La tecnica del villaggio nella psicoterapia infantile

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A partire dal classico Test del Villaggio e da un precipuo modo di intendere la psicoterapia dell’infanzia, viene presentato un manuale operativo per l’utilizzo di uno strumento psicodiagnostico, ma che può avere un’ampia rilevanza all’interno del setting clinico tra terapeuta e paziente. Il testo vuole sopperire al vuoto di letteratura italiana sull’argomento e accompagnare il lettore alla scoperta di questo misconosciuto – ma estremamente ricco – strumento, approfondendone i diversi e multiformi aspetti, a partire da un rigoroso inquadramento teorico e metodologico, ma anche fornendo esemplificazioni cliniche corredate da molte immagini. Lo strumento, per quanto trovi il suo ambito elettivo nel lavoro con l’infanzia, è altresì indicato con l’adolescenza e l’età adulta

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Luca Bosco – Lino G. Grandi

La Tecnica del Villaggio nella psicoterapia infantile

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Prima Edizione: 2014

ISBN 9788889845998© 2014 Edizioni Psiconline - Francavilla al Mare

Psiconline® Srl66023 Francavilla al Mare (CH) - Via Nazionale Adriatica 7/ATel. 085 817699 - Fax 085 9432764Sito web: www.edizioni-psiconline.ite-mail: [email protected]

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Finito di stampare nel mese di Aprile 2014 in Italia da Digital Print Service srl Segrate (MI) per conto di Edizioni Psiconline® (Settore Editoriale di Psiconline® Srl)

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INDICE

Prefazione

PARTE PRIMA - TEORIA

I. Introduzione

II. Cenni storici, attualità e prospettiveII.1. Fondamenti di un metodo proiettivo: fondazione del VillaggioII.2. Il dibattito contemporaneo

2.A. Oltre Mabille: fondamenti teorici del test secondo Monod2.B. Oltre Mucchielli: l’École de Rennes

II.3. Prospettive di utilizzo

III. Nel villaggio di Arthus si può parlare la lingua adleriana?III.1. La Scuola di Torino: oltre Arthus?III.2. Ipotesi di lavoro

IV. Contributi teorici ed elementi di teoria della tecnicaIV.1. L’analisi adleriana del VillaggioIV.2. Apporti teorici e rifl essioni preliminari all’utilizzo del Villaggio nel lavoro terapeutico

2.A. Operazioni e strutture2.B. Teoria del campo2.C. Campo emotivo-relazionale

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2.D. Organizzazione e integrazione2.E. Illusione e disillusione

IV.3. Il Villaggio come strumento ludico-terapeutico e come luogo di incontro tra paziente e terapeuta

3.A. La “dimensione-terza” tra l’Io e il Tu: il confi ne di contatto3.B. Lo “spazio transizionale”, la funzione di “rêverie” e il “luogo onirico”3.C. Il villaggio immaginario iterativo

PARTE SECONDA - METODOLOGIA

I. setting, presentazione del materiale e consegnaI.1. Il setting

1.A. Il piano di lavoro: il tavolo 1.B. Il posizionamento del soggetto e dello sperimenta-tore

I.2. Il materiale2.A. La presentazione del materiale2.B. La consegna

II. Osservazione, inchiesta e narrazioneII.1. La raccolta dei dati

1.A. Osservazione e supporti di registrazione1.B. L’inchiesta1.C. Il racconto della storia sul villaggio1.D. Riepilogo dei criteri osservativi

III. Rifl essioni preliminari sulla teoria del simbolismo: proposta di un “modello integrato”III.1. I criteri interpretativi per l’analisi del villaggio

IV. Il “modello integrato” per l’analisi del VillaggioIV.1. Principi metodologici

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LA TECNICA DEL VILLAGGIO NELLA PSICOTERAPIA INFANTILE

1.A. I modelli interpretativi topologici1.B. I modelli interpretativi topografi ci

IV.2. Integrazione degli apporti teorici

V. Descrizione del materiale: simbolismo e interpreta-zione

VI. Le quattro variabili

VII. Alcune esemplifi cazioni tematicheVII.1. Lucio (5 anni)

1.A. Il vissuto di un mondo pericoloso e ostile: paura, isolamento, bisogno di sicurezza

VII.2. Carlo (8 anni)2.A.“Messo all’angolo”; raggio d’azione limitato al con-testo familiare; il rapporto con la sorella gemella; la morte, i sensi di colpa, le punizioni

VII.3. Davide (10 anni)3.A. Il villaggio chiuso a tripla mandata; pieno/vuoto, dentro/fuori; la corazza; la diffi coltà di emancipazione

VII.4. Stefano (13 anni)4.A. La razionalizzazione; il confl itto familiare; il vissuto di capro espiatorio; il ricorso al fantasy e la compensa-zione di un sentimento di inferiorità

PARTE TERZA - CASI CLINICI

I. Massimo: l’aumento del sentimento sociale e della gittata del “raggio d’azione”I.1. Elementi della psicodiagnosi

1.A. Motivazione della psicodiagnosi1.B. Anamnesi familiare1.C. Autodescrizione di Massimo1.D. Profi lo psicologico e progetto terapeutico

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I.2. Primo Villaggio (agosto 2007)2.A. Osservazione2.B. Inchiesta 2.C. Storia2.D. Analisi e interpretazione del villaggio

I.3. Evoluzione della terapiaI.4. Secondo Villaggio (settembre 2008)

4.A. Osservazione4.B. Inchiesta 4.C. Storia4.D. Analisi e interpretazione del villaggio

I.5. Evoluzione della terapiaI.6. Terzo Villaggio (maggio 2009)

6.A. Osservazione6.B. Inchiesta 6.C. Storia6.D. Considerazioni preliminari 6.E. Analisi e interpretazione del villaggio

I.7. Gioco del Villaggio (novembre 2009)

II. Giorgio: volontà di potenza e meta fi nzionale, realtà virtuale e disillusione II.1. Elementi della psicodiagnosi

1.A. Anamnesi1.B. Children Apperception Test (C.A.T.) 1.C. Profi lo psicologico

II.2. Primo Villaggio (ottobre 2006)2.A. Osservazione2.B. Inchiesta e Storia2.C. Analisi e interpretazione del villaggio

II.3. Elementi della psicoterapia 3.A. La disillusione genitoriale3.B. La realtà virtuale, il Sé virtuale e le mete fi nzionali

II.4. Secondo Villaggio (settembre 2008)

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LA TECNICA DEL VILLAGGIO NELLA PSICOTERAPIA INFANTILE

4.A. Premessa4.B. Osservazione4.C. Inchiesta 4.D. Storia4.E. Inchiesta 4.F. Analisi e interpretazione del villaggio

II.5. Terzo Villaggio (aprile 2009)5.A. Osservazione5.B. Inchiesta 5.C. Storia5.D. Inchiesta 5.E. Analisi e interpretazione del villaggio

II.6. Quarto Villaggio – Comune (novembre 2009)6.A. Costruzione6.B. Gioco6.C. Analisi e interpretazione del villaggio6.D. Rifl essioni conclusive

III. Leonardo: supereroi e superpoteri come compen-sazione di un sentimento di inferioritàIII.1. Elementi della psicodiagnosiIII.2. Primo Villaggio (novembre 2007)

2.A. Osservazione2.B. Inchiesta 2.C. Storia2.D. Analisi e interpretazione del villaggio

III.3. Secondo Villaggio (settembre 2008)3.A. Osservazione3.B. Inchiesta 3.C. Storia3.D. Analisi e interpretazione del villaggio

III.4. Terzo Villaggio (aprile 2009)4.A. Osservazione4.B. Inchiesta

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4.C. Storia4.D. Analisi e interpretazione

III.5. Elementi della psicoterapiaIII.6. Gioco del Villaggio (novembre 2009)

Conclusioni

Riferimenti Bibliografi ci Tematici

Riferimenti Bibliografi ci Generali

Allegato. Scheda di analisi della sessione di lavoro con il Test del VillaggioI. Guida alla raccolta dati e all’analisi del Test del VillaggioI.1. Identifi cazione della sessioneI.2. Osservazione di movimento, postura, mimica, paralin-guistica (comportamento non verbale)I.3. Attitudine relazionale (comportamento esplicito nei confronti dello sperimentatore)I.4. Modalità narrativa (comportamento verbale)I.5. Approccio al “mucchio” degli elementiI.6. Cernita degli elementiI.7. Modalità di cernita degli elementiI.8. Modalità di costruzioneI.9. Annotazioni dell’operatore

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Il villaggio è in qualche modo un test «esistenzialista» in quanto esige dal soggetto di «essere innanzi tutto se stesso» indipendentemente

da qualsiasi «essenza» e di «crearsi» in piena libertà.[…]

Per giudicare un uomo non è suffi ciente osservarlo: bisogna osservarlo «vivere» ed è per vederlo vivere che gli si fa costruire un villaggio.

(Henri Arthus)

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PREFAZIONE

«Viaggi per rivivere il tuo passato?» Era a questo punto la domanda del Kan, che poteva essere anche formulata così:

«Viaggi per ritrovare il tuo futuro?» E la risposta di Marco: «L’al-trove è uno specchio in negativo. Il viaggiatore riconosce il poco

che è suo, scoprendo il molto che non ha avuto e non avrà.» (Italo Calvino)

Non ricordo quando mi sia capitato di incontrare l’affascinante mondo delle “Città invisibili” di Italo Calvino. All’epoca, ero forse all’Università, non avrei immaginato quante volte sarei ritornata a Dorotea o a Tamara o in altre città misteriose e quanto tempo avrei trascorso in viaggio da una città all’altra per fermarmi a lungo in ognuna di esse.

L’aver viaggiato molto nelle città che mi sono familiari, appar-tenenti alla mia storia, e l’aver imparato a stare nella mia città, le case e le capanne, le zone d’ombra, le tracce di chi ha vissuto e vive, le strade tortuose, la possibilità di accogliere, una laboriosità silen-ziosa e i bambini, ognuno nel suo mistero di vita e di sofferenza; tutto questo mi ha consentito, portando con me qualche strumento essenziale per la mia professione di psicologo e di analista, di avven-turarmi in spazi e tempi diversi rimanendo in ogni luogo il tempo suffi ciente e importante per poter abitare e conoscere profonda-mente ogni diversa città. Diventarne familiare, in grado di viverne il modo d’essere, la storia, la vita che si vive ogni giorno, i pensieri, i desideri e le paure, condividendo e riscrivendo il senso degli acca-dimenti. Rianimare la ricerca, la speranza, il gusto di incontrarsi con se stesso e con gli altri, abbattere muraglioni che impediscono

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di respirare, riabitare aree di deserto, progettare nuove costruzioni e nuovi spazi, strutture e difese, riconoscibili e fl essibili, utili al circo-lare della vita, dell’incontro, del bene personale e comune.

E ripartire. Ritornare a casa e ripartire, con quella bisaccia da psicologo sempre più a portata di mano. E ritrovarsi a investire molto tempo per stabilire collegamenti e legami tra diverse città. Avendo sperimentato la sorpresa - attesa, ma sempre imprevedibile - di nuove risorse che possono nascere dall’incontro, dal pensare, sentire e fare insieme.

Prima di intraprendere la lettura di questo importante manuale, che ci orienterà a comprendere il senso, le emozioni, gli affetti, i movimenti di quelle città interiori che possiamo leggere nelle mul-tiformi produzioni dei Villaggi di Arthus, vorrei fermarmi un momento con voi nella città di Eufemia, “la città degli scambi”. Ci sono ritornata più volte con i bambini e gli adulti che ho incontrato in un percorso di psicoterapia ed anche con i giovani colleghi in formazione, come tappa importante per loro e per me, nella scoperta di una reciprocità che trasforma e arricchisce, nell’incontro terapeu-tico, sia lo psicologo che il paziente.

A ottanta miglia incontro al vento di maestro l’uomo raggiunge la città di Eufemia, dove i mercanti di sette nazioni conven-gono a ogni solstizio ed equinozio. La barca che vi approda con un carico di zenzero e bambagia tornerà a salpare con la stiva colma di pistacchi e semi di papavero, e la carovana che ha appena scaricato sacchi di noce moscata e di zibibbo già affa-stella i suoi basti per il ritorno con rotoli di mussola dorata. Ma ciò che spinge a risalire fi umi e attraversare deserti per venire fi n qui non è solo lo scambio di mercanzie che ritrovi sempre le stesse in tutti i bazar dentro e fuori l’impero del Gran Kan, sparpagliate ai tuoi piedi sulle stesse stuoie gialle, all’ombra delle stesse tende scacciamosche, offerte con gli stessi ribassi di prezzo menzogneri. Non solo a vendere e a comprare si viene a Eufemia, ma anche perché la notte accanto ai fuochi tutti intorno al mercato, seduti sui sacchi o sui barili, o sdraiati su mucchi di tappeti, a ogni parola che uno dice - come “lupo”,

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“sorella”, “tesoro nascosto”, “battaglia”, “scabbia”, “amanti” - gli altri raccontano ognuno la sua storia di lupi, di sorelle, di tesori, di scabbia, di amanti, di battaglie. E tu sai che nel lungo viaggio che ti attende, quando per restare sveglio al dondolio del cammello o della giunca ci si mette a ripensare tutti i propri ricordi a uno a uno, il tuo lupo sarà diventato un altro lupo, tua sorella una sorella diversa, la tua battaglia altre battaglie, al ritorno da Eufemia, la città in cui ci si cambia la memoria a ogni solstizio e a ogni equinozio1.

Eufemia, il luogo degli scambi, là dove non è importante la quan-tità di merce da vendere o da acquistare, né quanto si è potenti e in grado di fare affari e controllare il mercato, ma il ritrovarsi accanto ai fuochi. E parlare. Non dissertare o sentenziare verità, o dire parole intelligenti che possano colpire, disegnando una splendida immagine di sé, o interpretare le parole degli altri.

Accanto ai fuochi le storie di vita si intrecciano e si confrontano e si ridisegnano alla ricerca di un senso emotivamente condiviso. Le parole aiutano a tracciarlo dal momento in cui, consapevole del lungo viaggio che mi attende, io bimbo o adulto sofferente posso fi darmi di qualcuno che pu ò stare con me a rileggere e trasformare, nella mia vita, ciò che serve, dentro, per vivere, per gustare la soli-tudine e l’incontro per vendere e comprare, affrontare la sofferenza, divertirsi, giocare, e generare, e prendersi cura di…

Storie da raccontare, da inventare, da rivivere insieme, da met-tere in scena, da comprendere per poter ripartire in quel personalis-simo viaggio interiore tra il passato e il futuro che è il vivere l’oggi.

Infi nite storie. Ed ecco il piccolo spazio della stanza di terapia trasformarsi in casa, astronave, antro dei mostri, laboratorio, accam-pamento, scuola e altro altro ancora…

Infi nite storie in cui l’incontro con il terapeuta permette che «il lupo diventi un altro lupo, tua sorella una sorella diversa, la tua bat-taglia altre battaglie», per poter andare al di là di ciò che la soffe-renza ha bloccato in noi e fuori di noi, per poter riconquistare il

1 Italo Calvino, Le città invisibili, Einaudi, 1972, p. 17.

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gusto dello scambio e della ricerca di senso che ci rende umani.Ed è il Marco Polo, il viaggiatore, a poter accompagnare ogni

persona che è Imperatore di un grande regno, carico di ricchezze e di possibilità, di guerre e di tregue. Grande, ma fragilissimo se non si riconosce nelle mille città che lo costituiscono, se non è possi-bile riattivare le risorse per far fronte agli eventi, ricollegare vicende che rendono ragione delle diversità e dei confl itti, ricuperare energie vanamente occupate in inutili difese o in inutili aggressioni.

Il viaggiatore può accompagnare, perché molto ha viaggiato e può ora riconoscere in sé e negli altri, già da lontano, la risonanza di ogni città di cui ha percorso le strade, gustandone l’odore, le forme, il ritmo della vita. E ben sa, così ci insegnano i bambini, che la parola arriverà a dare senso se radicata nelle sensazioni, nelle emo-zioni, nella corporeità della comunicazione, nelle immagini che ne sono scaturite, in quel teatro interiore che ci permette di capirci e di capire gli altri.

Nell’incontro con l’Altro, con le altre città, il viaggiatore è colui «che può riconoscere il poco che è suo e scoprendo il molto che non ha e non avrà2», colui che condivide senza confondersi, autentica-mente disponibile al diverso e al nuovo in ognuno e in ogni cul-tura del mondo. Ed è in grado di tirar fuori dalla sua bisaccia, in momenti diversi, ciò che serve a rintracciare la rotta, a disegnare mappe, a tracciare collegamenti, o a decidere dove fermarsi, capace di leggere mappe e storie che grandi viaggiatori prima di lui hanno incontrato e compreso, senza perdere la passione per la vita, anche quando la fatica e il dolore possono offuscare il gusto e il senso del cercare.

Ed eccoci, immersi nel nostro gioco di pensieri, ad affrontare lo studio di questo manuale dedicato al test del Villaggio di Arthus.

Ci hanno guidato fi n qui immagini care, spesso evocate dal pro-fessor Grandi nel suo infaticabile lavoro di formazione degli psico-

2 Ibidem, p. 35.

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terapeuti, giovani e non3.Ed anche il ricordo di quando, già negli anni Settanta, il pro-

fessor Grandi con la sua équipe di psicologia del lavoro, utilizzava le potenzialità del Villaggio di Arthus come strumento diagnostico e formativo in contesto aziendale.

Poi, ed erano gli anni Ottanta, la professoressa Liliana Zani dedi-cava all’équipe di psicoterapia dell’età evolutiva (allora nascente all’interno dell’Istituto Alfred Adler di Torino) tempo e passione per trasmettere la competenza necessaria ad utilizzare questo test, coniugando, in prospettiva formativa, empatia, intuizione, capacità di gioco e rigore scientifi co.

Allora poco conosciuto e poco usato, il test del Villaggio ci si rivelava ricchissimo come strumento per entrare nella “città” di ogni bambino, per incontrarne il mondo interno, sia a livello diagnostico che terapeutico. Sulla base del lavoro di quei Seminari formativi e delle scarne indicazioni fornite dai manuali in circolazione, il test del Villaggio ci ha accompagnati nel viaggio con molti piccoli pazienti, affi nandosi pian piano come strumento tra le mani di tera-peuti formati a vivere una dimensione di gioco nella relazione con i bambini, e a leggere le produzioni ludico-simboliche.

Oggi, al di là della “tradizione orale” maturata in questi anni, il rigore scientifi co del Maestro e la passione e il talento per la scrittura dell’Allievo ci offrono, colmando un vuoto nell’attuale letteratura scientifi ca, i fondamenti teorici del test del Villaggio di Arthus in relazione all’approccio della psicoanalisi adleriana, nonché le linee metodologiche utili all’applicazione e alla corretta elaborazione delle produzioni dei bambini.

E non solo. Secondo la tradizione formativa dell’Istituto, il dott. Bosco ci permette di entrare con lui e alcuni piccoli pazienti nella stanza di psicoterapia, offrendoci con semplicità e rigore la testimo-nianza di percorsi terapeutici in cui il Villaggio, nei diversi momenti di applicazione, si propone come effi cace possibilità di rilevazione,

3 Cfr. L. G. Grandi, “La psicoterapia come viaggio” in Seminario di formazione della Scuola adleriana di psicoterapia, Giugno 2010; L. G. Grandi, Viaggio nell’uomo, 2002.

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congruente con l’approccio ludico simbolico utilizzato nell’impo-stazione psicoterapeutica ed anche come opportunità per giocare e negoziare i cambiamenti di rotta della psicoterapia in direzione dei desideri e dello slancio di crescita dei bambini, alle prese con i diversi compiti evolutivi.

Grazie al Prof. Grandi che, sempre attento all’area evolutiva, ha ispirato, guidato e sostenuto questo lavoro.

Grazie al Dott. Bosco per la passione con cui si è dedicato allo studio del test e alla rifl essione sull’esperienza maturata in ambito clinico anche dai colleghi dell’Istituto, offrendo un testo prezioso a chi, instancabile viaggiatore, ama immergersi nel mondo dei bam-bini, aiutandoli a scoprirne la ricchezza, qualunque sia la storia di dolore che li ha portati all’incontro con noi.

Anna Maria Bastianini

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PARTE PRIMA Teoria

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I. INTRODUZIONE

Il presente lavoro nasce da un vivo interesse personale per lo strumento del Villaggio, nonché dalla constatazione della grossa diffi coltà a reperire del materiale per conoscerlo e studiarlo in modo approfondito. Essendo poco considerato e ancor meno utilizzato, esso non è fatto oggetto di ricerche o studi che ne promuovano, a livello di pubblicazioni scientifi che, l’apertura al mondo dei profes-sionisti della psicologia e della psicoterapia. Rimane, pertanto, uno strumento di nicchia, per quegli operatori che ne hanno intuito la straordinaria potenzialità e utilità, e che hanno saputo fare proprio e ampliare l’insegnamento di Arthus e dei primi Autori che studia-rono il Villaggio.

Non è mia intenzione soffermarmi in dettaglio sulla complessa teoria psicologica della personalità sviluppata da Arthus; descriverò, in questa sede, soltanto quegli elementi della tecnica maggiormente affi ni al modus operandi dell’Istituto di Psicologia Individuale «Alfred Adler» di Torino. A tal fi ne, vista la praticamente inesi-stente bibliografi a sull’argomento4, risulteranno indispensabili l’o-pera fondamentale di Arthus, gli apporti di Mabille e di Mucchielli, quelli della Scuola Francese più recente, dell’unico studio italiano di una certa rilevanza, ad opera di Marchisa e Terenzio, gli insegna-menti dei docenti e Maestri della Scuola Adleriana di Psicoterapia, oltre che, più modestamente, le rifl essioni e gli apporti personali.

Verrà, dunque, presentato qui di seguito un tentativo di mettere

4 Con ciò intendiamo “recente”, “aggiornata”, “italiana” o “tradotta in lingua italiana”. Come si vedrà in seguito, sono uscite negli ultimi anni delle pubblicazioni sul Villaggio in lingua francese, ma esse assu-mono prospettive teoriche diverse da quella di Arthus, che è invece quella dalla quale, pur con notevoli differenze, è partita la rifl essione della Scuola di Torino, nonché quella personale che è culminata nel presente lavoro.

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ordine, innanzitutto cogliendo e sistematizzando alcune delle intu-izioni teoriche e prassi metodologiche che, pur provenienti da una datata bibliografi a, mantengono una loro dignità, un certo fascino, e possono essere integrate e ulteriormente sviluppate. Inoltre, mi propongo di mettere per iscritto tutta la mole di conoscenza impli-cita ed orale che nel corso degli ultimi decenni è stata accumulata dall’équipe di Psicoterapia dell’Infanzia e dell’Adolescenza coordi-nata dalla dott.ssa A. M. Bastianini.

La maggior parte dei contenuti, infatti, in particolar modo quelli che fanno parte delle rielaborazioni apportate ai lavori storici citati e gli apporti originali, vengono trasmessi nel corso di supervisioni o di riunioni d’équipe con i colleghi. In queste sedi, dunque, fuori dal contesto formativo – nel senso ristretto di “scolastico” – nel quale l’interesse principale è trasmettere sinteticamente agli allievi gli strumenti per comprendere la metodologia del test, diventa possibile confrontarsi su un villaggio “concreto” e sui contenuti strutturali, dinamici, simbolici e narrativo-linguistici della costruzione, sugli elementi emersi all’inchiesta e sulla storia del villaggio, mettendoli in relazione e facendoli dialogare con i dati emersi dal colloquio anamnestico e dagli altri test proiettivi (Test Carta e Matita, C.A.T., Rorschach ecc.) che sono stati somministrati al bambino. Inoltre, viene stimolata una rifl essione personale – per quanto mi riguarda, confl uita nel presente lavoro – e un continuo confronto con il gruppo (che comprende al suo interno soggetti con diversi gradi di espe-rienza) che consentono di ampliare la conoscenza dello strumento ed un suo utilizzo sempre più affi nato e profi cuo.

In particolar modo, tenterò di mostrare come l’utilizzo del Vil-laggio nel corso della psicoterapia, ci consenta – se letto in modo dialettico con quanto via via emerge nelle sedute – di avere sempre un quadro aggiornato di quanto si muove nel mondo interno del bambino e di cosa succede nella relazione terapeutica. Questo, naturalmente, potrebbe essere fatto anche con gli altri test; ma il Villaggio, rispetto ad essi, ha la peculiarità di essere fondamen-talmente un gioco di costruzioni: rappresenta, dunque, per il bam-

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bino, un “compito conosciuto”, nel quale si sente “competente”, ed è da questi vissuto in maniera tendenzialmente meno ansiogena e valutante, fi no al punto da potersene appassionare, richiedendo a più riprese di poterci “giocare”. A differenza degli altri metodi proiettivi, che prevedono stimoli bidimensionali, «immobili su una tavola di cartone» (Nguyen, Jacquet, 1999, p. 3) della misura di un comune foglio di carta, e che sollecitano una ristrutturazione visiva e verbale (Rorschach, C.A.T., Patte Noir ecc.), il Test del Villaggio propone un materiale costituito da elementi indipendenti, dai più strutturati (certe categorie di elementi sono impregnati di una forte saturazione culturale), ai meno riconoscibili. Questo materiale è tri-dimensionale e permette una manipolazione senso-motoria dei suoi componenti da parte del soggetto. Una volta terminato il villaggio, «forma e rifl esso si guardano», ma per il soggetto (la forma) non si è trattato che di un gioco di costruzioni. Il villaggio è un suo rifl esso (Nguyen e Jacquet parlano, infatti, di «villaggio-rifl esso»), al con-tempo inconscio e conscio, «contenente tutte le peripezie della lotta interna» (ibidem, p. 3) tra gli aspetti affettivo-pulsionali e i mecca-nismi di difesa.

Infatti, già in fase di prima elaborazione, esso consente di cogliere “a colpo d’occhio” l’immagine (il “rifl esso”) del bambino, permet-tendo all’operatore di fornirgli un immediato feedback5, attraverso un linguaggio metaforico (sia esso verbale, che di gioco), già nel corso della stessa seduta, cosa che peraltro consente di osservare la sua capacità di insight. Il Villaggio, infatti, non abbisogna di nume-rose riletture di materiale scritto (come ad esempio il C.A.T.), in quanto rimane una “fotografi a” che sintetizza tutto il processo e i risultati; né di complesse siglature ed elaborate analisi numeriche (come il Rorschach). Certamente, questo può essere inteso come un punto a sfavore del test, in quanto perde di oggettività (non vi

5 Laddove ritenga sia il caso: ad esempio, qualora il bambino ci coinvolga in un gioco che, almeno idealmente, pare la prosecuzione di quanto ha “narrato” attraverso il suo villaggio. Anche il Metodo Monod (1970) può prevedere una prima restituzione succinta, in seguito alla costruzione (Cfr. Jacquet, 1999a).

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sono riferimenti espliciti a “banali6” o “cliché”, né percentuali di riferimento); ma d’altro canto, se il clinico è suffi cientemente for-mato/supervisionato e analiticamente creativo, l’analisi “sogget-tiva” che ne risulta può essere, non solo molto approfondita, ma – in quanto fondata su presupposti teorico-metodologici solidi e su un suffi ciente bagaglio di esperienza clinica – anche caratterizzata da riscontri puntuali con gli altri test.

Per Arthus

il valore personale dell’osservatore, la sua esperienza, il suo grado di evoluzione (non solamente intellettuale, ma anche affettiva) e lo sviluppo della sua «personalità» diventano dei fattori essenziali della validità dell’esame (Arthus, 1949, p.75).

Per questa ragione, gli furono mosse critiche relative all’«eccessiva concessione all’intuizione personale dello psicologo»; tuttavia, rite-niamo che egli, così come noi, conceda molto allo psicologo, «solo dopo avergli chiesto molto7» (Marchisa e Terenzio, 1968, p. 12):

Il solo modo di evitare, in questo genere di prove, l’interpreta-zione «delirante» è di saper mantenere un giusto equilibrio tra l’inconscio, permeabile, istintivo (e solo capace di ben imitare) e il cosciente, solo capace di concludere. (…) Gli osservatori saranno dunque del tipo «sensibile», permeabile e plastico (…). Ma occorre che nello stesso tempo, questi «sensibili» possano

6 In realtà anche nel Villaggio si ritrovano delle aggregazioni tipiche che possono essere paragonate ad una Banale: ad esempio, (a) la chiesa accostata al campanile (Cfr. Jacquet, 1999b); (b) la compo-sizione classica del castello, con corpo centrale e due torri esterne. Potrebbero essere anche intese come indici di realtà o prove dei limiti.

7 In uno scritto sull’interpretazione del T.A.T. in chiave adleriana, Grandi e Tefnin (1982) dichiarano: «Possediamo l’intima convinzione che tale modo di operare sia sicuramente possibile, a patto che veramente abbiamo introiettato il messaggio della teoria del Maestro, acquisendo la disponibilità a metterci in crisi e ad evitare false e dannose sicurezze dell’adeguamento passivo a sistemi prefi ssati. È certamente più rassicurante seguire diligentemente la traccia di autori noti, piuttosto che leggere il protocollo ad esempio come una miscellanea ed una antologia di associazioni che ci violentano ad interpretare, ricorrendo alle tecniche analogiche proprie della psicologia dinamica, così utili per la comprensione delle problematiche profonde, ma altresì richiedenti sforzi continui e prolungati, gestiti in un clima di incertezza».

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LA TECNICA DEL VILLAGGIO NELLA PSICOTERAPIA INFANTILE

essere capaci di diventare molto «coscienti» al fi ne di poter uti-lizzare logicamente i materiali raccolti (Arthus, pp. 48-9).

In ogni caso,

Prima di sezionare delle «personalità» dobbiamo avere una certa esperienza dell’«Uomo» (ibidem, p. 43).

In queste parole mi sembra di ritrovare echi di quanto afferma L. G. Grandi, nel mettere l’Uomo (in senso generale e astratto, ma anche come paziente/cliente e terapeuta/analista) al centro della pro-pria rifl essione e della propria prassi, sottolineando – con Adler – un’eguale status del paziente/cliente con il terapeuta/analista (questi è «l’amico che ne sa di più» e che lo accompagna in questo viaggio); rimarcando il valore, per questi ultimi, dell’esperienza sul campo e l’importanza imprescindibile di una formazione/supervisione per-manente (oltre, ovviamente, ad una buona base culturale di partenza ed una attenta analisi personale e didattica). Egli parla di «mestiere» e di «missione», piuttosto che di professione, in quanto impliciti nei primi due termini troviamo elementi connessi alla dimensione for-mativa (ci si forma come un artigiano “a bottega” con il proprio Maestro), creativa (la nostra pratica è anche, o soprattutto, un’arte) e a quella di servizio (all’individuo, alla società, ecc., oltre che mera forma di sostentamento/arricchimento economico personale).

In linea con una visione dell’Uomo secondo la quale «l’unico reattivo conveniente per l’analisi dell’uomo è l’uomo» (Van Lennep d’Utrecht), per Arthus, la pratica del Villaggio era innanzi tutto un’arte:

Ciò che si riferisce veramente all’«umano» non potrebbe d’al-tronde mai essere altra cosa se non un’arte, (…) uno scambio di impressioni tra due essere non identici che devono trovare tutte le risonanze comuni se vogliono giungere ad esprimersi liberamente e a comprendersi (ibidem, p. 49).

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Sottolineando gli aspetti del gioco e della creatività, non è nostra intenzione togliere validità oggettiva al Test del Villaggio; al con-trario, come si vedrà nel prosieguo del testo, la rifl essione teorica e l’analisi in merito a questo reattivo possono giungere anche a livelli molto alti di complessità, con la possibilità di ricavare un’enorme messe di dati a partire da numerosi criteri e parametri predefi niti (cfr. Allegato). In questo modo l’operatore non è costretto a navigare a vista, ma ha dei punti di riferimento chiari, obiettivi e condivisi con la comunità scientifi ca di appartenenza.

A conclusione di questa prima rifl essione, fornirò un cenno sulla struttura del presente lavoro. Nella prima parte, ho ripercorso sin-teticamente la storia del Test del Villaggio e riscontrato ciò che emerge dal dibattito attuale. Ho indicato alcune ipotesi da porre al vaglio critico (più che a convalida sperimentale, giacché non si tratta di una ricerca di questo tipo); ho quindi ricercato e tentato di stabilire un legame tra gli apporti di Arthus alla lettura del Villaggio e gli apporti della Psicologia Individuale Comparata, a partire da Adler, fi no ai giorni nostri (Dreikurs, Ansbacher, Parenti, Grandi); segue poi una carrellata sugli Autori e sulle concettualizzazioni che ritengo/riteniamo fondamentali per il nostro lavoro clinico e nell’a-nalisi dei villaggi.

Ho tentato di compiere una sistematizzazione degli apporti teo-rico-metodologici all’utilizzo del Villaggio, per la quale mi sono servito della letteratura disponibile sull’argomento, ma soprattutto – come accennavo poc’anzi – delle rifl essioni, delle rielaborazioni e degli apporti originali al lavoro sul Villaggio (per lo più traman-dati oralmente) dell’équipe di Psicoterapia dell’Infanzia dell’Istituto Adler.

Parallelamente ho proposto un “modello integrato” per l’analisi del Villaggio, che permette un’analisi multidimensionale, attraverso cioè più piani e più lenti sovrapposte, integrate e fatte dialogare:

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LA TECNICA DEL VILLAGGIO NELLA PSICOTERAPIA INFANTILE

tale modello si basa essenzialmente sulla teoria adleriana, anche se vi sono altri apporti che consentono di completare le osservazioni secondo tre criteri: strutturale (o di organizzazione/integrazione), tematico (o psicodinamico-relazionale), dinamico (o topografi co-topologico); nonché attraverso una complessa teoria sul simbolismo delle zone e delle linee direttrici.

Nell’ultimo capitolo della seconda parte ho fornito alcune esem-plifi cazioni tematiche a partire dall’analisi dei Villaggi di alcuni bambini e pre-adolescenti di diverse età, che ho incontrato nell’am-bito di una valutazione psicodiagnostica.

Nella terza parte, più prettamente clinica, ho presentato tre “casi”, fornendo un’ampia descrizione e un’approfondita analisi dei diversi Villaggi costruiti dai tre bambini nel corso di alcuni anni di psico-terapia, supportate: (a) da integrazioni anamnestiche o provenienti dai dati ricavati da altri test; (b) da alcuni stralci di sedute, con situa-zioni di gioco o sequenze verbali; (c) da rifl essioni su temi specifi ci emersi nel corso dell’evoluzione della terapia.

Questo lavoro mi ha fornito l’occasione, non solo per approfon-dire determinate tematiche care agli adleriani (ad esempio, le fi n-zioni, il sentimento di inferiorità, la volontà di potenza, l’élan vital, il sentimento sociale ecc.), ma anche per mostrare una prassi, un compendio, sotto forma di manuale operativo, che sottolineasse la continua dialettica tra l’evoluzione della terapia e i Villaggi via via somministrati al bambino; tutto ciò a benefi cio di coloro che si mostrassero interessati ad approfondire lo studio della Tecnica del Villaggio, al fi ne di poterla utilizzare effi cacemente nel proprio lavoro clinico, ma anche di chi, psicologo in formazione o specia-lizzando in psicoterapia, si avvicinasse per la prima volta a questo strumento.

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II. CENNI STORICI, ATTUALITÀ E PROSPETTIVE

II. 1 Fondamenti di un metodo proiettivo: fondazione del Villaggio

Nel 1925, ispirata dalla lettura del romanzo di H. G. Wells (1897) La guerra dei mondi8, Margaret Lowenfeld raccolse un materiale eterogeneo dentro una cassetta di sabbia, da utilizzare come stru-mento psicologico che facilitasse l’espressione del bambino. Nel 1938, in una conferenza alla sezione medica della Società Britannica di Psicologia, l’Autrice relazionò sul cosiddetto World Apparatus, tecnica mediante la quale il bambino poteva esprimere i contenuti del “proteo-sistema” (o coscienza immediata, prerifl essa, vissuta), ove non è possibile distinguere pensieri, atti, sentimenti, sensazioni e ricordi, giacché sono inestricabilmente fusi in un tutto.

Già nel 1927 la Lowenfeld venne a conoscenza dell’attività svolta da Melanie Klein, che utilizzava il gioco come metodo di approccio nella psicoanalisi infantile (1932) e, nello specifi co, un materiale piuttosto simile al suo. Le due autrici, benché con presupposti teo-rici diversi, si servirono del World Apparatus come tecnica diagno-stica e terapeutica. Anche Anna Freud (1932) utilizzava un materiale simile, denominandolo «piccolo mondo in miniatura». Su un tavolo della sua stanza di analisi aveva posizionato un gran numero di pic-

8 Notizia riportata da Nguyen e Jacquet (1999).

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coli giocattoli: personaggi di legno, automobili, treni, animali, case ecc. Tale materiale risultava particolarmente utile con quei bambini intimoriti o inibiti, giacché attraverso l’osservazione di come questi si approcciavano al materiale e di come assemblavano i pezzi, pote-vano essere ricavate importanti informazioni su di loro.

Il Gioco del Mondo della Lowenfeld, subì diverse rielabora-zioni. Nel 1934, prima a Vienna e poi negli Stati Uniti, Charlotte Bühler propose il Test del Mondo (World Test), standardizzato su un largo campione come test di intelligenza e come tecnica proiettiva (costituita da 160 elementi) per analizzare le tappe dello sviluppo intellettuale e affettivo. Nel 1947 Hedda Bolgar e Liselotte Fischer utilizzarono per la prima volta un materiale di questo tipo con gli adulti. Esse, rifacendosi a Melanie Klein, proposero il Test del Pic-colo Mondo, al fi ne di studiare la personalità profonda di soggetti adulti al di là delle sovrastrutture sociali. Il materiale era composto da 282 pezzi di legno o metallo – semplici, ma colorati – attraverso il quale si richiedeva di «fare qualcosa».

In seguito ad un incontro in Olanda con una allieva di Charlotte Bühler, Kathlien Schult, e grazie alla acute osservazioni sul World Test da parte di persone che nulla avevano a che fare con la psico-logia o con i test diagnostici, Henri Arthus intuì le forti potenzialità della tecnica e la sviluppò autonomamente, pervenendo al Villaggio: Test di attività creativa (pubblicato in Francia nel 1949 e in Italia nel 1968). Purtroppo la Seconda Guerra Mondiale e la sua morte repen-tina, non gli consentirono di approfondire ulteriormente gli studi. Attraverso il Villaggio, Arthus non era tanto interessato a cogliere aspetti particolari della personalità, quanto piuttosto la sua totalità; voleva coglierla nella concretezza della sua attività, non in astratto, ovvero coglierla nelle sue modalità reattive agli stimoli provenienti dal mondo esterno, per indagarne le sue capacità di adattamento alle reali situazioni della vita. Il soggetto, posto di fronte ad un “caos” deve ordinare, organizzare, dare senso, e facendo ciò, secondo

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Arthus, egli esprime oggettivamente il suo grado di sviluppo, il tipo di attività creatrice o riproduttrice.

Altri Autori francesi proseguirono in quegli anni i loro studi sul Villaggio, partendo da presupposti teorici differenti e apportando più o meno signifi cative aggiunte e modifi che (in questo e nei prossimi capitoli si accennerà ad esse) alla metodologia proposta da Arthus. La ricerca sul Villaggio è la testimonianza di un periodo storico della psicologia clinica che fu particolarmente fecondo e ricco di esperienze innovatrici nell’ambito delle cosiddette «tecniche proiet-tive». In Francia, in poco più di una decina di anni, furono pubbli-cate tre versioni differenti del Test del Villaggio.

Pierre Mabille (1950) si occupò della standardizzazione dello spazio di lavoro (le misure del tavolo), del materiale e dell’interpre-tazione del simbolismo spaziale e della forma del villaggio. Studioso delle Forme umane, Mabille considerava il Villaggio come proie-zione delle strutture della personalità. Egli trasformò il Villaggio in una tecnica proiettiva verbale: i 135 pezzi da cui era formato il materiale presentato al soggetto comprendevano elementi fi gurativi e non fi gurativi in legno colorato, intenzionalmente stilizzati, ma – a differenza di quello di Arthus – caratterizzati da disegni e scritte che indicavano l’uso a cui gli edifi ci andavano adibiti.

Ritenendo gli elementi siffatti troppo «razionalizzati» e che questo orientamento verso la concettualizzazione e il piano verbale potesse ostacolare l’espressione della pura affettività (nonché limi-tarne l’applicazione con i bambini con diffi coltà cognitive evidenti o con i bambini stranieri che ancora non hanno la padronanza della lingua), Roger Mucchielli (1960), propose il Test del Villaggio imma-ginario, realizzando elementi con disegni e raffi gurazioni molto curati e ben defi niti. Attraverso tale materiale (composto da 300 pezzi), egli riteneva di ottenere la «possibilità di un’organizzazione esistenziale del “mondo” attorno al “Sé”» (p. 126) del soggetto. Egli

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considerava il villaggio come espressione della «Protocoscienza» o «mondo intimo», inteso come inconscio, non omogeneo, egocen-trico, fantasmatico, irrazionale, affettivamente carico, dinamico e creatore9. Nella consegna egli precisava, non solo che il villaggio costruito dal soggetto dovesse essere un villaggio onirico, immagi-nario e di suo massimo gradimento, ma anche che fosse un villaggio entro il quale questi dovesse abitare e sostenere un ruolo a piacere. Peraltro, per quanto ineccepibile – e proprio perché ha la pretesa di essere rigorosamente “scientifi ca” –, la tecnica di Mucchielli non risulta scevra da alcune diffi coltà di applicazione e interpretazione10 per quegli operatori che non siano più che adeguatamente e apposi-tamente formati.

In ambito italiano, nel 1968 Marchisa e Terenzio pubblicarono i dati di una ricerca sul Test del Villaggio (di Arthus) basati sulla somministrazione del Test in una classe V elementare di una scuola di Torino. L’esigua numerosità del campione di soggetti a cui è stato somministrato il Test (N = 10) era dettata dal carattere preliminare della sperimentazione, che aveva fra i suoi obiettivi: (1) quello di sta-bilire le modalità di procedura da impiegare in ulteriori applicazioni; (2) evidenziare le variabili che avrebbero permesso la formulazione di alcune ipotesi di lavoro da sondare nella ricerca vera e propria. In particolare, essa intendeva valutare l’applicabilità della tecnica di Arthus ad un loro campione di bambini. A questo proposito, nono-stante le Autrici rilevassero alcune criticità11, decisero di applicare il

9 Relativamente al World Apparatus della Lowenfeld, Mucchielli sosteneva che la sabbia potesse essere «una causa di perturbazione piuttosto che di espressione personale» (1960, p. 173).

10 In parte per la somma importante di informazioni che bisogna raccogliere e in parte perché l’Au-tore non indica una procedura chiara di utilizzo di questi dati. Mucchielli (1976) standardizzò il cosid-detto «foglio di rilevazione», ma nel suo libro egli non sviluppa alcuna interpretazione completa basata su quel protocollo: la maggior parte dei casi presentati sembrano basarsi sulla semplice messa in rapporto tra ciò che raffi gura la costruzione e la situazione esistenziale attuale del soggetto (Bouchard, Denis, 1999).

11 L’applicazione della tecnica originale di Arthus con soggetti in “età evolutiva” fece emergere alcune indicazioni che risulteranno più chiare nel corso della trattazione: 1) insofferenza e critica per l’eccessivo numero degli elementi; 2) incertezza rispetto all’utilizzo o meno dei tre “pezzi fondamen-tali” posizionati dall’operatore davanti al mucchio; 3) l’elemento “neutro” (o senza signifi cato), di colore verde, usato spesso come “prato”, risposta che risultava dunque poco signifi cativa; 4) inibizione cau-sata dalla posizione frontale dello sperimentatore.

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metodo proposto da Arthus senza sostanziali modifi che. Emersero, infi ne, alcune variabili che furono poi studiate nella ricerca vera e propria, effettuata tra il 1965 e il 1967 con un campione di bambine12 (N = 21) di 11-12 anni di una scuola media di Torino. Ad alcune di esse vennero poi proposti un primo e un secondo retest (rispettiva-mente: N = 10 e N = 14).

Le Autrici vennero a conoscenza della standardizzazione del materiale dell’Arthus (fornito da Dufour di Parigi) solo dopo aver completato la sperimentazione. Esse si servirono di «materiale di fortuna» acquistato in un bazar di giochi, ma tale da rispecchiare il materiale originale. Riportiamo questo dato perché anche noi ci ser-viamo di un materiale ri-prodotto ad hoc, al quale – pur rispettando il senso originario – abbiamo apportato piccole variazioni dettate dalle nostre modalità di utilizzare e di pensare lo strumento.

Certamente, se dovessimo impegnarci in una ricerca sperimen-tale, come fanno notare le stesse Marchisa e Terenzio, sarebbe più corretto utilizzare il materiale standardizzato (fornito in Italia da O. S.); tuttavia, all’epoca esse ritennero che

Le differenze accidentali che potrebbero preoccupare il pro-fano, per l’esperto sono irrilevanti per gli scopi e il metodo seguito dalla nostra ricerca: l’analisi formale, strutturale delle quattro variabili e non una diagnosi contenutistica simbolica (…). Di qui le conclusioni della nostra ricerca sono perfetta-mente riferibili al materiale standard (Marchisa e Terenzio, 1968, p. 14, Nota 38).

Inoltre, come si dirà in seguito, noi utilizziamo una consegna diversa da quella di Arthus, mentre Marchisa e Terenzio avevano utilizzato quella originale. Benché dichiarassero di avere alcune perplessità (ad esempio, rispetto alla consegna, alla possibilità di

12 Le Autrici optarono per una popolazione esclusivamente femminile, per rendere omogeneo il campione. Essendo interessate a rilevare delle variabili, piuttosto che a chiarire come e perché queste si manifestino in maniera differente nei diversi soggetti, non presero in considerazione la variabile del genere dei soggetti di studio.

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non utilizzare tutti i pezzi, alla posizione dell’osservatore ecc.), esse si preoccuparono di aderire il più possibile allo standard, mante-nendo per lo più quanto proposto originariamente da Arthus. Noi ci siamo presi la libertà (ma anche l’onere) di introdurre alcune solu-zioni originali, nel tentativo, non solo di utilizzare un linguaggio a noi più vicino e affi ne, ma anche di adattare sempre più il test alla persona (in questo caso, i bambini) e non la persona al test, pur avendo sempre a mente di mantenere una certa coerenza interna (tra gli utilizzatori all’interno dell’équipe) e un certo rigore nella sommi-nistrazione e nell’interpretazione dei dati.

Negli stessi anni della ricerca italiana, in Francia Mireille Monod (1970) costruì uno strumento di ricerca e di investigazione asso-ciando elementi puramente psicometrici ad altri psicoanalitici, come solo la pratica del Rorschach permetteva fi no ad allora. L’autrice si servì del materiale utilizzato da Mabille e procedette alla stan-dardizzazione di un questionario da far seguire alla costruzione e di un metodo di codifi ca e di spoglio rigoroso dei dati quantitativi raccolti, per evitare errori interpretativi. I dati raccolti secondo la sua tecnica vertono essenzialmente su: (a) la misura dello spazio occupato dalla costruzione, ovvero la cosiddetta espansione; (b) il numero di pezzi utilizzati; (c) il rapporto spazio/materiale; (d) la “messa in conto” dell’organizzazione interna del villaggio, anno-tando le entrate, le uscite e la circolazione interna. Come ricorda Jacquet (1999a), Monod si è prestata alla critica formalizzando un simbolismo dello spazio occupato dal villaggio, basandosi sulle dif-ferenti tappe di sviluppo psicodinamico del bambino (quarto basso-sinistra del tavolo) o del periodo pre-edipico (quarto basso-destra). Ciò, peraltro, si inscriveva nel solco lasciato dai suoi predecessori in materia di psicologia proiettiva (Koch, Arthus, Mabille, Mucchielli), ma con uno sforzo di concettualizzare una simbolica spaziale ori-ginale e personale. Si tratta, cioè, di prendere in considerazione il punto di vista dinamico dello psicologismo del soggetto: i suoi

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movimenti progressivi, i suoi punti di fi ssazione e i suoi movimenti di regressione. Per Monod (1970) il Villaggio rilevava «l’espressione indiretta della personalità» (p. 19); in particolare, «l’ipotesi del sim-bolismo spaziale può essere considerato come il supporto della pro-iezione dell’immagine del corpo, schema strutturante lo spazio a livello della creazione proiettiva» (p. 25).

II.2 Il dibattito contemporaneo

Al contrario di quanto avviene in Italia, in Francia questo stru-mento è tuttora molto utilizzato e sono diversi gli Autori che hanno pubblicato studi su questo argomento. Nel 1999 il Bulletin de Psy-chologie ha edito un intero numero monotematico sul Test del Vil-laggio13 (e le tecniche affi ni), segno che l’attenzione sul tema è ancora alta e il dibattito vitale. Nel presentare la raccolta, Nguyen e Jacquet (1999), ricordano che, come altri metodi proiettivi, il Villaggio ha come obiettivo l’esplorazione della personalità dei soggetti, siano essi bambini, adolescenti, adulti o anziani14. Può essere applicato al singolo individuo, ma anche collettivamente, ad un gruppo di per-sone; in questo caso, potremo rilevare il grado di cooperazione e di solidarietà o il desiderio di isolarsi da parte dei componenti del gruppo stesso. La rassegna presenta delle ricerche effettuate con differenti categorie di soggetti, prendendo in considerazione diversi aspetti: dal contesto istituzionale (carcere e scuola nel carcere), alle dipendenze (alcolismo); dalle patologie psichiche (psicosi), alle pato-logie psico-somatiche (asma); fi nanche alla rappresentazione sociale di questioni sociali (l’utilizzo delle centrali nucleari).

13 In particolare, gli articoli si riferiscono pressoché esclusivamente alle tecniche di Mucchielli, Mabille, Monod e loro successive evoluzioni, mentre non viene affrontato il Villaggio a partire dalla teoria e dalla tecnica di Arthus. Noi, invece, partiamo proprio dalla tecnica Arthus, per sviluppare poi il nostro discorso originale.

14 Grande spazio viene dato nella rivista ai contributi che trattano dell’utilizzo del Villaggio con sog-getti anziani: Sigal (pp. 57-70 e 109-120) e Lhote (pp. 101-108)

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2.A Oltre Mabille: fondamenti teorici del test secondo Monod

Seguendo il Metodo Monod, Jacquet (1999a) utilizza il Villaggio come strumento per investigare le cosiddette «patologie limite». Monod (1970) mise a punto una tecnica proiettiva standardizzata, non verbale, attraverso la quale i soggetti erano invitati ad espri-mersi, a “fare” qualcosa, a creare una forma nello spazio, e che implicava la terza dimensione. Infatti, questa tecnica risulta parti-colarmente utile con quei soggetti in cui la verbalizzazione risulta ridotta, con i soggetti anziani sordi, o ancora con quelli che presen-tano un handicap fi sico che impedisce loro di essere valutati secondo gli abituali strumenti di investigazione. Viene offerto al soggetto uno spazio vuoto che egli può abitare, proiettando l’immagine del corpo alla quale è pervenuto ad uno stadio preverbale dello sviluppo. Le dimensioni alto/basso e destra/sinistra sono sollecitate in base alla percezione che il soggetto ha del proprio corpo dotato di verticalità e lateralità. In una prospettiva psicogenetica, sappiamo infatti che l’unità psicosomatica del soggetto è basata sull’integrazione delle esperienze corporee e relazionali precoci con la madre (“madre-ambiente”), inscritte a poco a poco nel tempo e nello spazio. Ange-lergues (1964, p. 182) descrive ciò nei termini di un «processo sim-bolico di rappresentazione di un limite che ha funzione di immagine stabilizzatrice e di contenimento protettivo». Il corpo risulta essere l’oggetto dell’investimento, mentre la sua immagine è il prodotto di questo investimento: si tratta cioè di una progressiva appropriazione ed individuazione del proprio corpo, che può essere descritta come un lavoro di «corporeizzazione» (Haag, 1991) o di «psichizzazione del corpo»15 (Allouch, 1991).

Jacquet si rifà a quegli studi che hanno messo in evidenza le tappe che preludono alla nascita del pensiero, all’acquisizione del linguaggio e alla costituzione dell’immagine del corpo16. A partire

15 In lingua originale: «travail de corporéation» e «psychisation du corps».16 Gli Autori di riferimento sono Anzieu (1985, 1988: Io-Pelle, contenimento psichico), Aulagnier

(1975: pittogrammi), Rosolato (1985: signifi canti di demarcazione), Haag (1988: identità primaria), Lacan (1966: stadio dello specchio) e Dolto (1984, 1987: immagine inconscia del corpo).

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da una esperienza fusionale, il bambino va costruendo i limiti del proprio territorio, per defi nire se stesso e fare esperienza delle prime differenze che permettono uno scambio fra l’interno e un esterno riconosciuto come tale, nonché di tutti quei rapporti contenente/contenuto che si inscrivono all’interno della propria organizzazione interna. Ma affi nché lo spazio divenga un quadro coerente, affi da-bile e rassicurante, all’interno del quale vivere, evolvere e situare gli oggetti dei nostri bisogni e desideri, è necessario lo sviluppo del pensiero, che prenda il corpo e lo spazio come organizzatori dello spazio psichico. Dunque, per illustrare l’ipotesi che il Villaggio sia la proiezione dell’immagine del corpo, Jacquet prende in conside-razione due parametri: (1) lo spazio occupato dal villaggio (la sua espansione) e (2) il simbolismo di una parte del materiale (in par-ticolare, gli alberi). L’Autrice sottolinea che lo spazio occupato dal villaggio, non solo è una rappresentazione dello spazio sociale occu-pato dal soggetto, ma soprattutto una raffi gurazione del suo spazio interiore e del modo in cui questo è abitato dai suoi oggetti interni. Lo studio dello spazio occupato dal villaggio è essenziale17, giacché rappresenta un dato oggettivabile, quantifi cabile, grazie alla stan-dardizzazione del test che permette il calcolo dell’espansione della costruzione rispetto al tavolo. L’organizzazione spaziale si modifi ca in relazione all’età, con un aumento progressivo dell’espansione tra i 6 e i 10 anni.

I casi «limite» cui Jacquet ha sottoposto il Villaggio, sembra-vano rivelare una carenza relativa al processo di simbolizzazione ed interiorizzazione che abbiamo descritto poc’anzi. La posizione che classicamente operava una netta distinzione tra psicosi e nevrosi si è da tempo ridotta, in favore di entità nosografi che dai contorni meno precisi, ma probabilmente più corretti da un punto di vista clinico. Possiamo trovare diverse denominazioni di questa fi gura clinica: stati limite, personalità narcisistiche, anaclitiche, come-se, in falso-Sé.

17 La prova primaria dell’esistenza, è di occupare lo spazio» (Le Corbusier, cit. in Khan, 1976).

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Tipicamente si ritrovavano dei villaggi “allungati” o “anaclitici” incollati al bordo inferiore del tavolo, come se fossero un prolun-gamento dei soggetti stessi, ma lasciassero poco al meccanismo di proiezione, sviluppato nel senso della latitudine. L’Autrice dunque considera «positivi i villaggi che si inscrivono nella verticalità» (1999, p. 10). I villaggi costruiti attorno ai bordi del tavolo, possono essere defi niti «villaggi in Falso Sé», dal momento che sembra sia il piano di lavoro offerto a sostenere la costruzione, «piuttosto che la creatività interiore del soggetto messa a disposizione del movimento di proiezione (ibidem). La zona centrale del villaggio, la cosiddetta “zona dell’Io”, si ritrova vuota: ciò sembra rivelare la fragilità strut-turale di un Io incapace di giocare il suo ruolo di mediatore con il mondo esterno, ma anzi è da esso modifi cato. Da qui, i frequenti sentimenti di vuoto interno ed esterno, di artifi ciosità, di inautenti-cità, di distacco dalla realtà delle organizzazioni in “falso Sé”.

Attraverso l’utilizzo del Villaggio immaginario, Jacques rileva che questi soggetti raramente utilizzano le assicelle e realizzano costruzioni dove le delimitazioni sono pressoché assenti, e sono piuttosto degli agglomerati informali, costruiti collocando via via il materiale, senza un preciso principio direttivo. Questi agglome-rati sono la rappresentazione dell’organizzazione interna di questi soggetti. Le vie di comunicazione, le delimitazioni, le aperture, il centro del villaggio che serve da organizzatore, da «centro di gra-vità», restano vaghi e testimoniano il défault dell’investimento nar-cisistico di base che imprigiona il soggetto. Jacques si propose di sondare il mondo fantasmatico di questi soggetti attraverso un que-stionario che segue la costruzione e concernente: (a) la scelta di una casa da abitare, (b) l’eventualità di un attacco, di un incendio e la presenza di un bambino infelice/sfortunato (malheureux)18. Ciò per-

18 Spesso la scelta della casa era rivolta verso edifi ci con insegne, ovvero delle case non persona-lizzate (un negozio, un’istituzione ecc.), oppure verso case precarie e raramente al centro del villaggio. L’eventualità di un attacco (aggressione esterna) di cui il proprio villaggio sarà vittima, assume conno-tati di distruzione, di devastazione. I soggetti sono poco inclini ad affrontare l’attacco: senza l’illusione di un intervento magico, è la catastrofe, il cataclisma. Può essere anche evocata l’assenza di distin-zione netta tra assaliti a assalitori. L’incendio evoca un’aggressione interiore e l’incapacità di trovare strategie o chiedere aiuto per spegnerlo. Il bambino infelice/sfortunato, invece, incontra in alcuni casi

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mette di rilevare le modalità difensive dei soggetti che sono o rare o poco effi caci, senza il ricorso ad una soluzione magica. In generale, si ravvisa la poca capacità di utilizzare strategie che prevedano il compromesso, la negoziazione e la solidarietà. Il test del Villaggio può in questi casi giocare un ruolo importante di fi gurazione, di collegamento e messa in prospettiva dei processi psichici così fragili o carichi di angoscia di questi soggetti, ponendosi come «atto tera-peutico» portatore di senso.

2.B Oltre Mucchielli: l’École de Rennes

Mucchielli (1960) partì dalla rilevazione delle virtù catartiche, misteriose, ma reali, di un primo villaggio, per formulare l’ipotesi che la ripetizione di più villaggi potesse contribuire ad un lavoro di psicoterapia19. L’utilizzo del test del villaggio immaginario in psico-terapia, secondo il metodo originale messo a punto da Yvonne Denis (1990), chiamato «Villaggio immaginario iterativo», ha permesso di precisare e validare le caratteristiche del test di Mucchielli. L’espe-rienza della ripetizione del Villaggio come supporto principale di un lavoro psicoterapeutico e l’osservazione di questa esperienza in un gran numero di soggetti, hanno permesso, inoltre, di concepire un utilizzo diagnostico sensibilmente differente, rispetto a quello di Mucchielli.

Bouchard e Denis (1999) sostengono che il principale insegna-mento tratto dall’utilizzo del villaggio immaginario iterativo, è stato quello di constatare l’importanza primordiale delle “forme” costruite e della particolare dinamica che le determina. Il villaggio è costruito da un insieme, o più sovente da sottoinsiemi, più o meno netti, e a loro volta composti da diversi elementi. L’esame di serie di villaggi e il rilievo delle misure delle costruzioni prodotte, rivela le modifi cazioni di questi sottoinsiemi, secondo una logica un rifi uto incondizionato, ma più spesso un adesione, un’identifi cazione con esso, che andrà a solleci-tare il proprio mondo interno.

19 Alla stessa conclusione siamo giunti noi. L’argomento verrà ripreso nei prossimi capitoli.

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che dipende da fattori e leggi ben precisi. Denis (1989; 1990) indi-vidua quattro fattori costitutivi di un sottoinsieme o «struttura»: una forma, un contenuto, un polo e una traiettoria. Un sottoinsieme per potersi modifi care deve entrare in “confl itto” con un altro sottoin-sieme (detto «antagonista»), in modo che da questo nasca una nuova organizzazione. La forma fi nale del villaggio è ritenuta essere meno importante rispetto alle condizioni della sua “emergenza”, al gioco di forze e tensioni dalla quale essa “emerge”, rivelando una partico-lare dinamica. Dunque, la Scuola di Rennes, sottolinea di prendere in considerazione non solo la forma del villaggio, ma anche e soprat-tutto il processo di elaborazione nel corso della costruzione; ciò obbliga l’operatore a comprendere ciascun insieme o sottoinsieme, non solo all’interno del contesto topologico globale del villaggio alla fi ne della costruzione, ma anche all’interno del contesto crono-logico della sua elaborazione20. Diventa importante lo studio degli orientamenti mediani (orizzontale e verticale) e obliqui (BG-HD e HG-BD) al fi ne di evidenziare due particolari tipi di rilevazione: (a) un indice di varietà-rigidità, che indica in che modo il soggetto ha utilizzato i quattro orientamenti e le otto direzioni possibili nella sua costruzione, ovvero se vi sono delle dominanze di certe dimensioni rispetto ad altre esistenti o potenziali; (b) un indice di distribuzione-condensazione: gli orientamenti e le direzioni osservati sono ripar-titi nello spazio. Questa ripartizione è raramente omogenea, per cui fa emergere delle associazioni particolari. Gli orientamenti e le dire-zioni non sono importanti per il loro numero, ma per i loro rapporti reciproci.

Questi Autori sostengono che non sia possibile attribuire a priori dei signifi cati simbolici al materiale e allo spazio del villaggio, perché ogni elemento possiede differenti possibili interpretazioni nei diversi soggetti o nei diversi villaggi (anche dello stesso sog-getto). Inoltre, sulla scorta di Mucchielli (1960) che riteneva che la

20 Anche noi annotiamo punto per punto tutto ciò che avviene in fase di costruzione. La differenza con questo tipo di approccio, sta semmai nel fatto che noi attribuiamo un signifi cato simbolico a priori alle diverse zone del tavolo (il contesto topografi co).

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posizione dell’osservatore in rapporto al soggetto e al tavolo interve-nisse come una delle variabili della situazione testistica, Bouchard e Denis sostengono che il fatto di costruire in presenza di un osser-vatore, «obbliga il soggetto ad allargare lo spazio-villaggio al di là della superfi cie del tavolo – o più esattamente, a inscrivere questa superfi cie nello spazio più largo di questa situazione» (1999, p. 46). Essi propongono di pensare lo spazio del tavolo in funzione della distanza, più o meno grande, del soggetto in rapporto a se stesso (alto/basso) e in rapporto allo psicologo (sinistra/destra).

In quest’ottica, il lavoro di analisi di un villaggio si basa su tre aspetti:

1. la rilevazione dello svolgimento della costruzione: consiste in una descrizione dell’insieme di operazioni attraverso le quali il soggetto progressivamente costruisce il villaggio. La rile-vazione, che deve essere “enumerativa” e ridurre al minimo le descrizioni propriamente dette, avviene attraverso: (a) una nomenclatura standardizzata degli elementi del materiale; (b) una nomenclatura delle diverse parti dello spazio quadrato del tavolo (H-alto, B-basso, G-sinistra, D-destra). Vengono rilevati anche gli spostamenti del soggetto attorno al tavolo, le pause durante la costruzione, posture particolari o verba-lizzazioni del soggetto. Questa prima fase del lavoro è quella che organizza tutta l’analisi, e si svolge annotando punto per punto le tappe della costruzione e ricercando i “rapporti” (di similitudine, di opposizione, di associazione, di completa-mento, di ripetizione ecc.) che organizzano la scelta e il col-locamento dei vari elementi. Si tratta, dunque, di un’analisi strettamente formale e dinamica, senza alcun riferimento al simbolismo;

2. il commento e l’inchiesta sul villaggio al temine della costru-zione: le verbalizzazioni (comprese quelle dell’operatore) vengono registrate il più fedelmente possibile. Viene uti-lizzato un questionario elaborato da Mucchielli, non come una serie di imperative e immutabili domande, ma come una

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guida per un’inchiesta non direttiva. In questa fase, se il sog-getto lo desidera, potrà modifi care il suo villaggio, in tutto o in parte, se lo psicologo ritiene che possa permettere un’ot-timale espressione del soggetto. Naturalmente, le modifi che verranno tutte registrate, insieme a tutti gli eventuali com-menti. Tutto ciò serve per studiare le “tematizzazioni” del villaggio: in esse potrebbero rilevarsi delle analogie con la costruzione, con effetti di rinforzo, oppure delle contraddi-zioni “tra il dire e il fare”.

3. la rilevazione del piano: è una rappresentazione visuale (gra-fi ca) schematica, in “veduta aerea”, di tutti gli elementi, delle “tracce” e degli “allineamenti” che compongono il villaggio, una volta terminato. L’operatore traccia a matita, sul foglio che riveste il piano di lavoro21, i bordi degli oggetti, e infi ne sovrappone un foglio trasparente sul quale annota gli orien-tamenti e le direzioni.

La Scuola di Rennes, dunque, ritiene più pertinente interpretare i commenti e l’inchiesta a partire dall’analisi dello svolgimento della costruzione, piuttosto che procedere all’inverso; infatti, lo studio dello svolgimento può donare un “altro senso” a ciò che emerge dai commenti e all’inchiesta o a quello che risulta dal “piano” del vil-laggio. Gli Autori sottolineano che la descrizione temporale di ciò che avviene in fase di costruzione sia cronologica, ma non diacro-nica, e non vengono ricercati i rapporti di causalità lineare. Piuttosto, essi effettuano un’analisi dialettica e strutturalista, ovvero guidata dalla doppia ipotesi della determinazione delle condotte attraverso una dinamica “confl ittuale” ed una organizzazione di questa dina-mica in schemi fondamentali.

21 Il foglio viene poi piegato in modo da ricavare 64 quadrati della misura di 10 x 10 cm. (8 quadrati per lato).

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II.3 Prospettive di utilizzo

Ritengo che il Villaggio possa essere utilizzato profi cuamente in ambito scolastico, ad esempio come gioco “proiettivo” e/o “relazio-nale” nella scuola dell’infanzia, denotandosi dunque sia come stru-mento di osservazione-screening, sia come strumento utile a favo-rire determinate dinamiche di scambio e cooperazione all’interno del gruppo classe o di una parte di esso (con tutto il corollario di questioni inerenti l’imitazione, le alleanze, il confl itto, le esclusioni, la passività, il dominio ecc.). La maestra può richiedere l’intervento dello psicologo scolastico all’interno della classe, al fi ne non solo di poter osservare determinate dinamiche relazionali o un partico-lare bambino che manifesti disagio o diffi coltà, ma anche al fi ne di intervenire attivamente, partecipando al gioco dei bambini (ciò peraltro richiede, oltre ad una dote “naturale”, anche una notevole preparazione dell’operatore). In questo senso, egli potrebbe proporre a uno o più bambini l’utilizzo di questo “gioco”, oppure iniziare egli stesso a giocare, attendendo che la curiosità dei bambini faccia il proprio corso, attirando qualcuno a giocare con lui. In questo con-testo, il Villaggio si propone come uno strumento che non disturba il bambino, ma che al contempo ci permette di rilevare eventuali precursori di diffi coltà scolastiche (di apprendimento, di comporta-mento, di relazione ecc.) che egli potrebbe incontrare nell’accedere alla scuola primaria.

Il Villaggio, dunque, può essere utilizzato con funzione di scre-ening per individuare determinate caratteristiche nei soggetti che andranno poi a comporre le classi prime della scuola primaria o secondaria di primo grado che iniziano un nuovo ciclo (al fi ne di formare delle classi “equilibrate” tra le diverse sezioni e “non-omogenee” al proprio interno). Le informazioni ricavate attraverso questo strumento andranno ad integrare quelle ottenute attraverso l’osservazione del gioco “libero”, i colloqui con genitori e inse-gnanti, la somministrazione di ulteriori “prove” da parte dello psi-

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cologo (Test carta e matita, Test Bender-Santucci, Matrici di Raven, Test Readiness o altri ancora).

Lo strumento potrebbe essere utilizzato anche da quegli inse-gnanti che si mostrassero eventualmente interessati a ricevere una formazione in proposito. Come, infatti, scriveva Calvi già nel 1952, riferendosi proprio agli insegnanti:

Ecco una prova felice il cui materiale non è costoso e può essere procurato anche di fortuna e che i vostri bambini o i vostri alunni cercheranno festosamente come un gioco. Vi aiuterà ad osservare più attentamente il loro comportamento ed a studiare la loro personalità (p. 61).

Lo psicologo scolastico avrebbe uno strumento in più attraverso il quale incontrare i bambini, gli adolescenti e – perché no – gli inse-gnanti stessi. Il Villaggio, in questo caso, potrebbe essere utilizzato sia individualmente che a livello di “corpo-docente”, qualora si sia interessati ad osservare e a lavorare sul “clima” nel posto di lavoro, sulle dinamiche relazionali fra i colleghi, sui vissuti che emergono nel contesto lavorativo (a partire dai rapporti con i colleghi, con la direzione, con gli alunni/allievi, con i genitori) e che infl uenzano pesantemente il lavoro stesso. Attraverso il «Villaggio di gruppo», lo psicologo avrebbe l’opportunità di rilevare l’immagine inconscia del corpo-docente, ma anche tutte quelle caratteristiche che emergono in fase di costruzione, oltre che nella costruzione stessa, relative ai soggetti, facendo consapevolizzare e discutere al gruppo eventuali situazioni di stallo, di insoddisfazione, di timore reverenziale, di rabbia repressa (o proiettata sui bambini), di invidie, di abdicazione del proprio ruolo, di isolamento ecc., andando a indicare (o meglio, facendo emergere dal gruppo stesso) quelle modalità utili al fi ne di re-indirizzarlo verso situazioni di maggior cooperazione e compar-tecipazione emotiva, ovvero in relazioni intessute da un maggior sentimento sociale. Ciò, naturalmente, oltre a migliorare la qualità del vissuto personale, del gruppo e nel gruppo, favorirebbe un’otti-

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mizzazione della qualità del lavoro (per lo meno della “qualità per-cepita” dai soggetti stessi e dagli utenti/committenti). Il Villaggio diventa lo specchio in cui rifl ettersi e al contempo il contenitore dei pensieri e dei vissuti che consentono di rifl ettere su se stessi e sul gruppo.

Potremmo pensare a dei «villaggi di gruppo» o «gruppi-vil-laggio» con svariate caratteristiche, che dipendono essenzialmente dall’obiettivo dell’utilizzo di questa tecnica, ad esempio: (a) il «gruppo-villaggio» con carattere di supervisione o counseling che è possibile organizzare in ambito scolastico con gli insegnanti; (b) quello con caratteristiche osservative e di screening con i bambini in età prescolare; (c) quello con intenti conoscitivi di una certa popola-zione22; (d) quello utilizzabile nell’ambito della psicologia del lavoro, nelle aziende; (e) quello utilizzabile in ambito formativo, rieducativo e riabilitativo; (f) quello inteso come forma di atelier di arte-terapia o come gruppo di espressione artistica; (g) fi no alle forme più squi-sitamente terapeutico-analitiche che potrebbero confi gurarsi come «analisi di gruppo-villaggio» o «socioanalisi-villaggio».

Il Villaggio, potrebbe infi ne rivelarsi utile nell’ambito dei percorsi di “orientamento” attuabili all’interno del contesto scolastico o degli enti di formazione, a benefi cio degli allievi, al fi ne di individuare le risorse, i punti di forza, i talenti da dispiegare nel proprio futuro sco-lastico, universitario o professionale. In questa stessa sede, l’emer-gere di particolari diffi coltà o disagi da parte del ragazzo, potrebbe rilevare la necessità e favorire l’indirizzamento verso un percorso psicoterapeutico.

Riprendiamo l’interessante rifl essione di Gaillard (1999), rispetto all’utilizzo del Villaggio in ambito istituzionale, perché – riportan-

22 Un’esperienza simile di «gruppo villaggio» è stata portata avanti in un contesto ospedaliero da Girardon (1999). In questo lavoro, la consegna ad ogni partecipante al gruppo era di “posizionare una propria casa”; ciò al fi ne di permettere ad ognuno di trovare un proprio posto nello spazio del tavolo e nel villaggio. La scelta del tipo di abitazione era libera. Veniva, inoltre, richiesto di realizzare un pro-getto di costruzione attraverso un disegno e di presentarlo succintamente al gruppo. Dopo la costru-zione era previsto un tempo per esprimere a parole e condividere i vissuti circa il lavoro realizzato.

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dolo ad una dimensione prettamente scolastica – completa quanto illustrato poc’anzi. Lo psicologo scolastico, quando ha di fronte un bambino, può osservare quattro dimensioni interpretative: (a) il bambino è un «portatore d’infanzia», ovvero di oggetti pulsionali di fantasmi che lo differenziano dall’adulto; (b) è uno «scolaro» porta-tore di libertà e rivelatore dei contrasti/confl itti dell’istituzione ove si situa la propria “scolarità”; (c) è un «allievo» immerso in un rapporto di dipendenza rispetto all’insegnante; (d) è un «fi glio», con tutto ciò che si porta dentro della propria famiglia, dalla propria storia, dei miti e dei segreti familiari. Il bambino, dunque, può essere com-preso solo “tra-gli-altri”, all’interno della sua scuola. «L’istituzione pone dei limiti ai suoi desideri: è questo che fa del bambino, un allievo» (ibidem, p. 34). Ogni scuola è portatrice di cultura sociale, di norme e organizzazione, di una lunga storia che penetra e fonda l’istituzione stessa e nel corpo docente; ogni bambino è portatore della propria storia, costruita in famiglia, prima di arrivare a scuola. Nel corso del tempo, alcuni bambini possono identifi carsi con l’i-stituzione scolastica, mentre altri se ne allontaneranno, non ricono-scendosi nel ruolo imposto dal contesto.

Quanto prospettavamo prima, rispetto ad un utilizzo del Vil-laggio in ambito scolastico, può essere avvicinato a ciò che Gaillard chiama «clinica d’accompagnamento» (ibidem, p. 33). Il lavoro con gli individui o i gruppi portato avanti nel tempo, permette un riposi-zionamento sociale del soggetto all’interno delle dinamiche relazio-nali che si sviluppano nel contesto istituzionale. Il Villaggio, a mio avviso, può opportunamente offrire uno spazio immaginario in cui ciò possa “rifl ettersi” e in cui possa essere contenuta la “rifl essione” del soggetto, procedendo alla traduzione di ciò che si muove nel suo vissuto e nel suo immaginario, attraverso la messa in moto di pro-cessi associativi verbali. Riprenderemo questo discorso nei prossimi capitoli, facendo il parallelo fra il Villaggio (comprensivo della nar-razione intorno ad esso) e il sogno (comprensivo delle “libere asso-

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ciazioni” ad esso). Trovo molto interessante, e di sicura utilità nella pratica, l’utilizzo che Gaillard fa del cosiddetto «Villaggio imma-ginario». Egli in questo caso chiede al bambino di costruire una scuola immaginaria, favorendo l’innescarsi di tutta una serie di pro-cessi interni relativi al vissuto sollecitato da alcune situazioni parti-colari in cui potrebbe venirsi a trovare in questa scuola. Le consegne potranno essere di questo tenore: «Costruisci una scuola immagi-naria dove tu sarai il somaro», «Costruisci una scuola immaginaria dove l’insegnante sarà esigente», «Costruisci una scuola immagi-naria dove tu sarai un nuovo allievo». Risulta chiara in termini ope-rativi la ricaduta del lavoro di “restituzione” che andremo a fare al bambino (e/o agli insegnanti e ai genitori), rispetto a quanto emerso su questi temi critici.

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