediante costituzione di parte civile, laddove abbiano ricevuto dal reato un danno ad un interesse proprio.

Tale interesse, in genere, ed in particolare nei processi penali del lavoro, deve coincidere con il diritto reale e

comunque con un diritto soggettivo del sodalizio, assunto nello Statuto a ragione stessa della propria

esistenza e azione. Tale ultimo interesse, in virtù da un lato dell’immedesimazione organica fra l’ente e

l’interesse stesso, dall’altro, dell’incorporazione fra i soci e il sodalizio, può patire un’offesa in conseguenza di

fatti illeciti.

É in forza di tale percorso di evoluzione giurisprudenziale che, ad esempio, la giurisprudenza della

Suprema Corte a Sezioni Unite (sent. n. 38343 del 18.9.2014, nella nota vicenda Thyssenkrupp) ha ritenuto

legittimata a costituirsi parte civile in una grave vicenda di infortunio mortale plurimo l’associazione

denominato “Medicina Democratica, Movimento per la Salute”, evidenziando come l’ente aveva operato in

concreto all’interno dell’azienda a tutela delle condizioni di sicurezza dei lavoratori e delle salubrità degli

ambienti, di talché il verificarsi del tragico infortunio mortale costituiva evento senza dubbio in grado di

prestare la sua attività, screditandone il ruolo e l’immagine dell’ente locale comune.

In forza di analoghe considerazioni è stata ammessa la costituzione come parte civile dell’ente locale

Comune nel processo per l’infortunio mortale sopra citato in cui hanno preso la vita a causa di un incendio

sette operai cinesi, cinque dei quali clandestini, che lavoravano e vivevano all’interno di un capannone

industriale sede produttiva di una confezione tessile.

Per tale evento infortunio sono stati sin qui celebrati entrambi i giudizi di merito (primo e secondo

grado) a carico dei datori di lavoro di “fatto” dell’impresa gestita in forma di ditta individuale, intestata ad un

prestanome - risultata del tutto estranea all’attività di lavoro - ed il giudizio di primo grado a carico dei

proprietari dell’immobile sede dell’attività di lavoro, imputati dei reati colposi aggravati di omicidio plurimo e

incendio, per aver concorso con cause autonome indipendenti rispetto ai profili di colpa ipotizzata a carico dei

datori di lavoro a cagionare gli eventi reato.

Ebbene, in entrambi i giudizi svolti in primo grado dinanzi al Giudice per l’udienza preliminare con rito

abbreviato e al Giudice del dibattimento, il Comune di Prato, città ove si è verificato l’infortunio mortale

plurimo e si sono celebrati i giudizi di primo grado, ha reclamato il ristoro del danno all’immagine, patito in

conseguenza della frustrazione della propria finalità istituzionale di tutela della sicurezza sui luoghi di lavoro.

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Al fine di dimostrare come tale infortunio mortale plurimo avesse potuto risolversi non semplicemente

in una mera lesione dell’interesse diffuso alla sicurezza dei luoghi di lavoro, bensì avesse determinato in

concreto pregiudizio per un obiettivo primario dell’ente, lo stesso ha dedotto di aver siglato in data

antecedente al fatto reato un patto istituzionale (cosiddetto “Patto per Prato Sicura”) con il rappresentante

locale del governo centrale, la Prefettura, il Presidente della Regione Toscana e della Provincia di Prato,

peraltro in continuità con altre convenzioni risalenti anche ad anni precedenti, con cui le parti si impegnavano

ad attivare un sistema stabile e diffuso di controlli per contrastare le diffuse pratiche di gestione illecita, anche

in materia di sicurezza, di aziende condotte da imprenditori cinesi nel settore tessile.

Ciò è bastato, in concreto, a ritenere l’ente locale soggetto rappresentativo e portatore di un interesse

leso dal reato, idoneo a pregiudicarne reputazione e prestigio, quale conseguenza dell’incapacità di aver

attuato uno specifico compito istituzionale.

Da qui, il risarcimento del danno non patrimoniale, con pronuncia di condanna generica e rinvio al

Giudice Civile per la determinazione della specifica liquidazione (così sia GUP Prato, sent. 22.5.2015, n. 15,

che Trib. Prato, sent. 7.3.2016, n. 286. L’appello - sin qui celebrato a carico degli imputati datori di lavoro di

fatto - ha poi confermato legittimazione dell’ente locale e condanna generica).

8 La questione dell’ammissibilità (o meno) dell’azione civile nei giudizi di responsabilità contro l’ente per reati presupposto in materia di lavoro

Ampio ed attuale è il dibattito sia in dottrina che in giurisprudenza in ordine alla questione

dell’ammissibilità o meno della costituzione di parte civile direttamente nei confronti dell’ente, nell’ipotesi di

processo penale azionato per accertare la sussistenza degli elementi costitutivi della fattispecie delineata dal

d.lgs. 231/2001. Le soluzioni diversificate proposte risultano in gran parte condizionate dalla posizioni assunte

in merito alla natura giuridica della responsabilità dell’ente.

Il quadro normativo di riferimento infatti è certamente equivoco. Se da un parte, infatti, il d.lgs.

231/2011 nulla prevede espressamente quanto all’istituto della costituzione di parte civile, dall’altra, gli artt. 34

e 35 dello stesso decreto richiamano “…in quanto compatibili” le disposizioni del codice di procedura penale e

quelle processuali relative all’imputato. Tale rinvio esterno alle disposizioni del codice di procedura penale

sembrerebbe quindi, almeno in astratto, rendere possibile l’estensione della disciplina codicistica prevista con

riferimento alla costituzione di parte civile anche nell’ipotesi di processo a carico dell’ente.

Tenuto conto del fatto che l’art. 185 c.p. pone l’obbligo di attendere al risarcimento del danno

patrimoniale e non patrimoniale determinato dal reato direttamente in capo al colpevole, e indirettamente in

capo alle persone che a norma del codice civile sono tenute a rispondere del fatto di quest’ultimo, il problema

è quello della possibilità o meno, nel procedimento previsto dal d.lgs. 231/2001, di esperire l’azione civile di

risarcimento del danno ex artt. 185 c.p. e 74 c.p.p. direttamente nei confronti delle persone giuridiche

responsabili dell’illecito amministrativo dipendente da reato. In specie, si tratta di verificare se è consentito

riconoscere in capo all’ente una responsabilità civile diretta ed azionabile in sede penale per i danni cagionati

dagli illeciti amministrativi previsti dal d.lgs. 231/2001, logicamente e giuridicamente distinta dalla

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responsabilità indiretta dell’ente quale responsabile civile per i danni derivanti dal reato commesso dalla

persona fisica facente parte della propria compagine sociale.

La questione si rivela di particolare importanza applicativa nelle ipotesi in cui l’ente sia chiamato a

rispondere dell’illecito amministrativo nonostante l’autore del reato non sia stato identificato o non sia

imputabile, ovvero nel caso in cui il reato si estingua per una causa diversa dall’amnistia (art. 8 d.lgs.

231/2001). In tale ipotesi, infatti, l’ente non potrà essere chiamato a rispondere quale responsabile civile per il

reato commesso da un soggetto nei cui confronti non è stata esercitata l’azione penale, o per il quale la stessa

azione penale sia stata dichiarata improcedibile, rendendo così attuale la necessità di verificare se sia

possibile esperire direttamente nei confronti dell’ente, condotto comunque a giudizio, l’azione civile per il

risarcimento del danno. Sul tema sono emerse diverse impostazioni, spesso influenzate, come già anticipato,

dalle posizioni che si ritiene di assumere in merito alla natura giuridica della responsabilità dell’ente.

Giova premettere, infatti, che la natura giuridica del sistema di responsabilità creato a carico delle

persone giuridiche con il d.lgs. 231/2001 è stata una delle tematiche su cui più si è concentrato il dibattito a

seguito dell’introduzione della novità normativa, oscillando le opinioni tra natura amministrativa della

responsabilità, la natura penale ovvero una natura tertium genus.

Senza entrare nel dettaglio del dibattito, che esulerebbe dalla tematica in oggetto, giova rilevare come

la natura giuridica della responsabilità degli enti in dipendenza da reato risulti alquanto controversa atteso, da

un lato, il puntuale riferimento testuale effettuato dal legislatore che qualifica come “amministrativa” la

responsabilità dell’ente e le sanzioni che ad esso possono essere irrogate, dall’altro, il richiamo che la

disciplina effettua non solo al codice di procedura penale, quanto piuttosto al sistema punitivo penale nel suo

complesso, prevedendo garanzie e modalità di accertamento proprie della responsabilità penale.

Nella giurisprudenza di merito e di legittimità si rintracciano negli anni soluzioni diverse, riconducibili a

tutte le citate e diverse tesi. Con il tempo, però, sembra di poter evidenziare come la soluzione sulla natura

giuridica abbia lasciato spazio all’affermarsi di un approccio pragmatico, idoneo a consentire di mettere al

riparo la disciplina di cui al d.lgs. 231/2001 da censure di incostituzionalità, in particolare con riferimento al

meccanismo della prova liberatoria che l’ente è tenuto a fornire per andare esente dalla propria responsabilità

per colpa di organizzazione (art. 6 d.lgs. 231/2001). Nell’ipotesi in cui, infatti, la responsabilità dell’ente fosse

qualificata come puramente penale, tale sistema liberatorio comporterebbe sicuramente tensioni con il

principio di presunzione di non colpevolezza ex art. 27 Cost.

Da ultimo anche le Sezioni Unite della Corte di Cassazione, con la nota sentenza 38343/2014 resa nel

caso Thyssenkrupp, hanno concluso nel senso che il sistema della responsabilità degli enti ex d.lgs. 231/2001

costituisca un corpus normativo peculiare, che dà vita ad un tertium genus di responsabilità. Ad avviso della

Suprema Corte, infatti, il sistema delineato nel 2001 dal legislatore coniuga sia i tratti dell’ordinamento

amministrativo, consentendo così di soddisfare ragioni di efficienza preventiva, sia tratti dell’ordinamento

penale, appagando ineludibili esigenze di garanzia. La disciplina della responsabilità degli enti in dipendenza

da reato è parte di un ampio e variegato sistema punitivo, contiguo all’ordinamento penale per via, soprattutto,

della connessione con la commissione di un reato quale presupposto per la contestazione dell’illecito all’ente,

della severità dell’apparato sanzionatorio e delle modalità di accertamento processuali. Il sistema delineato dal

legislatore non reca con sé, a parere delle Sezioni Unite, alcun vulnus ai principi costituzionali, configurandosi

la responsabilità dell’ente come responsabilità per fatto proprio – in virtù del rapporto di immedesimazione

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organica che lega la persona fisica autore del reato all’ente – e responsabilità colpevole – atteso che il

rimprovero è mosso specificatamente all’ente a titolo di colpa di organizzazione, ossia per un deficit

organizzativo proprio.

Tornando però al tema della ammissibilità o meno della costituzione di parte civile nel procedimento a

carico dell’ente, deve rilevarsi come parte della giurisprudenza di legittimità, già prima della citata sentenza

S.U. Thyssenkrupp, avesse proposto soluzioni a prescindere dalla specifica soluzione in merito alla natura

giuridica della responsabilità, ritenendola questione meramente nominalistica, preferendo optare per una

disamina approfondita del dato normativo e dello specifico illecito creato dal legislatore con la disciplina del

d.lgs. 231/2001.

Prima di esaminare nel dettaglio tale giurisprudenza di legittimità risulta, comunque, utile una breve

ricostruzione delle posizioni assunte dalla dottrina e dalla giurisprudenza di merito nel corso degli anni.

8.1 Le posizioni della dottrina e della giurisprudenza di merito

A. La tesi che esclude la costituzione di parte civile muovendo dall’assunto della natura amministrativa della

responsabilità dell’ente.

Una prima e diffusa impostazione conclude per l’inammissibilità della costituzione di parte civile nel

procedimento per l’accertamento dell’illecito amministrativo ai sensi del d.lgs. 231/2001 valorizzando la

natura amministrativa di tale forma di responsabilità.

In particolare, pur riconoscendosi la potenziale responsabilità civile connessa all’illecito dell’ente, si nega

tuttavia che il fondamento della stessa possa essere ricondotto nello schema di cui all’art. 185 c.p. e che vi

possa essere spazio per l’esercizio della relativa azione nel processo a carico dell’ente ai sensi dell’art. 74

c.p.p. Le due norme, infatti, subordinano il fondamento sostanziale dell’obbligo risarcitorio e la possibilità

dell’esercizio della relativa azione civile in sede penale all’esistenza di un reato formalmente inteso,

mentre l’illecito dell’ente non può valere come succedaneo del reato.

Secondo tale orientamento, dunque, l’eventuale responsabilità risarcitoria ex art. 2043 c.c. deve essere

accertata nella naturale sede civile.

A supporto della conclusione sono stati sempre evidenziate alcune disposizioni del d.lgs. 231/2001 (artt.

27, 54 e 61) che, nel disciplinare istituti tipici del procedimento penale, non fanno alcun riferimento alle

obbligazioni civili e alla parte civile, a differenza delle norme del codice di procedura penale riguardanti gli

omologhi istituti.

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B. La tesi che ammette la costituzione di parte civile pur muovendo dall’assunto della natura amministrativa

della responsabilità dell’ente.

Ad esito diverso perviene altra parte della dottrina e della giurisprudenza, senza tuttavia utilizzare

l’argomento che fa leva sulla natura penale della responsabilità penale. Si tratta, fondamentalmente, della

stessa posizione di coloro che ritengono di svincolare la soluzione del problema in esame da quello

relativo alla natura della responsabilità dell’ente.

In particolare, la suddetta tesi muove dalla ratio sottesa alla previsione di cui all’art. 185 c.p. e all’istituto

della costituzione di parte civile, ossia la necessità di “trasferire” nel processo penale la cognizione di una

pretesa risarcitoria civilistica, di tipo aquiliano, nascente da un illecito il cui vaglio compete proprio a quel

giudice penale, in omaggio ad un principio di concentrazione dei giudizi ed economia dei mezzi giuridici.

Ne consegue, dunque, che ampliata la cognizione del giudice penale chiamato adesso a conoscere anche

degli illeciti amministrativi dipendenti da reato ex d.lgs. 231/2001, la suindicata ratio e l’esigenza di

concentrazione risulterebbero vanificate se non si ammettesse che il giudice penale possa conoscere non

solo dei danni da reato, ma anche dei danni da illecito dell’ente in conseguenza della costituzione di parte

civile direttamente nei confronti dell’ente.

La tesi è stata criticata da coloro che hanno evidenziato come gli artt. 185 c.p. e 74 c.p.p. si riferiscano

espressamente al danno derivante da “reato”, circoscrivendo in tal modo la possibilità di esercitare

l’azione civile risarcitoria in sede penale. Ritenere ammissibile la costituzione di parte civile, sul

fondamento del medesimo dettato normativo, anche alle ipotesi di danni derivanti dall’illecito

amministrativo dell’ente significherebbe allargare il campo circoscritto dal legislatore, effettuando una

analogia in malam partem, non ammessa in materia penale.

Per completezza si rileva come a tale critica i fautori della tesi in questione replichino affermando che il

divieto di analogia in materia penale non verrebbe in considerazione con riferimento ad una norma quale

l’art. 185 c.p. che, pur prevista nel codice penale, non è una norma di natura penale, disciplinando

solamente la responsabilità civile e specificando quanto previsto dall’art. 2043 c.c., aggiungendo peraltro

che ammettere la costituzione di parte civile nei confronti dell’ente non costituirebbe violazione del divieto

di analogia penale, ma espressione di un’interpretazione evolutiva dell’art. 185 c.p., adattando il disposto

normativo al nuovo contesto processuale, il cui oggetto è l’illecito amministrativo dell’ente.

C. La tesi che ammette la costituzione di parte civile muovendo dall’assunto della natura penale della

responsabilità dell’ente.

Secondo la teoria che muove dalla natura penale della responsabilità dell’ente non vi sono ostacoli per

ammettere la costituzione di parte civile direttamente nei suoi confronti, qualora per lo stesso venga

richiesto il rinvio a giudizio.

Tale tesi, riconosciuta da una parte della giurisprudenza di merito ma non altrettanto dalla giurisprudenza

di legittimità successiva, muove dall’assunto secondo cui l’ente deve essere considerato in tutto e per tutto

autore dell’illecito, sulla scorta del criterio di collegamento e di attribuzione individuato nella norma (artt. 5

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e 6) e, quindi, deve essere considerato “colpevole” ex art. 185 c.p. ovvero “soggetto che ha commesso il

fatto doloso o colposo” ex art. 2043 c.c.

Il legislatore avrebbe, dunque, individuato nell’ente un ulteriore centro di imputazione accanto alla persona

fisica, delineando così una responsabilità autonoma ed indipendente anche rispetto a quella dell’autore

materiale dell’azione. Nel disegnare, infatti, il sistema di illecito a carico delle persone giuridiche, il d.lgs.

231/2001 avrebbe creato un “altro genere di responsabilità” come riflesso della peculiare attività dell’ente,

in tutto configurandola con i presidi e le garanzie che regolano la responsabilità penale della persona fisica

e, in particolare, articolando i criteri che consentono la riferibilità della condotta da reato all’ente sulla

scorta di un rapporto di immedesimazione organica con i soggetti autori materiali del reato. Criteri della

condotta che vengono ritenuti corrispondenti alla suitas ex art. 42 c.p.

8.2 La posizione della Corte di Cassazione: l’inammissibilità della costituzione di parte civile nel procedimento per la responsabilità amministrativa dipendente da reato a carico degli enti è inammissibile

La Suprema Corte a partire dalla sentenza della Sez. VI, del 22 gennaio 2011, n. 2251, opta per la tesi

dell’inammissibilità della costituzione di parte civile direttamente nei confronti dell’ente. Alla soluzione la

predetta decisione addiviene all’esito di un’articolata analisi del quadro normativo e del sistema della

responsabilità dell’ente dipendente da reato.

In primo luogo, la Corte ritiene che la specifica questione di cui trattasi, pur se spesso ricollegata alla

posizione che si ritiene di assumere in merito alla natura giuridica della responsabilità dell’ente, possa, in

realtà, essere risolta prescindendo da tale problema, attraverso una disamina analitica dei contenuti della

speciale normativa che disciplina il processo nei confronti dell’ente, per poi vagliarne la compatibilità con

l’istituto della costituzione di parte civile.

Secondo la Suprema Corte il punto di partenza deve essere la presa d’atto della mancanza all’interno

della disciplina di cui al d.lgs. 231/2001 di qualsiasi riferimento normativo all’istituto della costituzione di parte

civile.

Tale omissione, infatti, lungi dal poter essere considerata una mera dimenticanza, deve essere

considerata come precisa e consapevole scelta legislativa, compiuta in deroga rispetto alla regolamentazione

codicistica. La parte civile, infatti, non è menzionata all’interno della sezione II del Capo III del d.lgs. 231/2001

che individua i soggetti del procedimento a carico dell’ente, né in qualsiasi altro istituto che ne prevede la

partecipazione nei corrispondenti istituti del codice di procedura penale.

Il d.lgs. 231/2001, semmai, ad avviso dei giudici di legittimità contiene alcuni dati specifici ed espressi

che confermano la volontà di escludere questo la costituzione della parte civile nei confronti dell’ente quali.

In primo luogo l’art. 27, che nel disciplinare la responsabilità patrimoniale dell’ente la limita alle

obbligazioni derivanti dalle sanzioni pecuniarie senza fare alcuna menzione alle obbligazioni civili.

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L’azione di risarcimento in sede penale: ambiti, confini, problematiche.

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Secondariamente l’art. 54 in merito al sequestro conservativo che, a differenza dell’omologo istituto

previsto dal codice di rito, può essere richiesto esclusivamente dal pubblico ministero per evitare che possano

mancare o si disperdano le garanzie per il pagamento della sanzione pecuniaria, delle spese del

procedimento e di ogni altra somma dovuta all’erario dello Stato. Proprio la specifica rimozione da tale istituto

della possibilità per la parte civile di richiedere il sequestro conservativo quando vi sia fondato timore che si

disperdano le garanzie per il pagamento delle obbligazioni civili derivanti da reato (come previsto ex art. 316

c.p.p.) deve dunque far propendere per una intenzionale manipolazione del dato normativo in grado di

indirizzare le scelte interpretative del sistema in oggetto. Non si vedrebbe, infatti, la necessità da un lato, di

riportare quasi pedissequamente il tenore letterale dell’art. 316 co. 1 c.p.p. all’interno del corrispondente

articolo 54 d.lgs. 231/2001 e, dall’altro, di effettuare in tale ultimo articolo un rinvio all’art. 316 co. 4 c.p.p.,

escludendo così proprio i commi 2 e 3 riferimenti alla parte civile, se tale opzione non costituisse una precisa

voluntas legis di esclusione di tale soggetto dal procedimento a carico dell’ente. In detta situazione dunque si

evidenzierebbe una scelta compiuta dal legislatore volta ad escludere la parte civile dal procedimento contro

l’ente, che neppure una interpretazione estensiva, o un procedimento analogico che conduca ad applicare la

corrispondente normativa del codice di rito potrebbe porre rimedio, atteso che nei casi citati non vi è una vera

e propria lacuna da colmare.

Ed ancora. L’argomento più incisivo evidenziato dalla Corte di Cassazione attiene alla considerazione

per cui non è possibile ammettere la costituzione di parte civile neppure attraverso il richiamo che gli artt. 34 e

35 d.lgs. 231/2001 effettuano alle disposizioni del codice di procedura penale, in quanto compatibili. La tesi,

sostenuta da parte della dottrina e dalla giurisprudenza di merito, che non ravvisa ostacoli nella compatibilità

delle disposizioni concernenti la costituzione di parte civile anche nel procedimento a carico degli enti, invero,

non tiene conto del peculiare meccanismo di addebito della responsabilità all’ente a seguito della

commissione di un reato posto in essere nel suo interesse o a suo vantaggio.

In sostanza, secondo la Suprema Corte l’impossibilità di procedere all’applicazione di art. 74 c.p.p. e

185 c.p. in via di richiamo ex art. 34, 35 d.lgs. 231/2001, discende dal fatto che per entrambe il presupposto

per la costituzione di parte civile è rappresentato dalla commissione di un “reato”, non dell’ “illecito

amministrativo”, che invero è cosa diversa dal reato, costituendo semmai quest’ultimo uno suo presupposto.

Evidenzia, infatti, la Corte afferma che “…il reato che viene realizzato dai vertici dell’ente, ovvero dai

suoi dipendenti, è solo uno degli elementi che formano l’illecito da cui deriva la responsabilità dell’ente, che

costituisce una fattispecie complessa, in cui il reato rappresenta il presupposto fondamentale, accanto alla

qualifica soggettiva della persona fisica e alla sussistenza dell’interesse o del vantaggio che l’ente deve aver

conseguito dalla condotta delittuosa posta in essere dal soggetto apicale o subordinato. In altri termini,

all’accertamento del reato commesso dalla persona fisica deve necessariamente seguire la verifica sul tipo di

inserimento di questa nella compagine societaria e sulla sussistenza dell’interesse ovvero del vantaggio

derivato all’ente: solo in presenza di tali elementi la responsabilità si estende dall’individuo all’ente collettivo, in

presenza cioè di criteri di collegamento teleologico dell’azione del primo all’interesse o al vantaggio dell’altro,

che risponde autonomamente dell’illecito "amministrativo". Ne deriva che tale illecito non si identifica con il

reato commesso dalla persona fisica, ma semplicemente lo presuppone. Di conseguenza, se l’illecito

amministrativo ascrivibile all’ente non coincide con il reato, ma costituisce qualcosa di diverso, che addirittura

lo ricomprende, deve escludersi che possa farsi un’applicazione degli artt. 185 c.p. e 74 c.p.p., che invece

contengono un espresso ed esclusivo riferimento al "reato" in senso tecnico. L’ostacolo maggiore

all’applicazione diretta dell’art. 185 c.p. nella disciplina del processo ex d.lgs. 231/2001 – non importa se

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attraverso una interpretazione estensiva o analogica – è costituito dagli stessi limiti ermeneutici ed applicativi

della norma citata, che si riferisce esclusivamente ai danni cagionati dal reato, nozione quest’ultima che non

può coprire anche l’illecito dell’ente, così come delineato nel citato d.lgs. 231/2001. Allo stesso modo, anche

l’art. 74 c.p.p. non può trovare applicazione attraverso la clausola di chiusura contenuta nell’art. 34 d.lgs.

231/2001, in quanto esso consente la costituzione della parte civile in funzione del ristoro dei danni previsti

dall’art. 185 c.p., espressamente richiamato, cioè dei danni derivanti dal reato. In sostanza, l’impossibilità di

procedere all’applicazione delle due norme richiamate discende dal fatto che per entrambe il presupposto per

la costituzione di parte civile è rappresentato dalla commissione di un reato, non dell’illecito amministrativo”.

Ed ancora, secondo la medesima giurisprudenza queste stesse obiezioni valgono anche nei confronti

della tesi che ritiene ammissibile la costituzione di parte civile nel processo a carico degli enti, assumendo che

la nuova ipotesi di illecito delineata dal d.lgs. 231/2001 sarebbe comunque fonte di responsabilità civile ai

sensi dell’art. 2043 c.c. Tale opzione ermeneutica, infatti, si basa sulla considerazione per cui se la nuova

ipotesi di illecito prevista a carico dell’ente è azionabile in sede civile, essendo fonte di responsabilità ex art.

2043 c.c., e costituendo principio generale che anche in sede penale vi sia la possibilità di azionare tali

pretese in base agli artt. 185 c.p. e 74 c.p.p., allora, una volta estesa la competenza del giudice penale anche

alla cognizione dell’illecito dell’ente non vi sarebbero ragioni per introdurre una diversa disciplina in materia,

soprattutto considerando che l’ente risponde per fatto proprio e in misura del tutto autonoma rispetto alla

condotta della persona fisica.

In proposito la Corte di Cassazione rileva che invero “… tanto l’inquadramento dell’illecito dell’ente

come fatto produttivo di danni risarcibili ex art. 2043 c.c., quanto il riconoscimento che quella dell’ente sia una

responsabilità per fatto proprio, non paiono argomenti idonei a dimostrare che in questo processo debba

trovare spazio la disciplina sulla costituzione di parte civile, in mancanza di dati normativi positivi che

autorizzino una tale conclusione. Sotto un primo profilo, si osserva come la gestione dell’azione civile nel

processo penale, lungi dall’essere un principio generale dell’ordinamento, si presenti in realtà sotto specie di

una deroga al principio della completa autonomia e separazione del giudizio civile da quello penale, affermato

nel codice del 1988 (in particolare dall’art. 75 c.p.p., espressione del c.d. favor separationis), tanto che le

disposizioni processuali che consentono la decisione nel giudizio penale dell’azione civile sono da considerare

di natura quasi eccezionale. Sicché deve convenirsi con chi, in assenza di ogni esplicito riferimento ad azioni

diverse da quella penale e in mancanza di una qualunque base normativa al riguardo, esclude che nel

processo ex d.lgs. 231/2001 possa avere ingresso un’azione civile nei confronti dell’ente: per ritenere che il

giudice competente a conoscere l’illecito dell’ente sia anche competente a conoscere i danni derivanti da esso

sarebbe stata necessaria una previsione espressa. (…) Inoltre, la scelta del legislatore di non prevedere la

costituzione di parte civile nel processo a carico degli enti può trovare una ulteriore e ragionevole spiegazione

sotto il profilo sostanziale, nel senso che non pare individuabile un danno derivante dall’illecito amministrativo,

diverso da quello prodotto dal reato. (…) Deve convenirsi con quella dottrina che, molto acutamente, ha

evidenziato come "i danni riferibili al reato sembrano esaurire l’orizzonte delle conseguenze in grado di

fondare una pretesa risarcitoria", escludendo che possano esservi danni ulteriori derivanti direttamente

dall’illecito dell’ente. É stato posto in risalto come non possano essere considerati danni prodotti dall’illecito

amministrativo quelle ripercussioni negative che si determinano sugli interessi dei soci, dei creditori e dei

dipendenti dell’ente per effetto dell’applicazione delle sanzioni a seguito dell’accertata responsabilità dell’ente,

in quanto l’eventuale lesione dei diritti di questi soggetti non trova la sua causa diretta nell’illecito

amministrativo; peraltro, anche i danni subiti dai soci e dai terzi incolpevoli cui faceva riferimento la direttiva

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Questioni sostanziali e processuali in tema di risarcimento del danno.

Il pregiudizio risarcibile: il danno differenziale.

L’azione di risarcimento in sede penale: ambiti, confini, problematiche.

foglio nr. 84 di 89

contenuta nell’art. 11 lett. v) della legge delega n. 300/2000, a cui non è stata data attuazione, non erano quelli

derivanti direttamente dall’illecito amministrativo, ma costituivano anch’essi ricadute negative derivanti

dall’applicazione delle sanzioni, pecuniarie o interdittive. Se non è ipotizzabile l’esistenza di un danno che

possa presentarsi come conseguenza immediata e diretta dell’illecito amministrativo allora "l’ostinato silenzio"

del legislatore sulla parte civile e sulla possibilità di costituirsi in giudizio per far valere le pretese risarcitorie

assume un significato ancor più preciso, apparendo del tutto ragionevole l’esclusione della parte civile dalla

cerchia dei protagonisti del processo a carico dell’ente. In ogni caso, anche a voler ammettere, in astratto, che

un danno possa derivare direttamente dall’illecito amministrativo, mancherebbe comunque, per le ragioni che

si sono già illustrate, ogni appiglio normativo che giustifichi la costituzione della parte civile nel processo ex

d.lgs. 231/2001”.

La posizione sostenuta dalla Corte di Cassazione nella sentenza 2251/2011 è stata successivamente

ripresa e confermata anche dalla successiva giurisprudenza di legittimità, senza discostarsi sostanzialmente

dal percorso logico argomentativo seguito nella esaminata pronuncia.

In particolare, più di recente, Cass. Sez. IV 24 gennaio 2015 n. 3787 ha riaffermato l’inammissibilità

della costituzione di parte civile nel procedimento a carico dell’ente proprio con riferimento ad un’ipotesi di

illecito amministrativo dipendente dal reato di omicidio colposo commesso con violazione della normativa in

materia di sicurezza e salute dei luoghi di lavoro. Tale ultima pronuncia ha aderito alle argomentazioni già

svolte dalla precedente giurisprudenza di legittimità, rimarcando nuovamente non solo l’assenza di ogni

riferimento concernente la parte civile all’interno del sistema delineato dal d.lgs. 231/2001, quanto piuttosto la

natura complessa dell’illecito contestato all’ente, di cui la commissione del reato rappresenta solo il primo

fondamentale presupposto. Viene, dunque, sostanzialmente ribadita la tesi per cui se gli artt. 185 c.p. e 74

c.p.p. consentono una “straordinaria” cognizione del giudice penale sulle conseguenze patrimoniali

pregiudizievoli dipendenti da reato, tale previsione non può essere estesa in mancanza di espressa

disposizione legislativa che configuri una cognizione del giudice penale anche in presenza dell’illecito

amministrativo commesso dall’ente, pena il travalicare gli ambiti propri della giurisdizione penale rispetto alla

naturale giurisdizione civile per le obbligazioni civili derivanti dagli illeciti.

8.3 La posizione della Corte di Giustizia 12 luglio 2012 C-79/11

Occorre dare atto di come sulla questione in oggetto sia intervenuta anche la Corte di Giustizia

dell’Unione Europea.

Preme evidenziare, fin da subito, come la Corte Europea non abbia preso espressa posizione

sull’ammissibilità o meno della costituzione di parte civile nel procedimento a carico degli enti, quanto piuttosto

sulla compatibilità con il diritto dell’Unione Europea della disciplina italiana nella parte in cui essa non prevede,

anche a seguito della richiamata interpretazione fornitane dalla giurisprudenza di legittimità, che l’azione civile

per il ristoro del pregiudizio patrimoniale subito a seguito dell’illecito commesso dall’ente possa essere

proposta direttamente nel procedimento penale a carico dello stesso.

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Questioni sostanziali e processuali in tema di risarcimento del danno.

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L’azione di risarcimento in sede penale: ambiti, confini, problematiche.

foglio nr. 85 di 89

Ciononostante, la posizione della Corte di Giustizia offre interessanti considerazioni sulla natura

dell’illecito posto in essere dall’ente, qualificato come “autonomo” rispetto al reato commesso dalla persona

fisica nel suo interesse o vantaggio, che paiono almeno in parte assimilabili alle considerazioni svolte dalla

sopra esaminata giurisprudenza della Corte di Cassazione.

In particolare, rileva evidenziare che con ordinanza del 9 febbraio 2011, il Tribunale di Firenze aveva

chiesto alla Corte di giustizia dell’Unione Europea di pronunciarsi in via pregiudiziale sull’interpretazione di

“tutte le decisioni europee che concernono la posizione della persona offesa”, in particolare sulle disposizioni

della decisione quadro 2001/220/GAI del 15 marzo 2001, relativa alla posizione della vittima nel procedimento

penale, e della direttiva comunitaria 2004/80/CE del Consiglio del 29 aprile 2004, relativa all’indennizzo delle

vittime di reato, così da rispondere al quesito se fosse da considerare conforme al diritto dell’Unione Europea

la normativa italiana in tema di responsabilità amministrativa degli enti di cui al d.lgs. 231/2001, nella misura in

cui non essa non prevede espressamente che gli enti siano chiamati a rispondere nel processo penale dei

danni cagionati alle vittime dei reati commessi nel loro interesse o vantaggio.

Con riferimento alla direttiva da ultimo richiamata, ossia la direttiva 2004/80/CE, la Corte di Giustizia

ha evidenziato in primo luogo come la stessa risulti irrilevante ai fini della decisione, essendo la stessa

“…diretta a rendere più agevole per le vittime della criminalità intenzionale violenta l’accesso al risarcimento

nelle situazioni transfrontaliere, mentre è pacifico che nel procedimento principale (ndr: in cui era stato

effettuato il rinvio pregiudiziale) le imputazioni riguardino reati commessi colposamente e, per di più, in un

contesto puramente nazionale”.

Per quanto riguarda invece la decisione quadro 2001/220/GAI, si evidenzia che all’art. 9 dispone che

ciascuno Stato membro garantisce alla vittima di un reato il diritto ad ottenere, entro un ragionevole lasso di

tempo, una decisione relativa al risarcimento da parte dell’autore del reato nell’ambito del procedimento

penale, eccetto i casi in cui il diritto nazionale preveda altre modalità di risarcimento.

Ebbene, la Corte dopo aver rimarcato come il diritto italiano consenta alle vittime di ottenere il

risarcimento dei danni derivanti da reato in sede penale nei confronti delle persone fisiche dipendenti da reato,

ha evidenziato come ratio della normativa comunitaria in questione sia proprio quella di prevedere uno

standard minimo di tutela alle vittime da reato nell’ambito del procedimento penale. Tale decisione quadro,

tuttavia, non può essere interpretata come obbligo per il legislatore nazionale di prevedere la responsabilità

penale delle persone giuridiche, con conseguente necessità di risarcimento dei danni derivanti da tale

responsabilità azionabile direttamente in sede penale. Più nello specifico, la Corte di Giustizia osserva che

“….un illecito amministrativo da reato come quello all’origine delle imputazioni sulla base del decreto

legislativo n. 231/2001 è reato distinto e non presenta un nesso causale diretto con i pregiudizi cagionati dal

reato commesso da una persona fisica e di cui si chiede il risarcimento. Secondo il giudice del rinvio, in un

regime come quello istituito da tale decreto legislativo, la responsabilità della persona giuridica è qualificata

come “amministrativa”, “indiretta” e “sussidiaria”, e si distingue dalla responsabilità penale della persona fisica,

autrice del reato che ha causato direttamente i danni e a cui, come osservato al punto 40 della presente

sentenza, può essere richiesto il risarcimento in ambito penale. Pertanto, le persone offese in conseguenza di

un illecito amministrativo da reato commesso da una persona giuridica, come quella imputata in base al

regime instaurato dal decreto legislativo n. 231/2001, non possono essere considerate, ai fini dell’applicazione

dell’art. 9, paragrafo 1, della decisione quadro, come le vittime di un reato che hanno il diritto di ottenere che si

decida, nell’ambito del processo penale, sul risarcimento da parte di tale persona giuridica”.

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Questioni sostanziali e processuali in tema di risarcimento del danno.

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A parere della Corte di Giustizia, dunque, l’illecito amministrativo configurato dal d.lgs. 231/2001 non

può essere considerato come “reato” per il quale discende l’obbligo per il legislatore italiano di prevedere la

tutela della vittima del reato direttamente nell’ambito del procedimento penale, e ciò sia per la prospettazione

che di tale illecito fornisce il giudice del rinvio che lo qualifica come “amministrativo”, “indiretto” e “sussidiario”

rispetto al reato commesso dall’autore del rato, sia perché che tale illecito non presenta un nesso causale

diretto con i danni causati dal reato posto in essere dalla persona fisica nel suo interesse o vantaggio.

Tali considerazioni, dunque, conducono la Corte a concludere nel senso che “…l’articolo 9, paragrafo

1, della decisione quadro deve essere interpretato nel senso che non osta a che, nel contesto di un regime di

responsabilità delle persone giuridiche come quello in discussione nel procedimento principale, la vittima di un

reato non possa chiedere il risarcimento dei danno direttamente causati da tale reato, nell’ambito del processo

penale, alla persona giuridica autrice di un illecito amministrativo da reato”.

8.4 I seguiti: la posizione della Corte di Assise di Taranto nel procedimento Ilva

In esito alla trattazione della posizioni controverse sull’ammissibilità o meno della costituzione di parte

civile nel procedimento a carico dell’ente responsabile dell’illecito dipendente da reato, non può non rilevarsi

come all’attualità, anche in giurisprudenza oltre che in dottrina, il dibattito e le soluzioni diverse non manchino,

rendendo nella materia in questione sempre più pressante l’esigenza di una pronuncia nomofilattica delle

Sezioni Unite.

Si evidenzia, infatti, come anche a seguito delle precedenti pronunce di legittimità, la Corte di Assise

di Taranto nel 2016 abbia optato per la soluzione contraria rispetto a quella sostenuta dalla Corte di

Cassazione, ammettendo la costituzione di parte civile direttamente nei confronti degli enti rinviati a giudizio.

In particolare, la Corte di Assise è stata chiamata a pronunciarsi sull’ammissibilità delle costituzioni di

parte civile nel noto procedimento Ilva, che vede contestata anche la responsabilità degli enti Ilva s.p.a., Riva

s.p.a. e Riva Forni Elettrici s.p.a., ai quali sono stati addebitati diversi illeciti dipendenti da reati di omicidio

colposo e lesioni colpose commessi con violazione delle norme prevenzionistiche in materia di sicurezza sui

luoghi di lavoro, nonché illeciti dipendenti da reati ambientali.

Nel dettaglio, la Corte di Assise si sofferma in primo luogo sulla Relazione ministeriale al decreto, la

quale esplicitamente colloca la responsabilità dell’ente nell’ambito di un tertium genus, riconoscendo, inoltre,

che la disciplina dell’articolo 8 individua in capo all’ente un titolo autonomo di responsabilità, presupponente in

ogni caso la commissione di un reato. Tale ricostruzione, come già evidenziato, è stata avallata anche dalle

Sezioni Unite della Corte di Cassazione che, nel noto caso Thyssenkrupp, hanno concluso pragmaticamente

per la natura di tertium genus della responsabilità dell’ente.

Secondariamente evidenzia come il legislatore del 2001 non abbia esercitato la delega di cui

all’articolo 11 comma 1 lettera v) l. 300/2000, il quale indicava, al legislatore delegato per la previsione della

disciplina della responsabilità degli enti a seguito della commissione di un reato, di “…prevedere che il

riconoscimento del danno a seguito dell'azione di risarcimento spettante al singolo socio o al terzo nei

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Questioni sostanziali e processuali in tema di risarcimento del danno.

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confronti degli amministratori dei soggetti [...] di cui sia stata accertata la responsabilità amministrativa [...] non

sia vincolato dalla dimostrazione della sussistenza di nesso di causalità diretto tra il fatto che ha determinato

l'accertamento della responsabilità del soggetto ed il danno subito” e “…che la disposizione non operi nel caso

in cui il reato e stato commesso da chi e sottoposto alla direzione o alla vigilanza di chi svolge funzioni di

rappresentanza o di amministrazione o di direzione, ovvero esercita, anche di fatto, poteri di gestione e di

controllo, quando la commissione del reato e stata resa possibile dall'inosservanza degli obblighi connessi a

tali funzioni. Come si spiega chiaramente nella relazione ministeriale le ragioni che sottostanno alla scelta di

non attuare il sistema risarcitorio previsto dalla legge delega ed evidentemente peggiorativo e sanzionatorio

nei confronti dell’ente rispetto alle ordinarie regole di imputazione della responsabilità (sia essa civile che

penale), risiedono in due ordini di motivi: uno sistematico, ossia di contrarietà al sistema del diritto societario,

l’altro di natura politica poiché in tal modo, si cita testualmente, gli effetti di natura civilistica, prefigurati nella

delega, esporrebbero… le imprese a gravi rischi di instabilità, atteso che il recesso dei soci e le azioni di

responsabilità potrebbero di fatto comportare lo “smantellamento” dell'ente”.

In sostanza, secondo la Corte di Assise il legislatore non avrebbe espressamente disciplinato l’azione

di responsabilità civile nei confronti dell’ente che si ritiene responsabile a norma del d.lgs. 231/2001, in quanto

non ha inteso adeguarsi alla delega che, appunto, individua un criterio peggiorativo e diverso rispetto a quello,

invece, stabilito dalle regole del codice di procedura penale che, a loro volta, richiamano espressamente

quelle del codice penale.

Infatti, ed è questo lo snodo essenziale del ragionamento che ad avviso della Corte deve condurre a

ritenere come sia ammissibile una costituzione di parte civile nei confronti di un ente chiamato a rispondere in

base al d.lgs. 231/2011, il legislatore non è rimasto silente sul tema “…ma ha espressamente individuato un

sistema di rinvio ricettizio alle disposizioni generali sul procedimento in base a quanto disposto dagli art 34 e

35 del citato d.lgs. 231/2001”.

Tali considerazioni della Corte di Assise di Taranto rappresentano sicuramente il profilo più innovativo

del dibattito, ma la Corte si premura comunque di avvalorare detta tesi tramite il richiamo ad argomenti già

tradizionalmente spesi dai sostenitori della possibile ammissione di una costituzione di parte civile nel

procedimento a carico degli enti.

In primo luogo evidenzia l’argomento testuale, sottolineando come “…mai nella relazione illustrativa

del d.lgs. 231/2001 vi è un’espressa indicazione nel senso dell’inammissibilità della costituzione di parte civile

nei confronti dell’Ente”, rilevando come esso non possa non essere valorizzato ai fini della interpretazione

della volontà del legislatore, tanto più se si considera che, ogni volta in cui il legislatore ha voluto discostarsi

dalla disciplina ordinaria codicistica, lo ha fatto introducendo nel tessuto del decreto un’apposita previsione

derogatoria. In tal senso depongono, ad esempio, l’articolo 57 sull’informazione di garanzia, l’articolo 58 in

tema di archiviazione, gli articoli 61-64 in materia di procedimenti speciali, nonché gli articoli 53 e 54 sui

sequestri cautelari. Nessuna norma, invece, ribadisce, espressamente esclude la costituzione di parte civile

nei confronti dell’ente.

In secondo luogo, osserva come la disciplina dell’articolo 12 nel tipizzare quali ipotesi di riduzione

della sanzione pecuniaria le fattispecie della particolare tenuità del fatto e delle condotte riparatorie da parte

dell’ente, rivelerebbe l’esistenza di due distinti profili di responsabilità – quella “da reato” della persona fisica e

quella “da illecito amministrativo” dell’ente – con rilevanti conseguenze in termini di danno risarcibile.

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Questioni sostanziali e processuali in tema di risarcimento del danno.

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L’azione di risarcimento in sede penale: ambiti, confini, problematiche.

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Invero, con specifico riferimento alla condotta riparatoria dell’articolo 12 comma 2 lett. a), il legislatore,

anche nominalmente, nel distinguerne le modalità esecutive sembra distinguere sotto il profilo oggettuale, da

un lato, il danno (risarcibile) e, dall’altro, le conseguenze dannose o pericolose del reato (eliminabili),

chiaramente alludendo – secondo la pronuncia in esame – a conseguenze dannose che trovano la propria

fonte tanto nel reato, quanto nella responsabilità da colpa in organizzazione dell’ente.

La Corte di Assise di Taranto in esito ad articolate argomentazioni, conclude quindi nel senso che

“…la mancanza di una disciplina espressa non può essere qualificata quale silenzio del legislatore – da

colmare in via interpretativa con l’istituto della analogia – ma in realtà è espressione della assenza di

specificità della disciplina della costituzione di parte civile nei confronti dell’ente rispetto alla normativa dettata

dal codice di procedura, potendosi quindi applicare direttamente l’art. 185 c.p. e art. 74 c.p.p. attraverso la

clausola generale di cui al d.lgs. 231/2011, art. 34, tenuto conto che l’espressione reato e non quella più

ampia di “illecito” che eviterebbe qualsiasi obiezione di sorta circa una stessa interpretazione letterale, era la

sola che il legislatore del 1930 avrebbe potuto utilizzare non potendosi mai lontanamente immaginare a

quell’epoca – in cui vigeva il principio secondo il quale societas delinquere non potest – che l’evoluzione

economico sociale avrebbe imposto la necessita di prevedere un sistema di illeciti di matrice senza dubbio

penale nei confronti degli enti e delle persone giuridiche”.

Infine, un cenno viene dedicato anche alla pronuncia della Corte di giustizia, ritenuta invero

assolutamente “neutra” ai fini del dibattito, atteso che questa, pur ritenendo la disciplina italiana conforme

all’ordinamento europeo, si sarebbe basata sul presupposto che “…le persone offese in conseguenza di un

illecito amministrativo commesso da una persona giuridica [...] non possono essere considerate, ai fini

dell’applicazione dell’articolo 9, paragrafo 1, della decisione quadro, come le vittime di un reato che hanno

diritto di ottenere che si decida, nell’ambito del processo penale, sul risarcimento”. Insomma, la Corte europea

si sarebbe limitata a prendere atto di quello che è un dato normativo chiaro, ovvero che l’ente non è autore di

un reato, di tal che è da considerarsi improprio il richiamo all’art. 9 della decisione quadro invocata che,

invece, si riferisce espressamente alle “vittime del reato”, senza tuttavia con ciò stabilire che la persona offesa

dall’illecito posto in essere dall’ente non possa vantare nei suoi confronti una pretesa risarcitoria azionabile

anche nel processo penale.

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L’evento derivante dal c.d. rischio interferenziale

riflessi sull’indagine e sulla contestazione INDICE

Premessa. Il debito formativo. ............................................................................................................................. 2

2 Persona offesa e vittime del reato in materia di sicurezza del lavoro ................................................ 4

2.1 Uno sguardo di sintesi al ruolo assegnato alla persona offesa .......................................... 5

2.2 La persona offesa e il danneggiato dal reato: poteri, diritti e facoltà .................................. 6

2.3 Poteri, diritti e facoltà della persona offesa con particolare riferimento ai reati di sicurezza sul lavoro........................................................................................................ 9

3 Dal procedimento al processo: dalla persona offesa, al danneggiato, alla parte civile .................... 14

3.1 L’azione civile nel processo penale.................................................................................. 16

3.2 La regolamentazione della costituzione di parte civile: uno sguardo di sintesi ................ 17

4 L’azione civile nel processo penale del lavoro ................................................................................ 19

4.1 L’art.10 co.2 d.p.r. 1124/1965: la “sentenza di condanna penale” fra condizione di merito all’azione civile e atto di accertamento ........................................... 20

4.1.1 La tesi della condizione di merito all’azione civile: la pregiudizialità penale ................................................................................... 22

4.1.2 La tesi della “sentenza di condanna” come atto di accertamento: l’interpretazione sistematica della pregiudizialità penale di cui all’art. 10.2 co. d.p.r. 1124/65 ................................................. 23

4.2 Le eccezioni (comunque) alla pregiudizialità penale ex art. 10 d.p.r. 1124/1965 ........................................................................................................................ 27

4.2. (segue) La sorte dei provvedimenti definitori nei procedimenti speciali ........................... 27

4.3 Gli effetti della sentenza penale di condanna e di assoluzione sul processo civile per il risarcimento del danno da reato di lavoro ...................................................... 29

4.4 I reati di sicurezza del lavoro che legittimano l’esercizio dell’azione civile nel processo penale per reati in materia di sicurezza sul lavoro ed i soggetti legittimati .......................................................................................................................... 30

4.5 Le categorie di danno risarcibile ed i soggetti legittimati all’azione .................................. 31

4.5.1 Il danno differenziale ................................................................................... 37

5 Problematiche in tema di integralità ed effettività del risarcimento del danno da reato di lavoro ........................................................................................................................................... 38

5.1 Gli accordi transattivi e la loro efficacia preclusiva sull’azione per risarcimento del danno..................................................................................................... 38

5.2 Il risarcimento del danno e l’attenuante ex art. 62 n.6) c.p. .............................................. 42

5.3 Il sequestro conservativo a tutela della pretesa risarcitoria .............................................. 44

5.4 Condanna generica e provvisionale ................................................................................. 46

6 La completezza delle indagini: quali possibili effetti sulla scelta della vittima a perseguire in sede penale l’azione di risarcimento per danno conseguenza da reato in materia di sicurezza del lavoro? ...................................................................................................... 47

6.1 La prima e vera scelta: i reati di lavoro perseguibili a querela ......................................... 48

6.2 I criteri di scelta “astratti” per l’esercizio dell’azione di risarcimento da “danno di lavoro” in sede civile e penale ...................................................................................... 49

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L’evento derivante dal c.d. rischio interferenziale

riflessi sull’indagine e sulla contestazione INDICE

6.3.1 I rapporti di lavoro “clandestinizzati” sul versante del lavoratore ...................................... 51

6.3.2 I rapporti di lavoro “clandestinizzati” sul versante del datore di lavoro ............................. 52

6.4 La tutela della vittima di lavoro a fronte di “reati complessi”: art. 437 c.p. e art. 12 co.5 d.lgs.286/98 .................................................................................................. 56

6.4.1 La tutela della vittima di lavoro a fronte del delitto di cui all’art. 437 c.p. ....................................................................................................... 56

6.4.2 La tutela della vittima di lavoro a fronte del delitto di cui all’art. 12 co.5 d.lgs.286/98 .................................................................................... 60

6.5 Un esempio paradigmatico di casistica processuale di sintesi ......................................... 61

7 Gli enti di supporto alla vittima-persona offesa del reato di lavoro .................................................. 65

7.1 L’INAIL: la partecipazione al processo penale del lavoro ................................................. 65

7.1.1 L’azione di regresso INAIL nel processo penale del lavoro ......................... 66

7.1.2 Questioni processuali problematiche sulla partecipazione INAIL al processo penale del lavoro ...................................................................... 70

7.2 Il Sindacato: la partecipazione al processo penale del lavoro .......................................... 72

7.3 La partecipazione di altri enti esponenziali di interessi diffusi lesi dal reato di lavoro ............................................................................................................................... 76

8 La questione dell’ammissibilità (o meno) dell’azione civile nei giudizi di responsabilità contro l’ente per reati presupposto in materia di lavoro ................................................................... 77

8.1 Le posizioni della dottrina e della giurisprudenza di merito .............................................. 79

8.2 La posizione della Corte di Cassazione: l’inammissibilità della costituzione di parte civile nel procedimento per la responsabilità amministrativa dipendente da reato a carico degli enti è inammissibile ................................................... 81

8.3 La posizione della Corte di Giustizia 12 luglio 2012 C-79/11 ........................................... 84

8.4 I seguiti: la posizione della Corte di Assise di Taranto nel procedimento Ilva .................. 86