LA SUPERBIA IN DANTE: INTIMO CONFLITTO TRA IL DESIDERIO …

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UNIVERSITÀ CA’ FOSCARI DI VENEZIA Facoltà di Lettere e Filosofia Corso di Laurea in Lettere Tesi di Laurea triennale LA SUPERBIA IN DANTE: INTIMO CONFLITTO TRA IL DESIDERIO DI GLORIA E LA CONSAPEVOLEZZA DELLA SUA VANITÀ Relatore: Ch. mo Prof. Aldo Maria Costantini Laureanda: Sabrina Toppan Matricola: 810466 Anno Accademico 2008-2009

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UNIVERSITÀ CA’ FOSCARI DI VENEZIA

Facoltà di Lettere e Filosofia

Corso di Laurea in Lettere

Tesi di Laurea triennale

LA SUPERBIA IN DANTE: INTIMO CONFLITTO

TRA IL DESIDERIO DI GLORIA E LA

CONSAPEVOLEZZA DELLA SUA VANITÀ

Relatore: Ch. mo Prof. Aldo Maria Costantini

Laureanda: Sabrina Toppan

Matricola: 810466

Anno Accademico 2008-2009

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Alla mia famiglia

e a chi, nonostante tutto,

continua a starmi vicino.

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INTRODUZIONE

§ 1. Ritratto di Dante Alighieri: l’uomo, l’intellettuale.

 

“[…] nel caso di Dante, si potrebbe intitolare

comodamente Le vite, ché il personaggio uno diviene, molto 

pirandellianamente, i centomila. Mai però nessuno;

perché Dante è talmente orgoglioso di essere Dante che

quel nessuno non lo avrebbe mai accettato”.

(Marcello Vannucci)

I biografi e i commentatori moderni si dimostrano unanimi nel sostenere che Dante ebbe un

intelletto precocissimo, un’innata sensibilità forte e autentica e, a coronamento del ritratto ideale

dell’intellettuale, una memoria che si rivelò sempre eccezionale. Queste sostanzialmente sono le

doti naturali su cui poté contare il poeta, ma probabilmente non sarebbero state sufficienti se una

singolare avidità di conoscenza non avesse, da sempre, animato la sua personalità.

Ha ben ragione il Sollers:

“si direbbe che per Dante l’essenziale sia non esser mai in riposo, di poter spiegare ogni fenomeno, ogni tratto dei suoi poemi […]”.1

Ben presto si dimostrò (e su questo punto concordano antichi e moderni) un fanciullo precoce,

dall’ingegno sempre pronto e acuto, ma anche un giovinetto sdegnoso, altezzoso e solitario, che

andava distinguendosi per un temperamento artistico tendente all’eccellenza. 

                                                            1 Cfr. Philippe Sollers, Sur le matérialisme, Parigi, 1973 (trad. it. Milano, 1973), citato in G. Petrocchi, Vita di Dante, Torino, Laterza, 1983, p. 40.

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1.1 La formazione culturale

Altero e disdegnoso, amava circondarsi di pochi amici a lui simili ma, assetato di ideali, avido di

conoscenza e di gloria, sentì fin da subito il bisogno di una scuola più vasta, di un addestramento

più saldo e sicuro. Poco si sa circa gli studi di Dante. La sua cultura, formatasi in un contesto

educativo totalmente diverso da quello attuale, è ricostruibile, in assenza di dati documentari

affidabili, innanzitutto a partire dalle opere. Si ottiene così l'immagine di un attento studioso di

teologia, filosofia, fisica, astronomia, grammatica e retorica: in breve, di tutte le discipline del

Trivium e del Quadrivium previste dalle scuole e dalle Universitates medievali.

Secondo una testimonianza del Convivio (cfr. II, XII, 7), Dante intuì il valore della filosofia e si

diede a frequentare “le scuole de li religiosi e le disputazioni de li filosofanti”. Occorre ricordare,

infatti, che agli studi generali dei domenicani di Santa Maria Novella, dei francescani di Santa

Croce e alla scuola di Spirito Santo degli agostiniani affluivano sia religiosi che laici.

Di tutti i possibili maestri di Dante, solo di Brunetto Latini è possibile tracciare un profilo, il quale

aveva compreso sin da subito l’altezza dell’ingegno e l’avidità di sapere e di gloria del giovane

allievo. Egli stesso si dichiarò “phylosophie domesticus” e conobbe la precisa formulazione di tutti

i problemi che costituiscono il fondamento logico di ogni speculazione.

Si iscrisse all’arte dei medici e degli speziali, assistette alle lezioni dei religiosi e partecipò a

riunioni e dispute secondo l’uso del tempo, distinguendosi sempre per la sottigliezza delle sue

domande e obiezioni (spesso apertamente polemiche, secondo il suo fiero temperamento).

A Firenze il giovane Dante (1291-1294) apprese i principi direttivi delle singole questioni di

filosofia morale e di teologia. A Bologna invece, conobbe il diritto e coltivò la sua passione per

l’arte, come si può ricavare, ad esempio, dal fatto che riuscì a notare l’inizio di una nuova maniera,

diversa dal disegno minuzioso e complesso di Oderisi, che si stava affermando con le miniature di

Franco Bolognese (cfr. Purg., XI, 77-84). Alla teologia si dedicò (forse) anche a Parigi, secondo

quanto riportano Giovanni Villani e Boccaccio. È da ritenere che qui incontrasse tomisti e

bonaventuriani, averroisti ed eclettici, intellettualisti e dogmatici e che da questi incontri abbia

ricavato una sua umana e poetica esperienza, sempre in bilico tra ardore polemico e misura, tra

emozione lirica e passione per le forme speculative.

Molti passi della Comedìa costituiscono l’eco di questa lezione teologica.

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La sua immaginazione prende avvio dalla tradizione cristiana e medievale; la parte essenziale che

egli attribuisce alla scienza non deriva da una passiva ricettività, bensì dal culto rigoroso della

dottrina che lo caratterizza. Nel suo ritratto umano confluiscono le esperienze più varie ed è

necessario tenere nel debito conto le rispondenze del sentimento e del costume del tempo, i canoni e

le volontà della sua disciplina intellettuale.

Ad ogni modo, è probabile che il poeta abbia frequentato gli studia religiosi e laici di cui si ha

notizia a Firenze. Alcuni ritengono che Dante abbia studiato presso l'Università di Bologna, ma non

vi sono prove certe in proposito. Sicuramente non fu uomo da accontentarsi, guardò sempre più

lontano, mirò sempre più in alto rispetto a chi lo circondava (Cavalcanti e Lapo, tra tutti) e ogni

volta sentiva crescere dentro di sé una sorta di scontentezza per l’arte propria e di tutti i poeti

volgari. Dovette certamente soffrire di quella frustrazione, di quell’irrequietudine che anima chi si

sente chiamato a cose sempre più alte e cerca intensamente, ma ancora non riesce a trovare.

Un tratto peculiare della personalità dantesca sembra essere proprio l’incessante ricerca di nuove e

sempre più impegnative soluzioni, attraverso cui estrinsecare la tensione che muove il suo spirito

verso traguardi sempre più alti, conoscitivi o morali che siano. La naturale e ovvia conseguenza di

questo lato del suo carattere fu un’inquietudine permanente, la smania di eccellere e di superare tutti

gli altri:

“più imparava e più egli voleva sapere”, osserva Umberto Cosmo, ma ciò che lo caratterizzò fu appunto “la confidenza nel proprio pensiero, la persuasione che ad ogni domanda esso possa rispondere, ogni verità riesca a conquistare […]”.1

Una “confidenza” totale, assoluta e per certi versi altezzosa nelle proprie virtù razionali, che ha

spinto molti critici a definire Dante una persona orgogliosa.

Appare opportuno affermare che evidentemente nessun uomo ebbe, più di Dante, consapevolezza

della propria grandezza e che nessuno più di lui sperò di veder riconosciuti i propri meriti artistici.

Dice il Villani nella sua Cronica:

“[…] sanza altra colpa co la detta parte bianca fue cacciato e sbandito di Firenze, e andossene a lo Studio a Bologna, e poi a Parigi, e in più parti del mondo. Questi fue grande letterato quasi in ogni scienza, tutto fosse laico; fue sommo poeta e filosafo, e rettorico perfetto tanto in dittare, versificare, come in aringa parlare, nobilissimo dicitore, in rima sommo, col più pulito e bello stile che mai fosse in nostra lingua infino al suo tempo e più innanzi”.2

                                                            1 Cfr. U. Cosmo, Vita di Dante, Bari, G. Laterza e Figli, 1930, pp. 46-47. 2 Cfr. G. Villani, Nuova Cronica, vol. 2, edizione a cura di G. Porta, Parma, Guanda, 1991, X, CXXXVI.

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Come è già stato detto, non è possibile ricostruire con esattezza l’iter di formazione culturale di

Dante, ma su questa breve descrizione del Villani, tutti sono d’accordo.

1.2 La “biblioteca” di Dante

È quanto mai difficile stabilire sia pur approssimativamente quali furono nel concreto le

caratteristiche e l’estensione delle diverse “biblioteche” cui il poeta poté attingere nel corso della

sua vita, a partire dai giovanili anni della formazione fino alle peregrinazioni imposte dall’esilio.

Senza alcuna pretesa di completezza si può stilare rapidamente un elenco di autori e testi che

sicuramente erano ben noti a Dante, certificati come sono dagli echi presenti nelle sue opere.

Innanzitutto la Bibbia, “libro” dettato, nella convinzione dantesca, direttamente da Dio; molti degli

scritti di Aristotele, naturalmente in traduzione latina e con l’ausilio delle glosse di San Tommaso e

dei filosofi arabi; l’Eneide dell’amato e stimato Virgilio, conosciuta pressoché a memoria tanto

quanto la Bibbia. Subito dopo si nota la pur notevole presenza della Farsaglia di Lucano; la

Tebaide e l’Achilleide di Stazio e sicuramente alcune delle opere di Cicerone; infine, anche se meno

accertati, si possono trovare echi delle satire di Persio e della prima Deca di Tito Livio.

Tra gli scrittori cristiani,1 invece, Dante conobbe certamente molte opere della patristica latina

(soprattutto quelle di Agostino, ma anche testi di Girolamo, Gregorio Magno e molti altri) ed ebbe

grande dimestichezza con i trattati teologici a lui più vicini nel tempo, in particolare quelli ad opera

di Anselmo d’Aosta, Alberto Magno, Tommaso d’Aquino e Bonaventura da Bagnoregio.

Sulla conoscenza non mediata di opere appartenenti alla cultura islamica invece, non esistono prove

dirette e concrete; al contrario, per quanto concerne la letteratura volgare di argomento sacro (quasi

esclusivamente di ambito franco – italiano), che per ovvi motivi di spazio non è possibile elencare,

Dante fu avido lettore e sicuramente frequentò molti di questi autori.

È opinione diffusa che tra tutte le fonti sopracitate, il poeta abbia privilegiato gli scritti più

spiccatamente mistici, come ha avuto modo di dimostrare il Muresu:

“[…] né certo è un caso che nella Commedia egli abbia dato il compito di guida ultima e suprema a Bernardo di Chiaravalle, il santo che, prendendo il posto di Beatrice, lo introduce alla diretta visione di Dio”.2

                                                            1 Tra questi è sicuramente da includere anche Boezio, indipendentemente da quanto sia stato accertato storicamente, in virtù della sua precisa collocazione in Paradiso. 2 Cfr. G. Muresu, Intervista su Dante, in “Letteratura italiana antica”, VII, (2006), to. I, pp. 274-275.

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Da questa breve rassegna risulta sufficientemente dimostrato che Dante fu di sicuro un lettore

onnivoro, avido di conoscenza e che soprattutto fu dotato di una memoria prodigiosa, tenuta

costantemente in esercizio e affinata in virtù del fatto che non fa scienza, / sanza lo ritenere, avere

inteso (cfr. Par., V, 41-42).

§ 2. I commentatori antichi

Numerosi biografi e commentatori antichi si sono cimentati nella ricostruzione della vita e del

ritratto umano dell’illustrissimo poeta. Tra i maggiori (oltre a Boccaccio, ovviamente), sono da

ricordare Giovanni e Filippo Villani, Benvenuto da Imola, Francesco da Buti, Leonardo Bruni e

Giannozzo Manetti, i quali hanno attinto notizie intorno all’Alighieri principalmente dal Trattatello

in laude di Dante di Giovanni Boccaccio.

Più volte nel corso del tempo si è accusato il Boccaccio di aver scritto non la storia della vita di

Dante, ma un romanzo, un’opera di sentimento e fantasia; più uno sfogo di vendetta contro i nemici

e i detrattori del sommo poeta, nei quali probabilmente voleva colpire i propri.

L’elemento retorico e leggendario, infatti, prevale sul dato storico: i tempi, le circostanze e il modo

di intendere la compilazione di una vita però, non potevano fornire al Boccaccio l’oggettività che

oggi si richiede. In ogni caso, in virtù del “buio” che circonda gli avvenimenti della puerizia e della

giovinezza di Dante, così come quelli riguardanti l’esilio e i viaggi che ne conseguirono, il

Trattatello costituisce il più antico e prezioso documento biografico, la storia più completa e

“sicura” della vita di Dante – specie per quanto concerne le notizie relative al suo amore per

Beatrice e Gemma, ai costumi e alle cure familiari, alle usanze e alle fattezze stesse del poeta. Le

fonti orali cui attinge, infatti, sono quasi sempre limpide e sicure: si tratta soprattutto di notizie

apprese direttamente presso il popolo e, in misura maggiore, estrapolate dai detti del tempo.

Come specifica Boccaccio stesso, l’opera si propone di trattare “DE ORIGINE VITA, STUDIIS ET

MORIBUS VIRI CLARISSIMI DANTIS ALIGERII FLORENTINI, POETE ILLUSTRIS, ET DE

OPERIBUS COMPOSITIS AB EODEM, INCIPIT FELICITER.”1

                                                            1 Cfr. G. Boccaccio, Trattatello in laude di Dante, in Tutte le opere di Giovanni Boccaccio, a cura di Vittore Branca, vol. III, ed. Ricci, Milano, Mondadori, 1974.

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Non mi soffermo sui dati strettamente biografici, in quanto è mio interesse specifico gettare luce sul

ritratto dell’uomo Dante nell’immaginario e nella mentalità degli antichi, sulla figura del poeta che

è giunta fino a noi.

Che genere di uomo fu realmente l’Alighieri? Egli stesso, nella sua opera, ci fornisce non poche

notizie a riguardo e, in particolare, confessa abbastanza apertamente un aspetto che da sempre lo

contraddistinse e che, a fasi alterne, può essere considerato una virtù o, al contrario, una colpa: il

suo desiderio di eccellenza, quell’aspirazione alla fama e all’onore che sta alla base di tutta la sua

vita e di conseguenza, della sua opera.

2.1 Dante superbo o magnanimo?

Mi sembra opportuno iniziare questa “inchiesta” con una mirata osservazione del Villani:

“Questo Dante per lo suo savere fue alquanto presuntuoso e schifo e isdegnoso, e quasi a guisa di filosafo mal grazioso non bene sapea conversare co’ laici; ma per l’altre sue virtudi e scienza e valore di tanto cittadino ne pare che si convenga di dargli perpetua memoria in questa nostra cronica, con tutto che per le sue nobili opere lasciateci in iscritture facciamo di lui vero testimonio e onorabile fama a la nostra cittade”.1

Di opinione non dissimile era anche il Boccaccio:

“Fu il nostro poeta, oltre alle cose predette, d’animo alto e disdegnoso molto […]. Molto, simigliamente, presunse di sé […] quasi esso solo fosse colui che tra tutti valesse”.2

Così il Petrarca, che descrive un Dante eccellentissimo come poeta volgare, ma un po’ troppo

altezzoso, sdegnoso e loquace. Egli, raccogliendo una tradizione esistente ancora al suo tempo a

Verona, racconta che “l’Alighieri dapprima tenuto in grande onore, perdette a poco a poco la grazia

di Cangrande per la sua alterigia e la sua libertà di parola”. 3

E lo stesso Cavalcanti, il “primo amico”, non può fare a meno di notare in un suo sonetto che

Solevanti spiacer persone molte, tuttor fuggivi l’annoiosa gente.4

                                                            1 Cfr. G. Villani, Nuova Cronica cit., X, CXXXVI. 2 Cfr. G. Boccaccio, Trattatello cit., XXV. 3 Cfr. Petrarca, in Dizionario biografico degli italiani, Istituto dell’Enciclopedia Italiana fondata da G. Treccani, vol. 2, Roma, 1960, p. 423. 4 Cfr. G. Cavalcanti, Rime, a cura di D. De Robertis, Torino, Einaudi, XLI. I’ vegno ‘l giorno a te ‘nfinite volte (vv. 5-6).

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Anche per quanto concerne il suo innato desiderio di gloria e onori, tutti i commentatori antichi

sono d’accordo. Il Boccaccio parla di “una laudevole vaghezza di perpetua fama” che lo spinsero

ad accettare “li vani onori che alli pubblici uficii congiunti sono” e aggiunge che “per vaghezza di

più solennemente dimostrare le sue passioni e di gloria, sollecitamente” si dedicò alla poesia. Per

concludere, il fedele e ammirato Boccaccio, ammette che il suo amato Dante “vaghissimo fu e

d’onore e di pompa per avventura più che alla sua inclita virtù non si sarebbe richiesto”.1

Anche il Manetti non dimentica di sottolineare il

“suo innato desiderio di gloria”, a causa del quale “fu forse più desideroso di onori e di gloria di quanto convenga a un così grande e serio filosofo”.2

Così come Francesco da Buti, secondo il quale Dante ebbe gran “sollecitudine delli onori pubblici

della sua città, ai quali ardentemente intese […]”.3

In definitiva, si può affermare che Dante, nella mentalità degli antichi, si configurava già come

poeta sommo ed illustre intellettuale a tutto tondo. Come è stato detto, tutti concordano sulla sua

altezza d’ingegno e avidità di sapere, ma appare unanime anche l’opinione circa la sua altezzosità

(derivante appunto dalla consapevolezza delle proprie eccellenti doti) e la sua brama di onore e

gloria.

A questo punto, ritengo opportuno analizzare il concetto di superbia, così come era inteso al tempo.

                                                            1 Cfr. G. Boccaccio, Trattatello cit., XX. 2 Cfr. G. Manetti, Vite di Dante, Petrarca e Boccaccio, Palermo, Sellerio, 2003, p. 111. 3 Cfr. Le vite di Dante, Petrarca e Boccaccio scritte fino al secolo decimosesto, a cura di Angelo Solerti, Milano, Vallardi, 1904, p. 79.

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2.2 La superbia1 nella mentalità medievale

Tommaso nella Summa theologiae definisce la superbia come “amore disordinato della propria

eccellenza”, ossia tutto ciò che innalza la propria persona e che viene ricercato appunto in vista di

mettere in rilievo, attribuire fregio a se stessi.

Gregorio Magno e Tommaso pongono la superbia non tra i vizi capitali, ma al di sopra di essi,

madre e regina di tutti i vizi in quanto, sebbene non tutti i peccati siano di superbia, l’orgoglio può

condurre a qualsiasi colpa. In particolare, dalla superbia derivano presunzione, ambizione,

vanagloria ed essa conduce a durezza e intransigenza verso gli altri. Si tratta di un vizio antisociale

e sta all’origine di gran parte dei conflitti tra gli uomini, che li spinge ad usare una misura diversa

per sé e per gli altri.

È un vizio, insomma, che spinge all’esagerata stima della propria persona e delle proprie capacità

(reali o presunte), correlata ad un atteggiamento esteriore di “superiorità” e disprezzo verso gli altri,

considerati sempre inferiori. Per Tommaso è “un’interna tumefazione della mente” i cui effetti

principali sono: considerare assai le proprie perfezioni reali e apparenti e a dissimulare i difetti;

persuadersi di avere una perfezione superiore a quella che realmente si possiede; attribuire non a

Dio, ma a se stessi i doni posseduti, sia naturali che soprannaturali; grande stima della propria

perfezione e compiacimento in essa; aspirazione a grandi cose, svincolo alla soggezione di chiunque

stimandosi più perfetti di tutti; aspirazione alle dignità e agli onori come dovuti a sé, a preferenza di

tutti gli altri; dolore, ira e lamenti quando non si riesce a conseguirli; rifiuto di soggezione ai

superiori, di cui il superbo si stima più prudente e i cui ordini (almeno nel proprio interno)

disprezza; talvolta ribellione a Dio stesso, quasi che di lui non si abbia bisogno – massimo atto di

superbia, peccato mortale.

Agostino, infine, definisce la superbia come “desiderio di altezza perversa” e descrive la natura

dialettica di un vizio che mentre spinge verso l’alto, precipita verso il basso: lo smodato desiderio di

innalzamento provoca la più rovinosa delle cadute in quanto, aspirare ad un’eccellenza che si pone

in conflitto con la volontà di Dio e l’ordine da lui stabilito, ne sovverte i parametri morali.

Nella teologia cattolica, la superbia è considerata il più grave dei peccati capitali in quanto consiste

in una considerazione talmente alta di se stessi al punto da stimarsi come principio e fine del

proprio essere, disconoscendo così la propria natura di creatura di Dio e offendendo quindi il

Creatore.

                                                            1 Per la spiegazione del lemma superbia si veda F. FORTI, superbia e superbi, “voce” dell’Enciclopedia Dantesca, Istituto dell’Enciclopedia Italiana fondata da G. Treccani, Roma, 1970 ss., vol. V, pp. 484-487 e bibliografia ivi citata.

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Ma Dante corrisponde davvero a tali definizioni? Sarà interessante analizzare anche il concetto di

magnanimità.

2.3 La magnanimità nel pensiero medievale1

Come è noto, l’Etica Nicomachea2 pone la magnanimità come virtù media tra l’eccesso della

presunzione e il difetto della pusillanimità. A tale prospettiva Dante aderisce pienamente e da ciò

sfocia la netta contrapposizione fra pusillanimità e magnanimità, che è motivo ricorrente dei primi

canti della Commedia e uno dei motivi portanti che attraversa tutto il poema (si veda a riguardo

l’opposizione, ben avvertibile, tra i vilissimi del vestibolo e gli spiriti magni).

Secondo l'Etica aristotelica, appunto, la magnanimità (megalopsichia) è quella virtù acquisitrice e

moderatrice di onori e fama. Magnanimo è colui che si ritiene degno di onori e fama perché ne è

veramente degno, senza ricadere nel difetto che è la pusillanimità (micropsichia), il vizio di chi non

si ritiene degno di onori e fama, o nell’eccesso della presunzione (chaymotes), che spinge ad ambire

a questi onori senza esserne degno.

Il magnanimo, per essere tale, non deve inoltre peccare d'audacia (megalocindinia) aspirando ad

imprese al di fuori delle sue capacità, pur di ottenere la gloria.3

Magnanimo è quindi chi si stima degno di grandi cose (essendone, però, effettivamente degno), ma

è anche chi, padroneggiando se stesso, si rende più disponibile e generoso nei confronti degli altri.

Aristotele trattando il concetto di magnanimità evidenzia, con la sua consueta finezza psicologica,

come magnanimo sia colui che sa perseguire veramente grandi cose e, quindi, per questo si

autostima; al contrario: "Chi si stima diversamente dal suo reale valore è sciocco, e nessuno di

coloro che vivono secondo virtù è sciocco o scervellato".

Il magnanimo, sempre secondo Aristotele, si comporta in modo adeguato alla sua natura in base

all'onore, che è il più "grande dei beni esteriori".

Di contro, il pusillanime difetta nello stimarsi: "Sia in rapporto a se stesso sia in confronto con ciò

di cui si ritiene degno il magnanimo"; mentre il vanitoso: "Eccede in rapporto a se stesso, ma certo

non in confronto con il magnanimo".1

                                                            1 Cito come fonte imprescindibile di questo paragrafo F. Forti, Magnanimitade: studi su un tema dantesco, Bologna, Patron, 1977. 2 Cfr. Aristoteles, Etica Nicomachea, a cura di M. Zanatta, Milano, Rizzoli, 1991, IV libro. 3 Il che riporta a un confronto con l’Ulisse dantesco. Due sono essenzialmente i caratteri di questo personaggio: l’astuzia e l’inesauribile sete di conoscenza, quest’ultima basilare nella personalità dantesca. Eroe che per amor di conoscenza aveva abbandonato patria e famiglia, era la figura nella quale Dante poteva specchiarsi. L’ardimento di Ulisse si esplica nell’affrontare l’oceano sconosciuto, ma anche nella precedente esplorazione del Mediterraneo occidentale.

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In conclusione, Aristotele ritiene che il magnanimo, in quanto degno delle cose più grandi, dovrà

essere anche "l'uomo più perfetto" e, quindi, virtuoso e buono.

Lo stesso Dante ha riflettuto attentamente sulla natura della magnanimità, concetto ben familiare

per lui, ed è giunto alla definizione di virtù moderatrice e acquistatrice de’ grandi onori e fama,2

intesa come una delle undici virtù morali diversamente da diversi filosofi […] distinte e numerate.

Nella Firenze del secondo Duecento, si incontravano la tradizione arabo-latina del testo aristotelico,

alla quale faceva capo la versione di Taddeo Alderotto, per tramite di questo il sesto libro del

Tesoro di Brunetto Latini3 e la tradizione greco – latina del testo commentato da Tommaso.

Taddeo e Brunetto divulgarono con le loro versioni il compendio della Nicomachea, in cui il

carattere della magnanimità è presentato sotto una luce particolare e da cui deriva il famoso giudizio

negativo di Dante sulla versione. Nella definizione infatti, che Taddeo traduce in questo modo:

“Magnanimo si è colui che è acconcio a grandissimi fatti e rallegrasi e gode di fare grandi cose”,

appare sottolineato il carattere attivo del magnanimo.

Da qui la confusione tra magnanimità e magnificenza che spesso regna tra i seguaci delle

concezioni cavalleresche – cortesi: Boccaccio ad esempio, vede negli spiriti magni “gli spiriti di

coloro li quali nella presente vita furono di grande animo e furono nelle loro operazioni

magnifichi”.4

Dante invece, si trovò a riflettere attentamente sul concetto aristotelico – come dimostrano la

definizione nel Convivio (I, XI, 18 e ss.) e un passo del De Vulgari Eloquentia (II, VII, 2) – e giunse

a distinguere nettamente la magnanimità dalla magnificenza. In ogni caso rimase fermo sul carattere

attivistico che la tradizione araba aveva conferito alla magnanimità e che era stato confermato dalle

glosse di Tommaso: sotto questa luce, gli spiriti magni del testo dantesco vanno intesi come

magnanimi nel senso aristotelico, cioè dotati della virtù della magnanimità così come Dante la

intendeva.

Seguendo le glosse di Tommaso, si può dire che essere degni d’onore significa mirare al massimo

nelle varie virtù, specialmente al massimo in sapienza, fortezza, temperanza e giustizia.

                                                                                                                                                                                                     1 Cfr. Aristoteles, Etica nicomachea cit., IV. 2 Cfr. Convivio, IV, XVII, 5. 3 Cfr. C. Marchesi, Il compendio volgare dell’Etica Nich. e le fonti del VI libro del Trésor, in “Giornale storico della letteratura italiana”, XLII, (1903), pp. 1-74; ID., L’Etica Nicomachea nella tradizione latina medievale, Messina, 1904, App., pp. XLI-LXXXVI. 4 Cfr. G. Boccaccio, Esposizioni sopra la “Comedia” di Dante, a cura di Giorgio Padoan, in Tutte le opere di Giovanni Boccaccio, a cura di Vittore Branca, vol. VI, Milano, Mondadori, 1965.

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L’onore è appunto il riconoscimento di aver raggiunto tale massimo nelle virtù più importanti e

costituisce il più grande dei beni esteriori in quanto è il solo che si attribuisce anche a Dio.

Pur essendo, come è stato detto, un bene esteriore, questa esteriorità non può turbare la serenità del

magnanimo, la cui virtù consiste appunto nel sapersi degno di tale onore e nella moderata gioia con

cui lo riceve, che implica disprezzo dei piccoli onori e indifferenza per gli onori mancati.1

Si prenda ora in considerazione l’atteggiamento fisico attribuito da Aristotele al magnanimo

(secondo il commento di Tommaso):

“[…] motus magnanimi videtur esse gravis, et vox videtur esse gravis, et locutio eius esse stabilis et tarda. […]. Patet ergo quod ipsa affectio magnanimi requirit gravitatem vocis, et tarditatem locutionis et motus”.2

Similmente, il compendio alessandrino di Taddeo Alderotto recitava: “ed è nel movimento tardo e

grave nella parola e fermo nel favellare […]” che si deve ricercare il tratto distintivo del

magnanimo, parole che riecheggiano nella ben più solenne e famosa terzina dantesca:

Genti v’eran con occhi tardi e gravi, di grande autorità ne’ lor sembianti:

parlavan rado, con voci soavi.

(Inf. IV, 112-114)

dedicata agli spiriti magni del castello.

Farò a questo punto, un tentativo per ricostruire l’immagine di Dante, così come si presentava agli

occhi degli antichi.

Nel capitolo XX del suo Trattatello, Boccaccio descrive “Fattezze e costumi di Dante”:

“Fu adunque questo nostro poeta di mediocre statura, e, poi che alla matura età fu pervenuto, andò alquanto curvetto, e era il suo andare grave e mansueto, d'onestissimi panni sempre vestito in quell'abito che era alla sua maturità convenevole. Il suo volto fu lungo, e il naso aquilino, e gli occhi anzi grossi che piccioli, le mascelle grandi, e dal labbro di sotto era quel di sopra avanzato; e il colore era bruno, e i capelli e la barba spessi, neri e crespi, e sempre nella faccia malinconico e pensoso.

                                                            1 Cfr. Aristoteles, Etica … cit., IV, VII, IX, XI. 2 Cito da S. Thomae … Opera omnia, t. XXI, Parma, 1866, pp. 130-136.

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Ne' costumi domestici e publici mirabilemente fu ordinato e composto, e in tutti più che alcuno altro cortese e civile.

Nel cibo e nel poto fu modestissimo, sì in prenderlo all'ore ordinate e sì in non trapassare il segno della necessità, quel prendendo; né alcuna curiosità ebbe mai più in uno che in uno altro: li dilicati lodava, e il più si pasceva di grossi, oltre modo biasimando coloro, li quali gran parte del loro studio pongono e in avere le cose elette e quelle fare con somma diligenzia apparare.

Rade volte, se non domandato, parlava, e quelle pesatamente e con voce conveniente alla materia di che diceva; non pertanto, là dove si richiedeva, eloquentissimo fu e facundo, e con ottima e pronta prolazione.

Dilettossi similemente d'essere solitario e rimoto dalle genti, acciò che le sue contemplazioni non gli fossero interrotte”.1

Secondo Manetti il suo “portamento era grave, austero, dall’aria sempre seria e meditabonda”,2

simile all’opinione di Francesco da Buti secondo il quale Dante “fu di gravi e pesati costumi nella

sua vita, sì che […] parrà a ciascuno degna di fede la sua autorità”3 e di Filippo Villani che,

rifacendosi al Trattatello scrive:

“[…] incessu tam gravi, mansuetoque aspectu, tistisque illi in facie severitas inerat … melancolico habitu obsolesceret. Fuit insuper mirabili morum praeditus honestate, omnique actu ordinato atque compositus, vitae continentissimae, cibi potusque parcissimus, lautae delicataeque vitae laudator […] sollertissimus et impiger in agendis, in locutione tardissimus”; continua il Villani circa il carattere del poeta: “Fuit insuper animi altissimi et infracti, et qui abominaretur pusillanimes; ingenii praeacuti, atque intellectus proponendum divini […]. Fuit tamen, quod negari non potest, avidissimus aurae popularis, cupidusque gloriae et honoris”.4

Infine, il Bruni lo definisce “animo altero”, un uomo “molto pulito, di statura decente, e di grato

aspetto e pieno di gravità: parlatore rado e tardo, ma nelle sue risposte molto sottile […]” del quale

stupisce sopra ogni altra cosa “la grandezza e la dolcezza del dire suo prudente sentenzioso e

grave”.5

Sembra quindi più che lecito affermare che da tutto ciò emerge il ritratto di un Dante più

magnanimo che superbo, su cui concordano quasi tutti i commentatori antichi.

                                                            1 Cfr. G. Boccaccio, Trattatello … cit., XX. 2 Cfr. G. Manetti, Vite di Dante … cit., p.103. 3 Cfr. Vite di Dante … cit., a cura di A. Solerti, p. 80. 4 Ibid. pp. 87-88. 5 Cfr. L. Bruni, Le vite di Dante e del Petrarca, Roma, Archivio Guido Izzi, 1987, pp. 45 e 50.

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È essenziale tenere in debita considerazione che essi, pur sottolineando il suo caratteristico e

spiccato desiderio di gloria (spesso anche smodato, nessuno lo nega!), non si sentirono mai in

facoltà di condannarlo.

Continua, infatti, il Boccaccio:1

“Ma che? Qual vita è tanto umile, che dalla dolcezza della gloria non sia toccata? E per questa vaghezza credo che oltre ad ogni altro studio amasse la poesia […]”; più avanti lo  dice esplicitamente: “oh isdegno laudevole di magnanimo, quanto virilmente operasti […] fu questo valente uomo in tutte le sue avversità fortissimo”.

Parole che riecheggiano nelle pagine del Manetti:

“fu forse più desideroso di onori e di gloria di quanto convenga … ma anche eccelsi filosofi […] vinti dal suo incredibile fascino […]” e concorda col Boccaccio quando afferma che “infiammato da questo naturale desiderio di gloria insito nell’animo umano, il nostro poeta fu preso da eccezionale amore per la poesia”.2

Si interroga giustamente Boccaccio: “Ma chi sarà tra’ mortali giusto giudice a condennarlo? Non

io”.

Magnanimo l’uomo, eccellente il poeta insomma: “d’altissimo ingegno e di sottile invenzione fu, sì

come le sue opere troppo più manifestano agl’intendenti che non potrebbono fare le mie lettere”

conclude il Boccaccio; Leonardo Bruni sostiene che Dante divenne poeta “per iscenza, per studio,

per disciplina ed arte e prudenzia”, il primato del quale sta “nella rima volgare, nella quale è

eccellentissimo sopra ogni altro […] tutti Dante di gran lunga soverchiò […] è opinione di chi

intende, che non sarà mai uomo che Dante vantaggi in dire in rima”.3

Primato assoluto che viene ribadito dal Manetti: “scrisse molte ottime opere […] e non solo superò

di gran lunga tutti i suoi contemporanei, ma la grazia e lo stile dei suoi testi stimolarono i migliori

fra i posteri a imitare una così squisita eleganza”.4

Per concludere, risulta interessante l’opinione di Giambattista Vico, espressa nel suo Giudizio sopra

Dante5 (1729). I caratteri nativi dell’uomo che sarebbero destinati a rispecchiarsi nell’arte, erano

stati:

                                                            1 Cfr. G. Boccaccio, Trattatello cit., XXV. 2 Cfr. G. Manetti, Vite di Dante … cit., pp. 111-113. 3 Cfr. L. Bruni, Le vite di Dante … cit., pp. 47 e 49-50. 4 Cfr. G. Manetti, Vite di Dante … cit., pp. 105-107. 5 Nell’edizione: Milano, Ferrari, 1836, vol. VI, pp. 49 e ss.

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“primo, altezza d’animo, che non cura altro che gloria e immortalità onde disprezzi e tenga a vile tutte quelle cose che ammiransi degli uomini avari, ambiziosi, molli, dilicati e di femmineschi costumi. Secondo, animo informato di virtù pubbliche e grandi e sopra tutto di magnanimità e di giustizia”.

Il superbo, al contrario, per esser suo vicin soppresso, / spera eccellenza, e sol per questo brama /

ch’el sia di sua grandezza in basso messo (cfr. Purg., XVII, 115-117): non si tratta quindi di

semplice aspirazione ad eccellere, ben ammissibile in quanto amore del proprio bene, ma della

connessa tendenza ad abbassare il prossimo, come confessa Oderisi quando dice a Dante che lo

gran disio / de l’eccellenza gli ha impedito in vita di riconoscere i meriti di Franco Bolognese.

“Radice e regina dei Vizi” secondo Salomone; “appetito disordinato della propria eccellenza” per

San Bernardo e “primum omnium peccatorum, quia aversio a Deo, in qua consistit formaliter

peccatum, est superbia […]” secondo le glosse di Tommaso, il quale spiega che “appetere

excellentia ex se non est peccatum, eam appetere cum excessu ad rectam ractionem”.1

Dante allude in modo esplicito alla sua eccellenza, di cui ha piena consapevolezza e confessa

apertamente, senza tante remore, il suo peccato di superbia.

Sembra, però, che i suoi primi commentatori si siano dimostrati più indulgenti. Da quanto osservato

finora, traspare che gli antichi si siano preoccupati di farci arrivare il ritratto di un Dante

magnanimo mentre, paradossalmente, egli stesso si è presentato come superbo. Il suo innato

desiderio di fama e onori lo hanno spinto ad ambire a grandi cose; il suo alto e sottile ingegno gli ha

permesso di saper valutare, con giudizio obiettivo, la reale portata delle sue capacità e il suo

temperamento, deciso e irremovibile, gli ha concesso di raggiungere la gloria tanto agognata.

La tradizione ha fatto quindi giungere sino a noi il ritratto di un Dante che, vestendo i panni del

perfetto magnanimo, si ritenne degno di grande onore essendone veramente degno, senza cadere

nell’eccesso della presunzione o nel difetto della pusillanimità. In virtù di questa sua dote mirò al

massimo nella sua ambizione e, raggiunto l’apice, ebbe la fortezza e fermezza d’animo di non

lasciarsi “turbare”, in quanto la virtù che caratterizza il magnanimo sta proprio nella consapevolezza

di essere degno di tale onore e nel sempre moderato piacere che deriva dal riceverlo.

Ritratto che però, bisogna ammetterlo, entra in collisione con quanto può trarre un moderno dalla

lettura di alcuni passi della Commedia e soprattutto, azzardo, con ciò che lo stesso Dante si è

preoccupato di far giungere ai posteri.

                                                            1 Cfr. S. Thomae … opera omnia cit.

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Tenterò di spiegare quello che ritengo essere il motivo di questo contrasto.

Dante ha voluto mostrarci il suo iter di ascesa spirituale, non immune dalle lusinghe mondane, che

viene posto come exemplum da seguire per tutta l’umanità: a partire dal suo smarrimento nella

“selva oscura”, attraverso il duro viaggio nei gironi infernali per conquistare la consapevolezza e

l’impegnativo processo di purgazione, fino all’agognata redenzione.

A proposito dello smarrimento nella selva, ha fatto giustamente notare il Barbi, che non si trattò

tanto di una crisi filosofica – religiosa, quanto di un traviamento morale in senso lato, comprendente

l’errore di “aver troppo curato le cose terrene in confronto dell’amore che si deve al primo Bene”

tra cui la “scienza mondana, non già una colpa a sé, di orgoglio filosofico”1 ma che costituisce una

sola colpa se unita a tutti gli altri desideri di vanità mondane che egli nutrì in un certo periodo della

vita. Al tempo dei suoi studi filosofici più intensi, infatti, Dante ebbe la presunzione di risolvere con

le sole forze dell’intelletto i più ardui problemi metafisici e religiosi: forze su cui puntò con ferma

convinzione e a causa delle quali si insuperbì molto.

È appunto il suo trapasso da superbo a magnanimo – lo stesso, tra l’altro, di Provenzan Salvani –

che egli vuole descrivere nel poema. Si dipinge apposta come superbo (e lo era veramente!), ma non

un superbo cieco a tal punto da non comprendere la lezione a cui ha assistito: peccare è umano e di

esempi a riguardo è piena la Commedia, ma ciò che distingue l’uomo superiore dagli altri è appunto

la capacità di vedere obiettivamente, accettare e voler correggere i propri limiti ed errori.

Ecco perché il superbo Dante pian piano scompare dalla scena per lasciare il posto al saggio e

giusto magnanimo, che può ergersi a giudice e porsi come modello e guida di chi avrà la volontà e

la capacità di seguirlo. Ecco perché un moderno, o per meglio dire, un lettore di ogni tempo ricava

dalla Commedia un ritratto non univoco, ma complesso e ricco di sfaccettature, un ritratto in

divenire, insomma.

Ritengo che in questa prospettiva il contrasto si giustifichi e, almeno in parte, si risolva.

Dante ha peccato, ne ha piena coscienza e lo confessa apertamente senza tante remore, ma ha

coscienza anche della sua volontà e (direi soprattutto) della sua capacità di redimersi. L’auctor che

scrive il poema dall’alto della conoscenza acquisita, ormai sa che il superbo viator si è trasformato

in magnanimo in virtù della grazia concessagli (non ovviamente delle sue doti, se non in parte) ed è

proprio questo processo di cambiamento che sta alla base della Commedia, opera che, come

vedremo, è da considerare il suo “ritratto interiore”.

                                                            1 Commento di Michele Barbi, in Dizionario biografico degli italiani, cit., vol. 2, p. 394.

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Probabilmente è questo il ritratto che Dante si è preoccupato di far giungere ai posteri, non un

ritratto statico e valido per sempre, ma in divenire appunto, in quanto questo si rivelò l’unico modo

assolutamente in grado di rappresentare una personalità tanto complessa quanto interessante.

2.4 Il culto di Dante 1

Il “culto di Dante” non si limita alla sterminata stima e ammirazione per il poeta, il teologo e il

filosofo, ma si esprime in vera e propria esegesi del poema, che interessa tutta la cultura del

Trecento e diventa ben presto il modo più degno di occuparsi di filosofia e poesia.2

Lo studio di Dante comincia proprio col figlio, Jacopo Alighieri, che nel 1322 circa scrisse

un’epitome in versi della Commedia e chiose all’Inferno, primo tentativo di esegesi del poema che

però tralascia la spiegazione grammaticale e storica per concentrarsi sul livello allegorico. Continua

col commento latino, sempre alla prima cantica (appena di due anni posteriore, 1324) di Graziolo

de’ Bambagliuoli, il quale, invece, non disdegna l’interpretazione letterale, passando per il primo

commento completo di tutta la Commedia, scritto in volgare dal bolognese Jacopo della Lana

(1330), lavoro che mostra un vasto interesse per i fatti storici e mitologici, spiega il senso

allegorico, il significato di alcuni termini e concetti e racconta episodi di cronaca contemporanea

con un piacevole stile narrativo.

Di fondamentale importanza è considerato un altro commento di tutto il poema, che risale al quarto

decennio del secolo, denominato l’Ottimo dai compilatori del vocabolario della Crusca, il cui

anonimo autore è fiorentino (probabilmente Andrea Lancia) e si dimostra assai informato, al punto

da correggere talvolta le opinioni dei predecessori e dare informazioni circa alcune consuetudini

linguistiche; presenta infine una ricchezza dottrinaria molto superiore rispetto agli altri chiosatori.

Anche il commentario latino dell’altro figlio, Pietro Alighieri, (redatto nel 1341 e riscritto nel 1348)

è molto impegnato nell’esegesi dottrinale e mostra la costante preoccupazione di dichiarare

l’ampiezza della cultura classica di Dante.

Sempre risalenti alla prima metà del Trecento sono, infine, altri commenti di minore importanza, le

Chiose cagliaritane compilate da un aretino, e l’Anonimo fiorentino, una sorta di manipolazione del

commento di Jacopo della Lana.                                                             1 Si veda G. Petrocchi, Il Purgatorio di Dante, Milano, Rizzoli, 1978, pp. 23-37. 2 Per la trattazione completa e sistematica dei commenti alla Commedia si rimanda a P. RIGO, Commenti danteschi, “voce” del Dizionario critico della letteratura italiana, a cura di V. Branca con la collaborazione di A. Balduino, M. Pastore Stocchi e M. Pecoraro, Torino, UTET, 1986, Seconda Edizione, vol. II, pp. 6-22 e bibliografia ivi citata.

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Si giunge così alle due opere che più attestano, in forma complessa e concreta, il profondo interesse

del Boccaccio per tutto ciò che concerne Dante e il suo universo, e testimoniano l’ammirazione e la

stima generali che si erano ormai sviluppate intorno all’opera dantesca, ma anche intorno alla sua

figura non solo intellettuale, ma umana.

Si tratta della Vita di Dante e del Comento (o meglio Esposizioni sopra la Comedìa di Dante). Il

commento si ferma al principio del canto XVII dell’Inferno e la paternità boccacciana è stata più

volte messa in discussione; non è per nulla omogeneo e alterna oziose digressioni e pedantesche

spiegazioni ad osservazioni particolarmente profonde. Molto più importante risulta la Vita, meglio

conosciuta come il Trattatello in laude di Dante, pervenutoci in tre redazioni, di cui una più ampia

ed elaborata (1353-1364 circa) ma non si sa con certezza se sia la prima o l’ultima e definitiva. Il

Trattatello non è tanto una biografia materiale (di cui abbondano gli esempi in tutte le epoche) di

Dante, ma può essere considerato un profilo “spirituale”, dove Dante diventa un simbolo: in lui

“il Boccaccio ritrova ed afferma i propri concetti intorno alla poesia e la sua stessa concezione della cultura […] donde l’interesse che il Boccaccio spiega per ristabilire i rapporti tra Dante e i classici latini, soprattutto Virgilio e Ovidio, e il minore interesse anzi il biasimo col quale il Boccaccio considera la passionalità politica dell’animo dantesco”.1

In ogni caso costituisce un’opera essenziale e imprescindibile in quanto, nonostante difetti e

mancanze, costituisce il primo esempio di biografia della letteratura italiana.

All’ultimo quarto del secolo appartengono i due (forse) più importanti chiosatori: Benvenuto da

Imola e Francesco da Buti, la cui opera sottolinea il rapido diffondersi dell’ammirazione per Dante

nel popolo e anche presso gli indotti, i quali apprezzavano innanzi tutto la figura del sommo poeta,

incarnazione di un ideale etico di altezza morale e giustizia tanto in voga all’epoca, prima ancora

dell’opera.

Benvenuto lesse la Commedia a Bologna nel 1375 e col materiale tratto dalle lezioni scrisse un

ampio commentario in latino, che attesta la sua preoccupazione di dare spiegazioni allegoriche ma

anche di interpretare letteralmente e storicamente: ancora oggi alcune sue spiegazioni fanno testo.

Francesco da Buti, invece, lesse Dante a partire dal 1385; il suo commento, in italiano, è di

fondamentale importanza in quanto riunisce la notevole esperienza del volgare e la straordinaria

intelligenza della lettera dell’autore, superando l’allora in voga interesse allegorico per dar spazio

ad un’analisi retorico – grammaticale.

                                                            1 Cfr. G. Petrocchi, Il Purgatorio di Dante, cit. p. 27.

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Non mancano in ogni caso (e ovviamente), posizioni ambigue o negative, come quelle prese da

autori quali Coluccio Salutati, il Nìccoli o il Bracciolini, che attestano l’affermarsi del giudizio nei

confronti di Dante che caratterizzerà tutto il periodo umanistico (da notare anche il giudizio del

Bembo nelle sue Prose della volgar lingua, ma qui il discorso passa sul piano strettamente

letterario). Risale a questo periodo, comunque, il celebrato commento di Cristoforo Landino (1481),

di spiccato gusto rinascimentale – molto pregiata è infatti la stampa, arricchita da incisioni su

disegni del Botticelli.

Posizione a parte, ma pur sempre interessante, è quella assunta da Leonardo Bruni, che nella sua

Vita di Dante esalta il combattente e l’uomo dai fermi principi politici con pagine molto ben

documentate.

Il periodo più buio per l’opera dantesca fu, però, il Seicento, se consideriamo il fatto che dal 1596 al

1702 si ebbero solo tre edizioni della Commedia e nessun commento.1 E si può dire che lo stesso

valga per il Settecento: durante tutto questo arco di tempo Dante continua ad essere considerato

oscuro, irto, propriamente “gotico”.2

È il Vico a dare i primi segnali di ripresa del “culto di Dante”3 e il suo giudizio trova conferma

nell’esaltazione di illustri intellettuali.

Di opinione non dissimile al Vico era, infatti, anche l’Alfieri,4 il quale si dice affascinato soprattutto

dall’eroica moralità della personalità dantesca, nella quale vedeva rispecchiata la sua stessa

fisionomia ideale di scrittore. Sosteneva, infatti, che Dante

“dalla oppressione e dalla necessità costretto d’andarsene ramingo, non si rimosse perciò dal far versi; né con laide adulazioni né con taciute verità avvilì egli e i suoi scritti e se stesso […]. Quella stessa necessità non potea pure impedir Dante di altamente pensare e robustissimamente scrivere”.

Lettori altrettanto entusiasti saranno anche Parini e Monti, ma soprattutto l’esule Foscolo, che nel

Discorso sul testo della Divina Commedia (1825) analizza la personalità dantesca in relazione alle

più alte creazioni di “caratteri” del poema (alcuni esempi tra tutti Francesca, Farinata, Piccarda,

Oderisi), tutti dominati – secondo il Foscolo – dal carattere dell’unico vero protagonista del poema,

ossia Dante.                                                             1 Cfr. G. Petrocchi, Il Purgatorio … , cit. p. 30 2 Così lo definisce il Bettinelli; si veda Lettere virgiliane, (1757). 3 G. B. Vico è considerato l’iniziatore della moderna critica dantesca; si veda in proposito F. Lanza, Giambattista Vico critico di Dante, in “Lettere italiane”, I, (1949), pp. 243-252. 4 Si veda V. Alfieri, Del Principe e delle lettere, a cura di Fausta Giani Cecchini, Torino, Loescher, 1969.

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È da ricordare, infine, l’ammirazione dei puristi, i quali videro in Dante (in virtù di quanto detto

finora) la maggior testimonianza del “buon secolo”.1

Ritengo che, a distanza di tanti secoli, oltre all’opera (sopra la quale ogni tentativo di giudizio di

valore è ormai superfluo), ciò che si apprezza in Dante e ci fa amare l’uomo ancor prima del poeta,

sia proprio la sua umanità, nei suoi motivi più intimi e profondi: l’autenticità delle sue passioni,

siano queste civili, politiche o personali, l’ardore di un animo alto e schietto ma soprattutto la sua

superba fierezza la quale, sia da considerare “peccato” o meno, ha portato l’uomo e diventare il

poeta che tutti conosciamo.

Ha giustamente notato Padoan, che il poema dantesco divenne fin da subito il libro più letto in Italia

e che

“più ancora che presso i letterati […] la Comedìa piacque fortemente ai lettori non impegnati direttamente nell’esercizio poetico, di qualsiasi ceto sociale, anche e direi in particolar modo al popolo: chi non sapeva leggere, pregava che gli venisse spiegato.”2

Il popolo sentiva espresso nel poema l’aspirazione comune ad un rinnovamento spirituale e il severo

giudizio di condanna della decadenza morale che aveva investito soprattutto la Chiesa, sentimenti

comuni che però non avevano ancora trovato la forma e il modo di palesarsi. Ecco perché tutti,

nell’immediato, si sentirono affascinati da quel realismo che non è solo linguistico o espressivo, ma

che dà voce a quella parte imprescindibile della natura umana che per un uomo del Medioevo era

innanzitutto il mondo dell’Aldilà.

Ma attualmente, che opinione domina circa l’Alighieri e la sua opera?

                                                            1 Cito come esempio il tentativo di illustrazione del padre Cesari, in Bellezze della Commedia di Dante, 1825-26. 2 Cfr. G. Padoan, Introduzione a Dante, Firenze, Sansoni, 1975, p. 129.

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§ 3. I commentatori moderni

All’unanimità si sostiene che Dante ebbe sicuramente una severa concezione etico – religiosa della

vita e che fu chiaramente cosciente della sua missione.

Afferma il Nardi in proposito:

“Se il capo del collegio apostolico e la donna beata incitavano il poeta a levar la sua voce (cfr. Purg. XXXIII, 46-57 e Par. XXVII, 61-66), è perché la sua stessa coscienza glielo imponeva come un dovere, al quale non avrebbe potuto sottrarsi senza incorrere nella taccia di viltà.”1

Per dirlo con Padoan, egli “credette fermamente di essere uno strumento della volontà divina”2 e si

pose esplicitamente come terzo dopo Enea e San Paolo, senza minimamente preoccuparsi delle

eventuali conseguenze. Era infatti ormai consapevole di essere l’unico depositario dei valori morali

che la società del suo tempo aveva allontanato da sé e che egli, invece, intendeva reinserire nel

mondo attraverso la sua opera.

Che si tratti di presunzione o altro, Dante era ben cosciente delle proprie doti e si sentiva per questo

chiamato a grandi imprese. Si potrebbe dire che dall’alto della sua magnanimità, non si sottrasse

mai ai doveri che gli competevano (intellettuali o civili che fossero) e si presentò intenzionalmente

ai suoi concittadini e al mondo come uomo di cultura a tutto campo, come guida morale della

società. Osserva infatti Nicolò Mineo, che è proprio questo l’obiettivo di opere come il Convivio,

attraverso cui egli voleva

“contrapporre all’intelligenza tradizionale (clericale) e a quella borghese – cittadina (medici e giurisperiti) un nuovo ceto di intellettuali, laico, interclassista e al tempo stesso gentilizio, ma fondamentalmente «nobile» nell’animo, tale quindi da amare il sapere per se stesso e da valersene in modo moralmente valido. Una nuova intelligenza […] atta a divenire quella classe dirigente che avrebbe saputo richiamare l’umanità verso la «diritta via»”.3

Di questa nuova classe egli si pose come capo e portavoce: il suo espresso scopo fu dunque quello

di indurre l’umanità “a scienza e a vertù”, come lui stesso afferma nel Convivio. Da tutto ciò appare

innegabile quanto Dante fosse conscio delle proprie doti e, soprattutto, quanto fosse convinto della

legittimità della sua impresa.                                                             1 Cfr. B. Nardi, Dante profeta, in Dante e la cultura medievale, Bari, Laterza, 1942, p. 266. 2 Cfr. G. Padoan, Introduzione … cit., p. 84. 3 Cfr. N. Mineo, Dante, Bari, Laterza, 1970, p. 95.

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Come gli antichi, anche i moderni concordano sui tratti peculiari del poeta: straordinaria altezza

d’ingegno, avidità di sapere e di gloria, vasta mente enciclopedica; non sono d’accordo, invece,

circa il suo “stato solingo”. L’Alighieri sviluppò, al contrario, una socievolezza che non disdegnava

i contatti con alcun genere di persona, specie durante la giovinezza, proprio in virtù del suo

desiderio di “divenir del mondo esperto e delli vizi umani e del valore”. Un’adesione piena e senza

le aristocratiche schifiltosità del Cavalcanti alle varie forme della vita cittadina, che lo portò ad

interessarsi ben presto alla vita pubblica della sua città.

La passione politica fu ben congeniale al suo temperamento, una necessità della sua coscienza che

non fu mai chiusa nell’ambito e nella coltivazione del proprio io, ma aperta a tutte le forme della

vita associata e sollecita delle sorti dell’intera umanità.

Ha felicemente fatto notare il Petrocchi che all’altezza del 1293, non c’è niente di più lontano dal

vero che ricostruire

“una troppo facile immagine di un Dante tutto solingo in bei pensier d’amore in luogo di quella d’un uomo di cultura che senza nulla detrarre dal proprio impegno filosofico avverte il sopraggiungere d’una novella età politica […]”.1

Trapela, infatti, da lui un

“interesse desto per le cose pubbliche e il desiderio di uscir fuori dell’ombra, in cui l’aveva relegato l’esclusione dalle cariche pubbliche non soltanto degli ottimati, ma anche della piccola nobiltà”; più avanti il critico sostiene che “le chiamate politiche di Dante […] furono in rapporto al suo prestigio personale”.2

Dello stesso parere si dimostra il Barbi:

“Non bisogna però immaginarsi un Dante tutto assorbito nei suoi studi e nei suoi tentativi d’arte: anche la realtà della vita urgeva, né egli era anima da perdersi in un mondo puramente intellettuale, e da disinteressarsi dei rapporti che la scienza e l’arte hanno con la vita”.3

L’ardore del suo temperamento sempre avido di nuove esperienze intellettuali, la sua potente

personalità, l’ingegno altrettanto potente e di carattere universale, l’immensa e mai assopita sete di

conoscenza e il modo stesso della sua formazione intellettuale (indipendente da ogni scuola e

maestro), diedero al suo intelletto la massima libertà di assorbimento delle varie fonti che

compongono la sua cultura e fecero di lui quello che oggi si definisce un pensatore eclettico.

                                                            1 Cfr. G. Petrocchi, Vita di Dante, Roma – Bari, Laterza, 1983, pp. 60 . 2 Ibid. pp. 63-64. 3 Cfr. M. Barbi, Vita di Dante, Firenze, Sansoni, 1965, p. 11.

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L’insaziabile avidità di sapere non lo faceva arrestare nemmeno davanti ai dubbi più pericolosi;

c’era in lui un’esigenza non meno ardente di verità assolute e incrollabili: forse proprio perché

conquistata attraverso il dubbio e la delusione, la sua fede religiosa trasse il carattere di assoluta

necessità razionale e di suprema pacificatrice dell’intelletto. Senza di essa, probabilmente, non

sarebbe mai giunto alla perfezione costituita dalla Commedia.

Ma tutto ciò non fece di Dante un mistico, come fu considerato al suo tempo e come qualcuno

vorrebbe considerarlo tuttora, ma solo un credente fermamente convinto della sua fede, che ha

riconosciuto i limiti della ragione ma, allo stesso tempo, la nobiltà della mente umana, considerata

“fine e preziosissima parte de l’anima che è deitade”.1 Egli fu saldamente convinto del fatto che la

vita mortale è solo preparazione all’eternità e che solo a questa l’uomo deve mirare in quanto

esclusivamente in Dio si trova la pace dell’anima e l’eterna felicità, ma tutto ciò non gli impedì

certamente di attendere ad ogni forma della vita pratica o di esercitare l’intelletto in ogni sorta di

speculazione. È questo il traguardo raggiunto con la Commedia, su cui tutti i critici sono d’accordo.

3.1 L’impegno politico

Secondo quanto riporta il Bruni, in una lettera in cui giustificava il suo operato, Dante si diceva

“uomo senza parte” e tale si era realmente dimostrato durante la sua attività politica.

Nota a ragione Padoan che

“l’Alighieri fu con coloro ai quali egli vedeva legata la propria carriera politica, conservando […] una posizione temperata e non faziosa”2

ma soprattutto che ebbe

“scarsa duttilità politica, chiarezza di idee rigorosamente perseguite, specie nell’opposizione alla politica temporale della Chiesa […] dignitosa fermezza e profonda aspirazione alla pace”.3

Posizione condivisa dal Sestan, secondo il quale

“la sua austera tempra morale, la sua formazione culturale e dottrinale […] tutto portava Dante ad abbracciare una politica di princìpi e a rifiutare una politica di interessi”.4

                                                            1 Cfr. Convivio, III, II, 19. 2 Cfr. G. Padoan, Introduzione … cit., p. 44. 3 Ibid,. p. 46. 4 Cfr. E. Sestan, Dante e Firenze, in Italia medievale, Napoli, ESI, 1966, p. 287

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Oltre ai versi (cfr. Inf., XVII, 19-132), anche le fonti storiche attestano l’assoluta intransigenza di

Dante dinanzi a qualsiasi forma di ingerenza della Curia nella vita politica di Firenze: per dirlo con

la Migliorini Fissi1

“lo sfacciato temporalismo del papa offendeva la sua coscienza civile e religiosa” e lo stesso esilio si configura come “una dolorosa conferma della sua dignità morale”.

Infatti, lo stesso Dante afferma solennemente l’essilio che m’è dato, onor mi tegno.2 Egli aveva

semplicemente servito la patria, aveva difeso quelli che a lui sembravano gli interessi del Comune,

non di una fazione.

Appartenente alla nobiltà, amico di magnati (tra tutti il Cavalcanti), aveva difeso il popolo contro le

soperchierie dei grandi; guelfo di famiglia e tradizioni mai rinnegate, si era opposto alle ingerenze

del papa: nutriva quell’ideale di una vita civile ordinata e saggia, fondata sulla giustizia e sui valori

morali, rivolta al bene comune e alle belle opere di pace. La politica, insomma, era per lui un fatto

morale.

Tutto ciò ha spinto alcuni critici su posizioni un po’ “estreme”. Foscolo vide nell’Alighieri il

“ghibellin fuggiasco”; di più il Gorni che lo definisce

“vecchio esule da Firenze: un menagramo fanatico […] un personaggio scomodo, che fa parte per se stesso, come dice lui non senza arroganza;” e più avanti, “una linguaccia maldicente e incontentabile” che però non prende posizione, uomo tra l’altro “pieno di fisime e pregiudizi […] molto permaloso”.3

Continua il critico:

“Dante fu anche, direi soprattutto, un politico […] specialmente il Dante giovane, annetteva più importanza alla vita pratica”; fino all’estrema conclusione che probabilmente egli “preferiva essere sindaco di Firenze piuttosto che un letterato a pieno titolo […]”.4

Ma la sua utopia dell’impero si rivelò priva di fondamento e, infatti, sebbene egli meriti

“il più grande rispetto, per la sua tenacia e la sua coerenza, non senza ragione, a suo tempo, nessuno l’ha seguito […]. […] se non fosse che la grandezza insuperata dell’artefice vince ogni contesa, avremmo a che fare con un pover’uomo, sconfitto dagli eventi, che ha sbagliato ogni suo calcolo”.5

                                                            1 Si veda Dante, Firenze, La Nuova Italia, 1979. 2 Da Tre donne intorno al cor mi son venute. 3 Cfr. G. Gorni, Preambolo, in Dante: storia di un visionario, Roma – Bari, Laterza, 2008, pp. V-VII. 4 Cfr. ID., Dante … cit., p. 177. 5 Ibid., pp. 181 e 302.

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3.2 L’uomo e il poeta

Quel che stupisce da sempre i critici di ogni spazio e tempo, rimane la perenne creatività del genio

dantesco, il rinnovarsi, fino all’estremo della vita, dei suoi interessi artistici e dei suoi mezzi di

espressione.1

Dell’aspetto esteriore di Dante è celebre la descrizione lasciataci dal Boccaccio; il solo ritratto

“sicuro” è quello famoso, compiuto da Giotto fra il 1334 e il 1337, nella cappella del palazzo del

podestà a Firenze. Il ritratto del suo io interiore, lo ha lasciato invece egli stesso, specialmente nella

Commedia: l’assoluta sincerità con cui il poeta si è descritto, che risponde all’assoluta schiettezza

della sua natura, non è soffocata o deformata dai casi della vita e della cultura.

Non è lecito separare la figura del poeta dall’uomo che lo incarna, soprattutto quando si tratta

dell’Alighieri, dato che per lui è assolutamente impossibile concepire una letteratura destituita di

finalità edificanti e intendere la scrittura come uno strumento non concretamente operativo: la sua

poesia è sempre al servizio dell’obiettivo supremo, la conquista della salvezza e dell’eterna felicità.2

Egli si ritiene, infatti, uno scriba (come esplicitamente dice in Par., X, 27) che, al pari dei profeti

dell’Antico Testamento e degli evangelisti, scrive sotto dettatura diretta di Dio.

Ma quali sono i lineamenti più caratteristici della fisionomia dantesca che tanto chiari emergono

dalla Commedia?

Innanzitutto, un’eccezionale energia nel volere e nel sentire, una coscienza straordinariamente

austera ed elevata, che va dalla sfera affettiva a quella etica, intellettuale e religiosa. Tutti

lineamenti energici e solenni.

Egli si presenta fin da subito come un uomo del tutto ignaro delle meschinità e miserie di cui

trabocca il suo mondo, alieno da volgari calcoli e bassi compromessi.

Si fa giustamente proclamare da Virgilio “alma sdegnosa”, sdegnosa appunto di tutta la viltà, la

corruzione e la stoltezza di cui è pieno il mondo (e da cui evidentemente solo lui si salva).

                                                            1 Si consideri, a titolo esemplificativo, le Egloghe, che richiesero un impegnativo lavoro di sperimentazione e innovazione su un modello antico che era stato ormai accantonato, condotto proprio negli ultimi anni di vita del poeta. L’egloga virgiliana, sebbene molto ammirata nel Medioevo, non aveva avuto cultori; Dante riuscì a rinnovare quel genere letterario, celando, sotto ambienti e nomi pastorali, fatti e personaggi della vita contemporanea. Illustre personalità continuarono, a breve distanza di tempo, su questa strada: Petrarca e Boccaccio, solo per citare i più famosi. 2 Si tratta del ritorno, cui ogni essere creato aspira, allo suo principio (cfr. Convivio, IV, XII, 14). Un punto di vista esistenziale essenzialmente cristiano, secondo cui tutti gli impegni terreni sono finalizzati al conseguimento di una meta ultraterrena.

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Ma questo sdegno non è superbo disprezzo degli altri, esprime bensì la pugnace reazione del poeta

al disordine generale dell’umanità, la sostanza della sua anima che diremmo “eroica”. Come è ben

noto, egli sentì il dovere categorico di perseguire “virtute e conoscenza”, lottando con incrollabile

volontà e indomito cuore contro ogni impedimento e avversità della vita, mirando sempre a quella

totale perfezione dell’essere, raggiungibile per l’uomo solo attraverso le mirabili doti elargitegli da

Dio e in tutto ciò non sembra esserci nulla di superbo, anzi.

Un uomo che investe tutte le proprie energie intellettuali e morali per sforzarsi di vivere secondo

costumi virtuosi; pienamente consapevole, al di là di ogni falsa modestia, della più che notevole

altezza del suo ingegno e, fatto essenziale, consapevole che si tratta pur sempre di un dono, una

gratuita concessione divina, non certo un pregio ascrivibile esclusivamente ai propri meriti e di cui

vantarsi; tale uomo può essere considerato superbo? Dio, elargendogli tanto copiosamente i suoi

doni, gli aveva affidato un compito di cui nella Commedia appare profondamente convinto:

divulgare la verità cristiana in ogni angolo della terra e redimere l’umanità corrotta.

Appare altrettanto cosciente dei gravissimi rischi derivanti da una condotta non virtuosa, o anche

solo da un impiego “poco ortodosso” (si pensi ai suoi molteplici dubbi speculativi) delle proprie

doti intellettive. Tutto ciò si dovrebbe tradurre in una radicale ripulsa per ogni arrogante

manifestazione di superbia e nella conseguente esaltazione dell’umiltà intellettuale, in sintonia con

l’insegnamento cristiano di cui si fa portavoce.

Sono questi sostanzialmente i lineamenti “eroici” che trapelano dalla Commedia e che costituiscono

l’eroica concezione della vita umana consistente l’ideale dantesco e, di conseguenza, il valore

ideologico del suo poema. Forse l’aspetto fondamentale della fisionomia di Dante è proprio quello

di apostolo ed eroe dell’ideale elevazione umana.

Ha ragione il Nardi nel sostenere che

“Dante fu vero profeta, non perché i suoi disegni di riforma politica ed ecclesiastica si siano attuati […] ma perché seppe levare lo sguardo oltre gli avvenimenti che si svolgevano sotto i suoi occhi, e additare un ideale eterno di giustizia come criterio per misurare la statura morale degli uomini”.1

Opinione che entra in collisione diretta col “visionario fallito” del Gorni, secondo il quale bisogna

“distinguere, alla luce della storia, sue precise prese di posizione legittime e a priori sensate da altre discutibili, magari denunciando vere e proprie mitomanie del politico e dell’intellettuale”.2

                                                            1 Cfr. B. Nardi, Dante profeta, cit., p. 325. 2 Cfr. G. Gorni, Premessa, in Dante … cit., p. XXI.

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In ogni caso, non c’è solo l’eroe, l’apostolo, il profeta. Dante fu innanzitutto un uomo, con la sua

ferma volontà di continua ascesi spirituale, ma anche con i suoi istinti immediati, i suoi

atteggiamenti di comune umanità, con tutti i suoi limiti e difetti. Se vogliamo trovare un’“ombra”

dell’uomo da proiettare sul ritratto ideale del poeta, non possiamo prescindere dalla violenza, a volte

spietata e quasi “barbarica”, in cui più di una volta trascende il suo sdegno, pur sempre giusto e

normalmente magnanimo.

Il Boccaccio riporta come

“pubblichissima cosa in Romagna” che “ogni femminella, ogni piccol fanciullo ragionante di parte e dannante la ghibellina, l’avrebbe a tanta insania mosso, che a gettare le pietre l’avrebbe condotto, non avendo taciuto”.1

Questa voce era certamente creata ad arte, in quanto Dante non fu un fazioso e fanatico sostenitore

della parte ghibellina (e la sua posizione superiore alle parti è continuamente ribadita nella

Commedia), ma la voce poté sicuramente accreditarsi per la veemenza – talvolta violenta – con cui

professava le sue convinzioni.

Troppo spesso, inoltre, nella Commedia si riflette un atteggiamento così violento e vendicativo da

dover convenire sul fatto che esso era tratto peculiare del carattere istintivo dell’uomo Dante: si

pensi alle sue terribili imprecazioni contro Pisa (cfr. Inf., XXXIII, 79-84); contro Pistoia (Inf., XXV,

10-12); contro i genovesi (Inf., XXXIII, 151-153); si considerino il desiderio e la gioia crudele di

veder fare strazio di Filippo Argenti (Inf., VIII, 52-60); o la ferocia con cui strappa i capelli a Bocca

degli Abati (Inf., XXXII, 97-105). C’è da dire però, che nel poema la violenza vendicativa di Dante

(anche dove è palesemente istigata dal risentimento personale), non appare mai come mero sfogo di

astio o vendetta personale, bensì come sacrosanta reazione del sentimento di giustizia offeso.

In ogni caso, questo lato negativo del carattere dantesco appare innegabile: elevatosi a giudice e

giustiziere, dimostrò di possedere più la violenza dell’odio biblico piuttosto che la misericordia

evangelica.

Illuminante risulta a riguardo, una considerazione del Cosmo:

Dante “era un magnanimo, ma non fino al punto da indulgere alle altrui debolezze, specie quando esse servivano a giustificare opportunismi politici. Grandi virtù ebbe, ma non conobbe intera quella cristiana del perdono; vagheggiò il Cristianesimo come forma perfetta di vita, ma la sua non fu vita di santo […]”.2

                                                            1 Cfr. G. Boccaccio, Trattatello cit., XXV. 2 Cfr. U. Cosmo, Vita di Dante, cit., p. 225.

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E a proposito del tanto discusso lato “francescano” di Dante, con altrettanta lucidità osserva il

critico che sicuramente Francesco

“era il santo che più ammirava e amava, ma era insieme l’uomo che più sentiva lontano da sé. Avrebbe voluto essere come lui e non poteva. Troppe passioni, troppi odi ruggivano nel suo cuore […] la povertà a lui, gentiluomo nato nell’agiatezza e costretto dall’esilio a soffrire così di frequente l’umiliazione della ripulsa, era peso quasi insopportabile” ma soprattutto, continua il Cosmo, “egli non poteva perdonare. L’odio, il bisogno di vendetta contro i nemici era connaturato in lui […]”.1

Anche Petrocchi2 ha notato che la Commedia riflette echi della spiritualità francescana, come

“l’ansia di purezza, il ripudio dei beni terreni, i sentimenti di carità e di povertà”, ma che gli altri

due cardini del messaggio di San Francesco, cioè “l’umiltà e la sacra obbedienza, sembrano se non

estranei, poco consentanei al temperamento di Dante”.

Francesco fu, infatti, una delle figure più suggestive del Medioevo e tutto il XIII secolo, cui

appartiene la giovinezza di Dante, era “pieno di lui”: la natura della sua religiosità, solitaria e

popolare nello stesso tempo, la dolcezza e l’asprezza della sua persona unite all’umiltà del suo

atteggiamento, ebbero grande impatto sulla società dell’epoca e, ovviamente, sull’animo del poeta

che vide in lui palesata e riassunta quella sensibilità di cui la Commedia è monumento. Rimane però

il fatto che non tutte queste virtù erano pienamente realizzabili nell’uomo Dante.

Un altro lineamento negativo della personalità dantesca, che si rivela ancora più palesemente nella

Commedia, è proprio la superbia, nello specifico quella superbia scaturita dalla fiera

consapevolezza della sua “altezza d’ingegno”, della sua dottrina ed eccellenza poetica. Ma forse, in

misura maggiore, dal suo innato e mai pago desiderio di gloria.

Come abbiamo già avuto modo di appurare, risultano molto utili a riguardo le testimonianze dei

contemporanei di Dante, quali il Boccaccio e Giovanni Villani.

Ma la testimonianza più preziosa ci viene dal poeta stesso, il quale apertamente confessò il suo

peccato di superbia:

Troppa è più la paura ond’è sospesa l’anima mia del tormento di sotto,

che già lo ‘ncarco di là giù mi pesa

(Purg., XIII, 136-138)

                                                            1 Ibid., p. 227. 2 Cfr. G. Petrocchi, Vita di Dante, cit., p. 123.

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Alla sua superbia artistica, determinata appunto da “altezza d’ingegno” e desiderio di eccellenza

(cui fa eco, però, anche una certa superbia di carattere aristocratico derivante dalla sua seppur

“poca”, nobiltà di sangue), Dante accenna in vari luoghi del poema e, come è stato detto, veniva già

notata dai primi biografi e commentatori. Si tratta, inoltre, dell’unico dei peccati mortali che

confessò esplicitamente, il qual fatto fu (forse) ancora un atto di superbia e non di contrizione – o

almeno un confuso e psicologicamente complesso insieme di entrambe.

Si deve però riconoscere che questa superbia non appare mai nella Commedia come presunzione o

iattanza. Anzi, l’insistenza (tra l’altro insolita) con cui nel canto XI del Purgatorio, fa ribadire ad

Oderisi la vanità della gloria terrena e la caducità delle stesse opere dell’ingegno, mostra quanto egli

cercasse con tutte le sue forze, con la ragione e la religione, di mortificarla, umiliarla in sé e infine

abbatterla.

Inoltre è fondamentale tenere nella debita considerazione che Dante, uomo così orgoglioso del suo

ingegno, del suo sapere, della sua altezza morale e intellettuale, si dimostrò pronto e magnanimo nel

riconoscere, ammirare ed esaltare l’ingegno e i meriti altrui, nonostante gli eventuali vizi, tanto era

alto in lui il concetto e il rispetto della mente umana. Talvolta, infatti, tale rispetto e ammirazione

altrui giungono a fargli assumere un atteggiamento commosso di schietta umiltà: è il caso dei tre

grandi fiorentini (cfr. Inf., XVI), di Manfredi (Purg., III) o di Guinizzelli (Purg., XXVI) e si

consideri che, ad eccezione dell’ultimo, si tratta di peccatori gravi!

Non meno pronto, aperto e magnanimo, si dimostrò nel saper umilmente riconoscere i valori dei

benefici ricevuti, così come attestano le nobilissime espressioni di gratitudine verso Brunetto Latini,

i Malaspina o gli Scaligeri; ma soprattutto seppe riconoscere e sfruttare al meglio il debito più alto:

quei doni di natura che gli furono elargiti dalla grazia di Dio, senza i quali tutto il resto non avrebbe

avuto alcun senso.

Infine, ma non per questo meno importante, è da notare il fatto che Dante, pur compiacendosi

istintivamente della sua “nobiltà di sangue” (a cui fa riferimento in più luoghi del poema ed

esplicitamente nella confessione fatta nel canto XVI del Paradiso),1 seppe tuttavia “sorridere” di

questa sua debolezza, ben conscio di quanto poca cosa fosse per se stessa la nobiltà dei natali.

                                                            1 Cfr. vv. 1-6: O poca nostra nobiltà di sangue, / se gloriar di te la gente fai / qua giù dove l’affetto nostro langue, / mirabil cosa non mi sarà mai: / ché là dove appetito non si torce, / dico nel cielo, io me ne gloriai. L’essersi gloriato nell’apprendere la nobiltà dei suoi antenati, egli che era ben conscio della propria, è considerato da Dante sì una colpa, soprattutto perché nel Paradiso, ma lieve, tanto che Beatrice si limita a sorridere indulgente (cfr. vv. 13-14).

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Nonostante abbia ampiamente dimostrato nel Convivio1 che non esiste vera nobiltà se non dove c’è

virtù, non pensò mai di negare il valore relativo della nobiltà dei natali né la nobiltà come classe

sociale, anche se rimase un suo mero ideale – una classe dirigente che unisse la virtù all’antichità

del sangue.

Per concludere la rassegna dei lineamenti più risentiti (in senso positivo, ma anche in parte

negativo), che sono certamente i più costanti, diremmo i più “danteschi” della fisionomia del poeta,

non si può fare a meno di sottolineare una certa dose di permalosità.2 Si può intravvedere questo

aspetto del suo carattere nel sùbito adombrarsi per una risposta di Virgilio, da lui giudicata un po’

troppo “secca” (cfr. Inf., III, 76-81; X, 19-21) o nell’aspra reazione nei confronti di Farinata, il

quale si era vantato di aver disperso i “suoi maggiori”.

Da quanto detto finora, si delinea il ritratto di un intellettuale eccellente, di un uomo grave e

austero, reso saggio dall’esperienza e dalla grazia divina, ma anche di un essere imperfetto proprio

perché uomo.

Se pensiamo a quali terribili angosce e sofferenze lacerarono l’animo di un uomo dal carattere così

fatto (delle quali dà egli stesso un assaggio in Purg., XI, 140-141 o in Par., XVII, 58-60), costretto

dall’ingiusto esilio alla bruciante umiliazione del mendicare il tetto e il pane, tanto più ammirabile

ci apparirà la forza e fermezza d’animo con cui resistette e reagì alle difficoltà che avversarono la

sua vita. Tanto più spiccherà la sua “alma sdegnosa” che mai si abbassò ad alcun genere di

compromesso, la sua altezza morale o, come  afferma la Migliorini Fissi, la sua “dimensione

spirituale e dignità interiore” che portarono Dante a respingere le umilianti e scorrette condizioni

poste dal Comune fiorentino per la revoca dell’esilio.

Già gli antichi avevamo notato e ammirato questa fermezza.

Esclama, infatti, il Boccaccio:

“Oh isdegno laudevole di magnanimo, quanto virilmente operasti, reprimendo l'ardente disio del ritornare per via meno che degna ad uomo nel grembo della filosofia nutricato!”3

                                                            1 Si veda il IV trattato. 2 Un’anticipazione del permaloso Dante andrà ricercata sicuramente nella tenzone giovanile con l’amico – nemico Forese, nella quale emerge inoltre un Dante inedito, che non rinuncia al divertimento grossolano dei diverbi mordaci, anche volgari, ben lontano dalla solennità a cui sono abituati i lettori della Commedia, ma pur sempre arguto e sottile. 3 Cfr. G. Boccaccio, Trattatello …, cit., XXV.

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A cui fa eco il Manetti, il quale testimonia che

“Dante fu ancor d’alto animo e generoso. Ardentemente desiderando la tornata in patria, però non volle ritirarvisi, dacché per la grandezza del suo animo naturale egli rifuggiva a l’unico mezzo onde poterla effettuare […] non mai l’onta di tale e tanta abbiezione poté indursi di queto a comportare, che anzi siffattamente sdegnossene, da voler finire più presto in esilio che sì ignominiosamente in patria tornare”.1

In tutta la sua opera, infatti, egli non invoca mai l’aiuto del Cielo (come fanno i comuni mortali nei

momenti di crisi o difficoltà), né cerca nella fede la “santa” accettazione delle proprie disgrazie o il

conforto della rassegnazione. È fondamentale ribadire che Dante non si rassegnò mai alla sua

ingiusta sorte, bensì combatté fino all’ultimo e se cercò un conforto, lo fece nella consapevolezza

della sua rettitudine morale (e, come abbiamo visto, nell’orgoglio e nella vendetta) ma soprattutto

nella poesia. Ecco allora emergere il suo carattere eminentemente intellettuale e teologico,

scarsamente sentimentale, che consente di delineare un ritratto fiero e intransigente, di un uomo

convinto e fermo nelle proprie posizioni.

Il ritratto dell’uomo e quello del poeta risultano quindi inscindibili e imprescindibili l’uno dall’altro.

Se volgiamo farci un’idea di chi fu realmente Dante Alighieri, dobbiamo guardare

contemporaneamente ad entrambi e valutarli in modo simultaneo, usando una sorta di quella che

oggi si definisce tecnica di giustapposizione, perché solo in questo modo i lineamenti dell’uno

andranno a compenetrare e arricchire i tratti dell’altro.

Da tale visione in progress emerge una figura che, tradotta in una parola adattissima alla sintesi,

sarà magnanimo.

Questa pagina del Barbi mi sembra in sintonia con quanto detto finora.

“Difficile a determinare la qualità del genio di Dante. Proclamarlo, come ordinariamente si fa, «sommo poeta», o «eroe della poesia», è dire la sua grandezza, non la natura del suo genio. Mettere in rilievo la tempra adamantina del suo carattere, ossia la ferma fede e la robusta volontà, l’energia del suo dire e il vigore del suo rappresentare, è certo rivelare un aspetto del suo spirito e della sua poesia, dei più notevoli, ma è anche irrigidirlo in un atteggiamento, come in certi dipinti della sua immagine esteriore. Più complessa e più ricca la sua vita interiore, e più varia la sua poesia. Accanto al grandioso e al potente che erompe dalle più sublimi e forti concezioni, troviamo la semplicità, la freschezza, la soavità di chi sa ritrarre i più fuggevoli aspetti della natura, i casi più comuni della vita, i più teneri moti del cuore[…]”.2

                                                            1 Cfr. A. Solerti, Le vite di Dante … cit., pp. 144-145. 2 Cfr. M. Barbi, Vita di Dante, cit., p. 103.

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§ 4. Dante nella cultura moderna

«La personalità di Dante sovrasta

con la sua statura i secoli».1

Ciò che ha colpito e continua a colpire la fantasia dei lettori quando si parla della Commedia, è la

straordinaria capacità di sintesi mostrata dall’Alighieri (oltre, ovviamente, alle pregevoli virtù

umane e intellettuali messe in evidenza nel corso di questa indagine), che gli ha permesso di

“concentrare in uno spazio limitato quali sono i 14.233 endecasillabi dell’opera un messaggio di portata universale, idoneo a dare una compiuta rappresentazione poetica di tutta la varietà e la complessità del reale”.2

Nella delicata fase di passaggio dal Medioevo all’età moderna, egli è riuscito a recuperare e

riscattare i valori fondamentali di quella cultura e della società che l’ha creata.

Come ha avuto modo di osservare Contini, infatti,

“l’impressione genuina del postero, incontrandosi con Dante, non è d’imbattersi in un tenace e ben conservato sopravvissuto, ma di raggiungere qualcuno arrivato prima di lui”.3

La vita e l'opera di Dante hanno avuto un'influenza determinante sulla costruzione dell'identità

italiana e in generale sulla cultura moderna. Numerosissimi sono, infatti, gli scrittori e gli

intellettuali che hanno utilizzato e continuano ad utilizzare la Commedia e le altre opere dantesche

come fonte di ispirazione tematica, linguistica, espressiva.

La Commedia, inoltre, costituisce un unicum nella storia di tutte le grandi letterature nazionali, in

quanto la letteratura italiana ha visto nascere proprio agli albori della sua vicenda storica l’opera più

eccelsa e rappresentativa.

La prova della sua straordinaria importanza va ricercata innanzitutto nell’immediata favorevole

accoglienza da parte dei lettori (specie se si considerano le difficoltà di circolazione che

incontravano i libri nel XIV secolo), i quali compresero fin da subito trattarsi di un testo, seppur

arduo, di incomparabile bellezza e profondità.

                                                            1 Cfr. E. R. Curtius, Letteratura europea e Medio Evo latino, a cura di R. Antonelli, Firenze, La Nuova Italia, 1992, (ed. origin., Europäische Literatur und lateinisches Mittelalter, Bern, Francke, 1948), p. 406. 2 Cfr. E. Malato, Dante, Roma, Salerno Editrice, 1999, p. 374. 3 Cfr. G. Contini, Un’idea di Dante. Saggi danteschi, Torino, Einaudi, 1976, p. 110.

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È opportuno ricordare però, che la Commedia non ha sempre goduto della medesima popolarità

nelle diverse epoche (soprattutto per quanto concerne l’Umanesimo e il Settecento, come è stato

precedentemente ricordato) e che è soprattutto negli ultimi due secoli che la sua fortuna andò via via

espandendosi in virtù della sua ineguagliabile peculiarità e divenendo, fin dai primissimi

dell’Ottocento, uno dei cardini della formazione scolastica.

L’influenza di Dante sugli scrittori italiani fino ai nostri giorni si identifica con la fortuna della

Commedia. Mentre essa fu apprezzata dai contemporanei più per i suoi aspetti dottrinali e morali

che per il valore poetico, la modernità, al contrario, ha conosciuto un’epoca in cui l’universo

dantesco (e con questa espressione intendo tutto ciò che concerne l’uomo Dante e la sua

produzione) è stato sfruttato in tutti i modi possibili e immaginabili, dalla semplice ripresa di

termini e formule, alla citazione letterale; dalla studiata manipolazione di temi e motivi, all’uso del

tutto personale di materiale linguistico, stilistico, contenutistico ed espressivo. Ma c’è una costante

in tutto ciò, ossia la consapevolezza che Dante è un classico (oserei dire Il Classico) e che in quanto

tale non smetterà mai di essere modello e fonte di ispirazione dei più grandi intellettuali che hanno

caratterizzato e caratterizzeranno ogni tempo e spazio.1

Mi sembra opportuno concludere questa introduzione a Dante Alighieri con una domanda che tanta

parte ha nel dibattito contemporaneo.

                                                            1 Per non oltrepassare i confini che ho posto alla mia indagine, mi limito a riportare un esempio che a mio avviso risulta emblematico. L’itinerario umano e poetico di Giuseppe Ungaretti presenta alcune significative affinità con Dante. In comune essi hanno soprattutto la fiducia nel significato morale del fare poesia e l’identificazione della propria vita con quella dell’umanità: non a caso infatti, la raccolta delle opere di Ungaretti si intitola “Vita di un uomo”. Inoltre, l’evoluzione spirituale di Ungaretti parte da una situazione iniziale di isolamento, in cui l’uomo soffre perché incapace di comunicare; poi, attraverso la faticosa riacquisizione di certezze, grazie alla fede, approda ad un sentimento di solidarietà verso gli altri uomini. All’evoluzione spirituale si accompagna quella stilistica: la poesia di Ungaretti passa da un’iniziale essenzialità ad una forma più ampia e complessa, che ricorda l’evoluzione del linguaggio dantesco dall’Inferno al Paradiso. Come si può facilmente evincere da tale esempio, non si tratta di mera emulazione; Ungaretti non utilizza Dante come semplice fonte d’ispirazione: c’è una sorta di affinità virtuale (poetica, sì, ma anche spirituale) che unisce i due poeti a distanza di tanti secoli.

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E oggi? È ancora attuale Dante?

«La nozione di “attualità” risulta a mio avviso essere tra le più opinabili e indeterminate; basti infatti considerare che in tutte le epoche – né la nostra sembra fare eccezione – a pieno diritto convivono gusti, orientamenti culturali, interessi individuali quanto mai differenziati e spesso tra loro inconciliabili. Ciò premesso, a me pare che le idealità dantesche non risultino affatto “attuali” in una realtà storica, quale la nostra, che, come modelli di comportamento e valori sommamente positivi, sembra privilegiare il perseguimento di un profitto senza freni, il culto dell’apparenza, l’ostentazione esibizionistica, la sguaiataggine, la sfrontatezza, la transitorietà delle mode, la futile superficialità. “Attualissime” esse possono rivelarsi se si riesce a coglierne la funzione di balsamico antidoto contro gli appena menzionati veleni».1

Ritengo che questo passo, per quanto ad una prima lettura possa risultare intessuto di luoghi comuni

circa la società attuale, contenga una grande verità. Più di sette lunghi secoli di profonde

trasformazioni socio – culturali (ma anche economico – politiche) ci separano dall’universo

dantesco ed è ovvio che oggi i valori e i sentimenti su cui poggia la Commedia non siano più attuali,

né potrebbe essere diversamente.

Personalmente, come ho riferito sopra, preferisco pensare a Dante come il “Classico” della nostra

cultura piuttosto che l’“attuale”, senza nulla togliere ai suoi meriti artistici ed intellettuali, anzi.

Sono stati i presupposti a cambiare e la società contemporanea non può pretendere di fondarsi

ancora su quei modelli di comportamento, ma in ogni caso la Commedia offre da sempre utili spunti

di riflessione, e quell’intensità che travolge il lettore di oggi ogni qualvolta si accosta ad essa, è la

stessa che colpì i medievali, con l’emozione di uno stile sublime e la profondità dei temi e dei

sentimenti in essa contenuti.

Da questa prospettiva il poema può davvero essere definito ancora “attuale”, proprio in virtù della

sua capacità di suscitare le stesse emozioni a distanza di tanti secoli. Peculiarità, questa, destinata a

cambiare mai.

                                                            1 Cfr. G. Muresu, Intervista su Dante, cit., p. 276.

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Capitolo I

LA SUPERBIA IN DANTE

Tensione tra il desiderio di gloria e la consapevolezza della sua vanità.

Il motivo della superbia è molto sentito nel poema e solleva non pochi dubbi e perplessità, primo tra

tutti la sua specifica collocazione nell’Inferno, la quale verrà trattata diffusamente alla fine del

presente capitolo.

Nella dichiarazione dell’ordinamento morale del Purgatorio,1 Virgilio presenta la superbia insieme

a invidia e ira, come uno dei tre modi per cui l’amore di elezione può “torcersi” al male. Non si

tratta, infatti, di mera aspirazione all’eccellenza (ben ammissibile, in quanto amore del proprio

bene), ma della connessa tendenza ad abbassare il prossimo e disprezzarlo. Tale definizione riflette

lo sforzo di Dante per congiungere la dottrina dei sette peccati capitali con la teoria aristotelica –

tomistica dell’amore come fonte di ogni azione umana: egli fa rientrare la superbia nella categoria

dell’amore dell’altrui male, ma a questa definizione non corrispondono perfettamente i superbi che

popolano il poema (siano essi anime purganti, raffigurazioni dei bassorilievi della prima cornice o

anime infernali).

L’insoddisfazione per questo concetto riflette l’antico disagio dei commentatori, appunto, per la

mancanza di una specifica collocazione dei superbi nell’Inferno. In proposito, ha giustamente fatto

notare Witte che mentre nell’Inferno si espiano i peccati attuali, nel Purgatorio si correggono i vizi

capitali:2 se è grande il numero dei superbi nell’Inferno, essi espiano particolari peccati attuali nei

vari gironi.

                                                            1 Rispecchia la classificazione delle attitudini (o disposizioni) al peccato delle anime penitenti, le quali hanno errato per aver rivolto il loro amore verso il male, per aver amato troppo poco il bene o per aver troppo amato i beni terreni. Speculare all’Inferno, regno di colpa e pena eterna, dominato dal principio del male e afflitto dalla disperazione, il regno della penitenza e della purificazione è percorso dalla speranza della visione di Dio e dominato dal principio dell’amore inteso come inclinazione dell’animo verso ogne cosa […] che piace (cfr. Purg., XVIII, 20) che può errare, appunto, per malo obietto / o per troppo o per poco di vigore (cfr. Purg., XVII, 95-96). Ai piedi del monte, l’Antipurgatorio ospita le anime dei negligenti che aspettarono la fine della vita per pentirsi, distribuiti tra la spiaggia dell’isola (scomunicati) e i due balzi (morti di morte naturale, morti di morte violenta); nella valletta fiorita, invece, si trovano le anime di principi e governanti che anteposero le cure terrene e la sete di dominio alle cose di Dio. Nelle sette cornici del monte (il Purgatorio propriamente detto), idealmente divise in tre gruppi simmetrici secondo la formula 3-1-3, espiano le anime di coloro che mancarono per malo obietto (superbi, invidiosi, iracondi) nelle prime tre; per poco di vigore (accidiosi) nella quarta; per troppo […] di vigore (avari e prodighi, golosi, lussuriosi) nelle ultime tre. La disposizione dei peccati segue la progressione opposta rispetto a quella dell’Inferno, in cui si passa dalle colpe meno gravi alle più pesanti, punite nei gironi più bassi e quindi più vicini a Lucifero e lontani da Dio; nel Purgatorio invece, la cui vetta sale verso il cielo e si avvicina a Dio, si passa dai vizi più gravi alle colpe più leggere (sulla cima del monte si trova il paradiso terrestre, sede della definitiva purificazione dell’anima che può finalmente salire al cielo). 2 Cfr. K. Witte, Dante’s Sündensystem in Hölle u, Fegefeuer, in “Iahrb. d. Deutsch. D. Gesell.”, IV, pp. 353-

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Qualche esempio potrà chiarire questa tesi.

Filippo Argenti, persona orgogliosa, sconta una vita di violenze tra gli iracondi (cfr. Inf., VIII);

Capaneo ha nella superbia l’origine di tutte le sue colpe e il suo eterno tormento, ma giace nel

cerchio dei violenti (Inf., XIV); Bonifacio VIII fu indotto dalla sua superba febbre al commercio di

cose sacre e finirà nella bolgia dei simoniaci (Inf., XXVII); Vanni Fucci, in Dio tanto superbo, paga

i suoi sacrileghi furti nella bolgia dei ladri (Inf., XXV); Fialte, superbo che volle esser esperto / di

sua potenza contra ‘l sommo Giove (Inf., XXXI), è collocato in funzione simbolica con gli altri

giganti a corona del cerchio dei traditori (presentati, tra l’altro, come esempio di superbia punita nei

bassorilievi della prima cornice). Sempre tra i traditori figura, infine, il primo superbo Lucifero.

Della modulazione pratica di tale vizio, Dante offre un ampio specchio in tutto il poema: a partire

dal Prologo, la cui più comune interpretazione riconosce simboleggiata, nella prima delle tre fiere,

la superbia; dichiaratamente, è la prima delle tre faville che hanno acceso i cuori dei fiorentini, in

cui questo vizio assume tutte le gradazioni, dall’orgoglio smisurato delle genti nuove (cfr. Inf., XVI,

73-74), all’alterigia magnatizia delle grandi casate (Par., XVI, 109), dalla rabbiosa presunzione

della fazione dominante, causa di sanguinose sconfitte (Purg., XI, 112), alla sacrilega ribellione

della città all’autorità imperiale (condannata in Ep., VII, 15).

Alla correzione specifica della superbia, invece, e alla virtù ad essa opposta, sono dedicati

interamente tre canti del Purgatorio, costruito appunto secondo lo schema dei vizi capitali.

Che il motivo della superbia sia onnipresente nel poema appare dunque innegabile e ciò riflette lo

specifico interesse dantesco per questo peccato. Interesse che lo spinge ad una profonda e attenta

analisi, la quale prende, volta per volta, le varie forme della condanna severa e dell’intima

partecipazione, del sincero sdegno e della frustante consapevolezza di non esserne immune.

Ecco l’analisi del superbo Dante, il cui animo sembra costantemente combattuto tra l’aspirazione a

raggiungere l’eccellenza e la consapevolezza di quanto essa sia vana ed effimera.

                                                                                                                                                                                                     403. Secondo l’opinione dello studioso, Dante avrebbe punito nell’Inferno il delitto, non la passione che è stata causa del delitto.

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§ 1. Il canto X del Purgatorio1

Con questo canto ha inizio il grande ciclo di penitenza del Purgatorio vero e proprio, il quale

consiste regolarmente in tutte le cornici in penitenza, meditazione e preghiera: una penitenza che

continua ad essere motivata dal contrappasso (pur senza raggiungere i livelli di atrocità infernali);

una meditazione sollecitata da tutta una serie di esempi positivi e negativi della virtù premiata e del

vizio punito; una preghiera che, nella seppur nuova veste poetica, riprende le forme e i modi della

liturgia. Insieme ai successivi canti XI e XII, comprende e descrive il regno della superbia, il

peccato principale che sta alla base di tutti gli altri, di ogni ribellione a Dio;2 Dante stesso si

dimostra particolarmente interessato in questa cornice, ben conscio del fatto che il suo carattere non

tende solamente al “nobile sdegno” contro ogni bassezza, ma anche alla superbia. Ed è per questa

ragione che nell’Inferno non ha una collocazione specifica, ma si trova mescolata a tutti gli altri,

come confermavano i Padri della Chiesa e in genere i maestri del tempo (non escluso il Latini).

Della superbia Dante aveva, inoltre, esperienze dirette nella vita quotidiana della sua epoca e

soprattutto nelle vicende che lo avevano colpito personalmente: già Ciacco3 aveva attribuito a

superbia, invidia e avarizia la causa della “discordia” che agitava Firenze, concetto poi ribadito da

Brunetto Latini nel XV dell’Inferno.4 La superbia è, insomma, il male dell’epoca, un male di cui

Dante ha personalmente pagato il prezzo, talmente vivo e attuale che egli stesso se ne sente pervaso.

Indice e prova del suo peculiare interesse sono la squisita arte con cui ha creato gli esempi artistici

per la purgazione dei superbi e l’esplicita commozione con cui ha contemplato il loro contrappasso,

con quella pietà che è sintomo di intima partecipazione alle atroci sofferenze che gli si presentano

alla vista.

                                                            1 “[…] è stato osservato che la descrizione del Purgatorio propriamente detto comincia con questo canto , dopo nove (numero per Dante particolarmente significativo) riservati al proemio della cantica e all’Antipurgatorio: analogamente, col canto X comincia la descrizione dell’Inferno più fondo, e, con un po’ di buona volontà, si può scorgere uno stacco anche nel canto X del Paradiso, dove comincia la trattazione dei cieli più alti (Pd X 7-8) e più puri da riflessi terreni. Nel secondo regno, annullati col pentimento e il perdono di Dio gli specifici peccati, si espiano le restanti tendenze peccaminose; qui va aggiunto che oltre alle pene, governate per lo più come le infernali dal contrappasso, gli spiriti conquistano il Paradiso col dolore per il male compiuto, e con la meditazione, stimolata da esempi in varie guise proposti, sulla bellezza della virtù opposta al vizio capitale di cui si sono macchiati, e sulla bruttezza e punizione del vizio stesso”. (Cfr. D. Alighieri, La Divina commedia, vol. 2, Purgatorio, a cura di U. Bosco e G. Reggio, Firenze, Le Monnier, 1979, Introduzione al Canto X). 2 «Radix quippe cuncti mali superbia est […]» scrive San Gregorio Magno (cfr. Expositio Moralis, XXXI, c. 17); e anche per Dante il primo superbo è Lucifero (cfr. Par., XIX, 46). 3 Cfr. Inf., VI, 74-74. 4 Riferendosi ai fiorentini che si dimostreranno “nemici” a Dante, il maestro li considera gente avara, invidiosa e superba (cfr. v. 68).

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In questo canto, infatti, non vengono narrati incontri individuali; vengono invece descritti la salita

alla prima cornice, i rilievi esemplari e la punizione generale di queste anime.

Dopo una breve ma significativa premessa,1 Dante e Virgilio giungono alla prima cornice della

montagna del Purgatorio, pronti ad incontrare una particolare categoria di spiriti purganti: sono i

superbi che, gravati da enormi massi, camminano rannicchiati verso terra. Attraverso un sentiero

tortuoso e stretto, i due poeti salgono verso il ripiano della prima cornice destinata, appunto, ai

superbi2. Anche se l’ascesa è ormai sicura, essa risulta tutt’altro che agevole e affinché si attui,

saranno necessarie lunghe e irremissibili prove: la fenditura lungo cui i due poeti si inerpicano è una

sorta di vero e proprio cammino alpestre, accidentata da un continuo avvicendarsi di sporgenze e

rientranze che sembrano simboleggiare “i cimenti cui l’anima avviata verso il bene supremo deve

apprestarsi”. Usciti da questa strettoia, i due poeti sono liberi e aperti “che è come dire sciolti dai

vincoli del male, pronti alle nuove esperienze”.3

Dante rimane subito colpito dall’efficiente meraviglia del girone, i cui bassorilievi costituiscono una

fascia di candido marmo scolpito lungo tutta la parte inferiore della ripida parete e rappresentano

scene di umiltà premiata, al cospetto delle quali le anime dei superbi dovevano meditare e pentirsi.

Il pellegrino nota da subito che queste sculture sono di una fattura così eccellente da vincere

l’abilità dei migliori scultori e della stessa natura.

Vediamo ora questi tre bassorilievi, accostati e descritti da Dante con ogni precisione.

Il primo rappresenta l’arcangelo Gabriele che annuncia la maternità alla Madonna e quindi, la

redenzione dell’intera umanità dal peccato originale (che fu, appunto, peccato di superbia). Il

bassorilievo è di un realismo così potente che i personaggi della rappresentazione sembrano dotati

del dono della parola.

L’intensità dell’attenzione con cui Dante ammira le sculture del girone è confermata dal richiamo di

Virgilio che lo sollecita a guardare anche oltre: il secondo bassorilievo riassume un episodio del

Vecchio Testamento ed è opera d’arte ancor più stupefacente della prima.                                                             1 Poi fummo dentro al soglio de la porta / che ‘l mal amor de l’anime disusa, / perché fa parer dritta la via torta, (cfr. vv. 1-3). Il Bosco sottolinea quanto sia “notevole che nel 2° verso del canto il poeta dica che la porta del Purgatorio è disusata, che si apre di rado […], a causa del mal amor degli uomini”. (Cfr. Introduzione al Canto X, cit.). 2 Cfr. vv. 1-27. Dante si preoccupa di sottolineare la difficoltà della salita dalla porta lasciatasi alle spalle sino al primo girone, attraverso lo stretto canalone intagliato nella montagna. Il Bosco ha colto “un’intima analogia tra questa salita e quella mediante la quale Dante dalla spiaggia dell’isola del Purgatorio s’inerpica faticosamente sulla montagna, verso le balze dell’Antipurgatorio (Pg IV 25 ss.)”, a ribadire un ovvio parallelismo allegorico: “la difficoltà che l’uomo incontra nei suoi primi passi, a ogni importante tappa sulla via dell’affrancamento dal peccato”. (Ibid.). 3 Cfr. R. Roedel, Il girone dei superbi: Canto X del Purgatorio, in ID., Lectura Dantis, Lugano, Banco di Roma per la Svizzera, 1965, p. 217.

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Sulla roccia egli vede scolpita la traslazione dell’Arca Santa, contenente le tavole della legge che

Mosè ricevette da Dio sul monte Sinai. Il tutto si svolge fra una calca di popolo capeggiato da

David, il quale canta e danza in onore di Dio: profumi, musica e parole si levano miracolosamente

dal complesso marmoreo. Solo la moglie di David, Micòl, disapprova l’atteggiamento del re che si

umilia in quel modo davanti ai sudditi; la donna guarda dispettosa e trista (v. 69) la scena dalla

finestra del palazzo e se ne addolora. Se David, pur non attenendosi ai precetti della dignità regale,

fornisce un esempio di umiltà, la moglie guardando dalla finestra “insinua nella figurazione un

evidente obliquo spunto di superbia”.1 Gli attributi usati da Dante per descrivere Micòl, infatti, non

sono casuali; la scena qui rappresentata riproduce esattamente il racconto biblico2 e dispettosa e

trista vale “sdegnata e indispettita” o meglio, tenendo presente il “despexit […] in corde suo” del

testo biblico, “sprezzante e crucciata”: per questo atto di superbia, fu punita da Dio con la sterilità.3

Tra questi bassorilievi c’è un evidente crescendo; così dal primo, mistico e raccolto, attraverso le

espansioni del secondo, si giunge al terzo che prende in considerazione cose del tutto terrene.

La terza rappresentazione infatti, mostra il leggendario episodio dell’imperatore Traiano che, sul

punto di partire per una spedizione militare, viene trattenuto dalle insistenti preghiere di una vedova

che gli chiede giustizia contro gli uccisori del figlio. Torme di cavalieri e bandiere sormontate da

aquile d’oro fanno da superba cornice al dialogo tra i due: l’imperatore resiste alle pressioni della

donnetta adducendo l’importanza dell’azione di guerra, ma alla fine l’accontenta, richiamato dal

dovere di non affidare ad altri un atto di giustizia e pietà. Conclude, infatti, saggiamente dicendo:

giustizia vuole e pietà mi ritiene.4

Al ritmo delle repliche con cui la donnetta contesta tutte le riserve di Traiano, l’Imperatore si

“smuove dalla sua intangibile imperiale maestà, si illumina di una tutt’altra dignità comprensiva e umana, sospende la prevista partenza e rende giustizia alla vedovella. Così egli soddisfa, in quanto Imperatore, alla rettitudine, e in quanto uomo alla pietà, che costituivano entrambe l’inequivocabile esigenza del momento”.5

                                                            1 Ibid., p. 222. 2 “Cumque intrasset arca Domini in civitatem David, Michol, filia Saul, prospiciens per fenestram, vidit regem David subsilientem, atque saltantem coram Domino: et despexit eum in corde suo” (“Entrata l’arca del Signore nella città di David, Micòl, figlia di Saul, guardando dalla finestra, vide il re David che ballava e saltava davanti al Signore; e in cuor suo lo disprezzò”: Liber Regnum secundus, VI, 16). 3 Ibid., VI, 23. 4 Cfr. v. 93. Ha giustamente notato il Bosco che “l’ultima battuta dell’imperatore […] si può dire domini tutto l’episodio: essa racchiude nella sua incisività il concetto che Dante aveva dell’Impero. […] il binomio «giustizia e pietà» costituisce in Pg XI 37 una perifrasi degna di Dio; il Paradiso stesso è detto «imperio giustissimo e pio» (Pd XXXII 117); del resto, giustizia e misericordia, come ha ricordato il Fallani, si susseguono immediatamente nel discorso di Gesù sulla montagna. Dante non esita a trasferire questi attributi essenziali all’imperatore”. (Cfr. U. Bosco, Introduzione … cit.). 5 Cfr. R. Roedel, Il Canto X … cit., p. 225.

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Su questo passo concorda il Reggio e in genere tutti i critici:

“La giustizia gli impone, come imperatore, di assolvere il suo dovere, la pietà lo trattiene, come uomo, perché plachi il dolore di quella madre facendo giustizia. L’epigrafica sentenza finale chiude l’episodio di Traiano, dando alla figura dell’imperatore un esemplare significato morale – politico”.1

Il terzo bassorilievo della serie è il più sorprendente, essendo il più parlato, costituito dall’incalzare

di contrastanti momenti di dialogo e dall’alternarsi degli stati d’animo; Dante dichiara

esplicitamente che si tratta dell’opera di Dio:

Colui che mai non vide cosa nova produsse esto visibile parlare,

novello a noi perché qui non si trova.

(vv. 94-96)

Gli esempi di umiltà premiata formano una gradinata meravigliosa di complicazione tecnica e

psicologica, ma lo sguardo dei due poeti viene distolto dalla lenta processione della massa di

superbi. Essi avanzano lentamente, schiacciati a terra da enormi massi, girando carponi per la

cornice e Dante li distingue a fatica, tanto sono rannicchiati nel doloroso viluppo in cui uomo e

masso si confondono nella patetica immagine delle cariatidi che sostengono un solaio o un tetto.

Il contrasto tra la meraviglia delle divine sculture e la misera condizione di chi è tenuto ad espiare le

proprie disposizioni peccaminose è davvero drastico e il pellegrino ne rimane profondamente

sconvolto:

Io cominciai: "Maestro, quel ch'io veggio muovere a noi, non mi sembian persone,

e non so che, sì nel veder vaneggio".

(vv. 112-114)

La contemplazione dei superbi diventa in Dante fonte di meditazione e ammonimento, il quale

cerca di trarre da quella visione tutto l’insegnamento possibile e spontaneamente prorompe in una

delle sue apostrofi al lettore che “in ogni cantica intervengono a sottolineare momenti di particolare

importanza, luoghi specialmente difficili e profondi”.2

                                                            1 Cfr. G. Reggio, commento al v. 93, in Purgatorio, Canto X, cit. 2 Cfr. H. Gmelin, Il canto X del Purgatorio, in “Letture dantesche”, a cura di G. Getto, Bologna, Tip. Luigi Parma (per conto di Sansoni – Firenze), 1964, p. 879.

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Anche questa visione, però, viene interrotta e animata da un doppio cambiamento di

contemplazione soggettiva e di visuale da un lato, da un’apostrofe ed un’esclamazione morale di

Dante dall’altro, cui segue l’immagine finale delle cariatidi.

Come per sostentar solaio o tetto, per mensola talvolta una figura

si vede giugner le ginocchia al petto,

(vv. 130-132)

Dante non riesce a comprendere sin da subito cosa siano quelle strane figure che avanzano: a prima

vista non gli sembrano persone, figure umane; non sa e non comprende cosa possano essere, tanto

risulta vano il suo vedere. In realtà queste anime che camminano curve sotto gravi massi, da

lontano, non sono individuabili come tali; infatti, secondo il Parronchi,1 la difficoltà di distinguere

dipenderebbe dalla prospettiva.

La dura legge del contrappasso, che ha regolato la divisione morale dell’Inferno, vige anche nel

Purgatorio, con la sola differenza che qui la pena è limitata nel tempo, a conforto di un Dante

angosciato e sbigottito dalla disumana sofferenza di queste anime distrutte dallo sforzo.2

A questo punto la descrizione si interrompe nuovamente, per lasciare il posto ad un’ulteriore

apostrofe a tutta l’umanità, un’esortazione contro la superbia umana.

Nell’ultima parte del canto, infatti, Dante inveisce contro l’orgoglio degli uomini, esortandoli alla

modestia e all’umiltà: proprio da queste virtù nascono i meriti che trasformano i poveri “vermi”

umani in angeliche “farfalle”.3 Secondo la similitudine dei vermi, infatti, gli uomini sono superbi,

eppure sono quasi insetti ancora incompleti, così come i vermi che non hanno ancora raggiunto il

loro sviluppo totale.                                                             1 Citato dal Tateo, “L’Alighieri”, VII, (1966), 1, p. 62. 2 Non vo’ però, lettor, che tu ti smaghi / di buon proponimento per udire / come Dio vuol che ‘l debito si paghi. / Non attender la forma del martìre: / pensa la succession; pensa ch’al peggio / oltre la gran sentenza non può ire. Spiega il Reggio: “di fronte alla dura pena dei superbi, Dante si rivolge nuovamente al lettore per invitarlo a non lasciarsi distogliere dai buoni proponimenti, disanimandosi nel vedere la severità delle pene, con cui le anime espiano le proprie colpe. In realtà ci saranno pene ben più dolorose di queste dei superbi […] ma l’ammonimento al lettore si comprende, perché qui siamo di fronte alla prima pena del Purgatorio; o forse anche perché il peccato di superbia è considerato gravissimo da Dante […] o forse perché era il suo peccato principale”. (Cfr. commento ai vv. 106-111, in Purgatorio, Canto X, cit.). Probabilmente, se accettiamo l’ultimo motivo proposto dal Reggio, l’ammonimento al lettore maschera un tentativo di auto consolazione. 3 L’apostrofe all’umanità è tutta “dominata dall’immagine della farfalla, perenne simbolo dell’anima che esce dalle parvenze mondane per elevarsi alle bellezze del cielo; un’immagine che evoca nello stesso tempo quella del verme, simbolo di tutte le imperfezioni della vita terrena e del peccato originale” (cfr. H. Gmelin, Il canto X … cit., p. 879).

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O superbi cristian, miseri lassi, che, de la vista de la mente infermi,

fidanza avete ne' retrosi passi,

non v'accorgete voi che noi siam vermi nati a formar l'angelica farfalla,

che vola a la giustizia sanza schermi?

Di che l'animo vostro in alto galla, poi siete quasi antomata in difetto,

sì come vermo in cui formazion falla?1

(vv. 121-129)

Di fronte alla grave pena dei superbi, Dante apostrofa i superbi cristian con severe parole (cosa che

non avverrà più per gli altri peccatori), chiedendosi con stupore e non senza un pizzico di ironia,

come essi possano dimenticare la vanità dell’orgoglio terreno, dal momento che, dinanzi al Giudice

supremo, andrà l’anima sola sanza schermi.

La dittologia miseri lassi appare anche in Inf., XXXII, 21 e ciò distoglie dal volerla scindere nei

suoi due termini, attribuendo a ciascuno di questi un valore preciso e differenziato; ma soprattutto

distoglie dall’immaginare un Dante, anch’egli superbo, che commisera i suoi compagni di peccato.

Semplicemente egli prova compassione per i superbi, come per tutte le anime del Purgatorio (anche

se, probabilmente, in misura maggiore dato il suo diretto coinvolgimento sentimentale).2

Il canto, però, non si chiude su questo ammonimento e Dante ritorna alla contemplazione della pena

dei superbi con un sentimento di profondissima pietà che rivela tutta la sua partecipazione emotiva.

Come si è potuto notare, in questo canto spicca, oltre all’elemento morale (l’applicazione della

legge del contrappasso per contrasto e la riflessione dantesca in materia), e stupisce, quello artistico.

Risulta molto interessante, infatti, la descrizione delle sculture in cui Dante immagina un’arte

talmente alta e divina da superare la stessa realtà naturale (e ciò si accorda col principio estetico

della verosimiglianza, in quanto le sculture illudono i sensi e appaiono più vere della realtà).3

                                                            1 L’immagine del verme è frequente nella Sacra Scrittura: “Omnes homines, de carne nascentes, quid sunt nisi vermes? Et de vermibus [Deus] angelos facit” (cfr. S. Agostino, In epistulam Iohannis ad Parthos tractatus, I, 12: “Tutti gli uomini nati dalla carne, che sono se non vermi? E dai vermi Dio fa angeli”). L’immagine della farfalla nasce spontaneamente da quella del verme; l’uomo, nella sua imperfezione, è simile all’insetto, al bruco, che si trasforma in farfalla: una metamorfosi dall’imperfezione alla perfezione (corpo – anima). 2 Cfr. anche Purg., XII, 70-72. 3 Non solo un sommo artista (Policleto), ma la natura stessa dovrebbe riconoscersi vinta dalla perfezione di quell’arte; e non va dimenticato che per Dante la Natura imita l’idea divina, l’arte imita la Natura (cfr. Inf., XI,

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Là su non eran mossi i piè nostri anco, quand’io conobbi quella ripa intorno

che dritto di salita aveva manco, esser di marmo candido e addorno d’intagli sì, che non pur Policleto,

ma la natura lì avrebbe scorno.

(vv. 28-33)

Come è stato anticipato invece, nella seconda parte del canto il poeta sposta il suo interesse

all’aspetto morale del peccato di superbia, nel quale riconosce oltretutto un peccato stupido.1

L’esaltazione dell’umiltà e la condanna della superbia negli altorilievi marmorei, inducono Dante a

meditare sulla vana gloria dell’umane posse, secondo il costume del Medioevo, caratterizzato

soprattutto dalle aspirazioni al misticismo. L’eccezionale viaggio che sta compiendo da vivo, è

indirizzato alla penitenza e al dolore: egli è ben consapevole di essere uno dei tanti “vermi” costretti

dalla superbia ad una lenta e faticosa rigenerazione da cui si formerà l’“angelica farfalla”, ma non

può nascondere l’ammirazione per quell’arte che è proprio figlia dell’ingegno umano.

Nel riconoscere la sublime bellezza dell’arte però, non si accorge di essere sollecitato proprio da

quella vanità che nella prima cornice del Purgatorio dovrebbe essere totalmente condannata.

In realtà, è esattamente in questa inavvertita contraddizione che sta il vero fondamento poetico del

canto: ascesi spirituale e lusinghe mondane convivono nell’animo del pellegrino che, nel momento

stesso in cui condanna la vacua boria degli uomini, si lascia attrarre dalle manifestazioni della loro

intelligenza.2

                                                                                                                                                                                                     99-100 e 104). Non solo l’arte, quindi, è inferiore, ma la natura stessa che è figlia di Dio, dato che le sculture sono opera diretta di Dio. 1 La superbia è per Dante la più grave delle propensioni peccaminose alle quali l’uomo può soggiacere, e forse è proprio questo il motivo per cui nell’Inferno non ha sede propria, essendo all’origine o componente di quasi tutti gli altri peccati. Per questo motivo Dante la colloca nella prima cornice, la più lontana dal Paradiso; ai superbi, inoltre, egli dedica nel Purgatorio uno spazio maggiore che a tutti gli altri peccatori e gli esempi del vizio punito (che negli altri gironi sono due o tre, salvo che in quello dell’avarizia, che ne ha sette) sono ben tredici, come si vedrà nell’analisi del canto XII; tutte prove del particolare interesse dantesco nei confronti di tale vizio, della sua complessità e articolazione. Ha giustamente notato il Bosco che “tutto ci parla dunque dell’impegno morale – letterario con cui Dante affronta questo tema; e ciò è assai naturale, perché la superbia è il peccato di cui egli esplicitamente si confesserà più macchiato […]”. (Cfr. U. Bosco, Introduzione al Canto X, cit.). 2 Occorre notare che la superbia del Dante uomo non rientra esattamente nella definizione di questo peccato (cfr. Purg., XVII, 112-114). Egli infatti, per dirlo col Porena, non desiderò di mettere in basso gli altri: aveva altissima coscienza del suo valore, era persuaso della sua eccellenza sugli altri (non bisogna inoltre dimenticare che l’aspetto intellettuale della superbia era da lui considerato il più pericoloso), “ma da questo

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La reazione immediata del poeta, infatti, davanti alla scena dei superbi che avanzano distrutti dal

dolore e dalla fatica in un miserabile groviglio in cui persona e sasso si confondono, è di sincera

compassione per l’atroce punizione, come traspare dai versi conclusivi:

e qual più pazïenza avea ne li atti piangendo parea dicer: “Più non posso”

(vv. 138-139)

i quali commentano la condizione di colui che sembrava maggiormente soffrire (o che sembrava

avere più pazienza, su questo passo gli interpreti sono discordi) nell’atteggiamento e che sembrava

dire, appunto, “non ne posso più”.1

Mi sembra molto interessante l’osservazione del Gmelin sulla chiusura del canto:

“[…] non pago di questa esaltazione visibile della virtù dell’umiltà e delle ammonizioni che ne risultano, [Dante] ha saputo dare anche alla sua misericordia per i penitenti, particolarmente viva di sentimenti personali in questo cerchio, un carattere oggettivo nell’immagine delle cariatidi, evocando il loro effetto nell’animo del contemplante con un verso finale di bellissima semplicità: Piangendo parea dicer: «Più non posso»”.2

Appare chiaro che in questa cornice, nonostante l’uniformità della pena, esiste una sottile

gradazione, in quanto i superbi eran contratti più o meno, secondo che avien a dosso più o meno,

cioè portano sulle spalle pesi diversi, in proporzione alla gravità della colpa.3

Alla compassione subentra però, in un secondo momento, quella riflessione da cui scaturisce la

consapevolezza della giustizia divina e la serena (seppur rassegnata, proprio perché inevitabile)

accettazione del sommo volere.

Esplicita è infine la severa condanna per l’umana superbia, che rintocca vigorosa attraverso

l’apostrofe lanciata ai superbi cristian: plebe e potenti, senza distinzione, sono umiliati nella stessa

miserabile immagine del verme che striscia, lontano dalle gioie del volo riservate all’angelica

farfalla.                                                                                                                                                                                                      genere di superbia lo aveva salvato, come dirà ampiamente nel canto successivo, la meditazione sulla fragilità della gloria umana” (cfr. U. Bosco, Introduzione … cit.). 1 Le due interpretazioni dipendono dal senso che si attribuisce a pazienza. La maggior parte dei commentatori antichi (seguiti da molti moderni) intende: “chi sembrava nell’aspetto (ne li atti) sopportare con più pazienza il proprio peso”, cioè colui che meglio sopportava era tuttavia al limite delle sue capacità di sopportazione. Generalmente si ritiene che questa sia la “migliore interpretazione, perché sottolinea la rassegnazione di alcune anime, distinguendo una diversa sfumatura psicologica tra espiante ed espiante” (Cfr. G. Reggio, commento ai vv. 138-139, in Purgatorio, Canto X, cit.). 2 Cfr. H. Gmelin, Il canto X … cit., pp. 879-880. 3 Si veda anche Purg., XI, 28: disparmente angosciate.

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Se la superbia di tipo intellettuale, la quale si esercita nei confronti degli altri uomini, è considerata

da Dante la più pericolosa, quel che più lo atterrisce (forse proprio in relazione alla coscienza che

egli aveva della propria eccellenza artistica) è invece la superbia verso Dio, il pericolo costituito

dall’andar troppo oltre nella sua esigenza di conoscenza, come il suo Ulisse, e dal conseguente far

retrosi passi (v. 123). Quanto più si è in alto, tanto più si deve aver coscienza della propria

piccolezza: ecco perché i tre esempi di umiltà superiore scolpiti sullo zoccolo della parete

concernono Maria, re David e infine Traiano.1

Come è stato più volte anticipato, il canto si chiude con la terribile immagine delle cariatidi

schiacciate dal peso dei solai, che lascia il lettore (e lo stesso poeta) in preda alla disperazione,

all’angoscioso affanno provocato da quella figura che non ha più niente di umano, schiacciata

com’è sotto il peso che le fa giunger le ginocchia al petto.

Più di un interprete2 ha segnalato il valore di distacco, quasi di pausa contemplatrice (e

rasserenante) di questo canto, espresso con tale delicatezza di toni in una nuova atmosfera che

sembra sospesa tra assorto ed estatico. Alcuni, invece, hanno addirittura definito il canto X del

Purgatorio come “minore”, sia per tono che per argomento.3

Personalmente ritengo più calzante e convincente l’opinione del Roffarè secondo cui

“proprio la singolarità del clima spirituale di questo X canto [può] essere colta con più immediatezza […] se si tenga conto dei suoi valori poetici, quali appunto ci si rivelano nella loro evidenza, in grazia proprio del tono disteso, del minor sottofondo di impegno allegorico o dottrinale del canto stesso, per mezzo […] della sua esemplare chiarezza, ma tiepidamente, quasi pudicamente, composta in segno di visione o rivelazione […]”. L’immagine con cui si chiude il canto quindi, apparirà più “dolorosa e impressionante” proprio perché questi superbi sono la più “palese dimostrazione di una condizione di pena che si esibisce […] nell’assoluta chiarità dell’aria”, davanti ad un Dante fino a quel momento incantato dalla bellezza delle sculture.4

                                                            1 Maria sarà detta, in Par., XXXIII, 2, “umile e alta più che creatura”. S. Bonaventura nello Speculum Mariae Virginis aveva detto che Maria è l‘incarnazione di tutte le virtù opposte ai vizi capitali e Dante fa cominciare appunto da lei ogni gruppo di esempi di virtù; David, ballando popolarescamente in gloria di Dio era “più e men che re” (cfr. Purg., X, 66), meno agli occhi degli uomini, più perché umiliandosi aveva integrato la nobiltà propria del re con la necessaria componente dell‘umiltà rispetto a Dio; l’imperatore Traiano, umile dinanzi ad una donnetta e proprio per questo più alto che mai. L’importanza della guerra è in contrapposizione alla tenuità del fatto personale della madre che chiede giustizia, ma Dante ci dice che la giustizia, posta di per sé nel più alto dei gradini, non può essere collocata in alcuna scala d’importanza. David e Traiano risultano così appaiati nella fantasia di Dante, che stanno insieme, uno subito dopo l’altro, anche tra i “sommi” degli spiriti giusti e pii che costituiscono l’Aquila del cielo di Giove (cfr. Par., XX, 31-48). 2 Tra tutti il Fallani, cfr. Lettura del canto X del Purgatorio (Casa di Dante), Roma, Signorelli, 1953. 3 Si veda, ad esempio, M. Chini, Il canto X del Purgatorio (Casa di Dante), Firenze, Sansoni, 1928. 4 Cfr. F. T. Roffarè, Il canto X del Purgatorio (Lectura Dantis Scaligera), Firenze, Le Monnier, 1964, p. 6.

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§ 2. Il canto XI del Purgatorio Un avvio davvero inatteso, questo del canto XI, dopo la conclusione del canto precedente che,

descrivendo la sofferenza della pena inflitta, sembrava aprire la strada ad un imminente incontro dei

poeti con quelle anime. E invece questo incontro prenderà avvio soltanto al v. 37, dopo una

prolungata riflessione di Dante: apre il canto il rifacimento dantesco del «Padre Nostro» che si

dispiega, solenne, per ben otto terzine.

Con quella concordia mai conosciuta in vita, le anime dei superbi recitano in pace e comunione il

Pater Noster. Questa preghiera domenicale insegnata agli uomini dallo stesso Cristo, seppur

nell’ampia parafrasi dantesca, ripete fedelmente il testo evangelico. Molti critici sostengono che

presenti un’andatura lenta e noiosa1 (opinione, questa, che può essere condivisa ma non accettata in

quanto critica, dato che proprio lentezza e monotonia ben si confanno a queste anime!); per altri

invece è un capolavoro, uno squarcio lirico degno di nota.2

A mio avviso, è ben fondata l’opinione del Durante, secondo cui la preghiera dantesca raccoglie

solo l’ossatura della lezione accolta nella liturgia della Chiesa e che

“viene ora montata in una scansione lirico – esegetica affatto originale, e sembra trovare giustificazione, appunto, in un quadro ben più articolato. La sua sistemazione non può, infatti, essere accidentale, fortuita, posta com’è ad apertura del cammino purgatoriale […] essa supera gli angusti confini della prima cornice, per diventare l’implorazione di tutte le anime. […] Viene così prospettandosi un lungo itinerarium ad Deum che troverà nella preghiera alla Vergine una nuova decisiva tappa […] visto che il canto a Maria altro non è, nelle intenzioni del poeta, che il canto all’amore di Dio, alla sua paternità, alla sua grazia, realizzatasi appieno in una Creatura, prototipo di tutta l’umanità «nuova», modello di fede, di carità, di umiltà”.3

                                                            1 Non mancano posizioni estreme come quella del D’Ovidio, secondo il quale queste otto terzine andrebbero relegate tra gli “scarti” della Commedia, in quanto le “interpolazioni troppo dotte” toglierebbero il “sublime candore” alla semplicità della preghiera. (Cfr. F. D’Ovidio, Nuovi studi danteschi, Vol. I, Napoli, Guida, 1932, p. 297). A queste parole segue la critica, quasi tutta demolitrice, della preghiera dei superbi. Tale giudizio negativo fu accettato dal Parodi (cfr. “Bullettino della Società Dantesca Italiana”, XIV, p. 172; XXIII, p.43). Nota a riguardo il Bosco che in generale si è sempre accettato il paragone tra il testo dantesco e l’evangelico, ma “è proprio questo paragone che va assolutamente respinto: Dante non pensò minimamente ad entrare in gara col Vangelo (il che tra l’altro sarebbe sembrato supremamente sacrilego […] ) e quindi a noi non compete sentenziare sull’esito d’una gara inesistente. Dante voleva invece attuare un esperimento d’arte, come altrove ne attua altri di diverso genere: volle dare un saggio di quella «specie di genere letterario» tra «dottrinale e retorico» allora «di moda» (Parodi), consistente appunto nella parafrasi e farcitura di testi sacri […]”. (Cfr. U. Bosco, Introduzione al Canto XI, in La Divina Commedia, Purgatorio, cit.). Particolarmente interessante è il commento del Landino: “Questa oratione benché a ciaschuno si confaccia, nientedimeno è molto apta a chi vuole lasciare la superbia. […] Adunque per questa oratione dominicale confessa el suo errore […] Et inverso el proximo s’ahumilia chiedendo a Dio la rimission de’ sua debiti, […] Et finalmente […] chiede a Dio, che non lo induca nella tentazione, dove confessa la sua imbecillità et fragilità, […]”. (Cfr. Comento sopra la “Comedia”, cit., to. III, pp.1215-1216; le pagine seguenti espongono in modo accurato l’analisi dell’intera preghiera, a cui si rimanda per un ulteriore approfondimento). 2 Il Pietrobono e il Grabher hanno difeso, insieme col valore psicologico, anche quello poetico del commento che le anime dei superbi fanno alla preghiera domenicale. 3 Cfr. M. Durante, Sul Canto XI del Purgatorio, in “Studi Danteschi”, LXVIII, (2003), p. 50.

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Questa scelta metodologica riflette l’ansia di Dante di confessare la sua fede nella comunione tra

vivi ed espianti, in vista della comune redenzione nella carità, considerata

“uno dei temi più rischiosi dal punto di vista della discussione teologica, su cui si fonda l’impalcatura del Purgatorio”. Nella preghiera quindi, Dante riunisce le petizioni della “Chiesa sofferente nell’espiazione, sia quelle della Chiesa peregrinante lungo le strade del mondo”.1

Nel Pater Noster, infatti, viene condiviso il dolore di tutti, ma anche la speranza e l’ansia di

redimersi.

La natura stessa della superbia porta gli uomini verso l’isolamento e l’egocentrismo, mentre la

coralità di questa preghiera è già un passo verso l’umiltà e l’abnegazione del proprio tronfio ego.2

Il rifacimento dantesco, nella sua trasformazione poetica e, soprattutto, nelle sue amplificazioni,

diventa una preghiera “di situazione” che si addice specificamente ai superbi e apre il canto senza

preavviso: ne deriva un effetto a sorpresa che cattura l’attenzione del lettore con la sua sublime

bellezza lirica e la focalizza sulle brevi meditazioni morali che affiancano ogni versetto del testo

evangelico, meditazioni che nascono evidentemente dall’animo di un superbo pentito e alla ricerca

di redenzione.

Mi sembra legittimamente fondato affermare che il tema fondamentale di questo canto XI sia la

contrizione del superbo e il suo riconoscere da un lato, la propria cecità e dall’altro, l’assoluta

necessità dell’umiltà: tutta la preghiera è detta insieme per i vivi e per i morti, senza bisogno di

cavillose distinzioni e, per dirla con la Chiavacci Leonardi,3 è proprio su questa grande comunione

tra terra e cielo, sul “rapporto scambievole di amore e soccorso” che Dante ha fondato il suo

Purgatorio, a riscatto dell’anima sua e di tutta l’umanità, come traspare chiaramente dalla forte,

seppur triste, consapevolezza delle parole recitate.

Una terzina dell’orazione si rivela, a mio avviso, particolarmente interessante e significativa.

Venga ver’ noi la pace del tuo regno, ché noi ad essa non potem da noi,

s’ella non vien, con tutto nostro ingegno.

(vv. 7-9)

                                                            1 Ibid., p. 51. 2 Ha sottolineato il De Sanctis che “L’odio è solitario; l’amore è simpatia e armonia; la musica e il canto conseguono i loro effetti nella misurata varietà delle voci e degli strumenti. Qui le anime sono esseri musicali, che escono dalla loro coscienza individuale, assorte in uno stesso spirito di carità”. (Cfr. F. De Sanctis, Storia della letteratura italiana, a cura di N. Gallo, introduzione di N. Sapegno, Torino, Einaudi, 19752, vol. I, p. 245). 3 Cfr. Introduzione al Canto XI, in D. Alighieri, Purgatorio, con il commento di A. M. Chiavacci Leonardi, Milano, Mondadori, 1994.

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Ingegno è, nella concezione dantesca, la parola chiave della superbia: è l’ingegno che ispira la

superbia e, viceversa, la superbia spinge l’ingegno a superare costantemente i propri limiti.

L’incontro infernale del pellegrino con il suo Ulisse mi sembra sintomatico da questo punto di vista:

trovatosi di fronte ad un uomo tanto superbo quanto dotato d’ingegno, del quale ha ascoltato con

animo attento alla lezione il racconto, Dante deve sforzarsi per esortare se stesso a frenare il proprio

ingegno. Riconosciutane la pericolosità nel suo libero vagare senza un virtuoso freno, deve fare in

modo di non identificarsi troppo con lui e con il comune progenitore, virtualmente uniti da quel

trapassar del segno.

Ecco perché i superbi di questa prima cornice devono innanzitutto ammettere i limiti del proprio

ingegno in quanto esso, da solo, non può salvarli.

È esattamente su questo motivo che si fonda la struttura portante della Commedia, storia dell’uomo

Dante il quale, incapace di salvarsi con le proprie sole forze, giunge all’eterna gioia della visione di

Dio solamente in virtù dell’aiuto che gli viene benevolmente concesso dall’alto.

La Chiavacci Leonardi ha osservato che i vv. 8-9 più di ogni altro esprimono il senso delle

amplificazioni dantesche alla preghiera liturgica, ossia “l’applicazione della preghiera all’animo del

superbo pentito”.1

La voce che scende da questa prima cornice a vantaggio degli uomini è, appunto, di pace e perdono,

è un corale augurio e segno di umana sollecitudine. La chiave per il conseguimento della felicità

terrena è costituita, infatti, da pace e perdono: è questo il dono che tali primi eletti fanno agli uomini

(come Dante stesso dice in altri luoghi),2 quella caritas che qui le anime acquisiscono per la prima

volta e che si contrappone alla cupiditas.3

È interessante l’osservazione che fa il Vallone in proposito:

“La preghiera con cui si apre il Canto vuole proprio impostare questo tono di pace e perdono, di fiducia e di meditazione, e va guardata non in se stessa, isolata dal Canto, ma in questo immessa ad interpretazione della nuova natura delle anime e dei più leggiadri modi espressivi”.4

                                                            1 “Quel non potem da noi riconosce l’insufficienza dell’uomo, anche se spende tutte le sue risorse (con tutto nostro ingegno), a raggiungere ciò che è il suo massimo bene. Questo pensiero è radicato in Dante, e tocca la realtà più profonda della sua storia interiore è […]”. Si veda a riguardo Se per questo cieco / carcere vai per altezza d’ingegno … (Inf., X, 58-59) e la risposta Da me stesso non vegno (v.61), oltre al già citato esempio del naufragio di Ulisse. (Cfr. A. M. Chiavacci Leonardi, commento a Purg., XI, 8-9, cit.). 2 Cfr. Convivio, IV, IV, 4; De Monarchia, I, IV, 2 e ss. “Et quia quemadmodum est in parte sic est in toto, ei in homine particolari contingit quod sedendo et quiescendo prudentia et sapientia ispe perficitur, patet quod genus humanum in quiete sine tranquillitate pacis ad proprium suum opus, quod fere divinum est iuxta illud «minuisti eum paulo minus ab angelis», liberrime atque facillime se habet. Unde manifestum est quod pax universalis est optimum eorum que ad nostram beatitudinem ordinantur”. 3 Cfr. De Monarchia, I, XI, 14: “Cupiditas namque, perseitate hominum spreta, querit alia; caritas vero, spretis aliis omnibus, quei Deum et nomine, et per consequens bonum hominis”. 4 Cfr. A. Vallone, Il Canto XI del Purgatorio, in Lectura Dantis Romana, Torino, S.E.I, 1961, p. 7 e ss.

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E il Rossi, secondo cui nel Pater Noster ci sono “tre parole intorno alle quali scaturisce su dal fondo

dell’anima dantesca un’onda di vera poesia”.1 La solennità della preghiera si accompagna al lento e

gravoso procedere delle anime e la loro modestia ben si confà alla monotonia del paesaggio.

Rompe questa monotonia un verso, che contribuisce a spegnere gli accenti gravi e solenni della

preghiera: simile a quel che talvolta si sogna (v. 27). Da questo punto il linguaggio si fa inquieto,

teso, atto a rendere esplicito l’affanno (fisico e morale) delle anime; il verso in questione crea

un’atmosfera diversa dalla precedente, quasi “di allucinazione, un senso come di oppressione

ossessiva”.2

Al verso successivo si incontra un attributo interessante: angosciate.

Non ritengo sia arbitrario affermare che tale definizione dei superbi oppressi sotto il sasso rechi

notevoli sfumature morali e psicologiche, oltre al consueto significato di pena fisica. A confermare

questa ipotesi, oltre al complessivo tono stanco e anelante dei vv. 25-30, intervengono le

impressioni degli antichi interpreti dato che, come ha giustamente notato il Bertelli, probabilmente i

critici e i lettori moderni non riescono “più a percepire con la stessa intensità dei contemporanei”3

questo senso di oppressione.

In proposito mi sembra opportuno riportare il parere del Maggini, il quale se da un lato invita a

diffidare delle moderne interpretazioni, ribadendo che la parola angoscia in Dante

“si riferisce […] soprattutto, alla sensazione fisica di affanno o difficoltà di respiro, secondo il significato etimologico (dal latino angustia) […] un travaglio fisico, prodotto o no da cause morali, ma sempre consistente in un senso di oppressione”,

dall’altro ritiene che il vocabolo “a Dante servì assai bene per esprimere il duplice aspetto, fisico e

morale, del dolore”.4

                                                                                                                                                                                                     Continua il critico: “Isolarla è non intenderla nel suo ufficio e nella sua unità. […] Dante ha qui messo a dura prova il suo ingegno e la sua ispirazione […]. Perché la preghiera qui in Dante vuole essere meditazione, commento sentimentale dello stato umano peraltro naturale a quell’anime in attesa, dolce rifugio nella carità del Padre. E il Poeta ci dà la poesia della mitezza, l’elegia dell’abbandono, il sublime dell’umiltà” (ibid.). 1 Cfr. V. Rossi, L’undicesimo canto del Purgatorio, in Saggi e discorsi su Dante, Firenze, 1930, p. 208. “Anche al D’Ovidio pare che nel primo verso della terzina sia «felicemente resa esplicita l’idea di pace sottintesa nel testo»; ma egli condanna come una zeppa il secondo verso, e […] il terzo, nei quali io sento invece la confessione angosciosa della insufficienza umana, l’anelito verso la pace implorata” (ibid.). 2 Cfr. I. Bertelli, Il Canto XI del «Purgatorio», in Lectura Dantis Scaligera, Firenze, Le Monnier, 1964, p. 14. 3 Ibid. Nota il Lana: “qui’ pesi erano in apparenza simelli de qui’ che molte fiate apparno a le persone in sonio e spezialmente ai melinconici”; più significativo è il passo di Benvenuto: “Est notandum quoddam genus morbi naturalis accidens homini in nocte, in somnio, quia videtur ei, ut audio ab expertis, quod habeat totum mundum super se, et videtur suffocari sub nimio pondere: et vocatur a physicis incubus”; simile a quello di Francesco da Buti: “imperò che l’omo sogna spesse volte avere grande peso addosso, et hae grande angoscia, massimamente quando l’omo dorme […] sì che pare a l’omo avere tutto ‘l mondo addosso”. L’interpretazione più accattivante è però offerta dall’Anonimo Fiorentino: “Incubi, secondo che scrive santo Isidoro […] sono spiriti i quali alcuna volta in forma d’uomini giacciono con femmine […] et spesse voltesi gettono addosso ad alcuno che giaccia supino, et aggravonsi sì che pare che l’uomo affoghi di questo peso”. 4 Cfr. F. Maggini, Angoscia, in “Studi danteschi”, XV, (1931), pp. 73-74.

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Il Bertelli, infine, non escluderebbe “del tutto un vago significato psicologico” in quanto le anime

sembrano “angosciate non solamente dal macigno, ma dal rimorso, dal loro cuore inquieto di

penitenti che aspirano a riposare nella pace di Dio”.1

In definitiva, nonostante qualche aggiunta teologica forse non strettamente necessaria, non ritengo

che questa preghiera possa essere considerata un elemento poco più che decorativo o una mera

concessione dantesca al gusto del suo tempo. Al contrario, sembra esprimere a pieno la sofferenza

dell’uomo che, nella consapevolezza della propria fragilità e insignificanza, implora l’aiuto di Dio.

In essa, infatti, il Pernicone ha visto

“[…] l’esplicita testimonianza del carattere di mortificazione, di espiazione, che la preghiera vuol assumere nelle parole di quelle anime, che ormai non vedono più la loro specifica superbia, ma la superbia, il peccato, «la caligine del mondo», il danno di tutti gli uomini; e lo spirito di carità che ora le muove, fa che esse, che in terra non si curarono del prossimo, ora si preoccupino, preghino per il prossimo”.2

Forse risulterà meno efficace della preghiera originale, ma sicuramente appare più chiara nel palese

rinnegamento di ogni sentimento di vanagloria, assolutamente opportuna trattandosi di anime che in

vita non accettarono mai le opinioni altrui, né si “abbassarono” ad azioni e manifestazioni corali.3

Tutti i commentatori, antichi e moderni, hanno riconosciuto infatti che Dante

“ebbe felicissimo intuito psicologico e poetico nel porre proprio sulle labbra dei superbi l’umile orazione della fiducia, dell’abbandono in Dio, facendola accompagnare da un commento insistente e dolente, quale poteva essere fatto da quelle anime mortificate e rese consapevoli dalla meditazione”.4

Altrettanto corale è la risposta dei superbi alla domanda di Virgilio, la quale esprime identità di

sentimenti e zelo di carità, in netta contrapposizione con l’amore per il contrasto, il trionfo

dell’egoismo che caratterizzarono queste anime da vive. Il poeta tiene particolarmente a sottolineare

l’anonimità di questa risposta:

Le lor parole, che rendero a queste che dette avea colui cu’ io seguiva, non fur da cui venisser manifeste;

(vv. 46-48)

                                                            1 Cfr. I. Bertelli, Il Canto XI … cit., p. 16. Il critico nota, inoltre, che l’immagine utilizzata da Dante in questo paragone è “un preciso richiamo «librario» all’alta tradizione stilistica del suo Virgilio” (cfr. Eneide, XII, 908-912), ivi, p. 17. 2 Cfr. V. Pernicone, Il canto XI del «Purgatorio», in ID., Studi danteschi e altri saggi, a cura di M. Dillon Wanke, introduzione di D. De Robertis, Genova, 1984, pp. 83-84. 3 Gli ex – superbi sentono come propri i bisogni di tutti, non distinguendo tra sé e gli altri; e se, come ha notato il Bosco, “distinguono per l’ultima petizione, ciò è perché il poeta è trascinato all’eccezione dall’intento che egli aveva, […], di proclamare l’obbligo della carità in opposizione alla superbia” (cfr. U. Bosco, Introduzione al Canto XI, cit.). 4 Cfr. V. Pernicone, Il canto XI … cit., p. 84.

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Come anticipato, i superbi non pregano per loro (o non solo almeno), in quanto non possono auto

suffragarsi, ma per i vivi e Dante fa notare questo atto di generosità invitando il lettore a non

dimenticare le anime del Purgatorio.1

Queste otto terzine, nonostante possano presentare evidenti separazioni interne, sembrano assumere

le caratteristiche di corpo unitario, inserito ad un certo punto della narrazione proprio per

interrompere l’azione avviata con il canto precedente e invitare il lettore ad una pausa riflessiva.

Infatti, il recupero dell’azione non è “indolore” e scuote il lettore dal precedente stato di estasi

meditativa in cui l’aveva spinto la sublime orazione: la domanda di Virgilio appare dunque del tutto

strumentale, in funzione di recuperare un tono narrativo dopo lo squarcio lirico.

Virgilio allora, attraverso la consueta forma della captatio benevolentiae, augura alle anime una

sollecita purificazione e chiede quale sia la via meno ripida che possa seguire chi, come Dante, è

impacciato dal peso del corpo e risente delle difficoltà del cammino.

La voce del singolo emerge e si stacca dalla massa solamente per implorare suffragi, ed è quella di

Omberto Aldobrandeschi2 a rispondere, il superbo senese morto proprio per l’arroganza che affligge

ancora il suo casato. Egli, nonostante la condanna della superbia, non rinuncia a ricordare la nobiltà

della sua stirpe e le illustri opere dei suoi antenati. In una breve nota anagrafica, Omberto ricorda

infatti la nobiltà del suo casato e la fama di suo padre, Guglielmo, giunta verisimilmente fino a

Dante.

Aggiunge che, insuperbito dall’antica nobiltà del sangue e dalle generose imprese dei suoi

maggiori, disprezzò tutti oltre ogni misura e proprio per questo morì a Campagnatico, come ben

sanno perfino i fanciulli: la superbia però, ha rovinato tutti gli Aldobrandeschi e ora egli si trova

qui, umiliato, per l’orgoglio smodato che ha nutrito da vivo.

Omberto si lascia quindi andare ad un monologo carico di una fierezza ormai avvilita che si protrae

(esattamente come il «Padre Nostro») per otto terzine, nella disperata ricerca della pietà altrui, che

lo aiuti ad elevarsi dalla misera condizione del contrappasso, in nome di quella comunione

anticipata dalla preghiera appena recitata.

                                                            1 Cfr. vv. 31-36: Se di là sempre ben per noi si dice, / di qua che dire e far per lor si puote / da quei c’hanno al voler buona radice? / Ben si de’ loro atar lavar le note / che portar quinci, s’ che, mondi e lievi, / possano uscire a le stellate ruote. Dante interrompe qui il racconto per meditare, appunto, su ciò che ha visto e sentito. 2 In genere si ritiene che Omberto facesse parte della famiglia ghibellina dei conti di Santafiora, ma occorre precisare che fin dal 1216 gli Aldobrandeschi si erano divisi in due rami: uno ebbe come capostipite il padre di Omberto, Guglielmo, che assunse il titolo di conte di Soana e di Pitigliano, mentre l’altro ebbe origine dal fratello di Guglielmo, Bonifazio, che fu il primo conte di Santafiora.

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Io fui latino e nato d’un gran Tosco: Guiglielmo Aldobrandesco fu mio padre; non so se ’l nome suo già mai fu vosco.

L’antico sangue e l’opere leggiadre d’i miei maggior mi fer sì arrogante,

che, non pensando a la comune madre, ogn’uomo ebbi in despetto tanto avante,

ch’io ne mori’, come i Sanesi sanno, e sallo in Campagnatico ogne fante.1

Io sono Omberto; e non pur a me danno superbia fa, ché tutti miei consorti

ha ella tratti seco nel malanno.

(vv. 58- 69)

Il monologo sembra proseguire all’insegna del contrasto (già notato nelle terzine precedenti) tra

orgoglio istintivo e volontà di combatterlo e mortificarlo: egli confessa la sua superbia e ne

riconosce il danno, ma non riesce a fare a meno di parlare altamente del padre suo, degli antenati,

dell’antichità nobiliare e delle loro gloriose imprese. A togliere fondamento alla sua ancor viva

arroganza, interviene il ricordo della madre comune (sia essa da intendere come Eva o la terra) cui

tutti gli uomini risalgono; a indicare la sorte che attende i superbi, invece, l’accenno alla sua morte

violenta, al danno che colpisce tutta la sua schiatta e alle atrocità dell’espiazione.

Il superbo prova grande rammarico per l’impedimento del masso, ma non si tratta assolutamente del

desiderio di alzare spavaldamente le testa come aveva fatto in vita: egli è afflitto perché vorrebbe

tanto fissare gli occhi in quelli di Dante il quale, per umiltà (si presume), non ha fatto conoscere il

proprio nome e commuoverlo, appunto per implorargli suffragi.

E s’io non fossi impedito dal sasso che la cervice mia superba doma,

onde portar convienmi il viso basso, cotesti, ch’ancor vive e non si noma,

guardere’ io, per veder s’i’ ’l conosco, e per farlo pietoso a questa soma.

(vv. 52-57)

                                                            1 Omberto è un esempio di grande superbia, punita anche in vita, in lui e in tutti i suoi consorti; una punizione clamorosa, le cui modalità si ricordano ancora dopo più di quarant’anni dalla morte (avvenuta nel 1259). Della morte si hanno due versioni discordanti, ma entrambe credibili sul piano documentario: secondo l’una Omberto sarebbe stato ucciso nel sonno da sicari senesi (per quanto riporta un autorevole cronista senese, Angelo Dei); secondo l’altra sarebbe caduto onoratamente in battaglia, come riporta un anonimo del XV secolo, il quale attinse a fonti antiche. In ogni caso, la morte del feudatario non è rappresentata da Dante come eroica, essendo egli tutto assorbito dall’esemplarità della punizione.

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Molti commentatori hanno sottolineato come in queste due terzine combattano tra loro l’abito della

superbia e la nuova volontà di umiliarla, tra tutti il Pernicone e il Sapegno.1

Così commenta il Rossi2 il v. 53: “sale dapprima con baldanza, e poi sotto il peso di quel doma, che

pare un altro sasso aggiunto a schiacciare la cervice superba, muore in un nodo ritmico che stringe

insieme due immagini contrastanti, superba e doma”. L’insistere sulla gravezza del peso, infatti,

diventa espressione di volontaria mortificazione.

Scandisce, invece, a chiare lettere il suo lo spirito espiante, dopo l’altisonante annuncio che celebra

i fasti del casato: nato d’un gran tosco / Guglielmo Aldobrandesco fu mio padre.

E sembra compiacersi nella lunga sequenza del nome paterno, che occupa quasi interamente

l’endecasillabo e gli conferisce un andamento grave, solenne, si direbbe fiero e spavaldo. Anche

l’attributo “gran” suona male in bocca ad un superbo in attesa di redenzione, ma probabilmente in

questo caso non ha valore elogiativo e andrebbe piuttosto inteso nel suo significato tecnico di

“signore feudale” o almeno “di nobile casata”.

Molti critici,3 come abbiamo anticipato, colgono in questi versi il conflitto ancora esistente

nell’animo di Omberto, tra l’antica alterigia nobiliare e la volontà attuale di combatterla e umiliarla.

Altri (il Vallone, in testa) vedono in queste parole un atteggiamento di umiltà, in quanto sono dette

“dal nobile intransigente a mortificazione maggiore, ad accusa di se stesso”.4

Ad avvalorare questa seconda interpretazione influirebbe l’uso del passato “io fui latino” in

opposizione col presente “io sono Omberto” del v. 67, ma si tratta di un modulo molto caro a Dante

(si veda ad esempio “io fui di Montefeltro, io son Bonconte” in Purg., V, 88; “Cesare fui e son

Iustiniano” in Par., VI, 10) e non si basa tanto sulla contrapposizione tra una situazione del passato

e il presente, quanto semplicemente sulla contrapposizione di un fatto puramente transitorio come

l’esser “latino” dinanzi alla persistenza dell’individuo come tale, che resta anche dopo la morte.

In ogni caso, la maggioranza dei commentatori ritiene che nel discorso di Omberto rimanga qualche

traccia della superbia di cui ora, consapevole e pentito, si accusa. Tale ipotesi si basa soprattutto

sulla qualifica di “grande” data da Omberto al padre, sulla solennità stessa con cui declina il nome

di lui e infine sulla menzione dell’“antico sangue” e delle “opere leggiadre” dei suoi antenati – è da

notare, infatti, che nella lingua del tempo “leggiadro” aveva significato di “superbo, altero”.

                                                            1 Si oppone fieramente a tale interpretazione il Bertelli (cfr. Il Canto XI del Purgatorio, cit., pp. 23-34). 2 Si veda la “lettura” del canto di V. Rossi tenuta nel 1919, pubblicata in “Pagine critiche” I, (1920), ora nel vol. Saggi e discorsi su Dante, Firenze, 1930, p. 210. 3 Rossi, Pietrobono, Pernicone, Momigliano, Sapegno, per citarne alcuni. 4 Cfr. A. Vallone, Il Canto XI del Purgatorio, cit., p. 19.

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Per contro bisogna tener presente che Dante stesso definisce “leggiadra” la virtù propria del

cavaliere (cfr. Rime, LXXXIII). In questo caso però, è chiaro che Omberto ricorda le virtù

cavalleresche dei suoi antenati in quanto proprio quelle lo avevano reso, in vita, orgoglioso.

Per quanto concerne “grande” invece, come è già stato osservato, è molto probabile (se non certo)

che vada inteso nel suo valore tecnico e che quindi non rechi alcuna sfumatura di alterigia.

Ha giustamente notato il Durante che

“L’umiltà è, per quell’anima, un terreno ormai ben coltivato, fertile, che sa riconoscere la colpa e accettare la condanna. Infatti quelle terzine non mostrano alcun risveglio d’orgoglio. Anzi, rivelano un energico ripudio della superbia (in lui, Omberto, del casato degli Aldobrandeschi, generata dall’esser nato «d’un gran Tosco» e da «l’antico sangue e l’opere leggiadre / d’i miei maggior» […] Un ripudio urlato da chi, «qui tra’ morti», percorre il cammino della purificazione («poi ch’io nol fe’ tra’ vivi»), rispondendo all’amore del Padre che chiama alla salvezza”.1

Occorre considerare infine, che neppure l’orgoglio con cui Omberto rievoca i suoi antenati nasce

dalla superbia: per Dante l’amore familiare è in sé giusto e nobile, se basato su autentiche virtù

cavalleresche ed è componente essenziale di quelle “opere leggiadre” – ossia la vita tipica del

cavaliere, lontana da vizi e viltà, da fatue mondanità e alterigia, resa serena e composta dal

consapevole esercizio delle virtù morali, presa a modello dagli altri per l’altezza dei costumi sociali.

In questo accenno di Omberto si può forse cogliere un implicito lamento del poeta per l’attuale

decadenza.

Il vanto familiare di Omberto quindi, non ha in sé nulla di riprovevole, proprio in quanto nasce

dall’“amor” (lo stesso che Corrado Malaspina portava ai suoi e che ora nel Purgatorio “raffina”, cfr.

Purg., VIII, 120). Fu peccato solo perché eccessivo, degenerato in alterigia e sommo disprezzo

degli altri, dimenticando la comune origine di tutti gli uomini (vv. 61-64).

Motivo essenziale del vanto derivante dalle opere cavalleresche è l’onrata nominanza (cfr. Inf., IV,

76) che l’uomo leggiadro non rifiuta per nessuna ragione, in quanto contraddistingue l’essere

superiore o per meglio dire, il virtuoso. Ora però il penitente è consapevole del fatto che anche la

“nominanza”, come tutti i beni mondani, è fragile e labile: Omberto, infatti, alla menzione del nome

del padre, fa seguire una palese espressione di dubbio (non so se ‘l nome suo già mai fu vosco – v.

60) in quanto non può sapere se esso ancora sopravviva, anzi, se esso sia mai giunto alle orecchie

del pellegrino.

                                                            1 Cfr. M. Durante, Sul Canto XI … cit., p. 58.

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Alcuni critici sostengono che Omberto esprima questo dubbio in modo ironico,1 ma ad un’attenta

considerazione della sua attuale condizione, una tale ipotesi appare inaccettabile in quanto egli,

pentito com’è della sua passata superbia e assetato di purificazione, non potrebbe assolutamente

ribadirne le ragioni nella forma più drastica dell’ironia. Si tratta in realtà del primo accenno a quella

meditazione sulla vanità e inconsistenza della gloria umana che si svolgerà ampiamente nei versi

seguenti: la gloria e persino il nome non valicano nemmeno i confini più angusti di spazio e di

tempo. Sopravvivrà, per contro, il ricordo della superbia punita.

Concludendo, Omberto ormai non soffre più dell’antica superbia, causa della fine sua e di tutta la

sua schiatta: l’orgoglio cavalleresco, quella superbia aristocratica insomma, si è spenta per sempre e

ha lasciato libero il campo ad una salda, quanto sincera, voglia di mortificazione. E Dante lo segue

contrito, con la testa bassa, ben consapevole di dover anche lui fare ammenda di questo vizio.

Il pellegrino tace e china in giù la faccia allora, “con l’anima sospesa per il riconoscersi colpevole

della stessa colpa ch’è punita in quella cornice e la paura di quella pena”.2 Il silenzio di Dante,

persino dinanzi alla richiesta di quell’anima che, non avendo la possibilità di guardarlo, chiede di

sapere il suo nome, lascia perplessi. Il suo tacere non lascia trasparire alcuna emozione, che pur

sicuramente doveva provare: un silenzio intenzionale, si direbbe, generato forse dalla convinzione

di essere estraneo a quel determinato tipo di superba arroganza e che lo lascerebbe “indifferente”.

Ritengo che questa ipotesi sia avvalorata dal fatto che Dante cerca di occultare questo silenzio, o

per lo meno, metterlo in secondo piano, immettendo subitamente sulla scena un nuovo personaggio.

Un altro superbo, infatti, si torce a fatica sotto il peso per dirigere lo sguardo verso Dante: lo vede,

lo riconosce e lo chiama, ed è a sua volta riconosciuto dal poeta.

Si tratta del miniatore Oderisi da Gubbio,3 il quale fa subito professione di umiltà, affermando, in

risposta alle lodi di Dante, che il suo (reale o presunto) allievo Franco Bolognese, lo ha già superato

nell’arte di miniare. Questo riconoscimento, aggiunge, non sarebbe mai uscito dalla sua bocca,

durante la vita!

                                                            1 Scrive il Rossi: “Il verso che chiude il terzetto, col suo tono dimesso, getta su tanta grandezza un’ombra di chiara ironia” (Cfr. “lettura” cit., p. 211). Ma non si tratta di ironia, è soltanto consapevolezza di quel che è stato e conseguente umiltà: Omberto ora sa bene quanto sia effimera la gloria mondana. 2 Cfr. V. Pernicone, Il canto XI … cit., p. 91. 3 Famoso miniatore nativo di Gubbio e operante, secondo alcuni documenti, in Bologna tra il 1268 e il 1271; è qui che Dante dovette fare la sua conoscenza, ma su di lui e la sua opera (e lo stesso vale per Franco Bolognese, cfr. v. 83) non si sa nulla di preciso. Sulla scorta dei versi danteschi si può comunque pensare che Oderisi rappresenti la corrente tradizionale della miniatura, ancora legata allo stile bizantino, e che Franco rappresenti invece quella innovatrice.

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"Frate", diss’elli, "più ridon le carte che pennelleggia Franco Bolognese;

l’onore è tutto or suo, e mio in parte.1 Ben non sare’ io stato sì cortese

mentre ch’io vissi, per lo gran disio de l’eccellenza ove mio core intese.

(vv. 82-87)

È proprio l’ammirazione dantesca a stimolare nell’anima del miniatore il ricordo del peccato, il

quale si cimenta in una replica carica di fraterna carità e di schietta modestia che non ha nulla di

ipocrita convenienza.

Franco Bolognese diventa qui l’indispensabile termine di paragone che gli permette di ammettere la

propria colpa e manifestare il pentimento, avvenuto nel tempo della vita mortale, per quello che è,

ossia come dono della Grazia divina.

Dante affida alle parole del miniatore il compito di rispondere alle drammatiche istanze della sua

coscienza: aveva ascoltato il Pater Noster che lo aveva indotto a riflettere sulla superbia umana,

aveva ascoltato in pensoso silenzio il discorso dell’Aldobrandeschi, che gli aveva fatto chinare il

capo preoccupato, pur non sentendosi pienamente toccato da quel tipo di arroganza. L’incontro con

Oderisi, però, apre ora la strada ad una nuova riflessione. Esiste un altro desiderio di gloria ed

eccellenza e proprio questo punge sul vivo la sua condizione di uomo e intellettuale: trattasi ancora

una volta di vanità?

Il discorso di Oderisi, contrariamente a quanto ci si potrebbe aspettare, non risolve il dramma che

urge nell’animo del poeta che anzi, risulta accentuato dall’insolita insistenza (non immune da

ripetizioni) che caratterizza proprio le parole dell’amico: egli accumula sentenze, riflessioni ed

esempi molto simili, col tono di chi è costantemente afflitto da tali pensieri.

Ha ben ragione il Pietrobono quando osserva che

“il miniatore mette non so qual ardore di apostolato nella sua dimostrazione […]. Si direbbe che ha letto in quel volto magro e pallido, in quel suo sguardo ardente, i segni della malattia onde fu egli stesso tormentato, e intende con affettuosa premura a guarirlo”.2

                                                            1 Oderisi, senza aver perduto interamente la sua gloria, è passato in seconda linea: a lui è rimasta solo una piccola parte di quella fama che ora possiede intera e completa Franco Bolognese. Quel che sta dicendo il miniatore è in relazione al suo specifico peccato di superbia, che consiste proprio nel desiderio di primeggiare arrivando al punto di abbassare gli altri pur di rimanere in alto. (Cfr. G. Reggio, commento al v. 84, in Canto XI, cit.) 2 Cfr. L. Pietrobono, “lettura” del canto XI, in “Giornale dantesco”, XXIX, (1926), p. 296.

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Ecco allora che Oderisi si abbandona all’aspra condanna della vanagloria: la fama di Cimabue è

stata oscurata da Giotto; Guido Cavalcanti ha fatto presto dimenticare il Guinizzelli ed è

sicuramente già nato chi supererà entrambi.

Credette Cimabue ne la pittura tener lo campo, e ora ha Giotto il grido,

sì che la fama di colui è scura. Così ha tolto l’uno a l’altro Guido

la gloria de la lingua, e forse è nato chi l’uno e l’altro caccerà dal nido.

(vv. 94-99)

Due pittori, esempi per Oderisi, e due poeti, esempi per Dante, i quali autorizzano una previsione

che si risolve in un altro esempio, ad ulteriore conferma della vanità della gloria derivante dalle

opere dell’ingegno umano, che presto si annulla inevitabilmente nell’oblio.

Morire da vecchi o da bambini è esattamente la stessa cosa; dopo mille anni, infatti, il nome

dell’uomo è già travolto dal tempo: l’umana “nominanza” ha la consistenza di un soffio di vento e il

tempo storico, naturale o cosmico che sia, è un battito di ciglia di fronte all’eternità.

Perché allora affannarsi tanto per raggiungere una gloria così effimera e insignificante? Oderisi dà

voce alla denuncia del gran disio / de l’eccellenza che prende il cuore e la mente dell’intellettuale e

dell’artista: è questa la colpa più grave, l’atteggiamento più peccaminoso e ben più pericoloso della

superbia aristocratica di cui è emblema Omberto, in quanto

“nasce e si sviluppa non per fatti e sollecitazioni ‘esterni’ (Omberto era «nato d’un gran tosco», e aveva subìto la sciagurata influenza dell’«antico sangue» e dell’«opere leggiadre / d’i’ miei maggior»), laddove il secondo tipo di superbia nasce e si sviluppa per sollecitazioni ‘interne’, tutte interiori, una specie di perenne autoesaltazione priva di incertezze e di remore”.1

Trova quindi legittimo fondamento la durissima apostrofe contro l’umana gloria e il mondan

romore, nella quale sembrano riecheggiare i vv. 121-129 del canto precedente.

Terminata questa sua riflessione, Oderisi (che non è altro che il portavoce di Dante stesso) indica un

altro superbo, potente in Siena al tempo in cui i fiorentini furono travolti da Farinata nella battaglia

di Montaperti. Costui fece risuonare tutta la Toscana del suo nome, ma ora è stato dimenticato e

rimangono vaghi ricordi appena nella sua città, ad avvalorare la tesi della caducità della fama

umana, così simile all’erba che appassisce al sole.

                                                            1 Cfr. M. Durante, Sul Canto XI … cit., pp. 61-62.

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Dante, che sente intimamente la lezione di umiltà impartitagli da Oderisi, gli chiede notizie circa

questo superbo senese: egli è Provenzan Salvani1 il quale, morto da poco nella battaglia di Colle di

Val d’Elsa, ha evitato la sosta nell’Antipurgatorio (fatto eccezionale che stupisce il poeta) per un

atto di umiltà compiuto quand’era ancora in vita, nello specifico, implorando l’elemosina per

riscattare un amico prigioniero di Carlo d’Angiò.

Colui che del cammin sì poco piglia dinanzi a me, Toscana sonò tutta;

e ora a pena in Siena sen pispiglia, ond’era sire quando fu distrutta la rabbia fiorentina, che superba

fu a quel tempo sì com’ora è putta.

(vv. 109-114)

Oderisi si congeda da Dante con una velata profezia del suo futuro esilio, annunciandogli che

proverà la stessa sofferenza del Salvani, quando tra non molto si vedrà costretto ad elemosinare

aiuto e ospitalità presso le corti dei potenti, una volta bandito dalla sua cara Firenze.

Più non dirò, e scuro so che parlo; ma poco tempo andrà, che ’ tuoi vicini

faranno sì che tu potrai chiosarlo.

(vv. 139-141)

Un’eco di questo doloroso annuncio si troverà nella vibrante e sdegnosa protesta del poeta contro

l’ingiusta condanna, nel canto XVII del Paradiso quando, nonostante la generosa ospitalità ricevuta

dagli Scaligeri a Verona, Dante sentirà fremere dentro la bruciante umiliazione del pane chiesto in

elemosina, l’asprezza provata nel salire e scendere per le altrui scale.

Dominante, in questo canto, risulta il motivo dell’umiltà che si manifesta per bocca di personaggi

un tempo famosi per fierezza e superbia, attraverso il riconoscimento degli altrui meriti e la

constatazione della vanità della gloria terrena.

Questi tre personaggi fungono da exempla e contribuiscono ognuno a delineare un quadro completo

del peccato di superbia, in tutte le sue sfumature. Omberto, il quale confessa apertamente

l’arroganza ispiratagli da “l’antico sangue e l’opere leggiadre”, rappresenta un particolare aspetto

della superbia, che si potrà a ragione definire “aristocratica”.

                                                            1 Uomo politico, nato a Siena nel 1220 circa, nipote di Sapia (cfr. Purg,. XIII, 100 e ss.) e capo di parte ghibellina molto potente nella sua città. Data la sua grande autorità ebbe gran parte nei fatti che condussero alla vittoria senese di Montaperti; nel 1262 assunse il titolo di dominus, acquistando sempre maggior prestigio nella sua città, ma in realtà non fu mai signore di Siena. (Per un approfondimento si veda F. Tempesti, Provenzan Salvani, in “Studi danteschi”, XXI, pp. 201-202).

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Oderisi invece si purga della sua vanagloria, che si può identificare con la superbia di tipo “artistico

– intellettuale”; Provenzano, infine, fu presuntuoso a tal punto da voler ridurre tutta Siena in suo

potere e per questo incarna la superbia “politica”.

Già gli antichi scorsero in questi penitenti studiati exempla delle varie specie di superbia, che la

letteratura moralistica del tempo distingueva con sottigliezza. Scrive infatti l’Ottimo, che in

Purgatorio X Dante tratta della purgazione dei superbi in generale; mentre in Purgatorio XI la

tratta in particolare: la superbia che nasce dai beni di natura (nobiltà di sangue, fortezza, ricchezza,

potenza) e che è detta arroganza, rappresentata appunto dall’Aldobrandeschi; la superbia come

appetito dell’eccellenza nel magistero, definita vanagloria e incarnata dal miniatore; la superbia

come presunzione, che contraddistingue chi nella sua mente si antepone agli altri e intraprende

imprese che vanno oltre il suo dovere e potere, il Salvani appunto.

L’Ottimo in chiosa al v. 73 osserva:

“Qui esemplificando, mostra la detta superbia non solamente procedere nelli mortali per radice d’antichità di sangue, e d’opere d’arme e di costumi leggiadri; ma eziando per eccellenza d’arte manuale. E questo pruova per Oderigi d’Agobbio […]”.1

E più avanti, al v. 109:

“Posto di tre qualitadi di superbi, qui aggiunge la quarta di quelli, che per potenza insuperbiscono; e parla esemplificando in persona di messer Provenzano Salvani da Siena […]”.2

Occorre sottolineare il fatto che queste distinzioni sembrano combaciare perfettamente con i termini

utilizzati da Dante, ma c’è da dire che le figure dantesche, per la loro forza poetica e consistenza

storica, vanno ben oltre le astratte categorie delle moralizzazioni medievali ed esulano dalla nicchia

predisposta dalla teologia morale.

Notevole è infine l’aspetto introspettivo di tutto l’episodio.3

                                                            1 Cfr. L’Ottimo Commento della Divina Commedia: testo inedito di un contemporaneo di Dante, Purgatorio, a cura di F. Mazzoni e A. Torri, Sala Bolognese, Forni, 1995, (ristampa dell’ed.: Pisa: presso Niccolò Capurro, 1827-1829), vol. 2, p. 186. 2 Ibid., p. 190. 3 Risulta fondamentale dare il giusto risalto a questo sottofondo autobiografico dell’episodio. Oderisi è, innanzitutto, un amico di Dante, attraverso il quale il poeta rievoca vecchie abitudini e considerazioni fatte insieme (ma ormai superate). Il miniatore può senza dubbio essere considerato il portavoce di Dante, come verrà illustrato in seguito.

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La figura di Dante viene ad affiancarsi ai suoi personaggi attraverso l’accenno di Oderisi a colui che

caccerà di nido Guinizzelli e Cavalcanti, un’allusione alla propria eccellenza notata già da tutti gli

antichi commentatori che, però, si purga attraverso la dichiarazione della vanità di ogni gloria

terrena di fronte all’eternità e costituisce il proseguimento della simbolica e anticipata espiazione

del suo confessato peccato di superbia (cfr. Purg., XIII, 136-138), cominciata con l’andar chino coi

penitenti e compiuta con quella contrizione generata dalla meditazione.

La superbia1 di potenti, artisti e poeti che si diffonde rapida e inconsistente tra gli uomini, si dilegua

in questo canto senza sfociare in amari rimpianti, in quanto la fiduciosa attesa della visione di Dio

incuora le anime e infonde loro la forza per sopportare la pena. Bisogna però osservare che in

questo modo Dante non vuole condannare ogni anelito alla gloria o spegnere ogni entusiasmo e

ambizione a raggiungere la fama: egli vuole, piuttosto, porre un freno alla presunzione umana che,

dimenticando i fini ultraterreni, si illude di poter creare qualcosa di eterno nel miserabile flusso

delle cose mondane, destinate per la loro stessa natura, ad una vita effimera.

I tre superbi del canto, concordano sulla totale condanna del più grave tra i vizi capitali: ne sono

stati sterminati gli Aldobrandeschi, ne pagano il “fio” artisti e poeti, ne inizia l’espiazione (anche in

vita) chi non è completamente cieco, sottoponendosi con gioia ad opere di profonda umiltà e carità.

Il tutto non genera però, come si potrebbe credere, un pessimismo disperato: al contrario, sfocia

nell’ottimismo cristiano che sostituisce la gioia alle tribolazioni, in cui sembra sentir risuonare il

motto francescano “Tanto è il bene che m’aspetto ch’ogni pena m’è diletto!”.

Ma torniamo all’incontro con Oderisi, il miniatore che onorò Gubbio, suo luogo di nascita. Lo

spirito, però, ormai prova sdegno e disprezzo per la fama terrena e, in virtù dell’umiltà acquisita,

riconosce tutti i meriti del suo discepolo.

Con l’esclamazione Oh vana gloria dell’umane posse!2 inizia il panegirico dell’umiltà: fa però

giustamente notare il Grabher,1 che qui non si sconfessa il valore eterno dell’arte, ma quello della

gloria umana – la “vana gloria” corrisponderebbe all’inanis gloria dei teologi.

                                                            1 Desiderio smodato di eccellenza. “Superbia dicitur esse amor propriae excellentiae, in quantum ex amore causatur inordinata praesumptio alios superandi” (cfr. Tommaso, Summa theologiae, II-IIª, q. CLXII, a. 3 ad 4). 2 “Cioè de l’umane potenzie. […] gloria è allegressa dell’animo e contentamento d’essere buono; e questa gloria è semplice et assoluta; cioè che non cerchi eccellenzia sopra altrui, e non vollia essere reputato: questa è vera e buona gloria, in quanto l’omo non si glori in sé; ma ricognosca la grazia di Dio, che altramente sarebbe superbia. […]. Et in ogni altro modo la gloria è vana: imperò che, se l’omo cerca per la sua virtù eccellenzia sopra li altri, pecca di superbia”. Cfr. Commento di Francesco da Buti sopra la Divina

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Per chiarire il concetto, il miniatore teorizza con tutta la calma e la serenità di un filosofo stoico:

morire vecchi o bambini, di fronte a mille anni è lo stesso; ma mille anni, in confronto all’eternità,

sono meno di un battito di ciglia, rispetto al lento movimento delle stelle fisse.

Non è il mondan romore altro ch’un fiato

di vento, ch’or vien quinci e or vien quindi, e muta nome perché muta lato.

Che voce avrai tu più, se vecchia scindi da te la carne, che se fossi morto

anzi che tu lasciassi il "pappo" e ’l "dindi", pria che passin mill’anni? ch’è più corto spazio a l’etterno, ch’un muover di ciglia al cerchio che più tardi in cielo è torto.

(vv. 100-108)

È opportuno, a questo punto, soffermarsi sui tanto discussi versi 98-99 (… e forse è nato / chi l’uno

e l’altro caccerà del nido): in questa espressione, a partire dai commentatori antichi, si volle sempre

vedere un’allusione di Dante a se stesso.2

Ma in ciò non vi è assolutamente nulla di scandaloso: proprio qui, dove è messo in luce e analizzato

il concetto della vanità della gloria umana, della fama destinata prima o poi a tramontare, il

richiamo a se stesso non suona come atto di superbia in quanto si tratta, al contrario, di coscienza

ben chiara del proprio valore ma soprattutto, del carattere estremamente effimero di un primato che

si limita ad un determinato momento storico, un niente se paragonato all’eternità.3

                                                                                                                                                                                                     Commedia di Dante Alighieri, Purgatorio, a cura di C. Giannini, Pisa, Nistri Lischi, 1989, (ristampa anastatica dell’ed.:Pisa: Nistri Lischi, 1858-1862), vol. 2, pp. 260-261 1 Cfr. C. Grabher, Il Canto XI del Purgatorio, Firenze, Sansoni, 1942, p. 21: “Non è infatti il valore eterno dell’arte che qui si sconfessa, ma quello della umana gloria, di cui Oderisi, come poi i due Guidi, sono fugace e occasionale incarnazione. Il potente, altissimo motivo di questa vanità si sviluppa dall’esempio e dalla umiliata superbia di Oderisi; il quale, ora che ha superato il mondo e sta dinanzi a Dio, vede l’effimero di fronte all’eterno, e […] vede quasi nulli i suoi meriti e la sua gloria, accrescendo la gloria e l’eccellenza di Franco […]”. Di opinione simile è A. Diamantini, cfr. “Studi danteschi”, XXXII, (1954), p. 116 – recensione alla “lettura” del Pernicone cit. 2 Basti qui ricordare il commento dell’Ottimo: “Così ha tolto … Qui tratta di loro, che per pulita parladura ingrossarono la mente di superbia; ed esemplificando due Guidi, cioè messer Guido Guinizzelli da Bologna, e Guido Cavalcanti di Firenze, […] E soggiunge: e forse è nato chi la torrà all’uno ed all’altro [la gloria della lingua]; ed alcuno, ch’elli vuole intendere di sé”. (Cfr. L’Ottimo, cit., pp. 188-189) 3 Critici come Pellegrini e Porena, invece, vollero intendere “forse è già nato chi supererà il pittore Giotto e il poeta Guido Cavalcanti”, sottilizzando sul fatto che il Guinizzelli era già stato superato dal secondo Guido. Il Grabher prende una posizione a parte: “[…] alcuni hanno veduto un’allusione a Dante stesso, altri la sola enunciazione di quella legge per cui ogni gloria è destinata ad essere sommersa da altra gloria. Né l’una né l’altra interpretazione di per sé presa ci sembra corrispondere all’alto significato del passo”. (Cfr. C. Grabher, Il Canto XI … cit., pp. 23-24). Alla luce di quanto osservato finora, però, sembra alquanto vano il tentativo degli interpreti antichi e moderni di “scagionare” Dante da questo peccato di superbia. Chiedersi se con tale

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A questa interpretazione si muove l’obiezione che sarebbe strano che Dante affermasse la propria

eccellenza artistica proprio nella cornice dove espiano coloro che si inorgogliscono di tale

eccellenza e, in aggiunta, per bocca di uno di essi. Ad un’attenta analisi però tale obiezione non

sussiste: il poeta in questo episodio propone se stesso come esempio di una gloria destinata a

dileguarsi presto. La fugacità della fama terrena è quindi ribadita e confermata da un esempio tratto

dalla propria esperienza e dal fatto che il poeta si dichiarò presto convinto di quella fugacità. La sua

meditazione non poteva non prendere in considerazione, dopo illustri esempi, anche la fama sua

propria, che condivide il medesimo destino.

È lui, infatti, il protagonista del canto ed è soprattutto suo il problema della legittimità della gloria

artistica: al tempo in cui scriveva questo canto, era ben consapevole di possedere ormai la gloria

della lingua e proprio perché l’aveva raggiunta, conscio dell’ardore con cui l’aveva cercata e degli

sforzi che aveva dovuto compiere, poteva in quel momento ripiegarsi su se stesso a riflettere.

Ma soffermiamoci su quello che è il nodo centrale del canto, nonché il suo tema più suggestivo: la

vacuità della gloria mondana. Ad argomentare la validità della sua tesi, il miniatore adduce appunto

degli esempi, l’ultimo dei quali, enigmatico, sembra fare esplicito riferimento a Dante stesso.

“Che i nomi stiano per nomi validi in sé e che alludano al succedersi di altri personaggi, è sembrato invece a tanta parte della critica di ieri e di oggi. Di qui supposizioni e ipotesi. Dante vuol dire solo che ad una gloria ne succede un’altra senza mai fine. Esprime una sentenza, non un giudizio di merito, limitato alle persone”.1

Secondo il Vallone non è l’uomo che vince alla fine, ma quel vero che mai alcun essere umano

potrà rappresentare in maniera completa ed esclusiva.

Se si segue questa linea interpretativa, non è concesso scorgere nei tanto discussi versi … e forse è

nato / chi l’uno e l’altro caccerà dal nido un’allusione più o meno esplicita di Dante a se stesso, in

quanto si tratterebbe di un’interpretazione arbitraria, impropria e comunque inadeguata “al valore

che all’episodio e al Canto tutto vuole attribuire il Poeta”.2

                                                                                                                                                                                                     allusione a se stesso Dante abbia peccato di superbia è porre male la questione e in ogni caso non costituisce il problema principale. 1 Cfr. A. Vallone, Il canto XI … cit., p. 23. Argomenta così: “Non è questa una nostra idea se egli lo dice più innanzi, nel canto di Guinizzelli, un altro incontro tra artisti”. Cfr. Purg., XXVI, 124-126: Così fer molti antichi di Guittone, / di grido in grido pur lui dando pregio, / fin che l’ha vinto il ver con più persone. 2 Il critico si cimenta in un’articolata argomentazione, che va ben oltre il fatto che alludendo qui a se stesso Dante peccherebbe di superbia: “a) Oderisi sarebbe incorso, con l’allusione a Dante, nello stesso errore-peccato che egli rimproverava a se stesso […] b) i versi allusivi a Dante sono stretti tra due ammonimenti

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Sarebbe più opportuno, quindi, intendere questo passo alla stregua di un’adombrata legge – monito

che va dal particolare all’universale e che introduce, lungi dall’essere mera e astratta lezione di

morale, la lampante esemplificazione storica di quanto detto: Provenzan Salvani, l’ultimo

personaggio.

Diametralmente opposta, è l’interpretazione del Bertelli, secondo il quale appare assolutamente

“indubbio che qui Dante si riferisca a se stesso, alla propria «gloria della lingua»”.1

Attraverso il discorso di Oderisi il poeta cerca di dimostrare che anche gli onori derivanti

dall’ingegno umano sono inesorabilmente sottomessi alla legge universale della caducità che

caratterizza ogni contingenza e proprio ciò rende vana la gloria e ogni sforzo per ottenerla. Ad

argomentazione di tale ipotesi vengono citati esempi concreti: la baldanzosa supremazia pittorica di

Cimabue presto oscurata dalla novella fama di Giotto e il Cavalcanti che toglie il primato poetico al

Guinizzelli.

Come tutte le cose, la fama mondana soggiace a questa “legge naturale che regola le alterne vicende

della fama mondana” e che quindi prevede che “sia, forse, già nato chi oscurerà la gloria dell’uno e

dell’altro” attraverso un “rapido quadro, scorciato con grandioso senso di prospettiva storica”.2

Dante ebbe un’indubbia e ferma coscienza del proprio valore e ciò, già di per sé, può costituire una

prova a favore di questa ipotesi. Per il Grabher

“l’alta coscienza che Dante ha di sé e della sua opera resta nel fondo, insopprimibile elemento umano; però […] non osa gridare alto il suo nome, perché subito il suo nome e la sua gloria sono sommersi dal valore universale della legge umana”.3

Conferma, ancor più decisiva, ci viene offerta da Francesco da Buti, secondo cui quel forse sarebbe

stato aggiunto “per più onestà” e renderebbe conto della sincera titubanza dantesca, altrimenti

immotivato se egli avesse pensato ad un ulteriore esempio impersonale.

                                                                                                                                                                                                     che invitano proprio alla liberazione dai legami e dai fumi della superbia […] c) Dante stesso non ha accolto minimamente un’allusione a se stesso nelle parole di Oderisi se subito risponde all’amico artista con parole di convinta umiltà […] d) per permanere la fama con Dante, dopo i due Guidi, dovrebbero essere giunte «l’etadi grosse» […] e) c’è inoltre nel raffronto (Cimabue-Giotto, Guido Guinizzelli-Guido Cavalcanti) non una equivalenza di meriti e di fama, ma una progressione […] non suggerisce pertanto un limite, ma un continuo sviluppo nel tempo”. (Ibid., pp. 24-25). Numerosi tra i moderni, dal Tommaseo al Rossi, al Pietrobono concordano con ipotesi del Vallone (fondandosi sulla testimonianza dell’Anonimo); altri, come il D’Ovidio o il Vandelli, pensano ad un riferimento generale, pur non escludendo il fatto che una possibile autocitazione possa essere balenata nell’animo del poeta mentre scriveva questo verso. 1 Cfr. I. Bertelli, Il Canto XI … cit., p. 43. Concordano sulla versione dell’allusione di Dante a se stesso la maggioranza dei commentatori antichi (tra tutti, Benvenuto e Francesco da Buti) e molti moderni, quali l’Andreoli e il Torraca, il Momigliano, il Sapegno e la Chiavacci Leonardi, solo per citarne alcuni. 2 Ibid. 3 Cfr. C. Grabher, Il Canto XI … cit., p. 24. Posizione condivisa dal Chimenz.

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Il dubbio rende più concreta e personale l’allusione, più intimo e profondo il riconoscimento della

caducità umana, proprio perché sperimentabile sul piano dell’esperienza autobiografica.

Acutissima si dimostra la riflessione del Sapegno:

“[…] chi nega che il poeta abbia voluto alludere a se stesso, impoverisce il senso di tutto l’episodio; trasforma in un’astratta lezione di morale quella che è invece, proprio e soltanto per le sue implicazioni personali e autobiografiche, una drammatica e poetica meditazione sulla vanità della fama. Proprio l’insistenza, e l’intensità, con cui si sviluppa qui il motivo ascetico, esige che la gloria di Dante sia non soltanto viva e presente in questo momento nella coscienza del poeta, ma esplicitamente affermata, per bocca d’un altro, in sede oggettiva”.1

Alla luce di quanto detto finora ritengo sia innegabile che i vv. 98-99 contengano un, seppur velato,

riferimento di Dante a se stesso: egli era ben consapevole e convinto dei propri meriti artistici e

soprattutto, come vedremo, questa è l’ipotesi fondamentale su cui poggia tutto l’episodio.

Il discorso di Oderisi, dopo l’introduzione dell’ultimo esempio tratto dal vivo della storia

contemporanea – il Salvani – si addensa e si riassume nell’ultima e solenne sentenza:

La vostra nominanza è color d’erba, che viene e va, e quei la discolora

per cui ella esce della terra acerba.

(vv. 115-117) Come ha notato il Bertelli, si tratta di un discorso “straordinariamente profondo e folto di echi

culturali, che accoglie richiami del mondo e della fantasia biblica, ma non esclude […] ovvii

presupposti della tematica classica”.2

Il vero problema in cui ci si imbatte leggendo questo canto è però un altro: come conciliare quanto

Dante dice in esso sulla non desiderabilità della fama con quel che, in senso diametralmente

opposto, dice così spesso altrove.

Per bocca di Oderisi afferma in questa sede che la fama è come il vento, che cambia nome secondo

la direzione da cui spira, ma che in ogni caso è sempre “fiato” vuoto ed effimero; più avanti si dirà

che è come l’erba che nasce grazie al beneficio del sole, ma lo stesso sole presto la discolora ed è la

causa della sua morte (cfr. vv. 115-117): così la “nominanza” data agli uomini, è da essi stessi fatta

impallidire e scomparire.

                                                            1 Cfr. N. Sapegno, Commento al Purgatorio, Firenze, 1956, pp. 127 e ss. 2 Cfr. I. Bertelli, Il Canto XI … cit., pp. 47-48 e bibliografia ivi citata.

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Soprattutto Dante afferma ai vv. 103-108, che la gloria umana è sempre relativa al tempo, nella

misura in cui possono concepirlo gli uomini. Uno che muore vecchio sembra aver vissuto molto più

a lungo di un bambino morto mentre ancora balbettava le sue prime parole, eppure la vita dell’uno e

dell’altro sono irrisoriamente brevi rispetto ad un millennio. Così la fama: che duri qualche anno o

qualche secolo, è sempre breve, tale che non vale la pena desiderarla rispetto a mille anni, che in

ogni caso sono nulla se paragonati all’eternità.

Per avvalorare la sua tesi, il poeta fa balenare un confronto tra la misurazione di ogni fama umana

con quella sterminata del moto delle stelle, fino ad abbattere anche quest’ultima, nel momento in

cui viene paragonata a ciò che non può essere misurato, all’eterno. Sembra dire che l’unico scopo

veramente degno che l’uomo possa perseguire sia questo: conquistare l’eterno.

Dante però non si ferma qui e si rivela ancora più “spietato” verso se stesso e gli altri uomini.

Nell’anno del suo viaggio oltremondano, Oderisi era morto da qualche mese e Cimabue era ancora

in vita; entrambi avevano assistito al tramonto della loro fama e anche chi oscurerà quella di

Cavalcanti era già nato.

La fama di Provenzano Salvani, in particolar modo dopo Montaperti, risuonava per tutta la Toscana

e ora, dopo appena trent’anni dalla morte (1269), nella stessa città di Siena di cui era “sire”, appena

si “pispiglia” di lui. Allo stesso modo anche il nome di Guglielmo Aldobrandeschi, secondo quanto

dice il figlio ormai consapevole, non avrà certo superato gli angusti confini dei territori della sua

azione e quelli di un paio di generazioni.

La conclusione a cui giunge Dante è, allora, che la fama è un niente non solo rispetto a mille anni e

all’eternità, ma anche nell’ambito della vita umana: pochi anni sono sufficienti a distruggerla, in

quanto si trova in balia del fluttuare continuo di gusti e vicende politiche.

Eppure nelle sue opere e, in particolare, in tanti luoghi della Commedia, pone come essenziale la

conquista della gloria per l’uomo virtuoso. È questo infatti uno dei motivi principali del poema, che

lo percorre da un capo all’altro, da quando al principio dell’Inferno afferma che è viltade ritrarsi da

onrata impresa (cfr. Inf., II, 45-47) a quando, verso la fine del Paradiso si augura, pur senza

sperarlo, che il suo poema possa valergli insieme col ritorno a Firenze, l’incoronazione nel suo San

Giovanni (Par., XXV, 1-12).

A questo punto sembra evidente che esista un conflitto in Dante tra desiderio di gloria ed eccellenza

e consapevolezza della loro vanità. È lecito ammetterlo in quanto si tratta di un uomo vivo che

cambia, progredisce e regredisce, facendo prevalere in certi momenti certe sue esigenze spirituali e

in altri esigenze diverse, magari anche opposte. Se si analizza attentamente questo “conflitto”, però,

emerge un lato interessante, che sembra mettere a tacere ogni obiezione di contraddizione.

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La gloria di cui parla il poeta, l’unica degna di essere perseguita, non è mero grido, romore o voce

(cfr. vv. 95; 100; 103);1 la vera fama deve nascere da apprezzamenti meditati e deve quindi basarsi

su opere effettivamente meritorie. Sta tutta qui la differenza tra la gloria duratura e la semplice

“nominanza”: come ha felicemente notato il Croce, la prima è “nell’opera, nel suo effetto e nella

sua efficacia, che seguita a operare, suoni o no il nome che da prima vi andò unito”.2

Purtroppo operare una tale distinzione è assai arduo per l’uomo, caratterizzato dalla brama che

qualcosa della sua vita individuale sopravviva, sia anche solo il nome. Dante ha capito e ha

sperimentato in prima persona che, anche se la fama è meritata e data da persone veramente in

grado di apprezzare, il “grido” destato da essa si affievolisce rapidamente fino a spegnersi, come è

accaduto a Oderisi e a Guinizzelli i quali, nell’estimazione dantesca, non erano assolutamente

inferiori a Franco Bolognese e Cavalcanti – Guinizzelli, infatti, rimane per lui il padre suo e dei

migliori poeti in volgare e si dichiara certo che i suoi dolci detti dureranno quanto durerà l’uso

moderno (cfr. Purg., XXVI, 112-113). È l’opera, appunto, non il “grido” che dura.

Ha giustamente notato il Pernicone che la riflessione dantesca, per bocca di Oderisi

“oscilla dalla dimostrazione della vanità della gloria mondana alla dimostrazione della caducità delle stesse opere dell’ingegno, destinate ad essere superate in un tempo più o meno breve a seconda delle età succedenti alla loro produzione. […] Oderisi si accanisce a dimostrare, con esempi e ragionamenti, che il tempo non solo cancella la gloria degli autori, ma toglie anche valore alle loro opere”.3

Sembra essere, questo, uno dei momenti di ascetico pessimismo che talvolta sorgevano nell’animo

dell’Alighieri, combattuto tra l’insopprimibile desiderio di gloria (intesa come fama mondana e

suprema meta artistica) e l’intima consapevolezza, basata su considerazioni filosofiche e religiose,

della vanità di quel desiderio rispetto alla vita eterna.

Aspettarsi la gloria è ciò che contraddistingue il magnanimo e se questa ricompensa mancherà o se

sarà effimera, come è legge generale, non per questo in lui deve venire a mancare la spinta a operare

magnanimamente, perché in ogni caso non mancherà la ricompensa divina.

A questo punto sembra lecito affermare, col Bosco, che

                                                            1 Non si tratta delle “populares aurae inanesque rumores” di cui parlava Boezio (cfr. De consolatione philosophiae, II pr. 7); Dante definisce l’essenza di questo “grido” in Purg., XXVI, 121-126: gli stolti a voce più ch’al ver drizzan li volti, / e così ferman sua oppinione / prima ch’arte o ragion per lor s’ascolti. / Così fer molti antichi di Guittone, / di grido in grido pur lui dando pregio, / fin che l’ha vinto il ver con più persone. 2 Cfr. B. Croce, La poesia di Dante, Bari, 1948, p. 110. 3 Cfr. V. Pernicone, Il Canto XI … cit., pp. 102-103.

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“l’ascetismo a cui Dante qui perviene non è assoluto, anche se può sembrarlo: nel clima meditativo e malinconico del Purgatorio, può porsi per un momento di là della stessa gloria mondana tenacemente perseguita, scorgerne con fermezza i limiti; senza tuttavia rinnegare la sua opera e la sua poesia”.1

Egli è ormai giunto alla consapevolezza che aspirare alla gloria e alla fama è più che ammissibile,

anzi è proprio ciò che caratterizza l’uomo superiore: l’importante è non insuperbirsi per il “grido” e

avere giusta coscienza del proprio valore, la qual cosa non significa disprezzare gli altri o voler

surclassarli. Tanto meno bisogna sperare l’eccellenza dalla soppressione del vicino, desiderando che

cada in basso per elevare se stessi.2

Ed ecco l’esempio: Provenzan Salvani, il quale riempì della sua fama l’intera Toscana. Ora, dopo

pochi anni, a pena, in Siena sen pispiglia! e Dante prende volentieri la parte di lezione che lo

riguarda, seguitando il cammino col capo basso, ormai chino come quel presuntuoso, un tempo

ebbro di potere e ora condannato a camminare senza soste, senza lamenti, nella muta ma serena

espiazione che potrà, un giorno, redimere chi come lui è stato di là troppo oso.

È questa infatti l’ultima considerazione morale di Oderisi – Dante sulle conseguenze della superbia:

Ito è così e va senza riposo poi che morì; cotal moneta rende a sodisfar chi è di là troppo oso.

(vv. 124-126)

Ma non è questa a dominare. Quel silenzioso trascinarsi di chi era stato famoso per la sua clamorosa

ambizione, così lento e angoscioso sotto l’enorme masso, sembra dover durare in eterno e colpisce

violentemente il lettore con tutta la potenza del realismo dantesco.

Il tono di questo ultimo esempio è decisamente più energico che in precedenza e sembra ben

adattarsi al nuovo personaggio, assai più rude e crudo di Oderisi.

Già con l’espressione vecchia scindere da sé la carne e l’ironico balbettio infantile di pappo e

dindi, si era notato un cambiamento del linguaggio nel discorso del miniatore, che ora sfocia nel

“crudele” e ora a pena in Siena sen pispiglia.

Mi sembra opportuno riportare quanto ha notato il Pernicone in proposito:

“A questo punto bisogna riconoscere che la personalità di Dante si sostituisce addirittura a quella di Oderisi. […]”

                                                            1 Cfr. U. Bosco, Introduzione al Canto XI, cit. 2 Cfr. Purg., XVII, 115-117.

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“Qui la violenza del linguaggio […] supera i limiti di un’ammissibile adesione di Oderisi alla condanna politico-morale che di Firenze fa il suo amico, e rivela, invece, l’implacabile sdegno dell’esule senza colpa”.1

onde era sire quando fu distrutta la rabbia fiorentina, che superba

fu a quel tempo sì com’ora è putta.

(vv. 112-114)

Dal punto di vista concettuale la caduta della superbia fiorentina rientrerebbe nella leggere generale

del declino delle opere umane appena esposta attraverso la riflessione del miniatore, ma qui Dante

sembra condannare esplicitamente la sua città in tutti i tempi, dalla superba Firenze del Salvani a

quella squallida e corrotta del tempo di Dante.

Il pellegrino dichiara a questo punto di aver ben compreso il discorso di Oderisi e di volerlo mettere

a buon frutto: ringrazia il miniatore per la preziosa lezione di umiltà che ha eliminato dal suo animo

il “gran tumor” che, utilizzando un’espressione biblica,2 si identifica con quel gonfiore di superbia,

tumidezza d’orgoglio che l’avrebbe condotto alla perdizione.

E io a lui: "Tuo vero dir m’incora bona umiltà, e gran tumor m’appiani;

(vv. 118-119)

A riprova del carattere effimero della “nominanza”, neppure il fiorentino Dante aveva compreso che

Oderisi alludesse al Salvani e chiede appunto chi esso sia. Ecco la risposta: costui è proprio

Provenzano Salvani e si trova nel Purgatorio a causa della sua presunzione (fu presuntuoso a recar

Siena tutta a le sue mani). Seguendo le glosse di San Tommaso, Dante intende in tale passo la

superbia come amore della propria eccellenza e origine quindi della praesumptio: fu proprio la

superbia di Provenzano che lo portò alla presunzione di farsi signore di Siena.

Doveva essere noto (e Dante lo sapeva), che il Salvani fosse stato superbo e arrogante fino alla

violenta morte in battaglia e che nessuno potesse aver pregato in suo suffragio,3 in quanto tale

ipotesi è necessaria per la conclusione dell’episodio, tutto incentrato sulla gratuita ricompensa

divina al superbo che riesce a domare il suo “tumor”. Oderisi, come Dante, aveva già in vita saputo

domare la propria superbia: anche Provenzano riuscì almeno una volta, in circostanze clamorose, a

domarla e ottenne da Dio la singolare ricompensa.                                                             1 Cfr. V. Pernicone, Il Canto XI … cit., p. 99. 2 Cfr. Liber Esther, XVI, 12; Paolo, Epistula beati Pauli Apostoli ad Corinthios secunda, XII, 20. 3 Il Villani (cfr. Cronica, VII, 31) racconta che Provenzan Salvani nella battaglia di Colle Val d’Elsa “fu preso, e tagliatogli il capo, e per tutto il campo portato fitto in su una lancia”. Essendo stato peccatore fino all’estremo della vita, Dante non poteva certo immaginarlo già nella prima cornice del Purgatorio.

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Egli era stato “troppo oso” e “presuntuoso” ma almeno una volta aveva pubblicamente ammesso

l’insufficienza delle proprie forze. Quel gesto, come gli ha valso la benevolenza e il perdono di Dio,

lo ha profondamente trasformato come uomo: da presuntuoso che era, diventò magnanimo.

"Quando vivea più glorïoso", disse, "liberamente nel Campo di Siena, ogne vergogna diposta, s’affisse; e lì, per trar l’amico suo di pena,

ch’e’ sostenea ne la prigion di Carlo, si condusse a tremar per ogne vena.

(vv. 133-138)

A proposito dell’aquisita magnanimità risulta estremamente interessante l’avverbio “liberamente”,

che non è da intendere “per sua libera volontà” (chi avrebbe, infatti, mai potuto costringerlo?), bensì

come “senza che nessuno glielo chiedesse” e soprattutto, con determinazione libera da ogni

considerazione di prestigio sociale e da pregiudizi di superiorità.

Vale insomma “con fermezza d’animo”, in relazione a quella “franchezza d’animo” intesa da Dante

come dote essenziale del cavaliere (cfr. Conv., I, IV, 4); c’è poi da ricordare che in Dante “franco” e

“franchezza” sono sempre sinonimi di “libero” e “libertà”. Considerando inoltre il verbo “s’affisse”,

risulta evidente che non si tratta di un semplice “si fermò”. Implica bensì la fermezza, il

costringersi, appunto, a rimanere lì a qualunque costo fino al raggiungimento del suo proposito.

Quanto gli costi il mendicare, in abiti dimessi come si narra, è detto subito dopo: si condusse a

tremar… (v. 138) e l’umiliazione è tanto più bruciante quanto più compressa e dissimulata. Solo la

giustizia divina ha potuto comprendere e compensare un così arduo sacrificio, che si configura

come volontario annientamento della propria superbia e, si potrebbe dire, quasi l’annientamento

della propria personalità. In queste due terzine viene ritratto, sicuramente, un magnanimo.

Questo è il medesimo iter di Dante su cui si basa la Commedia, che maturerà appunto nell’esilio per

una certa specie di superbia. L’esilio gli era stato profetizzato più volte da amici e nemici, quali

Ciacco, Farinata, Brunetto, Vanni Fucci, Corrado Malaspina e ora gli viene confermato da un altro

amico, Oderisi.

Il motivo dell’umiliazione del chiedere infatti, è dolorosamente ricorrente in Dante e non può

trattarsi di un caso che il canto centrale della superbia, peccato caratterizzante di Dante, si concluda

proprio con l’episodio di una superbia che riesce a domare se stessa. Come tutti gli altri peccati, la

superbia trova la sua punizione nella vita terrena, prima che nell’altra.

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Nella solitudine dell’ingiusto esilio, pur convinto della propria innocenza, Dante aveva cercato di

salvare in extremis i rapporti con i suoi avversari politici, affidando il suo messaggio di umiltà alla

canzone Tre donne intorno al cor mi son venute.1 Si tratta del periodo in cui, per dirlo con il Bruni,

“ridussesi tutto a umiltà, cercando con buone opere e buoni portamenti racquistar la grazia di poter

tornare in Firenze per spontanea rievocazione di chi teneva la terra, […]”.2

Questi atti di umiltà non sortirono l’effetto desiderato e, dopo un primo momento si scoramento,

alla continua umiliazione oppose l’orgogliosa consapevolezza dell’altezza del suo ingegno e della

legittimità dei suoi meriti artistici. Sono d’accordo col Pernicone nel sostenere che

“Tutta la Commedia è prova sia di quel desiderio di gloria e di nobile vendetta e sia di questa orgogliosa consapevolezza”.3

L’episodio di Oderisi è sintomatico. Questi è un amico di Dante: un moto d’affetto li spinge l’uno

verso l’altro, Oderisi lo vede, lo riconosce e lo chiama in un tutt’uno, come fosse un’unica azione

simultanea (v. 76); si torce con estrema fatica sotto il peso del masso per guardare in faccia l’amico

e questi a sua volta si piega e procede curvo per porsi al livello del miniatore (vv. 77-78). Si tratta di

un moto simile a quello degli episodi di Casella, di Belacqua, di Nino Visconti e poi di Forese (cfr.

Purg., XXII, 46 ss.): tutti morti da poco, esattamente come Oderisi.

Attraverso questi amici Dante riprende per un momento vecchie abitudini di vita comune: come con

Forese rievocherà, per allontanarle da sé, la vita e la poesia meno “degne” che aveva avuto in

comune con l’amico, così allontana da sé la superbia per l’eccellenza artistica che era stata anche

del suo amico Oderisi e forse rievoca dolorose considerazioni in proposito fatte assieme.4

Nei primi tempi dell’esilio, momenti di pessimismo e scoramento dovevano essere sicuramente

frequenti nell’animo del poeta, ma con altrettanta certezza possiamo affermare che tali momenti

venissero presto fugati dalla peculiare concezione che Dante ebbe della vita, intesa come assoluto

dovere di azione rivolta al bene: l’andamento del Canto XI è sintomatico da questo punto di vista,

continuamente in bilico tra la convinzione della necessità di questa posizione spirituale e i motivi,

tutti umani, che le si oppongono.

Ritengo che questo canto rifletta al meglio la complessità emotivo – psicologica che

contraddistingue il carattere e la personalità dantesca, di cui ho cercato di tracciare il ritratto nel

capitolo introduttivo.

                                                            1 Pur affermando di ritenere l’esilio un onore, in quanto si trovava in buona compagnia di quella Giustizia scacciata dagli uomini, aveva ammesso la possibilità di aver commesso qualche errore di cui, però, si era pentito: s’io ebbi colpa, / più lune ha volto il sol poi che fu spenta, / se colpa muore perché l’uom si penta. 2 Cfr. L. Bruni, Le vite di Dante e del Petrarca, in A. Solerti, Le vite … cit., p. 103. 3 Cfr. V. Pernicone, Il Canto XI … cit., p. 102. 4 Cfr. U. Bosco, Introduzione al Canto XI, cit.

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§ 3. Il canto XII del Purgatorio1

Nei tre canti dedicati dal Dante auctor alla riflessione sulla superbia, egli ha dapprima descritto la

pena generale dei superbi espianti, le immagini di umiltà sulle quali dovevano meditare e in un

terzo momento li ha riuniti nella corale preghiera del Pater Noster. A questo punto è giunto il

momento di riportare davanti a loro le immagini del male, quale freno nato dal timore e dallo

sdegno scaturiti da un vizio tanto abietto ma ormai superato (o in via di superamento).

Il viator, varcata la soglia del regno di Catone, ha visto scolpiti nella parete della prima cornice

solenni esempi di umiltà, ha incontrato le anime dei superbi, curve sotto il peso del masso che le

opprime e ha proceduto, anch’egli curvo, accompagnandosi ad una di esse. Ora, però, all’inizio del

canto XII, Dante dovrà abbandonare l’amico Oderisi su invito del Maestro, per rivolgere

l’attenzione ad altro e completare così il suo iter di purificazione.

Lasciata l’anima del miniatore si rimette in piedi, nonostante i suoi pensieri rimangano e chinati e

scemi:2 non più curvo nella postura, ma umiliato nell’intimo in virtù di quella “buona umiltà”

infusagli dalle parole di Oderisi.

La nota altamente umana e soggettiva con cui si era chiuso il canto precedente, si dispiega nelle

cinque terzine iniziali in cui viene messo in evidenza il carattere lirico – drammatico del

personaggio Dante. Egli ha fatto propria la sofferenza dei superbi fino ad assumere fisicamente lo

stesso modo di procedere e ora la sua meditazione continua ad articolarsi ansiosamente intorno alla

necessità dell’umiltà per poi approfondirsi in quel volgi li occhi in giù, con un significativo moto

che progredisce dall’astratta dimensione interiore (i pensieri) verso una concreta proiezione

esteriore (lo letto de le piante tue).

Il lettore coglie da subito la chiave per l’interpretazione di questo canto, in cui il tono moraleggiante

non sfocia in sentenze né tanto meno in mera discussione retorica, ma si trasforma in chiara

evidenza assumendo la forma e la potenza comunicativa degli esempi.

                                                            1 Osserva il Bosco: “In questo, come in qualche altro canto, il poeta non s’impegna in esplorazioni d’anime o in approfondimenti dottrinali o politici, […]. Il massimo impegno del poeta è di tecnica letteraria: elabora un complesso schema per enumerare ben 13 esempi di superbia punita, che immagina figurati nel pavimento del girone: l’impegno nasce ovviamente dall’importanza che il poeta attribuiva al peccato di superbia e alla necessità, sua e di tutti, di affrancarsene. Si noti che, […], le punizioni di cui si danno esempi in questo e negli altri gironi sono state sofferte già nella vita terrena: quelle dell’oltretomba costituiscono naturalmente la materia dell’Inferno e del Purgatorio. Dante in sostanza ci vuol dire […], che Dio non punisce solo dopo la morte: spesso il peccato si sconta anche da vivi”. (Cfr. Introduzione al Canto XII, in La Divina commedia, vol. 2, cit.). 2 Così commenta il Flamini i vv. 8-9: “[…] sebbene egli seguiti a pensare con meno di gonfiezza, per quella «buona umiltà» che le parole di Oderisi gli hanno infusa (donde i pensieri «chinati»), appianando in lui «gran tumore» (donde i pensieri «scemi»)”. Cfr. F. Flamini, Il canto XII del Purgatorio, in Letture dantesche, Purgatorio, a cura di G. Getto, Firenze, Sansoni, 1958, p. 235.

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Attore e protagonista assoluto del canto XII sarà, infatti, proprio Dante, il quale ha volutamente

eliminato ogni incontro con le anime espianti – d’altronde il motivo degli incontri aveva fatto da

padrone nel canto precedente e aveva fornito l’espediente poetico-narrativo all’esposizione di

quanto gli stava a cuore trattare.

ed el mi disse: "Volgi li occhi in giùe: buon ti sarà, per tranquillar la via,

veder lo letto de le piante tue".

(vv. 13-15)

In questo canto le situazioni di pura invenzione e i rilievi di sostanza morale non si presentano come

separate orientazioni del racconto, ma come complementari cadenze costruttive; due aspetti tematici

di un medesimo nucleo narrativo che ripropone, sia pure con modalità diverse, l’elogio dell’umiltà

intessuto nel corso dei due canti precedenti (con i quali ha in comune il persistente stato d’animo di

amarezza e malinconia che caratterizza l’atmosfera purgatoriale).

Il motivo della superbia, quale sovvertitrice di ogni ordine morale e politico, porta il Dante auctor

ad una ricerca dottrinale che gli preclude ogni contatto con le anime, allargandosi il suo sguardo ad

un’analisi più ampia delle vicende umane, che si risolve nei termini risentiti (e anche piuttosto

sarcastici) delle due apostrofi – riflessioni dei vv. 70-72; 95-96, che richiamano e concludono con

espressioni ancor più risolute quelle dei canti X e XI.

La presenza dell’umano quindi, garantita dal precedentemente utilizzato motivo degli incontri,

tende ora a dissolversi in esperienze che non hanno alcun legame con il contingente: la visione della

volontà di Dio, che con il suo intervento ristabilisce quell’ordine che gli uomini, nella loro superba

follia, hanno tentato di distruggere e la visione dell’angelo, che di tale volontà è la più vistosa

manifestazione.

Il canto è tutto incentrato sulle reazioni della vita spirituale del viator a contatto con il trascendente.

Ogni scena infatti si dispone in modo coerente e rigoroso, a delineare la compiuta rappresentazione

di un particolare momento della storia dell’uomo: la scomparsa del primo peccato per intervento

diretto della Grazia, sempre però preceduto dallo sforzo di razionale e consapevole correzione da

parte della creatura (si considerino a riguardo i continui e pressanti inviti di Virgilio e la stessa

ragione naturale).

La vera espressività del canto sarà allora di sostanza dottrinale e la figura umana del viator riunisce

in sé la concreta storicità del singolo con il valore perenne ed universale dell’exemplum.

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Si presenta infatti come una pagina di notevole complessità per quanto concerne sviluppo e stile,

ben rilevabile nel prodigio delle sculture, il cui valore le rende più vive del fatto stesso che

rappresentano, nella minuziosa esattezza delle descrizioni e nell’estro della loro invenzione. Ma

anche nella suggestione figurativo – liturgica dell’angelo e nella potenza del suo significato

spirituale, che scaturisce da una visione sostanzialmente negativa della storia umana e dalla

possibilità di resistenza della creatura di fronte al peccato.1

Ecco allora che il XII del Purgatorio, che a prima vista sembrava sostanziato solo dal virtuosismo

dell’arte, diventa il solenne sigillo della riflessione dantesca sul motivo della superbia, tutta

condotta con risoluta insistenza dall’auctor (secondo la ben nota formula medievale

dell’insegnamento) su esempi visivi e sul gusto rituale che percorre tutta la seconda cantica,

attraverso il paesaggio lirico – drammatico creato dal viator che soffre e riflette con la stessa umiltà

dei penitenti, dando però espressione, proprio in nome di quell’umiltà, all’asprezza e all’epicità del

profeta che giudica e condanna gli uomini, in un vivissimo rapporto dialettico tra poeta e pellegrino,

maestro e discepolo. Tale rapporto si concretizza nel dolce sorriso finale di Virgilio il quale, dopo

l’indecisione dell’Antipurgatorio e l’iniziale smarrimento nell’accostarsi alle prime realtà del

Purgatorio, sembra riacquistare proprio in questo canto una più decisa funzione di guida.

Procediamo con una breve analisi dei passi più rilevanti.

Terminato il colloquio con Oderisi, Dante e Virgilio riprendono il cammino e osservano gli esempi

di superbia punita incisi nei bassorilievi marmorei, ispirati a fatti e personaggi biblici o tramandati

dalla leggenda e dalla storia: tredici quadri infatti, alternano storia sacra e profana.

Agli occhi di Dante vengono offerte un gran numero di figure incise sul suolo affinché i superbi, i

quali procedono a capo chino sotto il sasso che li schiaccia a terra, le abbiano costantemente

presenti nel loro lento girare attorno alla cornice, fonte continua di meditazione e rimorso. Nel

profondo silenzio del luogo, però, il pellegrino procede in solitudine sopra quegli esempi di

superbia punita e attira su di sé, a proprio tormento e contrizione, la lezione di quelle raffigurazioni:

la schiera dei superbi scompare e sulla scena ne rimane solo uno, Dante, di fronte allo “spettacolo”

di un male che tanta parte ha nel mondo fin dalle origini.

Ma vediamo ora nel dettaglio quello che il suolo del monte reca scolpito.

                                                            1 Si considerino in proposito i significativi versi 94 e 96: a questo invito vengon molto radi; perché a poco vento così cadi?

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Il primo ritrae Lucifero che, sconfitto dall’arcangelo Michele, fu precipitato nel più profondo

dell’Inferno; poi Briareo, uno dei giganti che mossero guerra agli dèi, abbattuto dal fulmine di

Giove insieme ai suoi compagni durante la battaglia di Flegra e Nembrot, artefice dell’incompiuta

torre di Babele. Niobe, l’infelice madre che fu privata dei suoi quattordici figli per vendetta di

Giunone, gelosa della sua fecondità; Saul, il quale si suicidò dopo la sconfitta subìta da parte dei

filistei sul campo di Gelboé1 e la “folle Aragne”, che osò sfidare Minerva nell’arte del ricamo e per

questo fu trasformata in ragno dalla dea.2 Seguono gli esempi di Roboamo, messo in fuga da una

sommossa popolare; di Alcmeone che uccise sua madre Isifile per vendicare il padre Anfiarao; di

Sennacherib, il re assiro ucciso dai suoi stessi figli in un tempio di Ninive dopo che il suo esercito,

condotto contro gli ebrei, era stato sterminato da un angelo e di Tamiri, regina degli Sciti che,

sconfitto Ciro, lo decapitò e versò sangue nella sua testa e degli Assiri in fuga, in seguito

all’uccisione del loro re Oloferne per mano di Giuditta.

Suggella la serie l’esempio di Troia, il superbo Iliòn ridotto ad un cumulo di cenere e macerie dopo

la distruzione operata dai Greci (cfr. vv. 25-69).3

Ho detto “suggella”, ma il Flamini preferisce, e a ragione, il verbo riassume in quanto “nella terzina

su Troia si compendia un curioso artificio di tutte le terzine annoveranti i superbi puniti”.4

                                                            1 Gli interpreti non hanno spiegato in modo chiaro e univoco l’inclusione di Saul tra gli esempi di superbia punita. La sua colpa appare al profano sotto l’aspetto dell’invidia o di una “malinconica iracundia”, piuttosto che sotto quello dell’orgoglio (cfr. “tristitia”, Inf., VII-VIII). Iacopo della Lana, l’Anonimo fiorentino, Francesco da Buti e Pietro Alighieri danno spiegazioni generiche, quali “perché combatté contro David” o “perché non volle essere preso vivo dai Filistei”. In realtà si trattò di un atto di disobbedienza (si veda nota2, p. 74), causata da orgoglio, quando agì contro la volontà di Dio annunciatagli da Samuele, offrendo il sacrificio senza di lui (cfr. I, Sam., 13, 8-14), risparmiando la vita di Agag e non distruggendo il bottino come aveva ordinato Dio (cfr. I, Sam., 15). Per un approfondimento si veda E. Auerbach, L’orgoglio di Saul, in Studi su Dante, Milano, Feltrinelli, 1936, pp. 269-272. 2 Si tratta di un particolare aspetto del peccato di superbia, “[…] quel peccato che consiste nell’eccessiva fiducia in se stesso. […] che spinse la «folle» tessitrice Aracne (Purg., XII, 43-45) a sfidare nell’arte della tessitura una dea, Minerva: se genericamente il suo è uno degli esempi di superbia punita, specificamente la superbia in lei si configura nel presumere di essere, mortale com’era, pari alla divinità: donde l’immediata punizione”. Cfr. U. Bosco, La «follia» di Dante, in “Lettere italiane”, X, (1958), p. 419. 3 Appare del tutto naturale che la rassegna inizi con Lucifero e termini con Troia, esempio per antonomasia di superbia etnico – militare. Lo spunto viene dalle Sacre Scritture (“Videbam Satanam sicut fulgur de caelo cadentem”. Cfr. Evangelium secundum Lucam, X, 18) e da Virgilio (ceciditque superbum / Ilium et omnis humo fumat Neptunia Troia. Cfr. Aeneis, III, 2-3). È estremamente interessante notare, a riguardo, che qui i concetti di superbo in senso morale e di “alto, a capo eretto” in senso fisico si compenetrano e arricchiscono a vicenda, fino ad identificarsi; ed è proprio su questa identificazione che si basa il contrappasso dei superbi espianti. (Cfr. anche te basso e vile / mostrava il segno - vv. 62-63; quando la fortuna volse in basso / l’altezza de’ Troian che tutto ardiva - Inf. XXX, 13-14; Or superbite, e via col viso altero, / figliuoli d’Eva, e non chinate il volto / sì che veggiate il vostro mal sentero! - vv. 70-72 dove altero vale “alto”, come spesso in Dante). 4 Cfr. F. Flamini, Il canto XII … cit., p. 239.

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Mi sembra interessante tornare sull’esempio di Saul e riportare l’interpretazione proposta da

Auerbach che appare, a mio avviso, estremamente acuta:

“In ogni esempio, Dante parla della punizione in cui sono incorsi i superbi, perciò l’allusione alla morte di Saul non ha bisogno di spiegazioni, e l’ultimo verso, […] potrebbe essere stato aggiunto per pura convenienza […]. A me pare che in quell’ultimo verso ci sia un’allusione ad un altro esempio di orgoglio, assai più importante degli altri. In molti commenti all’atteggiamento di David dopo la morte di Saul (2 Sam., 1, 14) […] Saul è considerato, malgrado i suoi peccati, come l’unto del Signore […] è interpretato come figura di Cristo; la sua morte annuncia la Passione e le montagne di Geolbè significano i cuori arroganti (“superbia corda”) degli ebrei che respingono il messaggio di Cristo […]”.1

Questi esempi sono medicina efficace per lo stesso Dante, ben cosciente ormai della propria

superbia.2 Il fatto che si tratti di personaggi attinti dalla Bibbia, dalla mitologia e dalla storia,

sembra mettere in evidenza che il sentimento della superbia è innato nelle anime degli uomini di

ogni terra e di ogni tempo.

Anche la tecnica con cui il poeta presenta questi esempi rivela artifici particolari: tredici terzine

(una per rappresentazione) sono divise in tre serie di quattro ciascuna.

Le prime quattro iniziano con la stessa parola, “Vedea”; quelle dalla quinta all’ottava hanno inizio

con “O”, mentre le quattro successive con la parola “Mostrava”. Infine, i versi della tredicesima,

relativi all’esempio di Troia, presentano le stesse parole iniziali dei gruppi di terzine precedenti nel

medesimo ordine.3

Appare poco credibile che Dante si sia servito di un artificio così ben congeniato a scopo puramente

formale; è più probabile che nelle sue intenzioni dovesse rispecchiare un “ordinamento logico del

pensiero”.

                                                            1 Sarebbe questo il motivo per cui “la rugiada o la pioggia della grazia divina non cadranno mai su di loro e essi non produrranno mai i primi frutti del campo. […] Il principio implicito, estraneo alla mente moderna, è quello della molteplicità di significati (polisemia) dell’interpretazione figurale, la quale attribuisce […] alla stessa persona sensi moralmente contraddittori”. Alla luce di questo passo, si può convenire sulla validità della tesi proposta dallo studioso: Saul, se da un lato viene respinto per la sua superbia, dall’altro appare come “figura Christi”. (Cfr. Auerbach, L’orgoglio di Saul, cit., pp. 270-271). 2 Nell’etica cristiana la superbia è legata al peccato originale e alla disubbidienza a Dio: per orgoglio, per aver preferito il suo arbitro al preciso ordine di Dio, Adamo commise quell’atto che causò la caduta dell’uomo (cfr. S. Tommaso, Summa theologiae, II-IIae, q. 105, 2 e 3). Così i primi esempi di superbia nel XII del Purgatorio e molti degli esempi seguenti sono atti di disobbedienza a Dio o di disprezzo alla sua potenza. Si veda anche A. Gennaro, Superbia, “voce” dell’Enciclopedia Cattolica, Firenze, Sansoni, 1953, vol. XI, pp. 1570-1571. 3 Tale struttura distingue gli esempi di superbia in tre gruppi e sembra che ciascuno di questi gruppi rappresenti una diversa tipologia di superbia e quindi di punizione. Bisogna ammettere, però, che i tentativi compiuti in questa direzione non hanno dato risultati pienamente soddisfacenti; eccezion fatta per la prima quaterna, in cui vengono chiaramente rappresentati casi di ribellione diretta contro la divinità, le categorie finora proposte per le altre due quaterne non arrivano a comprendere tutte le figure rappresentate. (Cfr. U. Bosco, Introduzione al Canto XII, cit.)

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Secondo il Flamini, che concorda su questa interpretazione del Medin, alle tre serie di terzine

corrispondono tre diverse categorie di superbi: i puniti dalla divinità (Lucifero, Briareo, i Giganti,

Nembrot), i puniti da se stessi per rimorso (Niobe, Saul, Aragne, Roboam) e i puniti dai nemici o

dalle loro vittime (Erìfile, Sennacherib, Ciro, Oloferne).1

Dalle indicazioni del testo, risulta la figurazione di un grandioso portale disteso sul ripiano del

monte, in cui un battente con sei quadri sacri fa riscontro all’altro, con sei quadri profani. L’artificio

retorico si sovrappone a questa rappresentazione come momento non visivo ma riflessivo:

suggerisce alla mente infatti, non all’occhio, di riconoscere in tanti esempi di superbia (divisi in

spazio e tempo, ma congiunti dalla sigla “VOM”, cioè uom) la miseria dell’uomo in seguito alla sua

caduta, ossia al peccato originale, che sarà presentato da Dante per bocca di Adamo (in Par., XXVI,

115-117), proprio come peccato di superbia.

Inoltre, le scene rappresentate sono rese ancora più efficaci dal fatto che il nome di ogni figura fa

venire in mente, oltre al ricordo della rovina di essa, anche quello della grandezza e della potenza

precedenti, generando nell’osservatore un contrasto stridente che invita alla meditazione.

In questo modo Dante e gli altri superbi si trovano davanti agli occhi, alla mente e al cuore, tutte le

possibili fogge dell’umana superbia: diventa inevitabile per l’auctor prorompere in un

ammonimento sotto forma d’apostrofe piena di sarcasmo.

Or superbite, e via col viso altero, figliuoli d'Eva, e non chinate il volto sì che veggiate il vostro mal sentero!2

(vv. 70-72)

Così commenta il Flamini, che assume una posizione interessante anche per quanto riguarda

l’ordinamento morale dei regni oltremondani:

“Che è il «mal sentero» che gli uomini percorrono senza avvedersene? Non v’ha dubbio; è quella «via non vera», quel «cammino fallacissimo» - opposto al «veracissimo» -, pel quale vanno a ritroso, volgendo le spalle al fine, anzi ai due fini, a cui la Provvidenza li ha ordinati. «Infermi della vista della mente», i Cristiani per effetto della loro superbia hanno fidanza «ne’ ritrosi passi»; onde l’amore, cioè l’appetito d’animo, in essi volge al male, e fa loro «parer dritta la via torta».”

                                                            1 Cfr. F. Flamini, Il canto XII … cit., pp. 239-240. Il critico commenta: “Il primo gruppo è contraddistinto dalla parola iniziale Vedea, il secondo da O, il terzo da Mostrava. E le tre categorie, con le formule iniziali relative, appaiono riassunte nella terzina tredicesima; ove Dante parla di Troia, esempio «solenne e tipico» di superbia simultaneamente punita dagli Dei, da se stessa e dagli uomini”. 2 L’intera terzina si basa sull’antifrasi ironica, figura retorica per cui si esprime cosa apparentemente contraria a ciò che si vuol realmente significare. Questa sarcastica apostrofe riprende il tema esortatorio di Purg., X, 121 e ss. ma il tono si fa più aspro e pungente e gli uomini son detti figliuoli d’Eva, non d’Adamo, forse perché fu essa a peccare per prima di superbia (cfr. Genesi, III, 5-6) – si veda G. Reggio, commento ai vv. 70-72, in La Divina Commedia, cit.

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“Anche la considerazione, pertanto, degli esempi di superbia punita e dell’insegnamento che se ne trae mi conferma nell’opinione […] che la partizione del Purgatorio dantesco corrisponda simmetrica a quella dell’Inferno, e che […] le cornici della superbia e dell’invidia, corrispondano alla città dei «felli»”.1

Dopo tale ammonimento agli uomini affinché si guardino dalla superbia, i due poeti riprendono il

viaggio e si trovano al cospetto del primo degli angeli che si trovano all’uscita di ciascun balzo del

Purgatorio, il quale li indirizza alla scala che conduce alla seconda cornice e cancella la prima “P”

dalla fronte di Dante.

Ora il pellegrino procede spedito sui gradini, accompagnato dal canto dell’inno Beati pauperes

spiritu intonato dalle anime; all’invito dell’angelo di seguirlo su per la scala ben pochi rispondono e

ciò fa esclamare a Dante:

o gente umana, per volar sù nata, perché a poco vento così cadi?".

(vv. 95-96)

A cui segue la famosa similitudine, ricca di fiere e pungenti allusioni politiche sulla ben guidata.2

Dante si meraviglia assai di avanzare in maniera tanto veloce e agevole nonostante la salita, più di

quanto non lo fosse camminando in pianura e ne chiede spiegazione a Virgilio: risponde la guida,

assicurando che d’ora in avanti ogni fatica andrà pian piano scomparendo, che sarà sempre più

piacevole guadagnare l’altezza della montagna quando, volta per volta, tutte le “P” saranno

cancellate.

Anche in questa sede, Dante non rinuncia al realismo e alla concretezza che caratterizza la sua

opera e inserisce nella narrazione ricordi terreni che contribuiscono a chiarire quanto sta accadendo.

Ricorda, infatti, (e molto opportunamente) la chiesa di San Miniato a Monte, costruita appunto sul

Monte alle Croci, sopra il ponte delle Grazie (al tempo denominato ponte di Rubaconte): per

giungervi, era necessario superare una salita, resa agevole da una comoda scalinata, esattamente

come quella che conduce alla seconda cornice.3

                                                            1 Cfr. F. Flamini, Il canto XII … cit., pp. 241-242. Secondo il critico lo schematismo dei due regni presenterebbe evidenti analogie nella disposizione dei peccati, specificamente tra la città di Dite e le prime due cornici del Purgatorio in quanto “la malizia, sia che provenga da un accecamento, sia che provenga da un traviamento dell’intelletto, ha sempre radice appunto nella superbia che ci fa aver fidanza nel «malsentiero». E della superbia l’invidia è figliuola primogenita […]”. (Ibid.). 2 Si tratta ovviamente di Firenze, di cui le signorie democratiche facevano mal governo; il verso ad etade ch’era sicuro il quaderno e la doga (il registro degli atti e lo staio per misurare il sale), si riferisce a due frodi commesse in Firenze al tempo di Dante. Cfr. F. Flamini, Il canto XII … cit., p. 244. 3 Ha notato il Bosco che i commentatori in genere concentrano la loro attenzione sull’ironia con cui il poeta designa la sua città, la ben guidata, v. 102, e sullo sdegno con cui condanna i suoi corrotti costumi. Questi

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Tornando su quello che è uno dei motivi centrali del canto, la diminuzione dello sforzo nel salire la

scala è chiaramente simbolica. Stupito di questo fatto eccezionale infatti, Dante si porta la mano alla

fronte e constata che sono rimaste solo sei “P”: si è finalmente liberato del peso più grave, la

superbia appunto, e Virgilio sorride soddisfatto.

Cancellato il peccato di superbia, tutti gli altri si attenuano.

Rispuose: «Quando i P che son rimasi ancor nel volto tuo presso che stinti, saranno, com’è l’un, del tutto rasi,

fier li tuoi piè dal buon voler sì vinti, che non pur fatica sentiranno,

ma fia diletto loro esser su pinti»1

(vv. 121-126)

Il sorriso di Virgilio è sintomatico ed esprime tutta l’importanza dell’evento: considerando la guida

per quel che allegoricamente rappresenta, ossia la “retta ragione nella pienezza de’ tempi”, appare

più che naturale che egli si compiaccia di quel gravissimo impedimento finalmente superato

dall’anima del suo discepolo.

In definitiva, nel canto dominano l’elemento morale, ovviamente, con l’attenta e diffusa descrizione

degli esempi di superbia punita e con apostrofi agli uomini che, accecati da questo peccato, non si

rendono conto dei propri errori e della propria vanità; e quello allegorico, in quanto il colpo d’ala

dell’angelo che cancella la prima “P” dalla fronte di Dante, rappresenta la remissione dello stesso

dal primo e più grave peccato.

La superbia punita negli esempi e l’insistente invito a non cadere in una colpa così severamente

punita, o comunque a liberarsene in tempo, palesano lo scopo didascalico che Dante si è prefisso a

edificazione propria (in primis) e del lettore. In pochi altri luoghi del poema si avverte in modo così

forte ed esplicito la passione con cui il poeta si impegnava, con la sua intrepida e incrollabile fede di

apostolo, per conseguire i suoi fini.                                                                                                                                                                                                      sostengono che Dante abbia richiamato la scala di San Miniato per aver l’occasione di deplorare nuovamente il malgoverno di Firenze e la sua corruzione, ma sembra più probabile che il poeta abbia sentito l’esigenza di offrire al lettore un paragone concreto, per visualizzare un paesaggio tanto astratto e lontano dalla sensibilità comune (Benvenuto afferma che qui Dante ricorre ad una delle sue “comparatione domesticae” e non si può negare che l’improvvisa visione del monte che sovrasta la sua città possa aver suscitato in lui un moto di nostalgia, amarezza e rimpianto per i gloriosi tempi ormai passati). 1 Cancellata la P della superbia, tutti gli altri sono quasi svaniti, estinti in quanto l’inizio d’ogni peccato è la superbia (cfr. Ecclesiastes, X, 15). Dante, che non si era accorto dell’accaduto, si porta istintivamente una mano alla fronte con le dita scempie per meglio contare e Virgilio osserva divertito la scena sorridendo. Secondo il Momigliano (cfr. A. D., La Divina Commedia, Firenze, Sansoni, 1947, vol. II), si tratta di una piccola scena che dice “indirettamente il sollievo” di Dante, ben conscio del suo peccato di superbia, “al pensiero di essere libero da quel primo peccato; il sereno risolversi di una situazione lungamente tesa”.

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All’inizio del canto, egli procede a testa bassa, non solo perché come buoi che vanno a giogo1 si era

accompagnato ad Oderisi, ma soprattutto perché sentiva dentro di lui il bisogno di umiliarsi

dandone segni ben visibili, anche nell’atteggiamento fisico. Continuerà, infatti, il cammino a testa

china e non tanto per veder lo letto delle piante sue, quanto per meditare sugli esempi che gli si

offrono alla vista, in una posizione fisica che indica anche (e soprattutto) un raccoglimento

interiore, una smania di mortificazione che possa redimerlo dalla colpa più grave commessa da una

creatura contro Dio.

Dal ribelle Lucifero al superbo Ilion, Dante ha appreso la lezione e ha fatto il suo bagno di umiltà:

gli è infatti ora concesso di drizzar la testa, di riposare gli occhi e la mente spossati nella visione

dell’angelo, la creatura bella e di iniziare la ripida salita che condurrà alla seconda cornice, più

leggero proprio perché più mondo.

L’angelo dell’umiltà fa risuonare l’inno della mansuetudine,2 che annulla ogni torbido sentimento

provocato dalla sete di gloria e potenza: la mente del pellegrino si sgrava, le gambe diventano agili,

una delle “P” è caduta e con essa si estingue la colpa che lo aveva tanto tormentato.

                                                            1 Osserva il Reggio: “la similitudine non vuole indicare solo l’identica posizione di Dante e di Oderisi, curvi e lenti, ma trattandosi del paragone con animali proverbialmente pazienti e rassegnati nel loro lavoro sotto il giogo, vuole significare anche la compunzione e il sentimento di umiltà dei penitenti e del poeta” (cfr. G. Reggio, commento al v.1, in Canto XII, cit.). 2 Beati pauperes spiritu. È la prima delle beatitudini evangeliche del Sermone della montagna (cfr. Evangelium secundum Matthaeum, V, 3), interpretata alla luce di un passo di Tommaso (cfr. Summa Theol. I-IIª, q. 69, a. 3) come elogio dell’umiltà – si veda G. Reggio, cit., commento al v. 110.

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§ 4. Dante e il suo Purgatorio

“Nel preludio del Purgatorio”, come ha osservato acutamente il Momigliano, “c’è già la premessa di quel nuovo Dante che ci si presenterà dinanzi in tutta l’ascesa del sacro monte: un Dante non più aggressivo e passionale, ma raccolto in se stesso. I suoi incontri con le anime purganti non sono più scontri, ma colloqui fraterni, e talora quasi colloqui con se stesso, un se stesso […] ritirato nel profondo, in un atteggiamento di contrizione e di muta confessione. Il Purgatorio è la più intima delle tre cantiche […]”.1

 La critica riconosce nel Purgatorio la cantica più a misura d’uomo. I paesaggi sono molto simili a

quelli terrestri e le indicazioni temporali abbondano: ci si trova in una dimensione spaziale e

temporale in tutto uguale a quella dei vivi, ed è proprio il sentimento del tempo, questa condizione

di marcata provvisorietà che costituisce la differenza più evidente tra la seconda cantica e le altre.

Dante indica in vari modi il Purgatorio come sua destinazione post mortem. Le sette “P” che

vengono incise sulla sua fronte, ad esempio, oltre ad essere un efficace espediente narrativo,

rappresentano implicitamente la partecipazione fisico – emotiva di Dante alla peregrinazione: egli

soffre, almeno in parte, le pene dei vari peccatori in relazione ai vizi che riteneva di avere in misura

maggiore (in particolare la superbia, poi anche ira e lussuria).

Chi si accinge alla lettura del Purgatorio, sente scattare da subito un meccanismo di identificazione

e avverte nel protagonista un cambiamento, una più diretta messa in gioco. È il luogo dell’umanità e

del suo faticoso cammino verso la redenzione, un luogo appunto molto più simile a noi e ai nostri

riferimenti, per questo più realistico e comprensibile rispetto all’Inferno o al Paradiso. Qui Dante ci

presenta incontri con personaggi indimenticabili proprio in virtù della loro umanità, i quali non

hanno nulla dei tremendi peccatori infernali né tanto meno dei beati del Paradiso.

“L’uomo del purgatorio ha i sentimenti conformi a questo stato dell’anima. Il suo carattere è la calma interiore, assai simile alla tranquilla gioia dell’uomo virtuoso […]. Ne nasce un mondo idillico, che ricorda l’età dell’oro, dove tutto è pace e affetto e dove si manifestano con effusione la pure gioie dell’arte, i dolci sentimenti dell’amicizia”.2

Tutto si alleggerisce, l’atmosfera è serena e distesa, lontana tanto dal tumulto infernale quanto dalle

vanità mondane. Proprio in questo senso dell’atmosfera alcuni critici vedono la caratteristica

bellezza del Purgatorio, tra tutti il Momigliano secondo il quale Dante ha creato in questo modo “il

più nuovo e poetico dei suoi mondi”.3

                                                            1 Cfr. A. Momigliano, Tono e motivi del Purgatorio, in A. D., La Divina Commedia, col nuovo commento di A. Momigliano, cit. 2 Cfr. F. De Sanctis, L’uomo del Purgatorio, in Storia della letteratura italiana, vol. I, Napoli, Morano, 1929. 3 Cfr. A. Momigliano, Tono e motivi … , cit.

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Un mondo, questo, costituito prevalentemente di stati d’animo, in cui tutto è avvolto da un alone di

raccoglimento. Continua il critico: “Qui Dante non è più il viaggiatore […] ma il pellegrino

spirituale, nel Purgatorio il motivo del viaggio si fa interiore”1 e rappresenta lo smarrimento dello

spirito in cerca di redenzione, il faticoso cammino da intraprendere per la conquista della meta

agognata. Nulla di più vero.

Nella maggior serenità di questa cantica si può forse vedere riflesso il mutato atteggiamento di

Dante nei confronti della vita: nel periodo in cui scriveva il Purgatorio, infatti, la rabbia per

l’ingiusto esilio si stava a poco a poco placando e il suo ripiegamento interiore si può interpretare

alla luce della saggezza acquisita col tempo.

I personaggi che popolano il suo Purgatorio si sono ormai staccati dai sentimenti terreni; quello che

domina è un comune sentimento di concordia, che si esprime nell’orazione e negli atti e che

rappresenta l’iter dell’anima, la quale esce dalla propria solitudine per vivere in carità, nel faticoso

cammino per “ricomporre l’unità che il mondo rompe”, come giustamente afferma Ramat. E la

meditazione poetica di Dante intende esprimere tale soave pena: da questo punto di vista il

Purgatorio è “la più intimamente autobiografica delle tre cantiche, poiché è la storia della sua

coscienza […]. Egli patisce quello che vede patire, e insieme si illumina via via di speranza, fatto

più limpido e leggero”.2

A tale riguardo risulterà illuminante l’esempio dei superbi. Ciò che si presenta alla vista (e al cuore)

del poeta è un patire estremo che sembra vincere ogni resistenza: e qual più pazienza aveva negli

atti, / piangendo pareva dicer «più non posso»;3 questa è l’intima riflessione del pellegrino che,

ascoltando i discorsi di queste anime, si piega umiliato come se il sasso domasse anche la sua

superba cervice. Ma proprio quando la sofferenza sembra abbattere l’anima e ogni sua volontà, ecco

che interviene la grazia divina, infondendo quella pazienza necessaria a sopportare qualsiasi

patimento; e in questo modo il patimento diventa amato, proprio perché in esso si scopre la

presenza di Dio, che dà sì il dolore, ma anche la forza per sopportarlo e il modo per redimersi.

Le anime espianti, per quanto ormai distaccate dai sentimenti mondani, non sono dimentiche della

terra né, come sottolinea Ramat, potrebbero esserlo dato che la loro purificazione viene raggiunta

col “pentimento, che comporta la perpetua presenza della colpa” e quindi del mondo, luogo appunto

della loro colpa.

                                                            1 Ibid. 2 Cfr. R. Ramat, Preghiere, memorie, riti nel Purgatorio, in La civiltà letteraria italiana, vol. I, Firenze, Sansoni, 1950, p. 486. 3 Cfr. Purg., X, 138-139 (si veda quanto detto in § 1.).

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Ma la presenza del mondo è pur “sempre velata dalla coscienza della sua vanità”1 e in ogni caso

domina un sentimento di malinconia, uno dei principali motivi della bellezza di questa cantica.

4.1 Gli incontri

Come è stato anticipato, nel passaggio dalla prima alla seconda cantica cambiano completamente le

modalità degli incontri. Non più dialogo obbligato dalla volontà divina, estrapolato con l’inganno e

sfociante in diverbio o addirittura scontro tra i due poeti e i personaggi infernali, bensì piacevoli e

fraterni colloqui, fortemente voluti; incontri questi, che diventano una preziosa consuetudine nel

Purgatorio, vera a propria sorgente di ispirazione poetica.

Mi sembra molto acuta la riflessione del Getto riguardante il colloquio con Oderisi:

“La grave meditazione sulla vanità della gloria, che Oderisi pronunzia, […] non cancella la aspirazione di Dante alla fama, ma la colloca in una atmosfera di religiosa pensosità, la innerva di solenne moralità, e rende più vissuto, più interiore, il dramma dell’intelligenza del poeta. Il quale, del resto, qui vibra di passione per l’arte e si insapora del gusto per i possibili richiami alla recente storia dell’arte e della poesia. Questo episodio definisce liricamente il quadro di un incontro e di una conversazione, dell’ambiente e delle consuetudini, caratteristici fra artisti e uomini di cultura (Purg., XI, 79-87)”.2

Non è il Purgatorio la più “bella” delle tre cantiche? In virtù di quanto detto finora forse è legittimo

pensarlo, ma sono d’accordo col D’Ovidio in quanto non penso sia possibile dare un giudizio di

valore a “cose intrinsecamente diverse e ciascuna in sé perfetta”;3 preferire l’una o un’altra cantica è

spesso l’effetto di una disposizione soggettiva, ma appare innegabile (come abbiamo

precedentemente avuto modo di dimostrare) che il Purgatorio sia la cantica più a misura d’uomo e

quindi più vicina alla nostra sensibilità.

Da questo punto di vista è ovvio che il lettore che si avvicina alla seconda cantica si senta più

coinvolto, faccia meno fatica a comprendere i temi trattati, lo senta più intimo e, di conseguenza, si

senta più sereno e coinvolto.

Mi sembra opportuno concludere col D’Ovidio, il quale riassume magistralmente quanto detto

finora:

“Il mondo della purgazione è mondo di colori temperati che riposano l’anima, e sta nel giusto mezzo fra il tristo mondaccio infernale e il mondo troppo ideale del Paradiso. Il Paradiso è troppo sopra l’umano, trascende la nostra immaginazione […]”.4

                                                            1 Cfr. R. Ramat, La civiltà letteraria … cit., pp. 486-487. 2 Cfr. G. Getto, Aspetti della poesia di Dante, Firenze, Sansoni, 1966, pp.168-169. 3 Cfr. F. D’Ovidio, Il Purgatorio, vol. III, in Nuovi studii danteschi, Napoli, Guida, 1932, p. 383. 4 Ibid., p. 384.

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§ 5. Considerazioni finali

Costruzione morale di Inferno e Purgatorio, due sistemi a confronto: dov’è la superbia?

È stato detto in apertura del presente capitolo che il tema della superbia in Dante genera non pochi

problemi circa l’organizzazione della struttura morale di Inferno e Purgatorio e, nello specifico,

circa la precisa collocazione di tale peccato che, se nella seconda cantica è chiara e attentamente

descritta e analizzata, nell’Inferno sembra non essere, se non allusivamente, contemplata.

L’idea fondamentale che Dante segue nel disegnare l’ordine delle pene viene esplicitata dal poeta

stesso. Giunto al sesto cerchio (che è dentro la Città di Dite), egli chiede a Virgilio:

… Quei della palude pingue, che mena il vento, e che batte la pioggia,

e che s’incontran con sì aspre lingue, perché non dentro della città roggia

son ei puniti, se Dio li ha in ira? E se non li ha, perché sono a tal foggia?

Ed elli a me: perché tanto delira, disse, lo ingegno tuo da quel ch’ei suole?

Ovver la mente tua altrove mira? Non ti rimembra di quelle parole,

colle quali Etica pertratta le tre disposizion che il ciel non vuole:

incontinenza, malizia e la matta bestialitade? E come incontinenza

men Dio offende e men biasimo accatta?

(Inf., XI, 70-84)

Appare chiaro che in questo passo sono designate le tre colpe di incontinenza, malizia e bestialità.

Degli incontinenti esistono cinque specie: lussuriosi (secondo cerchio), golosi (terzo), avari e

prodighi (quarto) e iracondi (quinto). Già prima di essi, sono collocati nel Vestibolo gli ignavi e nel

primo cerchio gli abitatori del Limbo.1

A prima vista sembrerebbe che Dante avesse distinto questi peccatori secondo lo stesso principio

applicato alle cornici del Purgatorio, ossia secondo l’ordine dei peccati mortali, naturalmente, in

senso inverso: eccezion fatta per gli accidiosi (per un motivo meramente topografico), l’ordine è

infatti identico a quello dei cerchi infernali dal secondo al quinto.

                                                            1 Questo fatto apre una questione: perché Dante ha collocato i primi fuori dall’Inferno e i secondi dentro di esso? Il contrario sarebbe stato sicuramente più logico e conforme al senso morale, ma probabilmente “quei vigliacchi erano il rifiuto dell’Inferno e del Cielo” (cfr. A. Bartoli, Costruzione morale dei tre regni, in Storia della letteratura italiana, Firenze, Sansoni, 1887, vol. VI, P. I, p. 47).

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Giunti al sesto cerchio, però, si ha un cambiamento e le colpe sono esplicitamente divise secondo la

dottrina aristotelica (cfr. vv. 70-83 riferiti sopra). Ha notato acutamente il Minich:

“Nei primi sette canti il Poeta avea già descritto l’Anti-Inferno de’ vili o pusillanimi, e cinque circoli infernali, il primo de’ quali è il Limbo, e gli altri racchiudono i lussuriosi, i golosi, gli avari co’ prodighi e gl’iracondi co’ peccatori d’accidia. Oltre questi peccati non rimanevano poscia a punirsi che l’invidia e la superbia. All’invidia non si trova assegnato nell’Inferno Dantesco un determinato luogo di punizione […] La superbia fu appena adombrata in alcuni violenti del settimo cerchio, e rappresentata nel nono ed ultimo cerchio dai giganti a da Lucifero. […] in luogo del sistema abbozzato in que’ primi Canti si manifesta invece fin dall’ottavo Canto un nuovo aspetto dell’Inferno, ed un più complesso sistema di punizione, del quale il lettore difficilmente potrebbe afferrare il concetto, se Dante stesso non avesse dedicato a spiegarlo tutto il Canto XI. In questa guisa egli seppe con un finissimo accorgimento del suo genio stabilire il nesso comune tra i due sistemi penali testè avvertiti, senza mestieri di rinnovare un’altra volta i sette Canti anteriori”.1

Ammesso e non concesso che Dante abbia da sempre voluto seguire la divisione aristotelica, in tale

divisione dovevano essere compresi tutti i vizi. Ora, procedendo dal sesto cerchio, vengono trattati

in ordine eresiarchi, violenti (settimo), fraudolenti (ottavo), a cui segue il pozzo dei giganti e i

traditori (nono): si nota fin da subito che mancano tre dei vizi capitali, ossia superbia, invidia e

accidia.

È proprio questo uno dei temi più “caldi” che fin dall’inizio infiammò i dibattiti intorno

all’interpretazione della Commedia e che riflette il disagio incontrato dai primi commentatori

nell’accingersi all’esegesi.

Iacopo Alighieri ha trovato punita l’accidia nel quinto cerchio, insieme all’ira, indottovi dai versi:

Fitti nel limo dicon: “Tristi fummo Nell’aer dolce che dal sol s’allegra, portando dentro accidioso fummo:

(Inf., VII, 121-123)

Conficcati nella fanghiglia questi peccatori non appaiono mai alla superficie e ben sospirano in

questa pena, in quanto furono tristi nel mondo portando dentro accidioso fummo, ossia la tristezza

dell’accidia che offusca l’animo e lo rende turpe nell’ozio, come lascia intendere Benvenuto:

“accidioso fumo, i. tristitiam accidiae quam vocat fumum, qui aita oscura nomine quod nihil preclari facit, imo marcet turpi ocio”.2

                                                            1 Cfr. S. R. Minich, Appendice alle Considerazioni sulla sintesi della Divina Commedia, in “Rivista periodica dei lavori della I. R. Academia di Scienze, Lett. ed Arti di Padova”, vol. III, Padova, 1855, pp. 316 e sgg. 2 Cfr. Benvenuti de Rambaldis de Imola, Comentum super Dantis Aldigherii Comoediam, a cura di G. F. Lacaita, Firenze, Barbèra, 1887, vol. I, pp. 270-271.

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E Francesco da Buti, il quale definisce in maniera dettagliata in che cosa consista l’accidia qui

punita e intuisce un rapporto ben motivato tra peccato e pena:

“E deesi notare che perciò finge l’autore che li accidiosi sieno puniti sotto la palude Stige, che significa tristizia, perché l’accidia è sempre con tristizia […] Accidia è tedio del bene interno, ovvero accidia è torpore d’animo negligente di cominciare le buone cose […] prima li accidiosi sono sotto la palude di Stige attuffati, perché l’accidioso sempre è in tristizia sommerso; e quello che gorgogliano è lo rimorso della coscienza che ànno di sì fatto peccato […]”:1

L’aspetto scottante della questione consiste nel fatto che Dante punisce nell’Inferno ira e accidia

nello stesso cerchio, mentre nel Purgatorio assegna ad esse cornici diverse. Come giustificazione si

potrebbe addurre il fatto che nella critica antica c’è chi, riferendosi al grado diverso, vuole che il

vizio di questi accidiosi d’iracondia sia l’antitesi dell’ira, ossia la troppa pazienza (colpa che Dante

stesso in Convivio, IV, XVII, 5 pose all’estremo opposto dell’ira rispetto al giusto mezzo della

mansuetudine).

Secondo il Boccaccio e l’Anonimo fiorentino, l’ira accidiosa è una peculiare forma di accidia e

viene presentata appunto come condizione peccaminosa contraria all’ira:

“Resta a vedere del vizio opposito all’iracundia, il quale in questa medesima palude di Stige si punisce con gl’iracundi, cioè l’accidia […]”.2

“[…] è da sapere che, secondo che scrive Aristotile nell’Etica, ell’è una ira, la quale tiene il mezzo tra questi due estremi, ira et accidia. Questa cotale ira, di che si parla, è detta mansuetudine”.3

Come avviene nel precedente cerchio con avari e prodighi quindi, in questo verrebbero accoppiati i

due estremi viziosi dello stesso peccato, che deviano dal giusto mezzo l’uno per eccesso e l’altro

per difetto. In tale ottica la sopraddetta contraddizione sembrerebbe appianata.

Ma nel quinto cerchio non sono puniti solamente iracondi e accidiosi. Questo è il luogo dell’Inferno

dantesco in cui “molti interpreti pongono tutti i peccati che non riescono a trovare altrove”.

                                                            1 Cfr. Commento di Francesco da Buti sopra la Divina Commedia di Dante Allighieri, a cura di C. Giannini, Pisa, Fratelli Nistri, 1858, vol. I, pp. 218-219. Interpretano allo stesso modo l’Ottimo, Pietro Alighieri, il Boccaccio e il Landino. L’opinione di chi, col Daniello, vede gli accidiosi nel vestibolo infernale appare poco ragionevole, per una ragione meramente teologica: l’accidia è uno dei vizi capitali e non può essere posto fuori dell’Inferno. Per la tesi di B. Daniello si veda La Divina Commedia nella figurazione artistica e nel secolare commento, a cura di G. Biagi, Torino, Editrice Torinese, 1924; Daniello, commento a Inf., VII, vv. 115-127, pp. 228-229. 2 Cfr. G. Boccaccio, Esposizioni sopra la Comedìa di Dante, a cura di G. Padoan, Milano, Mondadori, 1965, VII, esp. litt., VII, pp. 441-443. 3 Cfr. Commento alla “Divina Commedia” d’Anonimo fiorentino del sec. XIV, a cura di P. Fanfani, Bologna, Tip. Fava e Garagnani, 1866, vol. I, p. 208.

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“Manca la pena dell’accidia, dell’invidia, della superbia: ebbene, siccome, dicono, queste devono

esserci, troviamole nel quinto cerchio”.1

Con la conclusione del canto VII dell’Inferno si esaurisce la definizione generale dei peccati puniti

nella palude stigia e il dibattito sull’accidia, ma nei canti successivi la scena si apre sempre sul

medesimo ambiente e, in particolare, si presenta il problema di invidiosi e superbi.

Consideriamo ora il Canto VIII.

Alla base di tutto l’ordinamento morale dello Stige sta il concetto di tristizia, inteso secondo gli

schemi medievali. Accettando questo tipo di interpretazione, l’invidia, espressamente posta dai

teologi tra le pieghe della tristezza, non può non essere collegata in qualche modo all’unico luogo

infernale dove vengono puniti esclusivamente questo tipo di peccatori, lo Stige appunto.

Ma è proprio questa stretta relazione tra tristezza e invidia che complica il problema: nei canti dello

Stige (e in generale in tutto l’Inferno dantesco) non esiste un luogo in cui il poeta dica essere punito

nello specifico questo peccato.2

Se l’ira è in questi luoghi espressa in modo più che palese e sull’accidia punita nel pantano dello

Stige convengono la maggior parte dei commentatori, non si può affermare nulla di simile per

quanto riguarda la superbia. Eppure quel Filippo Argenti, che fu al mondo persona orgogliosa e

denominato fiorentino bizzarro sembra velatamente accennare alla superbia; perché giusto di un

accenno si tratta, dato che il verso in sé medesmo si volvea co’ denti (cfr. Inf., VIII, 63) accomuna

l’orgoglioso Argenti a quei peccatori che si troncavano … co’ denti a brano a brano, subito definiti

da Virgilio come l’anime di color cui vinse l’ira. (cfr. Inf., VII, 114; 116).

Ritengo opportuno riportare, perché estremamente interessante, quanto ha proposto il Del Lungo nel

suo commento circa l’interpretazione della palude Stigia. Anche se le sue argomentazioni mal

sostengono la tesi, in quanto sono subordinate ad essa, è da apprezzare lo sforzo fatto per trovare

una specifica collocazione a superbia e invidia e il tentativo di valorizzare le testimonianza di Pietro

Alighieri (secondo cui nella palude Stigia il poeta “fingit puniri apparenter iracundos et superbos,

et non apparenter et occulte; idest in limo talis paludis fingit puniri accidiosos set invidios […]”).3

                                                            1 Cfr. A. Bartoli, Storia della letteratura italiana, cit., p. 59. 2 La definizione tomistica di accidia e invidia “sicut acidia est tristizia de bono spirituali divino; ita invidia est tristizia de bono proximi” (cfr. S. Tommaso, Summa Theologiae, II, II, 36, 4), porterebbe ad associare i due vizi nella palude stigia e a pensarli entrambi compresi nei tristi dei versi 121-123 del canto VII, ma l’aggiunta del verso portando dentro accidioso fummo fa cadere tale interpretazione. Per maggior chiarezza si rimanda a P. Rajna, Il canto XVII del Purgatorio (“Lectura Dantis Sansoni”), Firenze, 1901, p. 30. 3 Cfr. Petri Allegherii, Super Dantis ipsius genitoris Comoediam Commentarium, a cura di V. Nannucci, Firenze, Piatti, 1845, vol. I, pp. 107-108. Per la confutazione delle argomentazioni di Del Lungo si veda A. Bartoli, Storia della letteratura … cit., pp. 63-70.

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Egli ritiene, appunto, che Filippo Argenti rappresenti i superbi, non gli iracondi, in virtù

dell’esclamazione Quanti si tengon or là su gran regi … (cfr. Inf., VIII, 49-51) e vede nella baruffa

delle fangose genti che si lanciano addosso al superbo una scena di invidiosi.

“[…] queste vanno, «tutte» d’accordo, addosso ad uno solo, a quello gridano, a quello si scagliano, di quello fanno strazio: ed egli anche laggiù, nella disperazione infernale, superbo, non le respinge, non si accapiglia con loro, ma il proprio furore e il disprezzo verso gli assalitori sfoga sopra sé medesimo. Or non è questo precisamente lo spettacolo che di sé presentano nel mondo i superbi e gli invidiosi? Dico adunque che nello Stige Dante incontra, colpite dalla medesima punizione […] le anime degl’iracondi e degli accidiosi, dei superbi e degl’invidiosi. Nella prima circuizione, gl’iracondi e gli accidiosi […]. Nella seconda circuizione, i superbi e gl’invidiosi […]”.1

Il Del Noce ripropone questa tesi, esaminando l’ordine con cui i peccati sono disposti nell’Inferno:

in un crescendo di gravità, come è stato più volte sottolineato, troviamo nel secondo cerchio la

lussuria, nel terzo la gola, nel quarto l’avarizia. Nel quinto, secondo il critico, dopo iracondi e

accidiosi verrebbero i superbi (cui appartiene l’Argenti) e i suoi assalitori che, pur costituendo una

diversa schiera di peccatori, non sono identificati esplicitamente dal poeta in quanto, giunti a questo

punto del poema, “forse non si sa che i vizi capitali sono sette, e che avendo già parlato di sei, non

gli resta ormai da nominare che una sola specie di peccatori, gl’invidiosi? […] La mancanza del

solito breve accenno, né leva né mette: soltanto però ha reso molto più difficile il riconoscimento di

costoro”.2

Anche se il motivo addotto a giustificazione della non esplicita identificazione di questi peccatori

appare ben poco fondato, ritengo che non si possa negare la validità dell’opinione riferita sopra.

La presenza dei superbi e degli invidiosi nel quinto cerchio, ultimo della zona di incontinenza, si

basa su una ragione prettamente simmetrica, per la quale i sette peccati capitali espiati nel

Purgatorio dovrebbero essere puniti anche nell’Inferno, assegnando a invidia e superbia la

medesima regione infernale degli altri cinque (l’Antidite).

Per quanto complessa possa risultare la problematica, mi sembra davvero impossibile che Dante

non abbia assegnato alcun luogo proprio all’invidia e soprattutto alla superbia. Nonostante si tratti

di vizi considerati come radici di altri, restano pur sempre peccati a sé che non sfuggono all’occhio

e alla punizione di Dio. Ha il sapore di una sconfitta, ma appaiono davvero fondate le

considerazioni del Bartoli, secondo il quale “l’ordinamento morale della prima parte dell’Inferno,

presenta delle difficoltà (qualunque ne sia la ragione) insormontabili”.

                                                            1 Cfr. I. Del Lungo, Diporto dantesco, in “Nuova Antologia”, XXII, (1873); poi in Pagine letterarie e ricordi, Firenze, Sansoni, 1893, pp. 75-76. 2 Cfr. G. Del Noce, Lo Stige dantesco e i peccatori dell’antilimbo, Città di Castello, Lapi, 1895, p. 26.

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Ed è proprio per questo che “non vediamo ben chiaro come Dante abbia concepito la distribuzione

de’ peccati puniti dal secondo al quinto cerchio, né pienamente intendiamo il legame tra il sistema

seguito nei primi sette Canti e quello dei successivi. […] Sta di fatto che nei primi sette Canti è

punita la rea passione che spinse gli uomini al peccato, ma che tra queste ree passioni, ne mancano

tre, e delle più fondamentali”.1

È nell’interesse specifico della presente indagine considerare da vicino l’aspetto di tale

problematica che riguarda la possibile presenza nella palude dell’altro peccato, che secondo Pietro

Alighieri sarebbe punito con l’invidia: la superbia appunto.

Ritorniamo, quindi, sulla figura di Filippo Argenti. Stabilire esattamente di quale specie di peccato

si sia macchiato, va umilmente confessato, appare quasi impossibile: il lettore coglie in questa

immensa figura due differenti peccati e si trova combattuto tra due diverse posizioni. C’è chi si

schiera a favore di una delle due interpretazioni, vedendo nell’Argenti un iracondo o un superbo, e

chi contempla nello stesso tempo l’una e l’altra, definendo il bizzarro personaggio un’eterogenea e

non ben definita realtà peccaminosa.

A difendere questa seconda posizione è intervenuto il Flamini, che pone l’Argenti tra i “furiosi per

orgoglio”, una terza categoria di peccatori nei quali la rabbia sarebbe effetto dell’orgoglio deluso,

un’iracondia innestata nella vanagloria:

“L’orgoglio non è superbia, è baldanza, tumescenza (tumor animi), procedente da smodata fiducia in noi medesimi […] fa sì che ci crediamo degni di grandi cose, mentre ne siamo indegni […]. Essa è dunque il vizio opposto alla pusillanimità; ché l’una pecca per eccesso, l’altra per difetto […]. Filippo Argenti è appunto un chaymus2[…], che trovasi tra i furiosi perché egli, mentre «bontà non è che sua memoria fregi», in vita ha aspirato ad immeritati onori, e, non ottenendoli, è andato in collera oltre misura e fuor di tempo e di luogo”.3

Affermazioni interessanti, ma credere fermamente nella loro validità sarebbe forzare il testo a

significati che non può assumere e non ammettere, nemmeno come ipotesi virtuale, che la duplicità

del peccato rappresentato da Filippo Argenti sia una “semplice” dimenticanza del poeta dovuta alla

ripresa del canto VIII dopo un periodo di interruzione dell’opera e giustificata dal singolare verso

iniziale Io dico, seguitando.4

                                                            1 Cfr. A. Bartoli, Storia della letteratura … cit., p. 74. 2 Termine aristotelico che nella versione utilizzata da Tommaso e nel relativo commento significa “gonfio di vanità e orgoglio”. 3 Cfr. F. Flamini, I significati reconditi della Commedia di Dante e il suo fine supremo, Livorno, Giusti, 1903, P. I, pp. 178-180. Un simile tentativo di fondere insieme due diversi vizi, è rintracciabile nel D’Ovidio (cfr. F. D’Ovidio, Filippo Argenti e gli altri cani, in Nuovo volume di studii danteschi, vol. VI delle “Opere”, Caserta – Roma, A.P.E, 1926, pp. 231-232). 4 La bibliografia dedicata a questo delicato incipit è sterminata. In questa sede vale la pena di ricordare G.

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Emerge spontaneo chiedersi perché, nella zona dedicata all’incontinenza, debbano mancare proprio

i due vizi capitali più gravi. Il fatto che Dante li abbia dimenticati potrà sembrare piuttosto strano,

nessuno lo nega, ma che egli li abbia volutamente omessi o taciuti, appare assolutamente

insostenibile – che il poeta abbia pensato all’Antidite come zona organizzata secondo i sette peccati

capitali (che sono, anche, d’incontinenza) inoltre, è provato dal fatto che nei primi sette canti egli ha

presentato un Inferno in cui le distinzioni dei peccati corrispondono esattamente ai cinque del

settenario su cui si basa il Purgatorio.

Detto ciò risulterà chiaro che, in questo modo, Dante poteva avere riuniti grazie a tale artifizio tutti i

peccati del settenario capitale, sotto l’insegna della più semplice forma d’incontinenza: l’unico

motivo ragionevole per cui egli abbia escluso i più gravi è anche il più semplice, la dimenticanza.

In apertura del presente capitolo ho citato alcuni esempi di dannati nei quali è possibile riconoscere

la presenza della superbia come fattore determinante l’atto peccaminoso per cui essi sono puniti in

specifiche zone dell’Inferno (ad esempio Lucifero, Fialte, Capaneo, Vanni Fucci, e ce ne sono altri

disseminati nella città di Dite).

Ciò ha portato molti critici a pensare che la peculiare sede dei superbi sarebbe appunto la città

roggia. Tale peccato, in virtù del suo carattere di “capitalissimo”, non si mostrerebbe in una veste

specifica ma rappresenterebbe ovunque, in Dite, il male fin nelle estreme propaggini.1

Tutti gli sforzi compiuti per dare specifica collocazione alla superbia risultano però, per quanto

ammirevoli e interessanti, sostanzialmente inutili perché arbitrari, dato che Dante ha taciuto il

criterio di distribuzione dei peccati che ha seguito.

Per concludere, concordo pienamente col Bartoli quando afferma che “abituati come siamo a

sentirci ricantare ogni giorno che in Dante tutto è armonico e perfetto” solo il dubbio che egli possa

aver dimenticato una questione tanto importante possa apparire “un’enormità ed un blasfema […].

Ma anche Dante era un uomo, anche la Divina Commedia è opera umana”.2

                                                                                                                                                                                                     Boccaccio, Esposizioni … cit., VIII, esp. litt., pp. 446-450; a cui si rifà G. Ferretti, I due tempi della composizione della Divina Commedia, Bari, Laterza, 1935; e le recensioni del volume a cura di N. Sapegno, in “Giornale storico della letteratura italiana”, CVII, (1936), pp. 258-262; A. Momigliano, La composizione della “Commedia”, in “Corriere della Sera”, 1 agosto 1935; poi nel vol. Elzeviri, Firenze, Le Monnier, 1945, pp. 28-33; M. Barbi in “Studi danteschi” XIX, (1935), pp. 172-173; V. Rossi, in “Scuola e cultura”, XII, (1936), pp. 294-299; A. Chiari, in “Pan”, VI, (1935), pp. 492-495. Il merito di aver chiarito i nodi principali del problema, però, va al Padoan – cfr. G. Padoan, Appunti sulla genesi e la pubblicazione della “Divina Commedia”, in “Lettere Italiae”, XXIX, (1977), pp. 401-415. 1 Si vedano, tra tutti, G. B. Gelli, Letture edite e inedite sopra la Commedia di Dante, Firenze, Bocca, 1887, P. I, pp. 473-474; F. D’Ovidio, La topografia morale dell’Inferno, in Studii sulla Divina Commedia, (vol. I delle “Opere”), Napoli, Guida, 1931, P. I, pp. 458-249. 2 Cfr. A. Bartoli, Storia della letteratura … cit., pp. 87-88.

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In definitiva allora, non abbiamo alcun elemento certo su cui tentare la risoluzione di un problema

tanto spinoso e non ci rimane che affidarci alla testimonianza di Pietro Alighieri il quale, prestando

fede alle sue parole, sembra riferirsi a cosa udite direttamente dalla bocca del padre; e al periodo di

interruzione tra i primi sette canti e l’ottavo, unico motivo che possa dare legittimo fondamento

all’ipotesi della dimenticanza.

Rimane soltanto da chiedersi se ognuno di noi preferisca attribuire a Dante queste incongruenze

nella sua opera “perfetta” o considerare come fondamentale il commento del figlio, senza il quale la

rassegna dei peccati fatta dal poeta nel suo Inferno risulterebbe incompleta.

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Capitolo II

OCCORRENZE DEL LEMMA SUPERBIA NELLA COMMEDIA1

Come abbiamo avuto modo di osservare, il motivo della superbia è particolarmente sentito nel

poema, sintomo e conferma del particolare interesse dell’Alighieri nei riguardi di questo peccato.

L’argomento viene diffusamente trattato in molti luoghi della Commedia, di volta in volta, frutto di

riflessione morale o severa condanna, ripiegamento interiore o amara invettiva contro il mondo che

ne è così infetto. La trattazione del tema comporta – di necessità – lo sviluppo di un’articolata area

semantica.

Nello specifico, il lemma superbia, presentandosi nelle varie forme di sostantivo, aggettivo o verbo,

ricorre con una certa frequenza nel poema,2 distribuito in modo abbastanza omogeneo per quanto

riguarda le prime due cantiche.

Le occorrenze sono in tutto venticinque: dieci nell’Inferno, nove nel Purgatorio e sei nel Paradiso,

come si può ben notare nella tabella riportata qui sotto.

OCCORRENZE LUOHI

1. poi che ‘l superbo Ilion fu combusto. Inferno, I, 75

2. Superbia, invidia e avarizia sono Inferno, VI, 74

3. fè la vendetta del superbo strupo”. Inferno, VII, 12

4. dinanzi polveroso va superbo, Inferno, IX, 71

5. la tua superbia, se’ tu più punito; Inferno, XIV, 64

6. gent’è avara, invidiosa e superba: Inferno, XV, 68

                                                            1 Il lavoro sulle occorrenze è stato condotto sulla Concordanza della “Commedia” di Dante Alighieri condotta sul testo critico stabilito da G. Petrocchi, a cura di Luciano Lovera, Rosanna Bettarini e Anna Mazzarello, Torino, Einaudi, 1975. 2 La frequenza è stata calcolata mediante il confronto con altri termini che presentano stretti legami con l’argomento in questione e verrà trattata in maniera approfondita nel prossimo capitolo.

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7. L’omero suo, ch’era aguto e superbo, Inferno, XXI, 34

8. non vidi spirto in Dio tanto superbo, Inferno, XXV, 14

9. a guerir de la sua superba febbre; Inferno, XXVII, 97

10. “Questo superbo volle esser esperto Inferno, XXXI, 91

11. e la costa superba più assai Purgatorio, IV, 41

12. O superbi cristian, miseri lassi, Purgatorio, X, 121

13. che la cervice mia superba doma, Purgatorio, XI, 53

14. superbia fa, ché tutti i miei consorti Purgatorio, XI, 68

15. Di tal superbia qui si paga il fio; Purgatorio, XI, 88

16. la rabbia fiorentina, che superba, Purgatorio, XI, 113

17. Che ‘n Sennaàr con lui superbi fuoro. Purgatorio, XII, 36

18. Or superbite, e via col viso altero, Purgatorio, XII, 70

19. Così la madre al figlio par superba, Purgatorio, XXX, 79

20. ne la presenza del Soldan superba Paradiso, XI, 101

21. per lor superbia! e le palle de l’oro Paradiso, XVI, 110

22. E ciò fa certo che il primo superbo, Paradiso, XIX, 46

23. Lì si vedrà la superbia ch’asseta, Paradiso, XIX, 121

24. Superbir di colui che tu vedesti Paradiso, XXIX, 56

25. che non hai viste ancor tanto superbe”. Paradiso, XXX, 81

 

Analizziamo ora le singole occorrenze nel dettaglio.

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§ 1. Inferno

1. I, I, 75: superbo, aggettivo maschile singolare. La prima occorrenza del termine compare proprio

all’inizio del poema, nel canto proemiale. Si tratta di un’espressione virgiliana1 con sineddoche e

metonimia, come virgiliana è la duplice designazione Troia – Ilion della città.

I moderni interpreti parafrasano con “dopo che la superba città di Troia fu bruciata”, in cui

“combusto” rappresenta un latinismo di provenienza biblica, ovviamente assente in Virgilio.

Occorre ricordare che nella latinità classica il termine “superbia” indicava solo lo smodato desiderio

di onori, senza ripercussioni a livello morale.

Secondo l’Ottimo,2 “Ilion” starebbe ad indicare “la nobile fortezza di quella terra” e l’autore “dice

«superbo» per la superbia, che avevano quelli che v’abitavano, o vero per l’altezza della torre”.

In questo caso allora, il termine sarebbe soggetto a due interpretazioni, a seconda del fatto che sia

riferito al peccato di superbia (in senso letterale) dei troiani o all’imponenza architettonica della

città stessa e in questa seconda accezione, l’aggettivo “superbo” andrebbe inteso come alto,

maestoso, imponente appunto.

Graziolo Bambaglioli, a sua volta, scrive: “quando quello grande e superbo Ilion, ciò è Troia e la

fama dei Troiani, andò giuso”.3 Nel suo commento, Graziolo considera la città e i suoi abitanti un

tutt’uno e li riunisce sotto la comune designazione “superbo Ilion”, che sarà probabilmente da

intendere di nuovo nella duplice accezione di arroganza e presunzione per quanto riguarda i troiani,

di imponenza e maestosità riguardo alla fortezza.

C’è da considerare però, che un’accezione non esclude l’altra, anzi, evidentemente procedevano di

pari passo essendo la superbia dei cittadini una conseguenza della presunta invincibilità della città.

Anche Benvenuto da Imola riporta la medesima interpretazione dell’Ottimo per quanto riguarda

“Ilyon”, che viene parafrasato con “rocche di Troia”,4 ma nel suo commento manca qualsiasi

riferimento all’aggettivo “superbo”.

                                                            1 Cfr. P. Virgilio Marone, Aeneis, III, 2-3. 2 Cfr. Ottimo commento (L’) della Divina Commedia. Testo inedito di un contemporaneo di Dante. 1, Inferno, a cura di F. Mazzoni e A. Torri, Sala Bolognese, Forni, 1995 (ristampa dell’ed.: Pisa, presso Niccolò Capurro, 1827-1829), p. 8. 3 Cfr. M. Seriacopi, Graziolo dei Bambaglioli sull’ ”Inferno” di Dante: una redazione inedita del commento volgarizzato, Reggello, FirenzeLibri, 2005, p. 25. 4 Cfr. M. Seriacopi, Un volgarizzamento inedito del commento di Benvenuto da Imola all’Inferno e al Purgatorio di Dante, Reggello, FirenzeLibri, 2008, p. 26.

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2. I, VI, 74: Superbia, sostantivo femminile singolare. È la risposta di Ciacco alla terza domanda di

Dante, la quale indica in questi tre peccati (superbia, invidia e avarizia appunto) le cause della

rovina di Firenze. Questa accusa ritornerà più avanti nelle parole di Brunetto Latini (cfr. Inf., XV,

68) e diventerà in seguito quasi proverbiale.

Generalmente, riprendendo il verso precedente, i moderni interpretano in questo modo: “i cittadini

giusti sono due, ma nessuno dà loro ascolto: superbia, invidia e brama di sùbiti guadagni sono le tre

scintille che hanno aizzato i fiorentini l’uno contro l’altro”.

Il severo giudizio di Dante rimane, in ogni caso, l’effetto dell’amara esperienza personale che fece

della vita politica di Firenze, nella quale egli vide e sperimentò le smodate ambizioni di dominio, le

invidie e le pericolose rivalità delle parti, l’insaziabile cupidigia di ricchezza e brama di potenza.

Già Pietro Alighieri, infatti, aveva interpretato il verso in questo modo, scrivendo nel suo commento

all’Inferno: “Onde alla terza questione ch’ello domanda, della cagione di tanta malizia, risponde

Ciacco che questo interviene per tre vizii principali che regnano in quella città di Firenze, ciò è

superbia, invidia e avarizia”.1

Così anche Benvenuto: “[Ciacco] risponde a la terza peticione di [Dante] per che cagione [i

fiorentini] sono tanto discordi”;2 e l’Ottimo: “questi sono li tre vizii cagione della discordia di

Firenze; ed è risposta al terzo membro della domanda”.3

In questo passo appare chiaro che superbia è inteso nel generale senso etico – morale in voga nel

Medioevo, come vizio principe del settenario capitale, dal quale scaturiscono tutti gli altri: non a

caso è citato come prima causa di tanta degenerazione.

3. I, VII, 12: superbo, aggettivo maschile singolare. Virgilio si rivolge a Pluto, con una variante

delle parole usate per Caronte e Minòs. Riprendendo i versi precedenti, il passo sarà da intendere:

“Taci maledetto demonio […] non senza motivo è la nostra andata nella voragine infernale: così si

vuole nel Cielo (là) dove l’arcangelo Michele fece giustizia, inflisse la giusta punizione (vendetta)

all’orgogliosa ribellione”. Si allude qui, ovviamente, alla ribellione di Lucifero e dei suoi seguaci e

alla loro conseguente punizione, tanto più significativa in quanto Pluto aveva invocato Satana come

dio (cfr. Inf., VII, 1). Strupo più che derivare dal latino “stropas” (gregge), ad indicare la schiera

degli angeli ribelli, sembra essere più plausibilmente metatesi di “stupro”, nell’accezione propria di

“violenza dovuta a desiderio smodato”.

                                                            1 Cfr. M. Seriacopi, Volgarizzamento inedito del Commento di Pietro Alighieri alla Commedia di Dante: il Proemio e l’Inferno, Reggello, FirenzeLibri, 2008, p. 59. 2 Cfr. M. Seriacopi, Un volgarizzamento del commento di Benvenuto … cit., p. 61. 3 Cfr. L’Ottimo commento … cit. p. 99.

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Nelle pagine di un teologo medievale,1 infatti, ogni brama smodata di qualcosa di piacevole è detta

“lussuria” e questo termine definisce lo specifico peccato degli angeli ribelli, in quanto il loro

desiderio di una maggiore beatitudine si opponeva in maniera diretta alla volontà di Dio.

Spiega magistralmente l’Ottimo che Virgilio, rivolgendosi a Pluto, dice: “non è senza cagione

nostro viaggio; elli è deliberato in Cielo; laonde tu, e ‘l superbo adultero, il quale tu invochi in tuo

autorio, fuste gittati quaggiù dagli Angioli buoni, de’ quali fu capitano Santo Michele. E [Dante]

dice «superbo strupo», a denotare che come strupo è inlicito disfioramento di vergini; così costui

quanto fu in lui, volle rapire e di sverginare il vergine regno di Dio; mancò solamente la possa al

volere. Costui prima volle corrompere, violare la virginità di Dio, per la qual cosa è tenuto a tutto

danno, […] e come colui che disfiora la vergine, le toglie quello bene che mai potrà racquistare;

così costui fece inreparabile male, e da non potere compensare: e come il voto della verginitade non

riceve dispensazione, né ricompensazione, però che non riceve riconciliazione; così questi, che

volle avolterare il regno di Dio, non puote avere dispensazione, né ricompensazione”.2

Parole che riecheggiano nel commento di Benvenuto: “fè la vendetta de colui che tu chiame in

autorio; superbo strupo quanto fò in lui; non che il fesser, ma solo lo pensò. «Strupo» è rapire la

vergine non corrotta. E questo fece Lucifero, quando volse essere simile a Dio e rapire la divina,

pura e incorrotta […] e però dice Santo Ioanni ne l’Apocalisi che Santo Michele in Cielo combatté

con Lucifero e cacciollo dal cielo”.3

Graziolo, invece, non fornisce alcuna spiegazione per “strupo” e si limita a parafrasare con “nelle

quali parti celestiali l’angelo sa. Michele combattèo e vinse la superbia del demonio”.4

In accordo col pensiero etico – morale del tempo, nel passo citato la superbia assume il significato

del più grave peccato possibile, in quanto diretta ribellione a Dio. Si tratta infatti del peccato di

Lucifero che, per smodato desiderio di potere volle essere simile a Dio e osò sfidarlo.

In questa accezione, però, il termine (grazie alla vicinanza di “strupo”) si colora di ulteriori

sfumature, quali la violenza e la lussuria.

                                                            1 Si tratta di Scoto Eriugena, filosofo del IX secolo nato in Irlanda nel primo quarto del secolo, mai citato da Dante. La sua opera fondamentale, il De Divisione naturae, è considerato dal Palgen una delle fonti dirette della Commedia e del Paradiso in particolare – cfr. R. Palgen, Scoto Eriugena, Bonaventura e Dante, in “Convivium”, XXV, (1957), pp. 1-8. Per un approfondimento, si veda M. CRISTIANI, Scoto Eriugena, “voce” dell’Enciclopedia Dantesca, cit., vol. V, pp. 90-92 e bibliografia ivi citata. 2 Cfr. L’Ottimo … cit., p. 109. 3 Cfr. M. Seriacopi, Un volgarizzamento del commento di Benvenuto … cit. p. 63. 4 Cfr. M. Seriacopi, Graziolo dei Bambaglioli … cit., p. 49.

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4. I, IX, 71: superbo, aggettivo maschile singolare. Letteralmente, il verso è da intendere “avanza

imponente in una nuvola di polvere”, in riferimento alla similitudine dell’uragano di vento. Dante

sente avvicinarsi una sorta di uragano e con questa impressione di maestosa e inarrestabile potenza,

si preannuncia l’arrivo dell’angelo che aprirà le porte della città di Dite.

La similitudine del vento impetuoso si trova in notevoli esempi della tradizione classica, in autori

cari al poeta come Virgilio, Stazio e Lucano, ma la personificazione del vento che schianta i rami e

prosegue superbo il suo cammino sollevando la polvere davanti a sé e gettando il terrore su uomini

e animali, è tutta dantesca. La forza espressiva dell’immagine, infatti, anticipa e prepara

l’apparizione del Messo celeste che getterà il terrore sui demoni e dannati.

Risulta estremamente interessante notare col Sapegno, che il preciso attributo, “superbo” appunto,

“trasferisce sul piano psicologico un dato della realtà esteriore e riporta l’attenzione del lettore dal

paragone alla cosa paragonata, dal vento al messaggero in cui si incarna il volere di Dio”.1

Appare chiaro che, in questo caso, superbo avrà valore di maestoso, imponente e inarrestabile.

Essendo riferito implicitamente al messaggero divino infatti, mediante la figura del paragone, non è

assolutamente concepibile che possa contenere una qualche sfumatura di superbia in senso negativo

e sarà da intendere, al contrario, nella sua accezione di potenza invincibile, quale è la volontà di

Dio.

Ancora una volta, il commento dell’Ottimo risulta prezioso: “dinanzi al quale Angelo fuggìa un

rompimento pieno di paura, quale uno vento generato nelli caldissimi dì di state per la virtù del sole

attrattiva l’umido della terra; […] e quivi orribili venti nascono; così la virtù angelica facea uno

impulso, e percotimento in quella contraria materia del palude di tristizia; onde procedea, che l’una

sponda, e l’altra ne tremava, a dimostrare alli demonj che da Cielo venìa colui, che loro guardatori

delle anime de’ bestiali uomini, che dentro Dite sono carcerati, farebbe con la sua virtù impulsiva

fuggire loro, e abbatterebbe tutta la loro superbia procedente da cose terrene”.2

Anche l’Ottimo, quindi, si focalizza sull’impeto e la potenza della volontà divina; inoltre trasferisce

il significato negativo veicolato dall’attributo (in origine positivo) sui dannati, resi tali appunto dalla

“loro superbia procedente da cose terrene”.

                                                            1 Cfr. D. Alighieri, La Divina Commedia, a cura di Natalino Sapegno, Milano – Napoli, Ricciardi, 1957, vol. I, commento a I, IX, 71. 2 Cfr. L’Ottimo … cit., pp. 161-162.

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Benvenuto da Imola si cimenta in un’altra spiegazione. Il vento del v. 67 rappresenterebbe la

“parola [che] passa come vento” attraverso la selva (v. 69), costituita da “li uomini viciosi” e che li

rami abbatte (v. 70), ossia che “annulla tutti argomenti contrari”.1

5. I, XIV, 64: superbia, sostantivo femminile singolare. Dice Virgilio: “oh Capaneo, proprio nel

fatto che la tua superbia non si modera tu sei più punito: nessun tormento sarebbe pena più adeguata

alla tua empietà superba (furor), quanto la tua rabbia impotente” (cfr. vv. 63-66).

Capaneo rappresenta la colpa di violenza diretta contro Dio, personaggio che già in Stazio2

corrispondeva esattamente a tale definizione del peccato di superbia: empio e disprezzatore degli

dèi, era famoso per il suo atteggiamento di sfida e per la sua presunzione. Egli è infatti uno dei sette

re che assediarono Tebe e che, salito vincitore sulle mura della città, troppo convinto della sua forza

e invincibilità, aveva osato sfidare Bacco, Ercole e infine lo stesso Giove a difendere Tebe. Proprio

a causa di questa sacrilega sfida morì fulminato dal dio.

Il Capaneo dantesco, però, se ne sta immobile e sprezzante, come se la punizione non lo colpisse e,

ad una prima lettura, si ha l’impressione di trovarsi davanti ad un magnanimo: l’imperturbabilità è

infatti per Dante caratteristica essenziale del magnanimo, insieme all’assoluta fedeltà a se stessi. Si

tratta, però, di condizioni necessarie ma non sufficienti e il poeta ne è ben conscio. Capaneo diventa

allora uno dei tanti emblemi della superbia e, attraverso questo personaggio, Dante ammonisce

(ancora una volta) a non fidare troppo di se stessi. La punizione divina – si noti bene – non consiste

nella sottomissione o nelle pene fisiche, ma risiede nella sua stessa superbia, nella sua rabbia

impotente e il suo peccato si carica anche della tradizionale categoria di praesumptio, ossia

presunzione ordinata da superba stoltezza, alla quale si contrappone la magnanimità che è coraggio,

ardimento e prodezza ordinati dalla ragione.

Alcuni critici sostengono che il tratto caratteristico di Capaneo sarebbe la vanagloria, ipotesi

rafforzata da “par” che ricorre ben due volte nello spazio di una terzina (cfr. vv. 46; 48), intesa

come contraddizione tra apparenza e realtà, tra ostentazione di forza e intima debolezza e vedono

nel re un personaggio privo di forza morale, illecitamente compiaciuto di sé e vacuo (superbo).

Di opinione differente è il Croce, che vede in Capaneo “una forza che è qualcosa di più che forza

fisica e materiale, è ancora energia spirituale, volontà, ma volontà rabbiosa, indomita e ostinata”,3

mentre secondo il Varese (e mi sembra l’interpretazione più calzante), egli anche dopo la morte

permane nella sua situazione umana, nel suo peccato e appunto per questo è “più punito”.                                                             1 Cfr. M. Seriacopi, Un volgarizzamento del commento di Benvenuto … cit., pp. 79-80. 2 Cfr. Tebaide, X, 845-882. 3 Cfr. B. Croce, La poesia di Dante, Bari, Laterza & Figli, 1966, p. 83.

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Ritengo che la superbia di cui tratta Dante in tale luogo sia da identificare con la colpa di ribellione,

con la convinzione arrogante e presuntuosa di poter prescindere dall’aiuto e dalla volontà divini.

La nostra interpretazione trova riscontro già in Pietro, che nella Rubrica del XIV canto scrive: “[…]

nel quale dice della pena de’ superbi e dispettosi contro a Dio”1 e più avanti “intra’ quali

bestemmiatori [Dante] nomina il re Capaneo, il quale […] andò allo assedio della città di Tebe […]

fu tanto arrogante contro li dii che li bestemmiava a modo che uomini”, tanto che Giove lo fulminò.

Continua Pietro: “Ora dice Capaneo che se Vulcano […] e tutti gli altri fabbri di Mongibello si

stancassero a fare saette e saettasono lui, ancora non sarebbe punita la sua superbia”.2

Così anche Graziolo: “costui dimostrava tanti segni di ferocitade e di superbia […] per sua

grandissima superbia [era] dispregiatore delli idii, Iove, sdegnato e turbato, e per l’aroganza del

detto Capaneo, tolta una folgora, fulminòe […] e sì ccome quello Campaneo fu superbo in vita, così

è superbissima l’anima sua in Inferno, però che quella anima parla e dice «se Giove stesso con

quella folgore colla quale mi percosse l’ultimo dìe della mia vita, facesse fabbricare per tutti li

fabbri e ministri suoi folgore e saette […] non potrebbe di me far vendetta»”.3

E l’Ottimo, che riportando le parole di Virgilio commenta: “al furioso la furia è la più debita e

maggiore pena, che a lui si convegna; e però lo sgrida la ragione dicendo: o uomo furioso che supini

la faccia contro a Dio tuo creatore e dell’universo, come è che non si spegne in te la superbia? Se’

tu più punito, che tu abbia meritato? Certo no, ma come tu dei, però che questa tua rabbia è al tuo

furore debito e condecevole tormento, e nullo altro sarebbe sufficiente”.4

Benvenuto infine, in riferimento al v. 61 scrive che parlò di forza “per spegnere la sua superbia,

però che al superbo si debba rispondere superbamente, quando non puote operare e innocente [con]

la forza sua”; inoltre, per quanto riguarda i vv. 71-72 spiega: “vuol dire che la ostinata superbia sua

è a llui gravissima pena: e per questo significa la pena del superbo in questa vita, al quale è pena la

propria superbia”.5

Da quanto osservato finora, traspare che i commentatori antichi (come del resto anche i moderni)

concordano sulla definizione di Capaneo come emblema della superbia contro Dio. Nonostante

giaccia nel cerchio dei violenti, infatti, è considerato innanzitutto un superbo, proprio in virtù del

fatto che ha nella superbia l’origine di tutte le sue colpe e, di conseguenza, il suo eterno tormento.

                                                            1 Cfr. M. Seriacopi, Volgarizzamento inedito del Commento di Pietro … cit., p. 93. 2 Ibid., pp. 94-95. 3 Cfr. Seriacopi, Graziolo dei Bambaglioli … cit., p. 88. 4 Cfr. L’Ottimo Commento … cit. p. 267. 5 Cfr. Seriacopi, Un volgarizzamento del commento di Benvenuto … cit., p. 112.

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Essendo la superbia, secondo il pensiero tradizionale, “radice di tutti i mali”, non può essere

separata dalla violenza: anzi, nel passo in questione la violenza diventa la forma specifica che

assume la superbia di Capaneo nei confronti di Dio.

6. I, XV, 68: superba, aggettivo femminile singolare. È Brunetto Latini a parlare, il quale riprende

l’aspra riflessione di Dante iniziata per bocca di Ciacco (cfr. Inf., VI, 74). Il vecchio maestro del

poeta lo invita a seguire la sua buona inclinazione per raggiungere la gloria e gli profetizza

l’ingratitudine dei suoi concittadini, i quali ricambieranno il suo buon operare con l’esilio, proprio

in quanto si tratta di gente avara, invidiosa e superba. Conclude la sua invettiva contro i fiorentini

ammonendo Dante a guardarsi bene dai loro costumi: il vecchio sodomita dà, in questa sede,

lezione e dimostrazione di grande moralità e fermezza.

Risulta fin troppo evidente che in tale luogo il termine “superbia” si presenta nella stessa accezione,

ampiamente trattata sopra, dell’episodio di Ciacco.1

A conferma di ciò interviene l’Ottimo, che spiega: “Qui infama il detto ser Brunetto i fiorentini per

tre vizii, li quali dice che signoreggiano in loro, cioè avarizia, invidia e superbia;2 affine risulta il

commento di Graziolo, secondo il quale “dice ser Brunetto in laude e in onore dell’autore e in

vituperio e in fama del popolo di Firenze, il quale elli appella cieco per li vizi della superbia,

avarizia e invidia, delli quali masimamente tra gli altri vizii è impedito”.3 Quest’ultimo non segue

l’ordine di citazione originale e mette al primo posto la superbia, ma non esiste alcuna prova che si

tratti di un cambiamento voluto per dare maggior rilevanza a tale peccato.

7. I, XXI, 34: superbo, aggettivo maschile singolare. In riferimento alla descrizione fisica del diavol

nero che, dietro Dante e Virgilio, sta risalendo il ponte di corsa ad ali spiegate e porta sulle spalle

(l’omero suo) un peccatore.

I vv. 34-36 vanno intesi in questo modo: “un peccatore gravava con entrambe le anche sulle spalle

del diavolo, che erano appuntite (agut[e]) e rilevate, sporgenti (superb[e]) e questo diavolo teneva

ghermito il garretto”.

Il particolare della spalla appuntita e sporgente, così come il colore nero del diavolo e le sue ali,

appartiene all’iconografia della tradizione popolare, come si può chiaramente ammirare in alcune

miniature di codici danteschi del XIV secolo.

                                                            1 Si veda il punto 2. 2 Cfr. L’Ottimo … cit., p. 289. 3 Cfr. M. Seriacopi, Graziolo dei Bambaglioli … cit., p. 94.

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In tale luogo, quindi, l’aggettivo superbo viene impiegato nella descrizione fisica del diavolo ed

esula dal campo semantico della moralità, in quanto si limita a sottolineare la particolare magrezza

del soggetto, mettendone in risalto l’ossatura appuntita e sporgente.

È una mera supposizione, in quanto non si basa su alcuna prova o indizio concreti, ma il fatto che

Dante abbia usato proprio questo aggettivo (normalmente impiegato nei ritratti etico – morali) in

luogo di tanti altri, porta a congetturare che ci sia un risvolto anche sul piano della descrizione

interiore. Trattandosi di un diavolo, infatti, tale attributo appare estremamente opportuno dato che,

come è stato osservato in precedenza, il peccato di Lucifero e i suoi seguaci è proprio di superbia.

Osserva l’Ottimo che l’autore “qui descrive la magrezza dei diavoli, il loro fiero aspetto, la loro

leggerezza”;1 mentre Benvenuto da Imola si cimenta nella spiegazione allegorica di un diavol nero,

che “significa il barattiere, ch’ è perde la bellezza della fama; ne l’aspetto fero significa la crudelità

del barattiere, il quale baratta la ragione del pupillo e povero e vedova per uno piccol dono, sì che

poi muoiono di fame […]”; anch’egli rende aguto con “dritto” e superbo con “alto” e aggiunge che

si tratta dei caratteristici “costumi de’ barattieri”.2

Anche in questo caso gli antichi commentatori confermano l’interpretazione generale e appare

lecito affermare che superbo sia limitato alla realtà fisica. Si consideri, però, che le glosse di

Benvenuto sembrano dare un certo peso anche al profilo interiore dei personaggi descritti.

8. I, XXV, 14: superbo, aggettivo maschile singolare. Il verso è parte del commento di Dante a

proposito dello sconcio gesto rivolto da Vanni Fucci a Dio. Dice infatti il poeta sdegnato: “in

nessuno dei tenebrosi cerchi infernali vidi mai un dannato così superbo verso Dio, neppure colui

(Capaneo) che precipitò dall’alto della mura di Tebe”.

Occorre tenere in considerazione il fatto che i due episodi sono collegati, oltre che dall’esplicito

riferimento dantesco, proprio dall’aggettivo superbo, connotazione che avvicina (pur nella ben netta

diversità) i due dannati.

In questo caso, il disprezzo di Dante non è propriamente per il ladro (i cinque ladroni che incontra

subito dopo, infatti, non valgono il suo disprezzo), bensì per il sacrilego: egli non sottolinea la

cupidigia del reo ma la sua superbia contro Dio e in questo lo avvicina proprio a Capaneo.

Benedetto Croce, infatti, definì Vanni Fucci “un Capaneo degradato” in quanto la sua punizione,

come quella del re, consiste nella sua stessa rabbia, una rabbia impotente generata dalla sensazione

della sconfitta.                                                             1 Cfr. L’Ottimo … cit., p. 377. 2 Cfr. M. Seriacopi, Un volgarizzamento del commento di Benvenuto … , cit., p. 154.

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Ed è proprio da questa rabbia che proviene la stessa spavalda ostentazione di bestialità, la quale

inizia con l’autopresentazione e culmina nel volgare gesto rivolto a Dio: come Capaneo, egli è un

superbo che ha in se stesso e nel suo odio, lo strumento del proprio eterno tormento.

L’accenno, attraverso la perifrasi, a Capaneo richiama l’attenzione del lettore non tanto sulla

superbia in senso lato di questo personaggio, quanto più sul momento in cui siffatta superbia si

dimostrò in tutta la sua vanità, nella sua assoluta infondatezza e mette il luce, attraverso il parallelo

mitico, il carattere estremamente disumano dell’empietà di Vanni Fucci, non riducibile nemmeno

alle proporzioni del mito.

Gli antichi confermano le nostre interpretazioni.

Graziolo scrive che “l’autore dice che ‘nfino a quie elli non trovòe in alcuno luogo o circolo del

Ninferno spirito di tanta ostinazione contra Idio quanto è questo pistolese; che quello spirito del

quale è trattato di sopra [Capaneo] non fue di tanta superbia contra Idio quanto questo pistolese

[Vanni Fucci]”;1 e concorda l’Ottimo: “qui [Dante] infama questo spirito di superbia, dicendo che

nullo ne trovò in Inferno più superbo, non eziando Capanéo, il quale cadde dai muri di Tebe”.2

Come nel caso del re tebano, gli interpreti antichi e moderni sono tutti d’accordo nel definire Vanni

Fucci superbo, nonostante il fatto che, a rigor di logica, si tratti di un personaggio bramoso di

ricchezze che paga i suoi furti sacrileghi nella bolgia dei ladri.

9. I, XXVII, 97: superba, aggettivo femminile singolare. Come l’imperatore Costantino mandò a

chiamare papa Silvestro I per essere guarito dalla lebbra, così Bonifacio VIII, principe de’ farisei,

ossia il più grande dei Farisei moderni, fece andare presso di lui come medico Guido da

Montefeltro, per guarirlo dalla febbre della sua superbia (la sua superba febbre). Superbia, quella di

Bonifacio VIII, che si configura come malattia dell’animo e che si manifesta sotto forma di sete di

dominio e potere, brama smodata di beni mondani che offende terribilmente Dio, a cui si aggiunge

l’aggravante del consiglio fraudolento estorto a Guido con l’inganno: si tratta di superbia sacrilega.

Il confronto sollevato dalla similitudine, tra la richiesta di Costantino e quella di Bonifacio, è

amarissimo e mette in luce profonde differenze. Da una parte, si trovano la Chiesa e il suo capo

perseguitati, un imperatore assetato di potere che riconosce nella sua malattia (del corpo) un castigo

del Cielo e si umilia a chiedere l’aiuto di colui che perseguitava; dall’altra, un capo spirituale

spietato verso i suoi nemici, una malattia dello spirito per cui cerca come medico un uomo che,

dopo le tempeste della vita, aveva ritrovato la serenità nella pace del chiostro.

                                                            1 Cfr. M. Seriacopi, Graziolo dei Bambaglioli … cit., pp. 123-124. 2 Cfr. L’Ottimo … cit. pp. 425-426.

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Bonifacio non chiede una miracolo, non si appella alla misericordia come aveva fatto Costantino,

ma mira a quanto di più abietto possa generare l’intelligenza umana, il consiglio fraudolento

appunto, promettendo allo sventurato la pronta e sùbita assoluzione.

Il profilo di questa peculiare tipologia di superbia si carica di mille sfumature, che vanno dalla

brama smisurata di dominio e potenza alla violenza del suo odio, al suo delirio di onnipotenza, che

viene riconfermato dal verso lo ciel poss’io serrare e disserrare. Ecco allora un altro esempio che

conferma il ruolo principe della superbia nell’ambito dei peccati: come nei già citati casi di

Capaneo e Vanni Fucci, e più avanti di Fialte infatti, Bonifacio VIII, indotto dalla sua superba

febbre al commercio di cose sacre, finirà nella bolgia dei simoniaci, pur figurando tra la schiera dei

superbi che popolano l’Inferno dantesco, disseminati nei vari gironi.

È proprio questa febbre il male di Bonifacio, che lo spinge ad abbassare i nemici per cupidigia di

potere e ricchezze, per il suo innato odio, tutti effetti della superbia. Sarà interessante ricordare in

proposito, che Bonifacio fu definito esattamente “altero e superbo” dal Villani.1

Ragionatore, calcolatore scaltro e loico prima ancora del diavolo è proprio il papa, un papa teologo

oltretutto, che doveva essere ben consapevole della non validità di un’assoluzione preventiva. Alla

base di tanta scaltrezza, però, c’è un assoluto cinismo religioso (si pensi al fatto che Dante fa in

modo che Pietro lo consideri un usurpatore dell’ufficio papale); il sacrilegio non lo spaventa quando

la posta in gioco è il raggiungimento dei suoi fini di potenza e sfogare i suoi odi familiari –

ricordiamo, infatti, che aveva chiesto aiuto a Guido per prendere Palastrina e sconfiggere così

definitivamente la nemica famiglia Colonna. Bonifacio rimane, in ogni caso, il papa simoniaco del

canto XIX: l’assoluzione è infatti data per trarne guadagno, ma il motore primo è pur sempre

identificabile con la più ampia categoria della superbia.

Tutto ciò conferma il fatto che nell’Inferno si espiano i peccati attuali quindi, nonostante sia grande

il numero dei superbi in tale sede, essi espiano particolari peccati nei vari gironi, ma tutto è sempre

e comunque riconducibile alla superbia, radice e principio di ogni male.

10. I, XXXI, 91: superbo, aggettivo sostantivato maschile singolare. Questo superbo è Fialte, titano

figlio di Nettuno, famoso per essere uno dei più accaniti nemici degli dèi. Egli volle sperimentare la

propria forza contro l’altissimo Giove: gli antichi poeti gli attribuivano, infatti, il tentativo di scalare

l’Olimpo sovrapponendo il monte Ossa al monte Pelio. Si tratta di una folle impresa che presenta

ben evidenti analogie con il motivo della costruzione della Torre di Babele e che determinò l’inizio

della guerra che vide schierati i titani contro gli dèi.

                                                            1 Cfr. Cronica, VIII, 64.

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A proposito del v. 96, osserva acutamente il Sapegno che “la pausa, che isola il verso, sottolinea il

contrasto tra quella superbia smisurata e folle del titano, e l’impotenza assoluta a cui l’ha ridotto

l’inesorabile vendetta divina […]”.1

A chiarire fin da subito che si tratta di un superbo, interviene Pietro Alighieri, che nella Rubrica del

XXXI capitolo scrive: “[…] nel quale conta le pene de’ superbi contro a Dio”. Continua Pietro con

acutezza, “Fialte fu con li altri giganti che posono tre monti l’uno sopra l’altro per combattere

contro alli dii e furono saettati da Giove […] Secondo il sentimento allegorico questi giganti

significano i superbi movimenti dell’anima, onde il Salmista dice: «giogante ciò è superbo». La

quale superbia procede per li beni terreni, e dalla superbia, che fu il primo peccato, procedette

imprima el tradimento nel Lucifero, il quale per la superbia volle tradire Dio. E però questi giganti

significano el demonio e li affetti della superbia umana, e quali per la sua grandezza eccedono tanto

che fanno andare noi alli altri movimenti d’i peccati. […] e santo Jacopo dice: «Dio resiste a’

superbi e alli umili dà grazia»”.2

Anche Benvenuto riporta la sacrilega impresa del titano e offre la medesima interpretazione

allegorica dei giganti: Fialte “offese più contro a Dio che Embrochi [perché] volle combattere con li

dii: onde volle porre uno monte sopra l’altro e saettare li dii del cielo; ma esso, co li altri Giganti

percosso e saettato da Apolline, furono morti. Questi giganti significano e superbi, e quali

agiungono l’una signoria sopra l’altra, pensando perpetuare in questo mondo, e non temeno Dio.

Ma Apolline, che significa la sapiencia di Dio, dispone e ordina altramente: sì il loro pensiero tosto

viene fallato per la morte che sopraviene”.3

I giganti allora non simboleggiano il tradimento, come invece Gerione aveva simboleggiato la

frode, nonostante il parallelo che si possa stabilire tra i due episodi, dato che essi si trovano a

svolgere la stessa funzione nei confronti del viaggiatore Dante. In vita non tradirono nessuno e non

furono nemmeno fraudolenti della specie di quelli puniti nell’ottavo cerchio: la loro azione è

direttamente contro Dio e sono qui collocati in quanto unirono al mal volere e a la possa, (v. 56)

l’intelligenza, strumento proprio degli uomini (l’argomento della mente – v. 55). Plausibilmente

preludono a Lucifero, non ai traditori.

Fialte aveva osato sperimentare la sua forza contro Giove e ora giace impotente, legato con

molteplici giri di catena: tutti i giganti infatti (anche se non tutti sono incatenati), sono condannati

all’immobilità ed è questa la vera pena.                                                             1 Cfr. D. Alighieri, La Divina Commedia, a cura di N. Sapegno, cit., commento a Inf., XXXI, 96. 2 Cfr. M. Seriacopi, Volgarizzamento inedito del commento di Pietro … cit., pp. 158-159. 3 Cfr. M. Seriacopi, Un volgarizzamento del commento di Benvenuto … , cit., p. 208.

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Essi usarono malamente l’intelligenza, o per meglio dire, la “possanza” e proprio in questa sono

puniti; l’argomento de la mente rende più pericoloso quel che caratterizza questo peccato di

superbia, ossia la straordinaria forza, usata appunto a scopi peccaminosi.

Il contrappasso riguarda, quindi, la possanza fisica dei giganti, resa più pericolosa dal fatto che, in

quanto uomini e quindi dotati di intelligenza e volontà, fanno il male ben sapendo di poterlo fare.

Quel che li muove, in definitiva, è tutto umano ed è la superbia. Abbiamo già notato (si veda sopra)

che i commentatori antichi significavano giganti con superbi; la Bibbia, inoltre, recita “Superbi

gigantes”,1 mentre lo stesso Dante qualifica Fialte con questo superbo e lo pone, insieme agli altri

giganti, tra gli esempi di superbia punita nei rilievi pavimentali della prima cornice del Purgatorio

(dove si purgano proprio i superbi).

Mi sembra lecito sostenere che accanto alla forza, ciò che caratterizza questi personaggi sia proprio

la superbia e che questa muova quella: per tutti loro si tratta di superbia contro Dio (o contro

Giove), lo stesso peccato di Lucifero, che costituisce una particolare tipologia si superbia congiunta

ad una buona dose d’invidia.

Soffermiamoci per un momento sui vv. 106-108 di questo canto.2

Il Parodi ha visto in Fialte un pazzo bestiale e tale pazzia sarebbe rappresentata dal suo rabbioso

scuotersi nelle catene per aver udito Virgilio sostenere che Briareo sarebbe più feroce di lui. A

prima vista sembrerebbe l’interpretazione più ovvia; però, se ci si attiene alla lettera del testo,

ritengo sia più opportuno (e cauto) ricondurre questo atteggiamento di Fialte ad un generico moto di

rabbia che può dipendere o meno dalle parole di Virgilio, dato che si tratta di un superbo punito, il

quale soffre la bruciante umiliazione di farsi vedere nella sua misera e impotente condizione dagli

inaspettati visitatori.

                                                            1 Cfr. Liber Sapientiae, XIV, 6. 2 Non fu tremoto già tanto rubesto, / che scotesse una torre così forte, / come Fialte a scuotersi fu presto.

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1.1 Considerazioni

Ecco conclusa la rassegna delle occorrenze di superbia nella prima cantica della Commedia.1 Come

abbiamo avuto modo di anticipare, sono in tutto dieci, ma il contesto è imprescindibile quindi sarà

opportuno spendere ancora qualche parola a riguardo.

Nei luoghi 2. e 5. si incontrano due sostantivi che indicano esplicitamente il peccato capitale e

vanno a configurarlo come causa principale della rovina di Firenze (ma sappiamo per certo che il

suo raggio d’azione non si limita a questa sola città).

Nei restanti luoghi (ad eccezione del 10. che presenta un aggettivo sostantivato) incontriamo tutti

aggettivi, maschili e femminili, che nella stragrande maggioranza delle occorrenze valgono

“soggetto a superbia” o “mosso, determinato da superbia”, ma ci sono delle eccezioni.

Nello specifico, al punto 4. il termine non sembra presentare sfumature etico – morali, in quanto si

riferisce alla potenza dell’uragano di vento; in 1. invece, l’attributo può essere contemporaneamente

riferito tanto alla superbia in senso proprio dei Troiani, quanto all’altezza delle torri, all’imponenza

della rocca di Troia. Lo stesso vale per il punto 7., in cui superbo va a descrivere un dettaglio fisico

del diavolo (“omero superbo” si parafrasa infatti con “spalle rilevate”), ma il contesto e la natura del

soggetto lasciano presumere che l’attributo possa celare anche una velata accezione morale.

Per concludere, è necessario ricordare che sono presenti nel poema alcuni termini che appartengono

al campo semantico della superbia, anche se etimologicamente non hanno nulla a che vedere con

essa. È il caso di occorrenze di lemmi quali arroganza, orgoglio, presunzione e vanagloria.

Essi verranno trattati dettagliatamente nell’ordine di comparsa nelle varie cantiche. Per quanto

riguarda l’Inferno, si incontrano tre occorrenze di orgoglio, rispettivamente in forma di:

Aggettivo – I, VIII, 46: Quei fu al mondo persona orgogliosa; in riferimento a Filippo Argenti,

uno dei tanti superbi dell’Inferno dantesco che scontano i propri peccati attuali nei vari gironi.

Nello specifico, l’Argenti sconta le sue violenze tra gli iracondi, ma il particolare attributo con

cui Dante lo descrive rende palese che il suo peccato non si risolve, né tanto meno si riduce alla

mera ira. Ad avvalorare tale interpretazione interviene il commento di Benvenuto da Imola:

“Filippo de li Adimari, il quale fu superbissimo e sdegnoso […]”.2

                                                            1 In sintesi: su dieci occorrenze, sette designano esclusivamente il peccato di superbia; due possono assumere due diversi significati che non si escludono a vicenda; una non si riferisce alla superbia in senso proprio (Significato proprio: 70%; significato doppio: 20%; significato altro: 10%). 2 Cfr. M. Seriacopi, Un volgarizzamento del commento di Benvenuto … cit. pp. 70-71. Nella Rubrica del canto VIII (ibid., p. 69) Benvenuto scrive: “Capitulo VIII, nel quale tratta de’ superbi, che sono puniti nel quarto cerchio […]”; e più avanti: “tratta d’uno spirito singulare superbo fiorentino punito in questa palude”.

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Sostantivo – I, XVI, 74: orgoglio e dismisura han generata. La terzina 73-75 contiene la celebre

apostrofe di Dante, in risposta alla domanda di Jacopo Rusticucci: “la gente nuova, pervenuta di

recente alle cariche politiche e arrivata in gran parte dal contado, e gli improvvisi guadagni

hanno prodotto superbia e sfrenatezza in Firenze”. La risposta del poeta ripropone i motivi

determinanti il corrompersi delle antiche virtù in Firenze, gli stessi denunciati da Ciacco e da

Brunetto Latini: appare quindi chiaro che, in tale luogo, orgoglio vada reso con “superbia”. Si

consideri, inoltre, che Benvenuto parafrasa con il lemma con “aroganza”.1

Sostantivo – I, XXI, 85: Allor li fu l’orgoglio sì caduto,. In questo passo Virgilio si rivolge a

Malacoda, capo dei demoni, intimandogli di lasciar passare lui e Dante in quanto il viaggio che

stanno compiendo è voluto direttamente da Dio.

La terzina 85-87 è da intendere in questo modo: “allora la tracotanza lo abbandonò a tal punto,

che lasciò cadere l’uncino ai suoi piedi, e rivolto agli altri disse «dal momento che le cose

stanno così, non sia ferito»”. Malacoda è, come tutti i demoni, un superbo che confida

ciecamente nella propria superiorità e per questo si pone in maniera sprezzante nei confronti

dello sconosciuto interlocutore: dopo le parole di Virgilio, però, scopre in se stesso un vinto e il

suo orgoglio cade, esattamente come gli sfugge di mano l’uncino (è infatti, questo, un

interessante parallelismo tra atteggiamento esteriore e stato d’animo). Mi sembra palese che,

anche in tale passo, orgoglio sia stato usato da Dante come sinonimo di superbia.

                                                            1 Ibid., p. 126.

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§ 2. Purgatorio

11. II, IV, 41: superba, aggettivo femminile singolare (comparativo di maggioranza). Riprendendo

il v. 40, Dante afferma che “la vetta del monte era così alta da superare ogni possibilità della nostra

vista, e il pendio era assai più ripido di una linea condotta dal punto mediano di un quadrante al

centro del cerchio”.

La pendenza, quindi, corrisponderebbe a 45° circa, in modo che la costa risulti quasi perpendicolare

al monte: superba sarebbe allora la costa, cioè alta, in riferimento alla ripidezza della montagna del

Purgatorio, che supera ogni confronto umano e che, di conseguenza, si può affrontare solo con

l’ausilio dei mezzi spirituali. Nella fattispecie, solo con l’intervento della grazia divina.

L’Ottimo scrive: “Qui [Dante] vuole demostrare per demostrazione l’altezza della montagna, e dice

che [l’ascesa] era più superba, ch’ è da mezzo quadrante a centro lista, cioè linea; sicché tanto era

retto, quanto una linea [equidista] dalla linea perpendicolare alla bas[e]”.1 Egli conferma, insomma,

l’interpretazione secondo cui la ripidezza della montagna corrisponderebbe all’elevazione del

mezzo quadrante, benché Dante intenda dire che quella salita era ancor più erta (superba più assai).

Anche Benvenuto rende superba con “alta”.2

Si può concludere con assoluta certezza che, in tale luogo, l’attributo sia riferito all’altezza della

montagna e che quindi non presenti alcuna implicazione di carattere morale. In ogni caso però, il

fatto che Dante abbia selezionato proprio l’attributo superba per connotare la costa, può essere

sintomatico e sembra lasciare aperta la via ad altre interpretazioni: se si considera infatti che la

scalata risulta impossibile con i soli strumenti umani, il termine si giustifica anche nell’accezione

spirituale. Ma ricordiamo che, trattandosi pur sempre della costa, l’interpretazione più ovvia e

sicura è quella esposta sopra e avvalorata dai commenti antichi.

12. II, X, 121: superbi, aggettivo maschile plurale. Di fronte alla grave pena dei superbi (ci

troviamo, infatti, nella prima cornice del Purgatorio), Dante apostrofa gli uomini, chiedendosi con

stupore come essi possano dimenticare l’assoluta vanità dell’orgoglio terreno: “oh superbi cristiani,

poveri infelici che privi della capacità di ben discernere avete fiducia solo nei vostri passi che,

invece di farvi avanzare, vi portano indietro!”. Superbi, appunto, in quanto nutrono la sacrilega

convinzione di poter prescindere dall’aiuto di Dio e, chiusi nella loro cieca presunzione,

insuperbiscono per vacui onori mondani.

                                                            1 Cfr. Ottimo commento (L’) della Divina Commedia. Testo inedito di un contemporaneo di Dante. 2, Purgatorio, a cura di F. Mazzoni e A. Torri, cit., pp. 52-53. 2 Cfr. M. Seriacopi, Un volgarizzamento del commento di Benvenuto … cit., p. 237.

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Tale è l’interpretazione generale del passo, che viene confermata dall’Ottimo: “In questa parte

l’Autore sgrida contr’alla superbia de’ mortali, dicendo, come la mente loro è gravata dalla

infermiate della superbia, la quale fa porre loro la speme nelle potenze mondane, e che li erge per lo

antico sangue, o per cose terrene, o per magisterj, li quali non sono gradi da salire in alto; ma per

essi si torna a rieto, come dice il Salmista: «Li potenti abbatté, e li umili esaltò; li affamati empì, e li

ricchi lasciò vani». E soggiunge, dicendo: non vedete voi, che noi siamo vermini corruttibili, e

putrefatti […] solamente alla giustizia in sua difensione porta le sue opere […] così l’anime nostre

non vanno dinanzi al nostro giudice, se non l’opere sue; non potenze di regno, non li carnali amici,

non l’eterne ricchezze […] delli uomini”.1

Ancor più acuto si rivela il Landino, che scrive il calce ai vv. 121-123: “Usa acerba exclamatione

inverso e christiani superbi, e quali veramente son miseri, havendo pel peccato perduta la divina

gratia. Et sono […] lassi, et alhora significa «stracchi»; infermi della vista et della mente: la vista è

o dell’occhio corporale, o dello ‘ntellecto; qui intende infermi della vista, i. dell’achume et

sottiglieza dello ‘ngegno. Quasi dica: voi siate di cieco intellecto, perché non conoscete el vero

bene, et sete infermi delle mente, i. della volontà, perché non lo volete. Et da questo nasce, che voi

havete fidanza ne’ ritrosi passi, cioè nell’operationi vitiose; […] chi fa vitiose operationi, fa e passi

ritrossi, cioè all’indietro, perché si discosta da Dio. Quale dunque è maggior miseria, et maggior

cecità di mente, che pigliar fidanza in quelle chose, che ci dilungan dalla nostra salute, et dal

sommo bene?”.2

Ben avvalorato da questi autorevoli commenti, il fatto che in tale sede superbi vada a connotare

moralmente il soggetto a cui è riferito risulta più che ovvio, e non necessita di ulteriori spiegazioni.

13. II, XI, 53: superba, aggettivo femminile singolare. È l’anima di Omberto Aldobrandeschi a

parlare, il quale ha risposto alla domanda di Virgilio circa la via da seguire e aggiunge che vorrebbe

tanto guardare in volto il visitatore vivo affinché pregasse per lui, ma che non può, in quanto il

masso che gli grava sulla schiena lo schiaccia a terra non gli consente di alzare gli occhi verso di

lui: E s’io non fossi impedito dal sasso / che la cervice mia superba doma …

Si tratta di un’espressione frequente nella Sacra Scrittura per indicare proprio la superbia.3

                                                            1 Cfr. L’Ottimo … cit., pp. 166-167. 2 Cfr. C. Landino, Comento sopra la “Comedia”, to. III, a cura di P. Procaccioli, Roma, Salerno Editrice, 2001, p. 1212. 3 Cervice dura: cfr. Liber modus, XXXII, 9; XXXIII, 3; Liber deuteronomii, IX, 13; Prophetia Isaiae, XLVIII, 4. Non mancano, inoltre, esempi nei classici (cfr. Q. Orazio Flacco, Epistulae, I, III, 34). 

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A proposito dei vv. 46-54, il Landino osserva: “Convenienti parole non al superbo, ma chi col suo

contrario che è l’humiltà purga la superbia. Prima [Omberto] mostra la via con grande umanità,

dipoi confessa portare debita pena al suo errore, il che non fa mai el superbo”;1 e più avanti, in calce

ai vv. 58-72: “Omberto figliuolo di messer Guglielmo Aldobrandeschi, e quali sono d’anticho

sangue, et conti di Sancta Fiore nel contado di Siena, fu huomo molto superbo, et l’arrogantia sua,

et orgoglio inverso e Sanesi, gl’incitò in forma, che in Campagnaticho lo feciono uccidere”.2

Non c’è alcun dubbio che si tratti di un superbo e Benvenuto conferma tale definizione:

l’Aldobrandeschi infatti “udiva la voce, ma non vide chi parlava, però ch’ e’ teneva il capo basso e

la voce umile, che è contrario al superbo, ch’ e’ ttiene il capo levato in alto e la voce forte, gridando

e minacciando”.3

Così come Francesco da Buti: “E s’io non fussi impedito dal sasso; ora dimostra colui che àe

parlato come arebbe vollia di cognoscer Dante, e però dice che se non fusse impacciato dal sasso,

Che la cervice mia superba doma; ecco che manifesta lo suo peccato; cioè la superbia […] cervice è

propriamente lo collo, ponesi alcuna volta per lo capo e cusì si pone qui, che li superbi sempre

vanno col capo alto; et in vendetta di questo finge l’autore che portino lo sasso in sul capo et in sul

collo, per portare lo volto basso come prima l’ànno portato alto”.4

Superbo questo personaggio, o per meglio dire, “ex superbo” che ha riconosciuto i propri errori e

cerca di fare ammenda in virtù del pentimento. Già gli antichi commentatori, come abbiamo avuto

modo di costatare, avevano notato questo cambiamento nell’Aldobrandeschi e hanno posto

l’accento sul contrasto tra la sua condizione passata e presente.

14. II, XI, 68: superbia, sostantivo femminile singolare. È sempre Omberto a parlare; dopo aver

esplicitamente confessato il proprio peccato di superbia, continua il suo monologo aggiungendo che

tale superbia non ha recato danno esclusivamente a lui, ha bensì trascinato con sé nel male (in vita e

dopo la morte) tutti i suoi consanguinei.5

Tale è la comune interpretazione del verso, pienamente confermata da Francesco da Buti, il quale

spiega: “e non pur a me danno superbia fe; cioè non à fatto pur male a me la superbia, ma tutti miei

consorti; cioè tutti li altri conti […]”.

                                                            1 Cfr. C. Landino, Comento … cit., p. 1221. 2 Ibid. 3 Cfr. M. Seriacopi, Un volgarizzamento del commento di Benvenuto … cit., p. 270. 4 Cfr. F. da Buti, Commento di sopra la “Divina Commedia” di Dante Allighieri, to. II, a cura di C. Giannini, Pisa, Fratelli Nistri, 1860, p. 257. 5 Consorti è qui inteso nel significato medievale di membri di famiglie provenienti dallo stesso ceppo. 

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~ 109 ~ 

 

“[…] A ella; cioè la superbia, tratti seco nel malanno; cioè tirato con seco in pena et angoscia che

vastrà a tempo, e però dice nel malanno; e sì in questa vita che li à fatti periculare e morire innanti

ora, e sì nell’altra che li à posti in pena”;1 e dall’Ottimo: “[Omberto] soggiunge, che tutti li suoi

parenti sono per superbia male capitati. Vuole l’Autore, che chi non può tenere alzata la testa,

ch’egli la chini a guisa di giunco; onde li conti di Santa Fiore hanno più guerre fatte con li Sanesi, e

per impotenza sono stati vinti con onta e con danno. E questo è quello che dice il testo”.2

La caratterizzazione psicologica di Omberto è raggiunta innanzitutto attraverso il suo linguaggio

aspro, difficile, continuamente spezzato dall’alzarsi improvviso della voce, in un moto che sembra

nascere dall’antica superbia e dal suo piegarsi, altrettanto improvviso, in una voluta ricerca di

umiltà che possa mortificarla.3 Non sembra proprio essere ironia quella che muove siffatto discorso,

ma il sentimento drammatico di una non ancora compiuta vittoria su se stesso, di una tensione lenta

a risolversi tra il guerriero di un tempo, abituato al comando e l’attuale penitente, che sembra fare

tutt’uno col masso che lo mortifica a terra.

Forse ciò è riconducibile al fatto che in lui sia ancora superstite il senso della terra e perduri, seppur

in minima parte, la condizione del suo carattere terreno, essendo per lui ancora all’inizio quel

processo di ascesi spirituale che ha già eliminato ogni contingenza in Oderisi e nel Salvani.

Da quanto osservato, risulta chiaro che in questo passo il sostantivo designi un particolare aspetto

del peccato, che nello specifico si configura come superbia della stirpe.

15. II, XI, 88: superbia, sostantivo femminile singolare. “Qui si sconta la pena di tale specie di

superbia”: è questa la lapidaria sentenza del superbo miniatore, il quale vuole mettere in guardia

l’amico. Oderisi, nel suo colloquio con Dante, appare

“[…] in una condizione spirituale più monda di scorie psicologiche e terrestri che non Omberto Aldobrandeschi: egli è meglio riuscito a sconfiggere in sé i difficili e rissosi orgogli dell’artista, e nell’amichevole enfasi con cui Dante l’aveva salutato onore della sua città e dell’arte della miniatura egli contrappone, con libero riconoscimento, il più luminoso sorriso delle pergamene miniate dal suo antagonista Franco Bolognese. I ricordi delle accanite lotte per la conquista del primato nella propria arte, e la vicenda delle altre fame artistiche e letterarie, gli si sono ormai chiariti in una religiosa filosofia della vanità”.

                                                            1 Cfr. F. da Buti, Commento … cit., p. 258. 2 Cfr. L’Ottimo … cit., pp. 185-186. 3 Si noti, a riguardo, il contrasto tra espressioni come s’io non fossi … guardere’io … io fui latino … io sono Omberto … io questo peso porti … poi ch’io nol fè; ed altre come la cervice mia superba doma … per farlo pietoso a questa soma … non so se ‘l nome suo già mai fu vosco.

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“[…] Ma è una filosofia umanamente ancor patita, velata di malinconia, non tranquillamente serena: Oderisi disserta per persuadere, oltre Dante, anche se stesso, quanto in lui sopravvive, resistendo all’ultima e suprema liberazione spirituale, di umano e terrestre”.1

A proposito di tal superbia, Francesco da Buti spiega: “imperò che volere avansare tutti li altri in

fama et in reputazione è superbia; dilettarsi de la loda e desiderarla è vana gloria, sua filliuola, qui;

cioè in questo primo balso del purgatorio, si paga il fio; cioè lo presso e lo merito”.2

Il Landino, in calce ai vv. 85-90 parafrasa il discorso del miniatore in questo modo: “quando io ero

nel peccato della vanagloria, non sarei stato sì liberale in lodare Franco. Et certo questo vitio

negl’huomini, e quali hanno alcuna excellentia in sé, che non possono lodare un altro, che sia della

medesima virtù. E par, che quello, che dessino di loda a colui, togliessino a sé medesimi; pel gran

disio, per la gran cupidità, d’excellentia: del superare, et vincer, gl’altri. Onde io pago qui el fio, el

tributo, i. la pena […]”.3

La superbia di cui parla Oderisi è sicuramente un secondo aspetto di questo peccato: dopo la

superbia della stirpe, quella dell’arte. E tale è il significato del sostantivo in tale luogo.

16. II, XI, 113: superba, aggettivo femminile singolare. Oderisi introduce la terza e ultima anima

incontrata da Dante nel corso del canto XI: si tratta di Provenzano Salvani, il quale fu “signore di

Siena al tempo in cui venne distrutta la baldanza fiorentina, che era all’epoca tanto superba quanto

ora è avvilita”. L’attributo superba si dovrà qui riferire, probabilmente, all’odio di Firenze contro

Siena, che la condusse all’infausta giornata di Montaperti (la rabbia fiorentina). Ipotesi che sembra

essere già stata contemplata dai commentatori antichi.

Scrive, infatti, l’Ottimo: “Posto di tre qualitadi di superbi, qui aggiunge la quarta di quelli che per

potenza insuperbiscono; e parla esemplificando in persona di messer Provenzan Salvani. […] dice

ch’egli era signore di Siena, allora quando i Fiorentini erano superbi, siccome ora avari, per la quale

furiosa superbia furono sconfitti, secondo che vuole dire l’Autore, a Monte – Aperti nel contado di

Siena […]”.4

Anche Benvenuto da Imola riporta la medesima notizia circa la battaglia di Montaperti, ma non fa

alcun riferimento al motivo della superbia.

                                                            1 Cfr. D. Alighieri, La Divina Commedia, a cura di D. Mattalia, Milano, Rizzoli, 1966, vol. I, commento a Purg., XI, 79-108. 2 Cfr. F. da Buti, Commento … cit., p. 260. 3 Cfr. C. Landino, Comento … cit., p. 1223. 4 Cfr. L’Ottimo … cit., p. 190.

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“Questi fu messer Provenzano da Sena, il quale con la gente da re Manfredo sconfisse e’ Fiorentini

a Monte Aperto, e poi fu sconfitto a Colle di Val d’Elsa da’ Fiorentini e preso e dicapitato […]”.1

Così anche il Landino che, in calce ai vv. 112-114 scrive: “[Siena] della quale era signore, quando

fu distructa La rabbia fiorentina, quando furon vincti e guelfi a Monte Aperto, […] che superba Fu

a quel tempo, et ambitiosa, et hora è putta: i. meretrice, quasi dica, che in quel tempo e ciptadini

eron superbi, hora sono avari, et per avaritia vendono el publico”;2 e Francesco da Buti, il quale

spiega tale passo allo stesso modo: “[…] und’elli era per patria, et erane signore, quando fu

destrutta La rabbia; che aveano convocato li Fiorentini tutta la parte contra li Sanesi, e funno

sconfitti da’ Senesi e da loro setta a la Pieve dal Toppo, e chi dice a Monte Aperto; non so se è un

medesmo luogo; e però dice fiorentina; cioè di Fiorensa, che superba Fu a quel tempo; cioè

Fiorensa, sì com’ora è putta; a quil tempo li fiorentini erano superbi che voleano soprastare li loro

vicini; ora sono putti: imperò che ogni cosa fanno per denari, come la meretrice vende sé per sosso

guadagno; e questo era al tempo de l’autore; ma ora al tempo nostro ànno l’uno vizio e l’altro”.3

Il passo in questione va a confermare il giudizio di Dante, già esposto in altri luoghi, circa il motivo

di tanta corruzione presso i fiorentini: la superbia, appunto, che determina tutti gli altri mali.

È degno di nota, infine, il fatto che Francesco metta in evidenza come dal peccato di superbia sia

scaturito quello dell’avarizia e che al tempo corrente i due vizi convivevano nella città di Firenze.

17. II, XII, 36: superbi, aggettivo maschile plurale. Dante sta contemplando, su invito di Virgilio, i

bassorilievi pavimentali della prima cornice che rappresentano esempi di superbia punita e descrive

quanto si presenta alla sua vista: “vedevo Nembrot stare come smarrito ai piedi della grande torre, e

osservare coloro che a Sennaar ebbero la sua stessa superbia”.

Il poeta si trova davanti al quarto esempio che, come il primo, è nuovamente tratto dalla Bibbia: il

soggetto della rappresentazione è qui colto nel momento in cui la confusione delle lingue lo lasciò

smarrito ai piedi della torre, opera della sua superbia.

Nembrot, già presentato da Dante in Inf., XXXI, 58-81, è il biblico cacciatore responsabile del

tentativo di costruzione della Torre di Babele nella pianura di Sennaar,4 e viene utilizzato ora in

funzione esemplificativa. Dante deve osservare tali esempi non per godere del male raffigurato, ma

per avvertire la distanza tra il suo spirito, ormai pronto e forte, e lo spettacolo del vizio superato.

                                                            1 Cfr. M. Seriacopi, Un volgarizzamento del commento di Benvenuto … cit., p. 272. 2 Cfr. C. Landino, Comento … cit., p. 1225. 3 Cfr. F. da Buti, Commento … cit., p. 263. 4 Cfr. Genesi, X, 8-9; XI, 1-9.

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~ 112 ~ 

 

Le parole che usa per descrivere le scene esprimono proprio questo nuovo sentimento.

L’Ottimo fornisce un’articolata spiegazione. “Questi tre rettori si convennero insieme nel piano di

Sennaar e determinarono quello che fosse da fare; conciosia cosa che elli sapessero, che il diluvio

dell’acqua al tempo di Noè avea tolta l’umana generazione, e per consiglio di Nembrot si misono ad

edificare la torre di Babelle: il quale Nembrot pensò per la sua superbia: Dio non ci potrà nuocere, e

così il nostro riparo sarà più alto, che ‘l nuocere suo non potrà. E furono a questo lavoro tutti li

discendenti di Cam […]. Ora volendo Iddio mostrare, che il sapere umano non potea contrastare al

divino, fece ch’elli furono divisi in lingue, che l’uno non intendea l’altro […] [smarriti] stavano e

stupefatti, riguardando l’uno l’altro, di questo nuovo ed inaudito miracolo: stavano appiè della torre

di Babello; quasi dica l’Autore: la superbia smarrisce, quando vede rimanere imperfetto quello

ch’essa prende alla ragione; non sa però ch’ è cieca stata ancora con le gonfiate vele, né vede che il

suo vento nasce in questa valle finita di misericordia, il quale vento cade insieme con la

mutabilitade delle cose: tolta la causa, tolto è l’effetto. Guata tu dunque, superbo, li miracoli di Dio,

che dalla mano di Nembrot [e dei] suoi seguaci tolse sì subito tanta eccellente opera, e dirupinò

tanta aldacia”.1 Molto più sintetica, ma non per questo meno calzante, l’interpretazione di

Benvenuto, secondo il quale la vicissitudine di Nembrot e dei suoi seguaci: “vuol dire che la

Sapiencia e Potencia di Dio resiste a’ superbi e vincelli quando vuole”.2

Anche Francesco da Buti offre una chiara e acuta interpretazione del passo. Scrive infatti nel suo

commento che “Questi 3 signori; cioè Nembrot, Iepram e Sufane si convennero nel campo di

Sennaar, e ragionando del diluvio che era stato al tempo de l’antiquo loro; cioè Noè, volendo

remediare che se altra volta venisse non noiasse loro, benché questo non dice la Bibbia; ma dice che

‘l fenno per onorare lo nome loro innanti che si dividesseno sopra la terra, dicendo di fare una città

et una torre che andasse infino al Cielo, consilliò Nembrot che facesseno la città et una torre più alta

che non fu l’acqua del diluvio, […] e così deliberonno et incomincionno la ditta torre, e funno a

l’edificazione di ciascuno popolo di questi 3 signori venti quattro mila sette cento omini. Et

cominciata la torre et edificatone grande parte, quando piacque a Dio funno diversificate le loro

lingue, sicché l’uno non intendea l’altro, e trovòsi allora diversificato lo parlare in 72 modi; e così

non intendendo l’uno l’altro, convenne loro lassare la impresa”.3 Più utile alla nostra indagine però,

risultano le parole che l’interprete fa seguire alla spiegazione del passo sopra citata.

                                                            1 Cfr. L’Ottimo … cit., pp. 200-201. 2 Cfr. M. Seriacopi, Un volgarizzamento del commento di Benvenuto … cit., p. 275. 3 Cfr. F. da Buti, Commento … cit., pp. 278-279. 

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“E perché questo procede da superbia; cioè volersi ribellare de la sentenzia di Dio e potere più che

Iddio, però Iddio mostrò ch’elli era più potente di loro; e però finge l’autore che fosse scolpita ne lo

spasso de la cornice prima del purgatorio, perché chi si purga di tale peccato scalca questa superbia,

considerando la sua viltà; e così chi è nel mondo in stato di penitenzia se ne fa beffe di questo […].

[Nembrot] Quasi smarrito; perch’elli non intendeva lo parlare di nessuno, e nessuno lui, e

riguardar le genti; ch’erano scolpite in quello marmo, Che in Sennear; cioè in quella contrada, dove

s’edificò la ditta torre, con lui superbi foro; cioè quelli 24 mila e 100, che tutti pecconno per

superbia, volendo contrafare a Dio”.1

Non ci sono dubbi riguardo al fatto che in tale luogo l’attributo superbi faccia riferimento ad uno

degli aspetti peculiari di questo peccato, la superbia contro Dio, intesa come atto di ribellione al

volere divino e pretesa di poter essere indipendenti da esso.

18. II, XII, 70: superbite, voce del verbo “insuperbire”, imperativo presente, seconda persona

plurale. In seguito alla visione degli esempi di superbia punita rappresentati sul pavimento della

prima cornice, Dante esplode in una dura apostrofe contro i superbi del mondo, non senza una punta

di amara ironia: “ora insuperbitevi, e continuate pure a camminare a testa alta, o figli di Eva, e

cercate di non meditare in modo da vedere la strada sbagliata che seguite”.

Fa notare l’Ottimo che il poeta “Qui esclama per le sopradette vendetta contra la superbia umana, e

dice: figliuoli d’Eva, perché non pensavate voi, che siete di terra? Perché portate pure lo capo alto?

Con questa superbia voi ne sarete così pagati. Or tutte queste istorie introduce l’Autore nel suo

poema, per narrare quanto dispiace alla giustizia di Dio questo vizio di superbia, acciocché l’uomo

si gastighi con li altri guai. E bene dice più proprio d’Eva, che d’Adamo, ch’ella disubbidì, come è

scritto nel Genesi, terzo capitolo; ella fu prima travalicante il comandamento d’Iddio, volente essere

simile a Dio”.2

Risulta chiaro che anche qui, come nel passo precedente, si tratta della superbia contro Dio, il primo

peccato compiuto da Lucifero e inteso come atto di diretta ribellione alla divinità, entrato nella

storia del genere umano attraverso il peccato originale per il tramite della coppia primigenia.

In seguito alla descrizione degli esempi di superbia punita, il Landino osserva che “è condecente

chosa, che queste historie sieno scuplite in terra nella via, accioché ogni huomo, che passa, le

calpesti. Imperoché se costoro per superbia vollon sempre ire sopra gl’altri, degna pena è loro, che

gl’altri vadin sopra di loro […]”.

                                                            1 Ibid., p. 279. 2 Cfr. L’Ottimo … cit., p. 216. 

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“[70-72] Onde per indegnatione usa questa exclamatione el poeta: Hor superbite, figliuoli d’Eva,

quasi dica: huomini mortali, et non d’altra origine, che si sieno gl’altri; et non chinate el volto: quasi

dica: non consederate alla vostra basseza et infima conditione; sicché veggiate el vostro mal

sentero: non si conosce quanto sia mal sentero, i. mala via, quella della superbia, se non quando

veggiamo per exemplo d’altri, dove epsa ci conduce”.1

Non dissimile è il parere di Francesco da Buti, il quale fornisce anche una precisa spiegazione

etimologica del verbo “superbire” e riflette sul significato allegorico dell’apostrofe dantesca.

“Or superbite. In questa secunda lezione del canto XII lo nostro autore finge come pervenne a la

scala, unde si montava al secondo balso del purgatorio; […] imperò che prima pone una invenzione

contra li superbi, […] lo nostro autore finge come elli, veduto tanti mali seguitati dal peccato de la

superbia, e sì gravi punizioni seguitatene come dimostrano breve le storie ditte dinanti, proruppe in

una esclamazione breve contra l’umana specie, riprendendola del peccato de la superbia; […] Che

cosa sia superbire lo dimostra lo vucabulo: superbire è sopra li altri andare; superbire, super alios

ire; e però indignative parla l’autore dicendo: Or superbite; voi omini: con ciò sia cosa che veggiate

Troia disfatta per la superbia, e li altri mali che ditti sono di sopra; e questa dizione Or, alcuna volta

significa tempo; […] alcuna volta significa confortazione come qui che parla l’autore per contrario,

che si dè intendere non superbite: lo parlare con indignazione si fa affirmativo, et intendesi

negativo; e così alcuna volta si fa negativo et intendesi affirmative. e via col viso altero; cioè alto:

imperò che li vizi de l’animo si dimostrano co li atti del corpo, però parla cusì l’autore: imperò che

comunemente chi è superbo va col petto teso e col capo alto, Filliuoli d’Eva; cioè voi omini, che

siete filliuoli d’Eva e d’Adam; e per questo ditto dimostra che non si dè superbire: con ciò sia cosa

che tutti siamo pari, secondo lo nascimento: […] dunqua non c’è cagione, che l’uno omo debbia

volere sopra stare a l’altro, e non chinate il volto; quanto alla lettera, sicché veggiate a che periculi

vi mena lo peccato de la superbia per li esempli delli altri superbi che sono mal capitati; et

allegoricamente, e non chinate la vostra volontà ad umiliarvi, che lo dovreste fare ricognoscendo

per li esempli delli altri lo vostro errore: quando l’omo inchina la volontà sua ad umilità, ripensando

li mali seguitati de la superbia, pilliane dispiacere e volgesi in contraria parte a la virtù de la umilità,

sicché per questo dà ad intendere. Et umiliatevi voi omini, Sì che veggiate il vostro mal sentero;

cioè a ciò che veggiate quanto è ria la via de la superbia, se non quando si considerano li mali che

sono seguitati e che ne seguitano”.2

                                                            1 Cfr. C. Landino, Comento … cit., pp. 1235-1236. 2 Cfr. F. da Buti, Commento … cit., pp. 286-287.

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Come si può ben notare da quanto detto sopra, Francesco da Buti ha il merito di offrire un’articolata

riflessione sul passo in questione e, soprattutto, una chiara definizione di questo particolare aspetto

della superbia, che tanta parte ha nella storia del genere umano.

19. II, XXX, 79: superba, aggettivo femminile singolare. Passo relativo all’aspro rimprovero di

Beatrice nei confronti di Dante la quale, chiamandolo per nome,1 dice al poeta di non piangere per

la scomparsa si Virgilio, ma per un motivo ben più grave. Lo invita infatti a guardarla e lo riprende

per aver osato salire a quel luogo di felicità: del v. 74 (Come degnasti d’accedere al monte?) però,

sono state fornite sostanzialmente due interpretazioni.

La prima, avanzata da Francesco da Buti2 e accettata da molti moderni in quanto poggia sul

significato di degnare nell’italiano antico, che valeva “potere, essere capace”, intende: “come ti sei

ritenuto degno di salire”, cioè, “come hai potuto, come sei stato in grado di accedere al monte del

Paradiso Terrestre?”. Generalmente gli antichi commentatori, infatti, passano oltre senza spiegare in

quanto per loro il verso risultava sin troppo chiaro e non necessitava di approfondimenti.

Fu il Landino3 che, per primo, notò una sorta di senso ironico in queste parole, attribuendo a

degnasti il significato di “ti degnasti” e quindi intendendo le parole di Beatrice in questo modo: “ti

sei finalmente degnato di pentirti e di giungere qui!”.

È difficile pronunciarsi in favore dell’una o dell’altra interpretazione; seguendo l’opinione del

Reggio, comunque, ritengo più opportuna la prima in quanto l’uso di degnarsi nel senso di “potere,

essere capace” era molto frequente nell’italiano antico (occorre però ricordare che non si trovano in

Dante altri esempi di questo verbo il tale accezione).

                                                            1 Da notare il fatto che questa è la prima e unica volta che nel poema compare il nome di Dante. Seguono le aspre parole di rimprovero di Beatrice, ma c’è chi, nel vocativo iniziale, ha notato un segno d’affetto (cfr. D. Alighieri, La Divina Commedia, a cura di U. Bosco e G. Reggio, vol. II, cit., commento a Purg., XXX, 55): «Dante, perché Virgilio se ne vada, / non pianger anco, non piangere ancora; / ché pianger ti conven per altra spada». (vv. 55-57). 2 “Come degnasti; cioè come t’ài fatto degno meritevolmente, d’acceder; cioè di venire, al monte; cioè al monte del purgatorio?” (Cfr. F. da Buti, Commento … cit., p. 740). 3  “[…] alquanti vogliono che Beatrice lo riprenda di riprensione, et expongo chosì: chome degnasti tu, i. chome hai tu giudicato, te esser degno d’accedere, cioè di venire, al monte? […] Ma secondo mio iudicio altra expositione quadra meglio. Imperoché lei parla a Danthe, come spesso parla chi è sdegnato inverso chi l’ha lasciato, et lungo tempo chome insuperbito non lo visita, poi tornando sogliamo dire «chome degnasti tu di venirci?», cioè tu mi parevi sì insuperbito ch’io non credetti che tu ci degnassi più; et mentre che diciamo tali parole usiamo hironia, quasi dicendo «tu ci dovevi pur degnare». Adunque tu che eri diventato sì superbo, chome degnasti tu salire al monte, quasi dica: io t’ho veduto sì insuperbito, ch’io non credecti che tu ti degnassi […] Ha insino a hora ripreso la superbia sua, hora riprende la stultitia et la ignorantia che lui gran tempo non si sia accorto che l’huomo non può esser felice in altro luogo, il che è stato cagione che lui si sia indugiato tanto a venire”. (Cfr. C. Landino, Comento … cit., p. 1499).

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Inoltre, appare alquanto strano che, nel severo contesto del rimprovero di Beatrice a Dante, possa

trovare spazio una troppo esplicita interpretazione ironica.1

Premesso ciò, la comune interpretazione della terzina 79-81 è la seguente: “Come la madre (mentre

lo rimprovera) sembra severa al figlio, così Beatrice apparve a me, perché risulta amaro il sapore

dell’affetto materno quando (per il bene del figlio) si manifesta in modo severo”.

Tale parafrasi si basa sull’Ottimo: “qui induce questa comparazione a dimostrare, che tutto che

Beatrice li riprendesse così d’ignoranza e d’audacia; neente meno la sua reprensione movea da

quello affetto materno, che la madre avendo pietade del figliuolo gastigandolo, proffera nella vista:

«Chi ama il figliuolo suo, continua il flagella, acciò che ultimamente s’allegri; perocché se le parole

fossero morbide, quale è la caritade dell’animo, egli piglierebbe soperchie morbidezze»”.2

Similmente, il Landino spiega: “Chosì la madre al figlio par superba: sì chome era el figliuolo,

parendogli che quando la madre lo riprende epsa sia superba inverso lui, chosì a me pareva che

Beatrice fussi acerba verso di me, et epsa era piatosa”;3 e Francesco da Buti, secondo cui il poeta

“[…] arreca una similitudine, dicendo: Così la madre al fillio; alcuna volta, si dè intendere; cioè

quando ella lo riprende, par superba; cioè altiera e sdegnosa ne le parole riprensive, Com’ella; cioè

Beatrice, parve a me; cioè a Dante, perché d’amaro Senti’ il sapor de la pietate acerba; ecco la

cagione, perché Beatrice li parve superba; cioè: imperò che la riprensione, la quale venne da pietà

dura e non molle, mi seppe d’amaro: per pietà la madre riprende lo figliuolo; ma alcuna volta la

pietà è molle, alcuna volta è dura; quando è molle sa di dolce, quando è dura sa d’amaro”.4

In tale luogo, la miglior interpretazione dell’attributo superba sembra essere, dunque, “aspra,

severa” ed essendo riferito alla madre (e quindi a Beatrice, secondo la similitudine), non può recare

alcuna sfumatura negativa del significato etico – morale del termine.

Casomai, seguendo la linea interpretativa proposta da Francesco da Buti, possiamo parafrasare con

“altera, sdegnosa”, in relazione però all’altezza d’animo di Beatrice, che le fa provare un acuto

moto di sdegno dinanzi ad un vizio tanto ignobile come la superbia.

                                                            1 Cfr. G. Reggio, commento a Purg., XXX, 74, in D. Alighieri, La Divina Commedia, cit. 2 Cfr. L’Ottimo … cit., pp. 534-535. 3 Cfr. C. Landino, Comento … cit., p. 1500. 4 Cfr. F. da Buti, Commento … cit., p. 742.

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Considerazioni

Ecco conclusa la rassegna delle occorrenze di superbia nella seconda cantica della Commedia.1

Come abbiamo avuto modo di sottolineare alla fine di § 1., non è possibile prescindere dal contesto

in cui ricorrono i termini sopra trattati e sarà opportuno soffermarsi brevemente sul dettaglio.

Nei luoghi 14. e 15. si incontrano due sostantivi che indicano esplicitamente il peccato di superbia,

rispettivamente, la superbia aristocratica scaturita dall’orgoglio della stirpe (esemplificata nella

persona di Omberto Aldobrandeschi e, per bocca sua, di tutti i suoi consanguinei) e la superbia

artistico – intellettuale, generata dall’eccessiva considerazione di sé e dei propri meriti e dal

conseguente desiderio di eccellere e sovrastare gli altri (esemplificata nella persona di Oderisi da

Gubbio e nella sua meditazione sulla vanagloria terrena).

Il punto 18. presenta un verbo all’imperativo (voce del verbo “insuperbire”), riferito agli uomini in

generale e riconducibile al significato proprio del termine superbia, in quanto peccato che tanta

parte ha nel mondo.

Nei restanti luoghi, incontriamo aggettivi (maschili e femminili, singolari e plurali) che

sostanzialmente valgono “soggetto a superbia” o “mosso, determinato da superbia”, specificamente

ai punti 12., 13., 16. e 17.

Da notare, infine, che in due luoghi (11. e 19.) gli aggettivi che si incontrano non hanno nulla a che

vedere con il significato etico – morale del termine: il primo si riferisce all’altezza della costa e

superba andrà quindi resa con “alta, erta”; mentre il secondo va a connotare il primo termine della

similitudine che identifica Beatrice con una madre e significa “severa, sdegnosa”.2

Ritengo sia particolarmente importante porre in evidenza il fatto che, delle nove occorrenze presenti

nel Purgatorio, ben sette ricorrano proprio nei tre canti dedicati da Dante alla trattazione del tema

della superbia: una in Purg. X, ben quattro in Purg. XI e due in Purg. XII. Si tratta di un’ulteriore

prova a conferma del particolare interesse dantesco nei riguardi di questo peccato, da cui

scaturiscono, appunto, l’attenta analisi e riflessione che compie in questi tre canti; interesse che

ovviamente si riflette sul piano lessicale, creando un’articolata rete semantica.

Non è un caso, infatti, che siano esattamente queste le occorrenze che si presentano nel significato

proprio del termine.

                                                            1  In sintesi: su nove occorrenze, sette designano esplicitamente e in maniera esclusiva il peccato di superbia; due non si riferiscono alla superbia in senso proprio (significato proprio: 77,8%; significato altro: 22,2%). 2 Si veda quanto detto alla fine del punto 19. 

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~ 118 ~ 

 

In conclusione, va ricordato che sono presenti nel poema alcuni termini appartenenti al campo

semantico della superbia, anche se non riconducibili etimologicamente ad essa. È il caso di

occorrenze quali arroganza, orgoglio, presunzione e vanagloria.

Il Purgatorio ne presenta sei, le quali saranno ora brevemente trattate.

II, II, 126: queti, sanza mostrar l’usato orgoglio. Il passo in questione tratta la riapparizione di

Catone e la conseguente fuga delle anime che, assieme ai due poeti, stavano ascoltando rapite

dalla dolcezza della melodia il canto di Casella. L’austero custode riappare improvvisamente e

rimprovera gli spiriti a causa della loro negligenza, invitandoli a correre immediatamente al

monte per purificarsi: queste si sparpagliano dirigendosi verso la montagna, così come Dante e

Virgilio. Per descrivere questa fuga disordinata, il poeta ricorre alla similitudine dei colombi e

proprio a questi è riferito l’usato orgoglio, ossia quell’atteggiamento pettoruto, col collo gonfio

nell’incedere, caratteristico dei colombi quando camminano. Appare ovvio che in tale luogo

orgoglio non presenti alcun legame semantico con il peccato di superbia.

II, III, 140: in sua presunzion, se tal decreto. Il passo fa parte dell’episodio riguardante il

colloquio di Dante con Manfredi, il quale dichiara di essersi pentito in punto di morte e,

nonostante gli orrendi peccati, di essere stato perdonato da Dio. Spiega poi a Dante che la

scomunica ecclesiastica si paga, nell’Antipurgatorio, con un’attesa uguale a trenta volte il

periodo vissuto in contumacia della Chiesa, prima di poter cominciare l’iter di espiazione. È

proprio in questo che consistette la sua presunzion: l’ostinata caparbietà con cui non si

sottomise all’autorità della Chiesa. Scrive, infatti, Francesco da Buti: “In sua presunzion; cioè in

sua superbia, non ritornando a l’obedienza, […]”.1 Si può concludere, quindi, che nel suddetto

luogo l’occorrenza di presunzion sia da intendere come sinonimo di superbia.

II, XI, 62: d’i miei maggior mi fer sì arrogante. È l’anima di Omberto Aldobrandeschi a parlare,

il quale dichiara di trovarsi nella prima cornice per espiare la sua superbia, deplorando quella di

tutta la sua stirpe. Causa della sua superbia furono proprio la nobiltà e l’antichità della stirpe, le

opere virtuose e nobili dei suoi antenati: arrogante viene sicuramente usato qui come sinonimo

di superbia aristocratica. Osserva il solito Francesco: “mi fer sì arrogante; cioè soperbo, benché

arroganzia è specie di superbia come appare ne la prima cantica”.2

                                                            1 Cfr. F. da Buti, Commento … cit., p. 71. 2 Ibid., p. 258. 

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II, XI, 91: Oh vana gloria de l’umane posse. È il miniatore Oderisi da Gubbio ad esplodere in

questa amara invettiva contro l’orgoglio umano, per spiegare a Dante (e, probabilmente, per

convincere anche se stesso) quanto sia sciocco prodigarsi tanto per raggiungere fama e onori

sulla terra. Egli, infatti, risponde alle lodi di Dante affermando che la sua gloria artistica è già

finita, passata ad un altro e all’esempio tratto dall’esperienza personale, fa seguire questa prima

esclamazione sulla vanità della fama mondana: “oh quanto è vana la gloria che deriva dall’opera

dell’ingegno umano!”

A ragione si può considerare la vanagloria di cui fa menzione il miniatore in tale sede come

corrispondente ad uno degli aspetti del peccato di superbia, nello specifico, all’eccessivo ed

esagerato sentimento del proprio valore artistico – intellettuale.

Ecco cosa scrive Francesco da Buti in proposito: “[…] gloria è allegressa dell’animo e

contentamento d’essere buono; e questa gloria è semplice et assoluta; cioè che non cerchi

eccellenzia sopra altrui, e non vollia essere reputato: questa è vera e buona gloria, in quanto

l’omo non si glori in sé; ma ricognosca la grazia di Dio, che altramente sarebbe superbia. […].

Et in ogni altro modo la gloria è vana: imperò che, se l’omo cerca per la sua virtù eccellenzia

sopra li altri, pecca di superbia”.1 Risulta chiaro che il lemma vana gloria è qui usato come

sinonimo di superbia artistica nella sua tipologia artistico – intellettuale.

II, XI, 122: ed è qui perché fu presuntuoso. Nel passo in questione Oderisi spiega a Dante il

motivo per cui Provenzano Salvani si trova nella prima cornice: egli ebbe, infatti, la presunzione

di diventare signore di Siena. Si tenga in debita considerazione il fatto che per San Tommaso la

superbia è amore della propria eccellenza, origine quindi della praesumptio; fu proprio la

superbia di Provenzano che lo portò a farsi (ma ovviamente non ci riuscì) signore di Siena. Tale

interpretazione ci viene confermata da Francesco da Buti che spiega: “è qui: però che fu

presuntuoso; ecco che manifesta la colpa perché è in si fatto luogo; cioè per la presunzione, che

è de le filliuole de la superbia. Et è presunzione pilliare a sé quil ch’è d’altrui […] e così questo

messere Provensal fu presuntuoso ad arrecare a sé la maggioria de la sua città”.2 Si può senza

dubbio affermare che presuntuoso risulti strettamente connesso al peccato di superbia.

II, XXVIII, 72: ancora freno a tutti gli orgogli umani. L’episodio a cui fa riferimento il verso è

l’apparizione di Matelda sulla riva del fiume Leté, mentre Dante si trova sulla sponda opposta.

                                                            1 Cfr. F. da Buti, Commento … cit., pp. 260-261. 2 Ibid., p. 264. 

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Per spiegare la distanza che intercorre tra loro e il sentimento che ne scaturisce, il poeta ricorre

ad una similitudine (cfr. vv. 71-75): “l’Ellesponto, nel luogo dove passò Serse, ancor oggi

esempio e freno all’orgoglio umano, non fu oggetto di maggior odio da parte di Leandro, a

causa del suo mareggiare tra Sesto e Abido, di quanto fu da me odiato il fiumicello, perché non

si aprì per farmi giungere fino a Matelda”.1

Da notare, nello specifico, che tra i vv. 71-72 Dante inserisce una precisa riminescenza storica:

il passaggio dell’Ellesponto da parte di Serse (480 a. C.) col suo grandissimo esercito, per

attaccare i Greci ma, sconfitto a Salamina, dovette riattraversarlo in una vergognosa e

disordinata fuga. Si tratta di un particolare interessante e non meramente accessorio, dato che

secondo Dante, questo è un illustre esempio di smisurato orgoglio punito.

Illuminante, in proposito, risulta la spiegazione di Francesco da Buti: “[…] Serse anco ora,

affrena tutti orgolli umani: imperò che li signori del mondo superbi si raffrenano, pensando

come colse a Serse del suo orgollio”.2 Anche in tale luogo, orgoglio sarà allora da intendere

come superbia, presunzione di poter intraprendere grandi imprese che travalicano i limiti delle

possibilità umane.

                                                            1 In questa sede Dante allude esplicitamente al mito di Ero e Leandro, i due innamorati che vivevano sulle opposte rive dell’Ellesponto (cfr. P. Ovidio Nasone, Heroides, XVIII, 139 e ss.). 2 Cfr. F. da Buti, Commento … cit., pp. 679-680. 

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§ 3. Paradiso

20. III, XI, 101: superba, aggettivo femminile singolare. Il canto XI è in onore di San Francesco e

in rampogna dell’ordine dei domenicani che, salvo poche eccezioni, non ha prestato fede

all’insegnamento del suo fondatore (il canto XII, invece, con perfetto chiasmo, sarà in onore di San

Domenico e in rampogna dell’ordine francescano).

In particolare, i vv. 101-102 alludono al tentativo di Francesco di predicare in Oriente, dove

effettivamente si recò con dodici frati nel 1219. Nel passo in questione Dante ricorda tale viaggio,

durante il quale Francesco fu fatto prigioniero a San Giovanni d’Acri e proprio nel periodo della sua

prigionia tentò invano di convertire il sultano d’Egitto Malek-al-Kamil e i Saraceni alla fede

cristiana. Si narra che il sultano, pur non accettando la fede di Cristo, ascoltò volentieri la

predicazione di Francesco e lo trattò benevolmente.1

Prestando fede a queste testimonianze allora, l’aggettivo superba andrà a connotare il fasto orientale

del sultano e il verso sarà da intendere: “alla presenza del sultano nel fasto della sua corte”.

È necessario, però, tenere in debita considerazione il fatto che le medesime fonti riportano la notizia

della cattura di Francesco e, in particolare, del trattamento ostile da parte dei soldati, che avevano

insultato e percosso lui e i suoi compagni (atteggiamento che cessò solo dopo che fu portato alla

presenza del sultano). Inoltre, se si tiene conto della testimonianza di Iacopo da Vitry, il quale

definisce il Soldano bestia crudelis, l’aggettivo superba potrebbe essere inteso anche come

un’indicazione di ostilità e brutalità che metterebbe in maggior risalto la sete di martirio del santo.

Nota in proposito il Bosco:

“A Dante, invece, interessa far del Soldano un fermo avversario di Francesco, per far risaltare il granitico coraggio di questo. Né «superba» può intendersi «fastosa», come qualcuno ha proposto, giacché qui si parla della volontà di martirio del santo; e la sua umiltà, in contrasto col fasto orientale, sarebbe qui nota aliena e fuor di luogo”.2

L’Ottimo e il Landino invece, nei rispettivi commenti, riportano soltanto la notizia del viaggio di

Francesco e del suo tentativo di convertire il sultano, senza alcun riferimento all’attributo superba.3

                                                            1 Cfr. Tommaso da Celano, Vita I, I, 20; Bonaventura, Legenda maior, IX, 7-8. 2 Cfr. U. Bosco, Introduzione al Canto XI, in D. Alighieri., La Divina Commedia, Paradiso, vol. III, a cura di U. Bosco e G. Reggio, cit. 3 “E qui pone come san Francesco, desideroso di ricevere la morte per lo nome di Cristo, andò a predicare la fede tra’ Saracini; […]”. (Cfr. L’Ottimo … cit., vol. 3, p. 277); “Dipoi desiderando el martyrio, andò a predicare la fede christiana in terra del soldano”. (Cfr. C. Landino, Comento … cit., to. IV, p. 1733).

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Più utile ai fini dell’indagine risulta la parafrasi di Francesco da Buti: “[…] ebbe desiderio santo

Francesco d’essere martirizzato per la fede di Cristo, e però andò in Egitto a predicare Cristo e li

santi che seguirono Cristo, Nella presenzia del Soldan superba; cioè in presenzia del Soldano che

era re e signore dello Egitto […] e dice superba: imperò che con grande pompa et apparato stava”.1

Da quanto detto finora si può concludere che esistono opinioni discordanti circa la corretta parafrasi

dell’aggettivo superba. Molto schematicamente, appare lecito affermare che tra gli antichi la

comune interpretazione era “fastosa”, seguita anche da alcuni moderni; attualmente, però, sembra

che si prediliga il riferimento all’ostilità del sultano e della sua corte nei confronti di Francesco.

21. III, XVI, 110: superbia, sostantivo femminile singolare. Dante si trova nel Cielo di Marte e

pone all’avo quattro domande: notizie circa i suoi antenati, l’epoca della sua nascita, la popolazione

fiorentina e le più importanti famiglie di quei tempi antichi. Cacciaguida, in risposta alla quarta

domanda, enumera le principali famiglie del suo tempo accennando anche al declino o alla fine di

alcune di esse.

Nello specifico, ai vv. 109-110 esclama: “Oh quanto potenti io vidi gli Uberti, i quali ora sono

caduti in rovina a causa della loro superbia!”

In questo passo Cacciaguida ricorda, appunto, gli Uberti, la celebre famiglia ghibellina il cui

personaggio più famoso è Farinata,2 considerati dall’Ottimo i padri della cittade fino al momento in

cui nacquero le prime divisioni civili;3 e i Lamberti, lo stemma dei quali era costituito da palle d’oro

in campo azzurro, un’altra famiglia ghibellina messa al bando (come gli Uberti) dopo la sconfitta di

Montaperti, i quali avevano dato lustro a Firenze in ogni loro impresa (cfr. vv. 110-111).

In calce ai vv. 109-111 il Landino scrive: “Quegli che son disfacti: intende gli Abati, huomini certo

savi et riputati nel governo, ma troppo superbi per quel che di loro si legge”.4 E concorda Francesco

da Buti, quando spiega: “O quali io viddi quei che son disfatti; finge l’autore che messere

Cacciaguida esclami per muovere lo lettore a commiserazione, dolendosi de li Abbati che furno

grandi cittadini al tempo suo et abitorno nel tempo loro nel sesto di San Piero; ma per loro superbia

furno disfatti, sicché al tempo che l’autore finse d’avere questa visione, cioè nel 1300, non erano

nulla; e però dice: Per lor superbia! E le palle dell’oro; questo dice, perché l’arme loro erano le

palle dell’oro nel campo azzurro”.5

                                                            1 Cfr. F. da Buti, Commento … cit., to. III, pp. 347-348. 2 Cfr. Inf., X, 31 e ss. 3 Cfr. L’Ottimo … cit., p. 379. 4 Cfr. C. Landino, Comento … cit., p. 1803. 5 Cfr. F. da Buti, Commento … cit., p. 481.

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In tale luogo il significato di superbia risulta sin troppo chiaro nell’accezione morale di vizio che,

spingendo in alto, precipita verso il basso e mette d’accordo antichi e moderni interpreti.

22. III, XIX, 46: superbo, aggettivo sostantivato maschile singolare. Ci troviamo nel Cielo di Giove

e davanti agli occhi del poeta si staglia luminosa sullo sfondo del cielo l’immagine dell’aquila che,

pur essendo formata da innumerevoli spiriti, parla come se fosse un’unica persona dichiarando di

essere lì per aver operato in terra con giustizia. Dante la prega di chiarirgli un antico dubbio, di cui

aveva invano cercato soluzione sulla terra, ossia quello concernente la giustizia di Dio: l’aquila

spiega, allora, come Dio, nella creazione dell’universo, non poté imprimere il suo valore in modo

tale che il suo Verbo non rimanesse infinitamente superiore a ciò che aveva creato; ecco perché la

limitata ragione umana non può giungere al fondo dell’abisso divino.

Analizziamo nel dettaglio le parole dell’aquila (vv. 40-48).

“Dio, che durante la creazione girò il compasso a tracciare gli estremi confini del mondo1 e in

questo dispose ordinatamente tante cose occulte e visibili, non poté imprimere la sua infinita

perfezione in tutto l’universo in modo tale che l’idea della sua mente non restasse infinitamente

superiore rispetto alle cose create. E ciò è confermato dal fatto che Lucifero (‘l primo superbo), il

quale riuniva in sé quanto di più perfetto potesse esserci in una creatura, per non aver atteso la luce

della grazia divina, precipitò imperfetto dal cielo”.

Dio, insomma, ha creato e impresso nel mondo un ordine geometrico secondo una legge di assoluta

perfezione, ma il creato non possiede in atto tutta la perfezione perché, in tal caso, risulterebbe

infinito e due infiniti si escludono a vicenda. L’idea divina, dalla quale prende forma l’universo,2

non ha toccato il punto estremo della sua potenza: l’Onnipotente, essendo infinito, non può

realizzare totalmente se stesso in un universo finito.

La prova della limitatezza del creato di fronte all’immensità e alla perfezione di Dio, è offerta

proprio dalla ribellione di Lucifero e dei suoi seguaci.

Dio infatti, dopo aver creato gli angeli, fissò per loro un periodo di prova, superato il quale avrebbe

concesso loro una pienezza di conoscenza che li avrebbe resi consapevoli della propria

imperfezione e quindi dell’assoluta necessità della loro dipendenza dal Creatore.3

                                                            1 L’immagine del creatore che delinea i confini dell’universo con il compasso è di origine biblica (cfr. Proverbiorum liber, VII, 27-29; tradotta da Dante stesso che la cita in Convivio, III, XV, 16; e Giobbe, Liber Iob., XXXVIII, 5-6). 2 Cfr. Par., XIII, 52-57. 3 Siffatta conoscenza costituisce l’esatto opposto della superbia, intesa come presunzione di poter prescindere dall’aiuto divino, sacrilega convinzione e pretesa di poter esserne indipendenti.

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Lucifero, non avendo voluto attendere il lume della Grazia a causa della sua superbia, perse per

sempre quella perfezione di conoscenza alla quale invece pervennero gli angeli rimasti fedeli.1

Il paragone di Lucifero, definito come la somma d’ogne creatura, serve a rendere ancora più

evidente quanto verrà espresso nella terzina successiva, in quanto qualsiasi altra creatura sarà pur

sempre inferiore a come era stato creato Lucifero.

Tutti gli antichi concordano su questa interpretazione. Riporta l’Ottimo: “E questo fa certo che

Lucifero, per non aspettare il lume che l’avesse inluminato di questa ineffabile potenza di Dio, per

lo quale avrebbe veduto che nulla creatura, non che pari di lui, ma né sofficiente era a comprendere

la infinitade della sua potenza, - cadde acerbo, perché non era venuto a sua perfezione”.2

A tale spiegazione fa eco il commento del Landino: “Et ciò fa certo: cioè pruova questo che è decto

in questa forma. Se Lucifero, el quale fu la più excellente creatura che facessi Idio, et fu el primo

che insuperbissi contro al suo creatore, non vide le cagioni della providenzia di Dio, non le potranno

vedere l’altre creature meno excellenti; ma lui non le vide. Il che si vede perché non aspectò el lume

della gratia confirmante, anzi si riputò pari al verbo divino et però cadde acerbo. Adunque è

manifesto che la creatura non può vedere nel creatore ogni cosa”.3

Simile risulta anche quello di Francesco da Buti: “E ciò fa certo: cioè questo, che è detto, fa certo e

pruova questo che dirò ora, cioè, che ‘l primo superbo; cioè lo Lucifero, che fu la prima creatura

che superbisse contra Iddio, Che fu la somma d’ogni creatura; cioè lo quale Lucifero avanzò tutte le

creature per eccellenzia: imperò che tutte l’avanzò per natura datali da Dio tanto eccellente, Per non

aspettar lume; cioè perché non aspettò la grazia confirmante, anco si riputò pari a Verbo Divino,

cadde acerbo; cioè cadde della sua eccellenzia”.4

Detto ciò, il significato di superbo si spiega da solo: reo di ribellione, presunzione, dismisura.

23. III, XIX, 121: superbia, sostantivo femminile singolare.5 L’aquila, leggendo nel libro del

giudizio divino, enumera le male azioni di alcuni principi cristiani del tempo di Dante. Nello

specifico, ai vv. 121-123, afferma: “in quel libro si vedrà la superbia sitibonda di dominio, che

acceca il re di Scozia e quello d’Inghilterra, in misura tale che nessuno dei due può sopportare di

rimanere entro i propri confini”.6

                                                            1 Cfr. De Vulgari Eloquentia, I, II, 3-5. 2 Cfr. L’Ottimo … cit., p. 434. 3 Cfr. C. Landino, Comento … cit., p. 1839. 4 Cfr. F. da Buti, Commento … cit., p. 543. 5 Il contesto è lo stesso del passo precedente; si veda quanto detto all’inizio del punto 22. 6 che fa lo Scotto e l’Inghilese folle, (v. 122). Non è sicuro a chi di preciso alluda Dante; per lo più si pensa ad Edoardo I d’Inghilterra che iniziò e condusse fino alla sua morte (1307) la lotta contro la Scozia.

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Circa l’interpretazione di questo passo, risultano molto interessanti i commenti degli antichi.

Ecco quanto riporta l’Ottimo: “E qui riprende d’avarizia il re d’Inghilterra, dicendo che per questa

cagione non può soffrire che in Scozia abbia re; e quinci si muove la guerra ch’è intra il re Adoardo

d’Inghilterra, e il re eletto per li Scotti; e che il re di Scozia per avarizia non vuole fare debita

subiezione al detto re, ma leva arme contro a lui; onde l’uno e l’altro fa follia. Onde l’Autore in

questo dà ad intendere, che avarizia è regina in quelli due regni”.1

Di diversa opinione il Landino, che interpreta: “Lì si vedrà la superbia che asseta, i. l’arrogantia

che ha l’huomo quando gli pare meritare più che altri. Onde l’asseta, i. lo fa cupido d’imperare. Et

di questo vitio riprende el re d’Inghilterra et di Scotia, el quale è tanto superbo che non può soffrire

et patire di stare dentro a sua meta, i. dentro a’ suoi termini”;2 e Francesco da Buti, che similmente

intende: “Lì; cioè nel detto libro, si vedrà; scritta, la superbia; cioè lo peccato della superbia, cioè

l’arroganzia che è spezie di superbia, ch’asseta; cioè la quale fa l’uomo desideroso d’avere, cioè fa

l’uomo cupido e dalli sete d’avere quello bene che ànno li suo’ vicini; e questa è una arroganzia,

quando a l’omo pare d’essere degno di quello che altri à, e con questo ne li viene desiderio

immoderato, Che; cioè la qual superbia, fa lo Scozio […] e l’Inghilese folle; cioè […] stolto: imperò

che ogni peccato rende l’omo stolto, e massimamente quello che è maggior peccato, Sicché non

può; cioè per sì fatto modo, che l’Inghilese, né lo Scozio non può, soffrir; cioè sofferire, dentro a

sua meta; cioè dentro ai termini suoi: anco escono fuora dell’isula ad infestare le parti vicine per

volerle signoreggiare”.3

Dall’analisi di tali commenti emerge un dato interessante. Mentre il Landino e Francesco

concordano sulla natura del vizio che contraddistingue questi prìncipi (su cui sono d’accordo tutti i

moderni interpreti), ossia quel particolare aspetto della superbia che porta ad uno smodato desiderio

di dominio e potenza (detta “arroganza”), l’Ottimo sottolinea un’altra componente di tale peccato:

l’avarizia, e riconduce a questa la sete di ampliare i propri territori a scapito dell’avversario.

Cambiano i termini impiegati, ma ritengo che il senso generale sia all’incirca il medesimo nei tre

commentatori, in quanto avarizia è mossa e determinata sempre da superbia.                                                                                                                                                                                                      Gran parte dei commentatori moderni, però, pensa che in questa sede si alluda a Edoardo II d’Inghilterra e a Roberto Bruce, re di Scozia. Ritengo sia più probabile che Dante, sapendo ben poco di regni così lontani, abbia condannato in modo generico quei re incapaci di rimanere ciascuno entro i propri confini. Più interessante e utile ai fini della nostra analisi è l’aggettivo folle, che veicola il concetto usato frequentemente da Dante nel senso di “superbia, presuntuosa insofferenza dei propri limiti”. (Cfr. G. Reggio, commento a Par., XIX, 122-123, in D. Alighieri, La Divina Commedia, cit.). 1 Cfr. L’Ottimo … cit., p. 442. 2 Cfr. C. Landino, Comento … cit., p. 1846. 3 Cfr. F. da Buti, Commento … cit., p. 551.

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24. III, XXIX, 56: Superbir, verbo all’infinito presente. Dante si trova nel Primo Mobile e Beatrice

sta trattando la questione su dove, quando e come furono creati gli angeli; in particolare, ai vv. 49-

66, spiega che pochi istanti dopo la creazione degli angeli, alcuni di loro si ribellarono e causa della

caduta dei ribelli fu la superbia sacrilega e invidiosa di Lucifero.

Tale è la comune interpretazione del passo in questione: “causa della caduta fu la maledetta

superbia di Lucifero, colui che tu vedesti imprigionato sotto tutti i pesi dell’universo”.1

Come detto poc’anzi, un brevissimo periodo di tempo intercorse tra il momento della creazione

degli angeli e la ribellione di una parte di essi.2 Contemporaneo alla ribellione e alla conseguente

caduta degli angeli ribelli fu il cataclisma che sconvolse la Terra, attraversata da Lucifero, il quale

andò a conficcarsi al centro di essa: questa fu esattamente la punizione per il suo peccato di

superbia, consistente nel non aver voluto riconoscere la sovranità divina. Il centro della Terra

secondo il sistema tolemaico è, infatti, anche il centro dell’universo e quindi il luogo in assoluto più

lontano da Dio.

Tutto ciò contrasta con la sorte riservata a coloro che rimasero fedeli, i quali cominciarono a girare

intorno al punto, come Dante stesso ha potuto vedere: essi riconobbero con modestia la loro

dipendenza da Dio e ne ricevettero la grazia illuminante: la capacità di vedere Dio fu in loro

potenziata, in virtù della grazia e del loro merito che essi acquistarono con l’accoglierla. La Grazia,

infatti, è causa di merito per chi la riceve e il merito consiste nella disposizione d’amore con cui la

creatura l’accetta ed è proporzionata a tale amore. Il merito degli angeli rimasti fedeli fu quello di

aver saputo accogliere con umiltà3 e con amore la Grazia loro concessa al momento della creazione.

Questo atteggiamento li rese meritevoli di un ulteriore e potente accrescimento di Grazia.4

Osserviamo cosa scrivono gli antichi in relazione ad un passo così complesso.

Secondo l’Ottimo “Qui pone l’Autore il poco tempo che li Angioli, che caddero di Cielo, stettero in

Paradiso; e quello che gli altri fecero; e quale fu la cagione del cadere; e quale è quella di permanere

in grazia. E dice, che peccarono adesso dopo lo istante della sua creazione […]. Fu del peccato de’

detti demoni cagione Lucifero, il quale per superbia cadde; e non fu cagione del peccato degli altri

per modo di costringerli a peccare, ma per modo d’uno confortare nella sua opinione […]”.

                                                            1 Lucifero, infatti, è confitto nel centro della Terra, dove si traggon d’ogne parte i pesi (cfr. Inf., XXXIV, 111). 2 Cfr. Convivio, II, V, 12; S. Tommaso, Summa theologiae; I, q. LXII, a. 5; q. LXIII, a. 6. 3 furon modesti (v. 58) ossia “umili”, aggettivo che è posto in rilievo e in forte contrasto con il maledetto superbir (cfr. vv. 55-56) di Lucifero e degli altri angeli ribelli. 4 Cfr. vv. 61-63: la loro virtù visivo – intellettuale ne uscì rafforzata, letteralmente innalzata (le viste lor furo essaltate). È questo il premio che Dio concesse alla loro fedeltà: in tal modo la loro volontà di bene, cioè di amare Dio e di volere ciò che Egli vuole (cfr. S. Tommaso, Summa theol., I, q. LXII, a. 8).

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“Li altri Angioli che conobbero il loro Creatore, furono confermati in grazia, e veggiono la divina

essenza quanto è possibile a creature; la quale visione li tiene sempre innamorati alla essenza di

Dio, ed è impossibile di partirsene”.1

Francesco da Buti fornisce un’articolata spiegazione dei vv. 55-69: “In questi cinque ternari lo

nostro autore finge come Beatrice, seguitando lo suo parlare, dichiarò a Dante la cagione della ruina

delli Angnoli reprobi, e la confermazione delli Angnoli buoni, dicendo così: Principio del cader;

cioè della caduta delli Angnoli reprobi ne fu principio la superbia del Lucifero; e però dice: fu ‘l

maladetto Superbir di colui; cioè del Lucifero, che disse: Disponam sedem meam ab Aquilone, et

ero similis Altissimo -, Che tu; cioè lo quale Lucifero tu, Dante, vedesti Da tutti i pesi del mondo

costretto: imperò ch’elli lo vidde nel centro della terra, al quale caddendo tutti li pesi, fitto nel sasso

forato, siccome fu detto nel XXXIII canto de la prima cantica. Quelli; cioè Angnoli, […] furon

modesti; cioè temperati et umili: imperò che modestia è specie de l’umilità, A ricognoscer sé; cioè

creati, da la bontade Che li avea fatti a tanto intender; cioè a così grande intelligenzia, come avea

dato loro, presti; cioè solliciti et apparecchiati, […] le viste lor fur esaltate; cioè furno innalzate da

Dio, Con grazia illuminante; cioè colla grazia sua, che li illuminò, e col lor merto; imperò che

accettorno la grazia che li illunminò, et in questo stette lo loro merito, […] Sì ch’ ànno; cioè per la

qual cosa elli ànno, ferma voluntade: imperò che sono confermati in grazia”.2

Molto simile ai sopraddetti è il commento del Landino, secondo il quale “Dichiara Beatrice la

cagione della ruina degl’angeli ribelli, et la confermatione de’ buoni. Fu adunque l’origine del

cadere la superbia di Lucifero, el quale el poeta havea veduto nel centro della terra, al quale chome

a luogho più basso caggion tutte le chose gravi. Chostui ingratissimo d’i benefitii ricevuti dal suo

creatore, et superbissimo, dixe: «disponam sedem meam ab aquilone, et ero similis altissimo». Il

perché et lui et e persuasi da llui caddono […]”;3 e più avanti continua: “Quegli che vedi qui,

intorno a Dio, furono modesti et non superbi a riconoscere sé dalla bontà divina, i. conobbono

essere creatura di Dio, et da llui creati, non per loro meriti, ma per sua bontà. Questa modestia fu

merito. […] Et per questo furono le lor viste exaltate con gratia illuminante, et fu merito anchora

che aceptarono la gratia illuminante, et seguitoronla, onde viene poi la gratia cooperante,

confirmante et consumante. Et queste gratie fanno in loro volontà piena et perfecta, perché vogliono

quanto bisogna. Et è ferma, perché non si può mutare”.4

                                                            1 Cfr. L’Ottimo … cit., pp. 635-636. 2 Cfr. F. da Buti, Commento … cit., pp. 768-769. 3 Cfr. C. Landino, Comento … cit., p. 1970. 4 Ibid.

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~ 128 ~ 

 

Dall’analisi del passo in questione emerge che l’interpretazione corrente si basa sulle autorevoli

testimonianze degli antichi ed è in accordo con esse.

È forse il luogo più significativo, in quanto palesa in modo chiaro e preciso la natura del peccato di

superbia, grazie anche e soprattutto alla contrapposizione superbia / umiltà che tanta parte ha nella

spiegazione di Beatrice, notata e posta in evidenza già da tutti gli antichi commentatori.

25. III, XXX, 81: superbe, aggettivo femminile plurale. Tale passo tratta l’arrivo all’Empireo; nello

specifico, Beatrice annuncia a Dante che sono ormai giunti nel luogo in cui gli sarà concessa la

grazia di contemplare gli angeli e i beati, nell’aspetto che avranno assunto dopo il giudizio

universale (cioè quando si saranno ricongiunti ai propri corpi).

Dante viene all’improvviso abbagliato da una luce vivissima e sente che la sua forza visiva si è

accresciuta: scorge un fiume di luce che scorre tra due rive coperte di fiori, mentre una miriade di

faville va e viene dai fiori al fiume. Proprio in riferimento a questa visione, Beatrice spiega (cfr. vv.

76-81): “il fiume di luce e le faville simili a topazi che vi si immergono e ne escono, e il risplendere

dei fiori, sono solo velate anticipazioni delle verità in essi racchiuse; non già che essi siano per loro

natura difettosi, ma l’insufficienza è in te che non hai ancora occhi tanto potenti da vederli quali

sono realmente”. Costretto a descrivere l’Empireo infatti, una realtà al di sopra del tempo e dello

spazio, in forme sensibili, Dante

“risolve felicemente il problema di conciliare la natura di questo cielo con le necessità inderogabili della poesia, presentandoci il sovrasensibile come un sensibile definitivo a cui si arrivi attraverso delle fasi sensibili illusorie […]”.1

Tre allora sono i momenti successivi della visione dell’Empireo: prima una luce viva fascia il poeta,

abbagliandolo, poi la luce si precisa configurandosi in una riviera (la Grazia), sulle cui sponde

crescono rigogliosi i fiori (i beati), mentre faville vive, con moto incessante, passano

alternativamente dal fiume alle corolle e viceversa (gli angeli, intermediari della Grazia e uniti,

nella beatitudine, alle anime sante). Infine, la fiumana assume una forma circolare disponendosi a

configurare una rosa sempiterna.

Quando Dante penetrerà meglio in questa mirabile visione infatti, comprenderà che la realtà, la

quale ora gli appare adombrata, è un’altra; ma ciò che muta non è l’oggetto contemplato, in quanto

non si tratta di cose acerbe, muta e si perfeziona a poco a poco il soggetto che contempla, Dante, il

quale non ha viste ancor tanto superbe.

                                                            1 Cfr. V. Rossi, S. Frascino, Commento a “La Divina Commedia”, Roma, Salerno Editrice, 2008, vol. III, introduzione al canto XXX.

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~ 129 ~ 

 

Quanto esposto sopra trova conferma nelle glosse degli antichi.

Tale è la spiegazione dell’Ottimo: “E dice, che quelle cose gli pajono cotali, ma elle son più perfette

cose; e che cotale apparenza li mostra il difetto dalla parte dell’Autore, che non ha veduta sì -

superba, cioè alta e nobile”.1

La stessa che viene offerta dal Landino: “Et questo non è perché in cielo non sia perfecta

beatitudine, ma el difecto viene dal poeta che non ha anchora le viste, i. gl’occhi, tanto superbi, i.

tanto nobili. Non sanza cagione chiama Beatrice el sole de’ suoi occhi, perché la theologia è quella

che veramente illumina lo intellecto”.2

Simile anche quella di Francesco da Buti, il quale però articola meglio: “E perché per le parole dette

parrebbe che quine fusse mancamento di beatitudine, […] per tolliere lo dubbio, dice: Non che da

sé; cioè io non dico questo, perché da sé, cioè per sua natura, sian queste cose acerbe; cioè

difettuose come sono le cose acerbe, che non sono venute a maturità, né a sua perfezione; ma è lo

contrario, cioè che queste cose da sé sono perfette. Ma è difetto della parte tua; cioè di te Dante, che

apprendi le cose del cielo, come quelle che sono in terra, e rappresenti a te lo stato de’ beati, come

tu comprendi nel mondo essere quelli che sono in santa vita, e vivono come cittadini di vita eterna,

benché siano ancora militanti, Che; cioè lo quale. non ài viste; cioè li occhi atti a vedere, tanto

superbe; cioè tanto alte, che possino comprendere lo stato de’ beati”.3

Risulta chiaro che in tale luogo l’aggettivo superbe non veicoli il concetto di superbia nel suo

significato proprio. Gli antichi lo rendono con “alte, nobili” nel significato di “potenti”, condizione

necessaria per poter penetrare a fondo il mistero di Dio.

Considerazioni

Possiamo considerare conclusa anche la rassegna delle occorrenze di superbia nella terza e ultima

cantica della Commedia.4

Quanto detto in conclusione dei paragrafi 1. e 2. vale, ovviamente, anche per il Paradiso e sarà

quindi opportuno contestualizzare brevemente le varie occorrenze.

I luoghi 21. e 23. presentano due sostantivi che indicano esplicitamente il peccato di superbia nella

sua accezione morale.

                                                            1 Cfr. L’Ottimo … cit., p. 665. 2 Cfr. C. Landino, Comento … cit. , p. 1984. 3 Cfr. F. da Buti, Commento … cit., p. 793. 4 In sintesi: su sei occorrenze, quattro designano esplicitamente e in maniera esclusiva il peccato di superbia; due non si riferiscono alla superbia in senso proprio (significato proprio: 66,7%; significato altro: 33,3%).

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~ 130 ~ 

 

Nello specifico indicano, rispettivamente, la superbia scaturita dall’orgoglio della schiatta e delle

sue nobili opere, causa del declino e della rovina di alcune importanti antiche famiglie fiorentine e

la smodata brama di potere e ricchezze, che si palesa nella sete di dominio di alcuni sovrani.

Gli unici due aggettivi che si incontrano nel Paradiso invece, non sembrano presentare legami col

significato etico – morale del termine. Al punto 20., infatti, superba è riferito al fasto orientale della

corte del sultano e andrà resa con “pomposa, fastosa”; oppure, se si preferisce riferirla

all’atteggiamento con cui il sovrano accolse San Francesco, dovrà essere intesa come “ostile”, ma in

ogni caso non sembra arrecare sfumature del peccato di superbia propriamente detto.

Al punto 25., invece, superbe è riferito senza alcun dubbio alle “viste” di Dante e quindi alle sue

capacità visivo – intellettuali che non sono ancora abbastanza “nobili, elevate”, o per meglio dire,

“potenti” per poter penetrare a fondo la miracolosa visione che gli si spalanca in tutta la sua forza

davanti agli occhi.

Infine, i luoghi 22. e 24. presentano rispettivamente un aggettivo sostantivato (superbo) e un verbo

all’infinito (superbir), i quali identificano Lucifero e il suo specifico peccato di superbia.1

Per considerare definitivamente conclusa l’analisi delle occorrenze del lemma superbia nella

Commedia, non rimane che trattare brevemente gli ultimi termini, appartenenti al medesimo campo

semantico, presenti nell’ultima cantica.

III, VI, 49: Esso atterrò l’orgoglio de li Aràbi. Dante si trova nel Cielo di Mercurio, al cospetto

dello spirito di Giustiniano, portatore dell’Aquila romana dopo più di duecento anni da quando

Costantino ne aveva trasferito la sede in Oriente. L’imperatore comincia a narrare la storia del

sacrosanto segno (l’aquila imperiale, appunto), dall’età dei re alla repubblica; nello specifico ai

vv. 49-51 narra: “esso atterrò l’orgoglio dei Cartaginesi che passarono, dietro ad Annibale, le

Alpi da cui discende il Po”. In virtù del passo virgiliano, in cui si ricorda il compito di Roma di

debellare superbos,2 e dei numerosi passi biblici in cui Dio umilia l’orgoglio dei nemici (e

l’aquila è proprio l’arma di Dio), appare lecito affermare che in tale luogo il sostantivo orgoglio

sia da considerare semanticamente affine a superbia.

                                                            1 Il motivo del peccato di Lucifero è stato trattato ampiamente nel corso del suddetto capitolo; in questa sede si ricorda solamente che esso viene concordemente indicato come peccato di superbia, congiunta con l’invidia. Egli è, infatti, il primo degli esempi di superbia punita; superba è la sua ribellione, il suo strupo (cfr. Inf., VII, 12); egli contra ‘l suo fattore alzò le ciglia (cfr. Inf., XXXIV, 35) e fu appunto il primo superbo (cfr. Par., XIX, 46); ancora, Principio del cader fu il maladetto / superbir di colui … (cfr. Par., XXIX, 55-56) che si era proposto di salire al cielo ed essere simile a Dio. 2 Cfr. Aeneis, VI, 853.

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La conferma di ciò viene offerta da Francesco da Buti, il quale scrive nel suo commento: “qui

finge l’autore che Iustiniano, continuando lo suo parlare, racconta come li Romani sotto la

insegna dell’aquila domorno la superbia de’ Cartaginesi, li quali li chiama Arabi […]”.1

III, XXI, 98: questo rapporta, sì che non presumma. Dante si trova nel Cielo di Saturno, tra gli

spiriti contemplativi. Uno di questi viene a fermarsi vicino al poeta che coglie l’occasione per

porgli alcune domande; ricevute le tanto desiderate risposte, ben sapendo che la libera volontà

dei beati si conforma al volere divino, chiede comunque a quell’anima il motivo per cui, tra

tante altre, proprio lei sia stata predestinata ad andargli incontro. Essa dichiara che neppure la

più alta creatura del cielo potrebbe soddisfare quella domanda a causa dell’imperscrutabilità del

consiglio divino e, nella fattispecie, della predestinazione.

Il Beato conclude il suo discorso rivolgendo un invito al poeta (cfr. vv. 97-99): riferire

chiaramente agli uomini, quando tornerà sulla terra, quanto ha appena appreso, affinché non

presumano di poter conoscere quello che neppure i beati possono sapere.

Risulta chiaro, quindi, che il verbo presumma valga in tale luogo “osi, presuma” e che sia

strettamente legato con quel peccato di praesumptio, affine alla superbia e inteso come

eccessiva audacia, il voler andare oltre i limiti fissati da Dio. Ricordiamo, infatti, che Francesco

da Buti rende sicché non presumma con “non ardisca”.2

III, XXXIII, 82: Oh abbondante grazia ond’io presunsi. Dante è ormai nell’Empireo ed è

finalmente giunto alla tanto agognata visione di Dio e dell’unità dell’universo in Lui. Afferma

che se avesse distolto lo sguardo, anche solo per un istante, si sarebbe sicuramente smarrito (la

luce di Dio infatti è tale, che se vi si distoglie lo sguardo, verrebbe a mancare la forza per

poterla contemplare nuovamente). Continua quindi a fissare quella luce, per penetrarne a fondo

l’essenza e loda l’abbondante grazia che gli ha concesso di poter adoperare la sua vista sino al

limite estremo delle possibilità (cfr. vv. 82-84). In questo caso presunsi è da intendere allora in

senso positivo, ossia come ardimento ben lecito e corrisponde, infatti, al fui più ardito del v. 79.

Scrive l’Ottimo in proposito: “[…] elli venne tanto possente e ardito a sostenere, che giunse

nelle sue pupille l’aspetto della Divinitade”.3

                                                            1 Cfr. F. da Buti, Commento … cit., p. 187. 2 Ibid., p. 595. 3 Cfr. L’Ottimo … cit., p. 733.

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Il Landino, invece, parafrasa in questo modo: “è abondante la gratia divina a chi la chiede, et io

mediante quella presumpsi ficcar gl’occhi nella luce divina, tanto ch’io vi consumai la veduta,

perché prima mi mancò la vista che io potessi vedere el tutto dell’etherna luce”;1 e infine

Francesco da Buti commenta: “Dice così: Oh abundante grazia; quasi dica: O quanto è

abondante la grazia d’Iddio a chi la dimanda, ond’io; cioè per la quale io Dante, presunsi; cioè

presi ardire, Ficcar lo viso; […] cioè lo intelletto mio, Per la luce eterna; cioè per la Divinità,

Tanto, che la veduta; cioè la vista mia intellettuale, […] vi consunsi; cioè vi consumai in essa:

imperò che tanto n’appresi, quanto era licito a me, e quanto era la facultà del mio

cognoscimento!”2

Come si può ben notare dalle ultime parole di Francesco, in tale luogo Dante tratta certamente

di “presunzione” in senso positivo, specificamente, del suo ardire, lecito proprio perché previsto

e voluto dalla volontà divina.

                                                            1 Cfr. C. Landino, Comento … cit., p. 2022. 2 Cfr. F. da Buti, Commento … cit., p. 864.

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§ 4. Conclusioni1

In seguito alla dettagliata esposizione e analisi di tutte le occorrenze del lemma superbia presenti

nella Commedia, possono essere fatte alcune considerazioni finali.

Come è stato detto in apertura del suddetto capitolo, le occorrenze totali sono venticinque,

distribuite nelle tre cantiche nel seguente modo: dieci nell’Inferno, nove nel Purgatorio e sei nel

Paradiso.

Prendendo in considerazione ogni cantica singolarmente, si osserva che:

• Il Purgatorio presenta la percentuale più alta di occorrenze nel senso proprio del

termine (77,8%).

• Nell’Inferno si incontrano le uniche due occorrenze con significato ambiguo (20%,

corrispondente all’ 8% del totale).

• La più alta percentuale di occorrenze con significato altro si ha nel Paradiso (33,3%).

Dall’esame del quadro d’insieme emerge che:

• Su un totale di venticinque occorrenze, diciotto designano esplicitamente e in maniera

esclusiva il peccato di superbia; due possono assumere due diversi significati che però

non si escludono a vicenda; cinque non si riferiscono assolutamente alla superbia nel

suo letterale significato etico – morale.

• Percentualmente è possibile concludere che le occorrenze con significato proprio

corrispondono al 72% del totale; con significato doppio all’ 8%; con significato altro al

20%.

                                                            1 Per motivi di ordine pratico (in particolare per quanto concerne il confronto con le occorrenze dei lemmi relativi agli altri vizi capitali), oltre che per una maggior chiarezza espositiva, in questa sede verranno tralasciati tutti gli altri termini, che pur sono stati trattati nel corso dell’indagine, appartenenti alla stessa area semantica di “superbia”.

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Per completare il “mosaico” costituito dal tema della Superbia in Dante, non rimane che gettare un

rapido sguardo, seppur superficiale, alle cosiddette “opere minori”.1

                                                            1 Se nella Commedia il lemma superbia presenta un gran numero di occorrenze, nelle altre opere si nota, al contrario, che esso ricorre con una frequenza estremamente bassa e non sempre nel significato proprio del termine. Si contano, infatti, solo quattro occorrenze le quali, senza entrare nel merito di un’analisi, sono: Convivio, III, XV, 14 «Ove è da sapere che li costumi sono beltà dell’anima, cioè le vertudi massimamente, le quali tal volta per vanitadi o per superbia si fanno men belle e men gradite, sì come nell’ultimo trattato vedere si potrà. E però dico che, a fuggire questo, si guardi in costei, cioè colà dov’ella è essemplo d’umiltà; cioè in quella parte di sé [che] morale filosofia si chiama. E soggiungo che, mirando in costei – dico la sapienza – in questa parte, ogni viziato tornerà diritto e buono; e però dico: “Questa è colei ch’umilia ogni perverso”, cioè volge dolcemente chi fuori di debito ordine è piegato». De Vulgari Eloquentia, II, IV, 7 «Sed obmittamos alios, et nunc, ut conveniens est, de stilo tragico pertractemus. Stilo equidem tragico tunc uti videmur, quando cum gravitate sententie tam superbia carminum quam constructionis elatio et excellentia vocabulorum concordat». (Ma lasciamo da parte gli altri e ora, come è opportuno, trattiamo dello stile tragico. È ben chiaro che usiamo uno stile tragico solo quando con la profondità del pensiero s’accordano sia la magnificenza dei versi che l’altezza della costruzione e l’eccellenza dei vocaboli). De Monarchia, III, III, 7 «Summus nanque Pontifex, domini nostri Iesu Cristi vicarius et Petri successor, cui non quicquid Cristo sed quicquid Petro debemus, zelo fortasse clavium, necnon alii gregum cristianorum pastores, et alii quos zelo solo matris Ecclesie promoveri, veritati quam ostensurus sum zelo forsan – ut dixi – non de superbia contradicunt». (In primo luogo è il Sommo Pontefice, Vicario di Nostro Signore Gesù Cristo e successore di Pietro, verso il quale siamo debitori non quanto verso Cristo ma quanto verso San Pietro, forse per attaccamento alle chiavi, e con lui altri pastori del gregge cristiano e poi altri ancora, mossi, credo, solo da sollecitudine per la madre Chiesa, tutti questi parlano – per zelo, come ho detto, non per superbia – contro quelle verità che io mi accingo a dimostrare. Rime della Vita Nuova, XVII, 7 «fugge dinanzi a lei superbia ed ira». [Vita Nuova, XXI, 2-4].

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Capitolo III

GLI ALTRI VIZI DEL SETTENARIO CAPITALE

§ 1. Premessa: vizi e virtù.

La morale cristiana del Medioevo si strutturò intorno alla dottrina della lotta ai vizi e

dell’acquisizione delle virtù ad essi opposte. Si tratta, infatti, di una tematica onnipresente del

pensiero medievale e si riflette nei vari tentativi fatti nel corso della storia per proporre un elenco

sistematico dei vizi.

Il primo esempio fu offerto da Evagrio Pontico1 nel 356, poi ripreso a distanza di pochi decenni da

Giovanni Cassiano (405). Tale elenco fu concepito a scopo pedagogico, in particolare per mettere in

guardia i monaci dalle tendenze al male causate dal peccato originale e comprendeva: Gola,

Lussuria, Avarizia, Ira, Tristezza, Accidia, Vanagloria e Superbia.

Un nuovo elenco dei vizi principali fu proposto, dopo ben due secoli, da Gregorio Magno alla fine

del VI secolo, al quale si deve la prima idea di un settenario in cui la Superbia era posta come

capostipite e origine di Vanagloria, Invidia, Ira, Accidia, Avarizia, Gola e Lussuria.2

I due elenchi coesistettero fino all’inizio del XIII secolo, quando fu introdotto l’obbligo del

sacramento della Penitenza per tutti i fedeli (1215) e quello di Cassiano fu abbandonato in favore

dell’elenco gregoriano che, passato al definitivo numero di sette – attraverso la fusione di Superbia

e Vanagloria – entrò nella tradizione della Chiesa con la popolare denominazione di vizi capitali.

Per quanto riguarda la dottrina delle virtù, invece, si sono dovuti attendere ben tredici secoli

affinché fosse elaborata la prima teoria cristiana: si tratta dell’opera di san Tommaso d’Aquino, che

la espose nella prima parte della Summa Theologiae e divenne la dottrina ufficiale della Chiesa.3

Vizi e virtù sono contrari l’uno all’altro, nonostante i rispettivi elenchi tradizionali non permettano

di opporli singolarmente; seguendo i suggerimenti di Cassiano e Gregorio, si proponevano alcuni

rimedi contro ogni vizio, consistenti in buoni comportamenti da contrarre: l’Umiltà contro la

Superbia, la generosità contro l’Avarizia, l’astinenza contro la Gola e simili.4

                                                            1 Cfr. E. Pontico, Gli otto spiriti maligni, a cura di F. Comello, Parma, Pratiche, 1990. 2 Da quanto detto risulta evidente che, di fatto, anche Gregorio enumerava otto vizi ma, ponendo la superbia come fonte da cui scaturisce ogni altro vizio (in quanto atteggiamento interiore consistente niente meno che nella scelta tra sé e Dio), conferì alla morale cristiana un fondamento più universale. 3 Si veda in particolare la teoria dell’habitus: come l’habitus virtuoso crea una permanente disposizione al retto agire, quello vizioso inclina permanentemente al male. (Cfr. Summa Theologiae, I-II, qq. 49-69). 4 Per un approfondimento sulla tematica in questione, si veda M. VINCENT-CASSY, vizi e virtù, “voce” del

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Intorno al 1270 apparve l’espressione popolare peccati capitali, la quale designava quei sette

vocaboli che corrispondevano ai medesimi vizi indicati dai teologi e che tradizionalmente sono

rimasti invariati.

Essi sono: Superbia, Invidia, Ira, Accidia, Avarizia, Gola e Lussuria. Ed è su questo settenario che

Dante costruisce il suo Purgatorio, stabilendo corrispondenze più o meno puntuali con la struttura

morale dell’Inferno,1 proprio perché “l’intera epoca medievale si è in qualche modo rispecchiata e

riconosciuta nel sistema dei vizi capitali”2 e il poeta non costituiva certamente un’eccezione.

                                                                                                                                                                                                     Dizionario enciclopedico del Medioevo, direzione di A. Vauchez con la collaborazione di C. Vincent, ed. it. a cura di C. Leonardi, Roma, Città Nuova, 1999, vol. 3, pp. 2063-2064 e bibliografia ivi citata. 1 Si veda quanto detto in apertura del capitolo I. 2 Cfr. C. Casagrande, S. Vecchio, I sette vizi capitali: storia e peccati nel Medioevo, Torino, Einaudi, 2ooo, p.181.

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§ 2. Occorrenze degli altri vizi nella Commedia

Nei precedenti capitoli è stato trattato in maniera approfondita il tema della superbia in Dante e nel

suo poema, con particolare attenzione al ripiegamento dell’interesse dantesco nei confronti di tale

problema sul piano delle scelte lessicali.

In questa sede verranno trattati, nel tradizionale ordine previsto dal settenario dei vizi capitali, tutti

gli altri peccati, secondo un’analisi esclusivamente semantica.

2.1 Invidia

Fu «per l’invidia del diavolo che la morte entrò nel mondo» recita il Liber Sapientiae (2, 24).

Invidia è in-videre, guardare di mal occhio, e dall’etimologia scaturisce il suo significato

metaforico:

“l’invidioso è qualcuno che non può vedere bene, che vive nelle tenebre, che si allontana dalla luce cercando l’ombra; il suo occhio strabico e iniettato di sangue non è in grado si vedere correttamente; […] L’invidioso, come gli animali notturni, le civette, i pipistrelli, i gufi, ama l’oscurità, vive tra le rovine, vede solo di notte […]”.1

Dante rende al meglio questa immagine, tutta giocata sul motivo delle tenebre e dell’accecamento:

chè a tutti un fil di ferro i cigli fòra e cuce sì come a sparvier selvaggio

si fa, però che queto non dimora

(Purg., XII, 70-72)

Nella seconda cornice del Purgatorio, infatti, egli incontra questa massa ondeggiante di invidiosi, i

quali avanzano lentamente sorreggendosi a vicenda, brancolando come ciechi mendici.

Vediamo, ora, le singole occorrenze del lemma invidia. Sono in tutto quindici, tra sostantivi, verbi e

aggettivi (otto nella prima cantica, quattro nella seconda, tre nella terza).

2.1.1 Inferno

I, I, 111: là onde ‘nvidia prima dipartilla. Il sostantivo designa l’invidia del demonio contro gli

uomini. Lucifero, infatti, ha lasciato uscire la cupidigia (personificata dalla lupa) dall’Inferno per

proprio per corrompere l’umanità, invidioso dell’amore che Dio nutre per essa.

I, III, 48: che ‘nvidiosi son d’ogne altra sorte. Aggettivo sostantivato, in riferimento ai pusillanimi,

gente così vile e spregevole da non possedere pienamente neppure il “titolo” di dannati. Essi, infatti,

sono invidiosi persino della sorte dei dannati stessi.                                                             1 Cfr. C. Casagrande, S. Vecchio, I sette vizi capitali … cit., p. 38.

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I, VI, 50: d’invidia sì che già trabocca il sacco, Passo relativo all’accenno di Ciacco circa l’invidia

di cui è piena Firenze e che ritornerà poco dopo al v. 74, intesa come una delle “tre faville c’hanno

acceso i cuori”, ostilità e malanimo causa delle lotte civili.1

I, VI, 74: superbia, invidia e avarizia sono – Una delle cause della rovina di Firenze.2

I, XIII, 78: ancor del colpo che ‘nvidia le diede». Pier della Vigna ribadisce la causa della sua

sventura, accusando proprio l’invidia dei cortigiani che l’hanno calunniato agli occhi del suo

signore. Incarcerato per tradimento , si tolse la vita perché incapace di tollerare l’atroce calunnia.

I, XV, 68: gent’è avara, invidiosa e superba: Aggettivo che designa esattamente lo stesso peccato

incontrato in I, VI, 50.

I, XXV, 99: converte poetando, io non lo ‘nvidio; Voce del verbo “invidiare”, indicativo presente:

Dante afferma di non invidiare l’arte di Ovidio, in riferimento alla superiorità dell’invenzione.

I, XXVI, 24: m’ha dato ‘l ben, ch’io stessi nol m’invidi. Nel ricordare quanto ha visto, ossia la

punizione dei consiglieri di frodi, Dante dichiara di voler tenere a freno il proprio ingegno affinché

non corra senza la guida della virtù, oltrepassando così i limiti stabiliti: “cosicché se l’influenza

degli astri (stella bona) o la Grazia (miglior cosa) mi ha concesso la salvezza eterna, non me lo

tolga (nol m’invidi) da me stesso, non lo perda per colpa mia”. È palese che in tale luogo il verbo

“invidiare” non abbia alcun legame concettuale con il peccato d’invidia.

Da questa breve rassegna si può concludere che i primi sette luoghi presentano occorrenze di

invidia nel suo significato proprio, mentre nell’ultimo si incontra un verbo con significato altro.3

2.1.2 Purgatorio

II, XIII, 38: la colpa de la invidia, e però sono – Virgilio spiega a Dante che nella seconda cornice

del Purgatorio viene punito proprio il peccato d’invidia.

II, XIII, 135: fatta per esser con invidia vòlti. Il sostantivo figura nella confessione che Dante fa a

Sapia (cfr. vv. 133-135): “qui mi sarà tolta la vista, ma per breve tempo in quanto poca è l’offesa

fatta a Dio, essendosi i miei occhi rivolti a guardare con invidia”.

                                                            1 Lo storico contemporaneo G. Villani testimonia che “per le invidie si cominciarono tra’ cittadini le sette”. (cfr. Cronica, VIII, 39). 2 Si veda il passo precedente. 3 In sintesi, significato proprio: 87,5%; significato altro: 12,5%. (I valori percentuali, qui e altrove, sono all’occorrenza approssimati al primo decimale).

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II, XIV, 82: Fu il sangue mio d’invidia sì riarso, Guido del Duca rivela si essere stato durante la

vita arso dall’invidia e di pagare in questa cornice lo scotto del suo peccato. Il sangue di cui fa

menzione non è, metaforicamente, la stirpe, ma il sangue in senso letterale, considerato la sede

dell’anima.1

II, XV, 51: invidia move il mantaco a’ sospiri – Virgilio spiega a Dante il significato di un’oscura

frase di Guido del Duca sulla comunanza dei beni e chiarisce la differenza tra i beni materiali che,

goduti dal singolo privano tutti gli altri, e i beni spirituali per cui vale la regola che quanti più sono i

possessori, tanto più essi si arricchiscono: i primi allora sono causa del peccato di invidia, i secondi

no. In particolare, dice che “l’invidia muove il mantice ai sospiri” ossia “vi fa sospirare perché i

vostri desideri si volgono esclusivamente ai beni terreni”.

Il Purgatorio presenta quattro occorrenze di invidia, tutti nella forma di sostantivo che designa

esplicitamente e in maniera esclusiva il peccato d’invidia.2

2.1.3 Paradiso

III, IX, 129: e di cui è la ‘nvidia tanto pianta, Sostantivo in riferimento al passo della condanna

pronunciata da Folchetto da Marsiglia contro l’avarizia dei religiosi. Nello specifico, ai vv. 127-

129, egli afferma: “Firenze è il prodotto di colui che volse le spalle al suo fattore (Lucifero,

ovviamente), la cui invidia per la felicità di Adamo ed Eva è causa del peccato originale, che costò

tante lacrime agli uomini”.

III, X, 138: silogizzò invidiosi veri». Dante si trova nel Cielo del Sole e San Tommaso presenta se

stesso e gli altri undici beati della prima corona. L’ultimo di questi è Sigieri di Brabande, maestro

alla Facoltà delle arti nell’Università di Parigi il quale, tenendo lezione dimostrò, attraverso perfetti

sillogismi, verità che gli procurarono invidie, odii e persecuzioni.

III, XVII, 97: Non vo’ però ch’a’ tuoi vicini invidie, Voce del verbo “invidiare”, congiuntivo

presente, costruito alla latina con il dativo. A conclusione del suo discorso, Cacciaguida esorta

Dante a non invidiare la sorte dei suoi concittadini che sono rimasti in patria. Il verso andrà allora

inteso: “non voglio che tu porti invidia”.

Nel Paradiso si incontrano tre occorrenze, nello specifico un sostantivo, un aggettivo, e un verbo

che indicano in modo chiaro ed esclusivo il peccato d’invidia.3

                                                            1 Cfr. Purg., V, 74. 2 Significato proprio: 100%; significato altro: 0%. 3 Si veda la nota precedente.

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2.1.4 Conclusioni

La Commedia presenta complessivamente quindici occorrenze del lemma invidia, di cui quattordici

fanno riferimento al peccato d’invidia propriamente detto, mentre una veicola un significato

semantico diverso.1

Il lemma ricorre con una maggior frequenza nell’Inferno (otto occorrenze); Purgatorio e Paradiso

ne presentano meno (rispettivamente, quattro e tre), ma tutte nel loro significato proprio.

2.2 Ira

In Dante l’ira è da intendere per lo più nell’accezione comune di “iracondia”, uno dei vizii cui

l’uomo naturalmente … è disposto – sì come certi per complessione collerica sono ad ira disposti, e

che può essere in parte moderata dalla Mansuetudine.2 Si tratta di un sentimento assai complesso da

definire, in cui coesistono indignazione e dispetto per l’offesa ricevuta, ma anche il dolore e l’odio

che l’hanno generato.3

“Che l’ira appartenga a pieno titolo al settenario dei vizi capitali è chiaro fin dalle origini: […] Filiazione dell’avarizia secondo Cassiano, discendenza dell’invidia a parere di Gregorio, l’ira è comunque destinata ad essere sempre inclusa nel novero dei vizi capitali, dei quali condivide pienamente lo statuto di vizio «principale», matrice a sua volta di tutta una serie di ulteriori colpe […]”.4

L’importanza che Dante attribuiva a questo peccato si riflette nell’elevato numero di occorrenze che

si riscontra nella Commedia: sono in tutto ventisette, distribuite in modo non omogeneo nelle tre

cantiche e, si badi bene, con significati diversi, come ora avremo modo di dimostrare.

2.2.1 Inferno

1. I, III, 26: parole di dolore, accenti d’ira, Sostantivo femminile singolare,5 riferito

all’atteggiamento tenuto dalla prima schiera di dannati che Dante incontra nel Vestibolo, i

pusillanimi.

2. I, III, 119: «quelli che muoion ne l’ira di Dio – In tale luogo ira di Dio è da intendere “peccato

mortale”, causa della dannazione eterna. La perifrasi indica, allora, generalmente i dannati.

                                                            1 In sintesi, significato proprio: 93,3%; significato altro: 6,7%. 2 Cfr. Convivio, III, VIII, 17; IV, XVII, 5. 3 Per un approfondimento della problematica in questione si veda A. BUFANO, ira, “voce” dell’Enciclopedia Dantesca, cit., vol. III, pp. 513-515 e bibliografia ivi citata. 4 Cfr. C. Casagrande, S. Vecchio, I sette vizi capitali … cit., p. 54 5 Tutte le occorrenze del lemma ivi trattate si presentano sotto forma di sostantivo “ira”.

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3. I, VII, 116: l’anime di color cui vinse l’ira; Virgilio spiega a Dante che nel quinto cerchio

vengono puniti proprio gli iracondi, immersi nel pantano della palude Stigia.

4. I, VIII, 24: fecesi Flegiàs ne l’ira accolta. Flegiàs è il custode del quinto cerchio e l’emblema

dell’ira violenta; l’attributo accolta designa un’ira repressa, trattenuta nell’animo.

5. I, IX, 33: u’ non potemo intrare omai sanz’ira». Passo che tratta dell’entrata di Virgilio e Dante

nella città di Dite: “qui non possiamo entrare senza (nostro) dolore, rammarico, affanno e

tormento”.1 Altri invece, intendono “senza contesa, contrasto” e cioè “con le buone”.

6. I, XI. 74: sono ei puniti, se Dio li ha in ira? Dante riflette sul motivo per cui i peccati

d’incontinenza vengano puniti fuori della città di Dite; in tale luogo ira si presenta nella stessa

accezione esposta nel punto 2.

7. I, XII, 15: sì come quei cui l’ira dentro fiacca. Dante descrive l’atteggiamento del Minotauro il

quale, alla vista dei due poeti, s’infuria e morde se stesso, avvicinabile a quello che il poeta aveva

riscontrato negli iracondi.

8. I, XII, 33: da quell’ira bestial ch’i’ ora spensi. La perifrasi ira bestial designa il Minotauro, che

simboleggia quella “matta bestialitade” identificata, appunto, con la violenza.

9. I, XII, 49: Oh cieca cupidigia e ira folle, costituisce l’incipit di una delle frequenti apostrofi di

Dante all’umanità traviata: cupidigia e ira non sono qui intese come forme di incontinenza, bensì

come disposizioni generatrici di violenza. In particolare, la prima genera violenza contro le cose

altrui, la seconda più propriamente contro le persone.

10. I, XII, 72: quell’altro è Folo, che fu sì pien d’ira. Virgilio indica a Dante i vari centauri: l’ultimo

di essi è Folo, uno dei più violenti in assoluto.

11. I, XIX, 119: o ira o coscienza che ‘l mordesse, figura nell’invettiva di Dante contro Niccolò III

e l’avarizia dei papi simoniaci: alle sue fiere parole il papa torce i piedi per ira o per rimorso.

12. I, XXIII, 16: Se l’ira sovra ‘l mal voler s’aggueffa, Dante e Virgilio sono in fuga verso la sesta

bolgia; ripensando a quanto è accaduto poco prima, Dante teme che i diavoli, da loro beffati,

vogliano vendicarsi. Il verso andrà inteso: “se l’ira, per la beffa subita, si aggiunge alla naturale

volontà di far male propria del demonio”.

                                                            1 Cfr. M. Barbi, Problemi di critica dantesca, Prima serie, Firenze, 1934, p. 239.

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13. I, XXIII, 146: turbato un poco d’ira nel sembiante; I due poeti vengono a sapere da Catalano il

mezzo per uscire dalla bolgia: Virgilio si accorge allora di essere stato ingannato da Malacoda e si

allontana crucciato. Il senso generale del passo in questione sarà, allora, “irato per la scoperta

dell’inganno e la canzonatura del frate”.

14. I, XXVI, 57: a la vendetta vanno come a l’ira; Dante si trova al cospetto di Ulisse e Diomede, i

quali sono uniti nella fiamma biforcuta in quanto peccarono insieme e ora insieme sono puniti:

“vanno insieme al giusto castigo (vendetta) così come andarono incontro all’ira divina peccando.

15. I, XXX, 133: Quand’io ‘l sentì a me parlar con ira, Passo che si riferisce al rimprovero di

Virgilio a Dante, il quale si era soffermato a guardare attentamente la rissa tra Adamo e Sinone;

parlar con ira andrà inteso, in tale luogo, nel senso di “riprendere con tono severo”.

16. I, XXXI, 72: quand’ira o altra passion ti tocca! Si tratta delle sprezzanti parole che Virgilio

rivolge al gigante Nembrot, invitandolo a sfogare la propria rabbia col corno.

17. I, XXXII, 51: cozzaro insieme, tanta ira li vinse. Dante osserva attentamente la rissa tra i fratelli

Napoleone e Alessandro degli Alberti: i due traditori stanno di fronte l’uno all’altro e urtano con

violenza le fronti, come fanno i montoni, in un atteggiamento che ha ormai ben poco di umano.1

Nell’Inferno si incontrano diciassette occorrenze di ira, di cui nove si presentano nel senso letterale

di “iracondia, rabbia” e designano lo specifico peccato capitale (punti 1., 3., 4., 7., 11., 12., 13., 16.

e 17.); tre fanno riferimento all’ira divina e quindi indicano generalmente un “peccato mortale” o i

“dannati” (punti 2., 6. e 14.); tre veicolano il significato generale di “violenza” (8., 9. e 10.); una è

riferita al dolore e all’affanno provocato dall’entrata nella città di Dite (punto 5.) e una che si può

parafrasare con “parlare in tono severo” (punto 15.).2

2.2.2 Purgatorio

18. II, V, 77: quel da Esti il fé far, che m’avea in ira. Dante si trova nel secondo balzo

dell’Antipurgatorio, a colloquio con Iacopo del Cassero, il quale racconta la sua tragica morte ad

opera dei sicari di Azzo d’Este, potente signore che lo aveva appunto in odio.

                                                            1 Ira nell’italiano antico significava “iracondia”, ma poteva assumere un senso più lato in quanto vi affluivano come componenti anche altri sentimenti, quali l’odio o l’indignazione. In tale luogo però, oltre all’iracondia nata dall’odio reciproco tra i due fratelli, si aggiunge il dolore fisico dell’accresciuto tormento delle lacrime (cfr. vv. 46-48) e la perdita di umanità, ben rilevabile nel loro comportamento bestiale. 2 In sintesi, significato proprio: 53%; significato altro: 47%.

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19. II, XV, 106: Poi vidi genti accese in foco d’ira – Nella terza cornice del Purgatorio e nella

visione del poeta appare un’altra scena: è il terzo esempio di mansuetudine, costituito da un

affollarsi di gente che si incita e stimola a vicenda nel lanciare pietre contro Santo Stefano.

20. II, XVII, 36: perché per ira hai voluto esser nulla? Sempre nella terza cornice Dante, in stato di

estasi, ha nuovamente delle visioni, ma questa volta si tratta di esempi di ira punita. Il passo in

questione si riferisce alla vicenda della regina Amata la quale, colta da un furioso eccesso d’ira, si

impiccò ad una trave; il verso andrà allora inteso: “perché ti sei uccisa a causa dell’ira?”.

21. II, XVII, 69: pacifici, che son sanz’ira mala!’ L’angelo della mansuetudine cancella la “P”

dell’ira dalla fronte di Dante e intona la beatitudine Beati pacifici.1

22. II, XX, 96: fa dolce l’ira tua nel tuo secreto? Dante si trova nella quinta cornice e l’anima di

Ugo Capeto gli illustra esempi di liberalità e povertà; afferma di essere il capostipite della dinastia

dei re francesi che, per cupidigia di possesso e ricchezze, cominciarono a commettere crimini su

crimini. Di fronte a tanti mali, lo spirito invoca da Dio la vendetta (cfr. vv. 94-96): “o Signore,

quando sarò lieto di vedere il giusto castigo che, nascosto agli uomini nell’imperscrutabile giudizio

divino, rende dolce lo sdegno contro il male nel segreto della tua mente?”. In tale luogo ira è lo

sdegno dell’onesto, che muove il giusto castigo di Dio, contro il male.

23. II, XX, 110: come furò le spoglie, sì che l’ira – Passo riguardante il terzo esempio di avarizia

punita, tratto dalla Bibbia: Acan, malgrado l’ordine di Giosuè, si era impadronito di alcuni oggetti

preziosi consacrati a Dio e per questo fu lapidato assieme alla sua famiglia. Qui si parla della giusta

ira di Giosuè, il quale agisce per assecondare il volere divino.

24. II, XXXII, 157: poi, di sospetto pieno e d’ira crudo, Nel Paradiso Terrestre Dante narra

l’episodio della meretrice e il gigante sul carro deformato: poiché ella aveva rivolto il suo sguardo a

Dante, il gigante, irato e sospettoso, la flagella da capo a piedi. D’ira crudo sarà da intendere “reso

crudele dall’ira”.

Il Purgatorio presenta sette occorrenze di ira: cinque nel suo significato letterale di vizio capitale

(punti 18., 19., 20., 21. e 24.) e due nel senso opposto di ira “buona, giusta” (punti 22. e 23.).2

                                                            1 La settima beatitudine suona nel testo evangelico: “Beati pacifici, quoniam filii Dei vocabantur”. («Beati i pacifici, perché saranno chiamati figli di Dio», cfr. Evangelium secundum Matthaeum, V, 9). Dante ha però sostituito alla seconda parte della beatitudine un’importante precisazione: la distinzione tra “ira buona” e “ira cattiva” (cfr. Tommaso, Summa Theologiae, II-IIaa, q. CLVIII, a. 1-3). 2 In sintesi, significato proprio (“ira cattiva”): 71,4%; significato altro (“ira buona”): 28,6%.

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2.2.3 Paradiso

25. III, IV, 14: Nabuccodonosor levando d’ira, Dante si trova nel Cielo della Luna e Beatrice

intuisce due dubbi che erano sorti nella mente del poeta in seguito al suo colloquio con Piccarda:

elle fece come il profeta Daniele, il quale indovinò e interpretò il sogno di Nabuccodonosor da

questi dimenticato, placandone così l’animo irato che lo aveva reso ingiustamente crudele e feroce.

26. III, VI, 90: gloria di far vendetta a la sua ira. Nel cielo di Mercurio Giustiniano sta raccontando

la storia dell’aquila romana; in particolare, ai vv. 82-90, spiega che la giustizia divina concesse a

Tiberio la gloria di vendicare, attraverso il sacrificio di Cristo, l’ira divina per il peccato di Adamo.1

27. III, XXXII, 69: che ne la madre ebber l’ira commota.2 San Bernardo spiega a Dante il concetto

di predestinazione dei fanciulli beati e cita in proposito l’esempio di Esaù e Giacobbe, i due gemelli

che furono in discordia tra di loro già nel ventre della madre.

Tre sole occorrenze del lemma si incontrano nel Paradiso, di cui due indicano in modo diretto ed

esclusivo il peccato d’ira (punti 25. e 27.), mentre una designa la giusta ira di Dio (punto 26.).3

2.2.4 Conclusioni

La Commedia presenta complessivamente ventisette occorrenze di ira, ma solo sedici di esse

designano esplicitamente e in maniera esclusiva il peccato capitale comunemente denominato

“iracondia”; le altre undici, come è stato esposto sopra, assumono significati diversi.4

Il numero più elevato di occorrenze si riscontra nella prima cantica (ben diciassette), anche se solo

circa la metà di esse si riferiscono all’ira propriamente detta; in nessuna delle tre cantiche il lemma

si presenta al 100% nel suo significato proprio e, al contrario, è ben rilevabile lo stridente contrasto

tra le due tipologie d’ira.

                                                            1 In tale luogo ira designa appunto l’ira di Dio per il peccato di Adamo; la vendetta di quest’ira è la morte di Cristo e la conseguente redenzione dal peccato. (Si de illo peccato non fuisset satisfactum per mortem Christi, adhuc essemus filii ire: «se con la morte di Cristo non si fosse data soddisfazione per quel peccato, saremmo ancora figli dell’ira», cfr. De Monarchia, II, XII, 2). 2 L’espressione latina iram commovere nel significato di “suscitare ira” è qui posta in forma passiva e avere l’ira commota vale “essere in stato d’ira”. 3 In sintesi, significato proprio: 66,7%; significato altro: 33,3%. Ancora una volta, si ha la contrapposizione tra “ira cattiva” e “Ira buona”, posta in risalto nelle note 1 e 2 di pag. 143. 4 Significato proprio: 59,3%; significato altro: 40,7%.

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2.3 Accidia

Il concetto di accidia trova precisa definizione in San Tommaso e Dante ne segue attentamente le

glosse.1 Si configura come uno dei sette peccati capitali e solitamente viene ricondotto all’ambito

della tristizia in quanto forma di un peculiare stato peccaminoso, un atteggiamento spirituale di

colpa per difetto di intelligenza e volontà, caratterizzato inoltre da varie componenti quali

indolenza, negligenza e tiepidezza d’animo.2

“Che l’accidia sia un peccato in continua trasformazione, il più instabile tra tutti i vizi capitali, quello che più di altri è destinato a cambiare nel corso dei secoli medievali, risulta evidente fin dall’inizio. […] Cassiano la presenta come un vizio che colpisce prevalentemente solitari ed eremiti, un «fastidio e un’ansia del cuore» che si traduce in una serie di comportamenti esteriori che possono vanificare la scelta monastica”.3

Si tratta di un peccato particolarmente complesso, costituito da debolezza del corpo e dell’anima,

accidia e tristezza appunto, che nel corso dei secoli sono state considerate sia separatamente che

identificate tra loro.4

Vediamo ora nel dettaglio le occorrenze di tale lemma nella Commedia.

2.3.1 Inferno

Nella specifica forma di sostantivo accidia, non esistono occorrenze; è presente solo l’aggettivo

accidioso in I, VII, 123: portando dentro accidioso fummo: In tale luogo però, l’accidia è un aspetto

dell’ira, non un peccato a sé. Inoltre, si incontrano occorrenze di tristizia e trestizia:

I, VI, 3: che di trestizia tutto mi confuse, il sostantivo designa in questa sede un dolore prodotto da

forte commozione e non presenta analogie con il peccato d’accidia.

I, XXII, 111: quand’io procuro a’ mia maggior trestizia». Ancora inteso in senso fisico, riferito ai

tormenti e alla sofferenza meramente fisici.

I, XXIX, 58: Non credo ch’a veder maggior tristizia – In tale luogo, invece, è sinonimo di tristezza

nel senso di “spettacolo doloroso”, senza legami semantici con il peccato del settenario capitale.

                                                            1 “Acedia […] est quaedam tristitia, qua homo redditur tardus ad spirituales actus propter corporalem laborem” (cfr. Summa Theologiae, I, 63, 2 ad 2). Significa che l’accidia è una certa forma di tristezza (tristitia quaedam), che aggrava l’animo; si badi che pur essendo diligenti per le cose mondane, si può essere accidiosi per le spirituali. Anzi spesso, proprio per il troppo attendere alle cose corporali, ci si rende pigri nelle cose dello spirito e quindi rei d’accidia. 2 Cfr. A. CIOTTI, accidia e accidiosi, “voce” dell’Enciclopedia Dantesca cit., vol. I, pp. 26-28. 3 Cfr. C. Casagrande, S. Vecchio, I sette vizi capitali … cit., p. 79. 4 Per una maggior chiarezza si rimanda a ibid., pp. 78-95.

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I, XXX, 144: però d’ogne trestizia ti disgrava. Letteralmente: “Perciò deponi ogni rimorso”.

Sono rintracciabili, infine, occorrenze di tristo, tristi, trista, triste, tristissima:1

I, III, 35: tengon l’anime triste di coloro

I, III, 78: su la trista riviera d’Acheronte».

I, IV, 84: sembianz’avevan né trista né lieta.

I, V, 117: a lagrimar mi fanno tristo e pio.

I, VI, 55: E io anima trista non son sola,

I, VI, 97: ciascun rivederà la trista tomba,

I, VII, 107: questo tristo ruscel, quand’è disceso

I, VII, 121: Fitti nel limo dicon: ‘Tristi2 fummo

I, IX, 16: «In questo fondo de la trista conca

I, XI, 12: al tristo fiato; e poi no i fia riguardo».

I, XIII, 12: con tristo annunzio di futuro danno.

I, XIII, 69: che ’ lieti onor tornaro in tristi lutti.

I, XIII, 142: raccolgietele al piè del tristo cesto.

I, XIII, 145: sempre con l’arte sua la farà trista;

I, XIV, 11: intorno, come ‘l fosso tristo ad essa;

I, XIX, 47: anima trista come pal commessa»,                                                             1 Si tratta di aggettivi che ricorrono con alta frequenza nella Commedia, ma nella maggior parte dei casi sono usati come sinonimo di “dannati” o comunque con accezioni non pertinenti ai fini della presente analisi. Qui verranno riportati solo i luoghi, riservando la spiegazione del lemma ai soli passi utili. 2  Ira e accidia sono i vizi opposti della stessa virtù, la mansuetudine, e sono generati dalla medesima passione, la tristezza (cfr. G. Boccaccio, Esposizioni sopra la Comedìa di Dante, a cura di G. Padoan, Milano, Mondadori, 1965, VII, esp. litt., VII, pp. 441-443; Comento alla Divina Commedia d’Anonimo fiorentino del sec. XIV, a cura di P. Fanfani, Bologna, Tip. Fava e Garagnani, 1866, vol. I, p. 208). L’aggettivo tristi, con cui il poeta qualifica questi accidiosi investe il concetto dell’accidia nella sua essenza, che trova precisa definizione teologica in Tommaso (si veda nota1, pag. 145). Costituisce l’unica occorrenza dell’elenco che presenti un legame semantico con il vizio ivi trattato, sebbene sia una componente dell’ira.

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I, XX, 121: Vedi le triste che lasciaron l’ago,

I, XXIII, 69: con loro insieme, intenti al tristo pianto;

I, XXIII, 92: de l’ipocriti tristi se’ venuto,

I, XXIV, 91: Tra questa cruda e tristissima copia

I, XXIV, 132: e di trista vergogna si dipinse;

I, XXVIII, 26: la corata pareva e ‘l tristo sacco

I, XXVIII, 111: sen gio come persona trista e matta.

I, XXVIII, 120: andavan li altri de la trista greggia;

I, XXIX, 6: là giù tra l’ombre triste smozzicate?

I, XXX, 16: Ecuba trista, misera e cattiva,

I, XXX, 76: Ma s’io vedessi qui l’anima trista

I, XXXI, 6: prima di trista e poi di buona mancia.

I, XXXII, 2: come si converrebbe al tristo buco

I, XXXII, 38: da bocca il freddo, e da li occhi il cor tristo

I, XXXIII, 64: Queta’mi allor per non farli più tristi;

I, XXXIII, 109: E un de’ tristi de la fredda crosta

Come si evince dalla rassegna riportata sopra, l’Inferno presenta un elevato numero di occorrenze di

termini che sul piano lessicale si collegano all’accidia, ma nessuno di essi la designa esplicitamente

come peccato capitale e solo alcuni si riferiscono alla tristezza in quanto componente di altri

peccati, quali l’ira.1

                                                            1 In sintesi, significato proprio: 0%; significato altro: 100%.

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2.3.2 Purgatorio

II, XVIII, 132: venir dando a l’accidia di morso». Si tratta di un unicum nella Commedia e si

riferisce precisamente agli esempi di accidia punita (Dante si trova, infatti, nella quarta cornice),

designando quindi esplicitamente tale peccato.

Come per quanto concerne la prima cantica, anche nel Purgatorio occorrono i sostantivi tristizia,

trestizia e l’aggettivo tristo nelle forme osservate.1

II, XXII, 56: de la doppia trestizia di Giocasta».

II, XXVI, 94: Quali ne la tristizia di Ligurgo

II, VI, 3: repetendo le volte, e tristo impara;

II, VI, 108: color già tristi, e questi con sospetti!

II, VII, 28: Luogo è là giù non tristo di martìri,

II, VIII, 58: «Oh!», diss’ io lui, «per entro i luoghi tristi

II, IX, 13: Ne l’ora che comincia i tristi lai

II, X, 69: sì come donna dispettosa e trista.

II, XII, 44: già mezza ragna, trista in su li stracci

II, XIV, 64: Sanguinoso esce de la trista selva;

II, XIV, 71: stava a udir, turbarsi e farsi trista,

II, XVIII, 123: e tristo fia d’avere avuta possa;

II, XXII, 111: e Ismene sì trista come fue.

II, XXIII, 39: di lor magrezza e di lor trista squama,

II, XXIII, 110: prima fien triste che le guance impeli

II, XXIV, 81: e a trista ruina par disposto».

II, XXXI, 11: Rispondi a me; ché le memorie triste                                                             1 Si veda la nota1, pag. 146.

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Nella seconda cantica si incontrano diciotto occorrenze di termini appartenenti all’area semantica di

accidia, ma solo una di queste designa in modo univoco il peccato specifico.1

2.3.3 Paradiso

III, VI, 76: Piangene ancor la trista Cleopatra,

III, IX, 72: l’ombra di furor, come la mente è trista.

III, XVI, 142: Molti sarebber lieti, che son tristi,

III, XXXII, 54: se non come tristizia o sete o fame:

Quanto detto per le prime due cantiche vale, ovviamente, anche per il Paradiso: delle quattro

occorrenze appena esposte, nessuna indica esplicitamente il peccato d’accidia.2

2.3.4 Conclusioni

In definitiva, la Commedia presenta un’unica occorrenza di accidia che costituisce, inoltre, l’unico

termine con significato proprio. Tutte le altre, che sono ben cinquantotto, non hanno legami

semantici con tale peccato ma designano, di volta in volta, i dannati, l’Inferno, le sofferenze fisiche

o componenti di altre colpe quali l’ira, l’odio e la violenza.3

2.4 Avarizia

Nel settenario dei vizi capitali l’Avarizia si colloca dopo Superbia, Invidia, Ira, Accidia e prima di

Gola e Lussuria, in una posizione intermedia dovuta alla sua particolare natura di vizio sospeso tra

interiorità ed esteriorità. Nonostante ciò, nel corso della storia l’Avarizia è andata ad insediare il

primato della Superbia come radice e regina di tutti i vizi e, in ogni caso, è sempre stata considerata

uno dei vizi principali del settenario.4

Dante infatti, pur riconoscendo nella Superbia (che indusse Lucifero a ribellarsi a Dio e causò la

caduta dell’uomo), il primo e il più grave dei peccati e ponendo l’Avarizia tra le colpe

d’incontinenza, proprio in virtù del suo temperamento morale condivise nell’intimo il diverso

parere di coloro che consideravano l’Avarizia come la più grave colpa contro lo spirito del

cristianesimo, e si impegnò in una sua precisa connotazione psicologia, illustrando il tormento che

la smodata e insaziabile brama di ricchezze provoca negli avari.5

                                                            1 In sintesi, significato proprio: 5,5%; significato altro: 95,5%. 2 In sintesi, significato proprio: 0%; significato altro: 100%. 3 In sintesi, significato proprio: 1,7%; significato altro: 98,3%. 4 Per un approfondimento, si rimanda a C. Casagrande, S. Vecchio, I sette vizi capitali … cit., pp. 96-123. 5 Cfr. Convivio, IV, XII, 4 e ss.: “veramente non quietano, ma più danno cura, la qual prima sanza loro non si

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2.4.1 Inferno

I, VI, 74: superbia, invidia e avarizia sono. Peccato antisociale che figura tra le cause della rovina

di Firenze, la cui pericolosità, nell’animo dantesco, è accostabile solamente a quella della superbia.

I, VII, 48: in cui usa avarizia il suo soperchio». Dante e Virgilio si trovano nel quarto cerchio, dove

sono puniti avari e prodighi; la guida spiega che l’avarizia esercita il suo eccesso negli ecclesiastici.

I, XV, 68: gent’è avara, invidiosa e superba: Allusione allo stesso peccato di I, VI, 74.

I, XVIII, 63: rècati a mente il nostro avaro seno». In questa sede l’aggettivo si riferisce all’animo,

all’indole avida di denaro: nel passo in analisi Dante sposta l’attenzione dalla particolare colpa di

Venedico Caccianemico alla condanna più generale dell’avarizia dei bolognesi.

I, XIX, 104: ché la vostra avarizia il mondo attrista, verso che fa parte dell’invettiva di Dante

contro i papi simoniaci (è stato fatto notare che l’avarizia, in essi, tocca il suo apice).

I tre sostantivi e i due aggettivi che si incontrano nell’Inferno designano esplicitamente e in maniera

esclusiva il peccato d’avarizia.1

2.4.2 Purgatorio

II, XIX, 113: da Dio anima fui, del tutto avara; Papa Adriano V confessa apertamente a Dante il

proprio peccato di avarizia (si trovano, infatti, nella quinta cornice).

II, XIX, 115: Quel ch’avarizia fa, qui si dichiara – Il papa continua il suo discorso dichiarando che

proprio in questa cornice viene purgata l’avarizia terrena.

II, XIX, 121: Come avarizia spense a ciascun bene. È sempre papa Adriano che spiega come

l’avarizia tolga l’amore per ogni cosa buona, per il vero bene, facendo amare esclusivamente la

ricchezza e il potere.

II, XX, 82: O avarizia, che puoi tu più farne, Ugo Capeto esclama: “quale danno peggiore puoi fare

a noi Capetingi o avarizia?”. Ci si trova, ancora, nella quinta cornice.

                                                                                                                                                                                                     avea”. Tale connotazione rimane implicita nella rappresentazione della lupa del Proemio (cfr. Inf., I, 49-50; 97-99), mentre nel primo canto dell’Inferno l’avarizia viene presentata esplicitamente come la più grave corruttrice della società contemporanea, che ne è sì infetta. Per un approfondimento sul tema si veda E. BONORA, avarizia, “voce” dell’Enciclopedia Dantesca cit., vol. I, pp. 464-464 e bibliografia ivi citata. 1 In sintesi, significato proprio: 100%; significato altro: 0%.

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II, XX, 106: e la miseria de l’avaro Mida, passo relativo all’episodio del re Mida, che costituisce

uno degli esempi di avarizia punita: tal peccato lo ridusse in miserevole condizione.

II, XXII, 23: loco avarizia, tra cotanto senno. Virgilio si meraviglia del fatto che un peccato così

meschino e ripugnante come l’avarizia abbia potuto albergare nell’animo dell’illustre Stazio.

II, XXII, 32: esser ch’i’ fossi avaro in l’altra vita, In tale luogo Stazio si affretta a corregge

l’opinione di Virgilio: egli non fu assolutamente avaro in vita, si trova in questa cornice perché

cadde nel vizio opposto, la prodigalità.

II, XXII, 34: Or sappi ch’avarizia fu partita 1

II, XXII, 53: che piange l’avarizia, per purgarmi, Stazio spiega che avari e prodighi sono puniti

insieme ed espiano i rispettivi peccati specifici nello stesso luogo, la quinta cornice appunto.

Tutte le nove occorrenze che si incontrano nel Purgatorio sono riferite allo specifico peccato di

avarizia, nelle sue molteplici sfumature.2

2.4.3 Paradiso

III, VIII, 77: l’avara povertà di Catalogna – nel Cielo di Venere Dante incontra Carlo Martello

d’Angiò. Se tale espressione si intende riferita ai ministri catalani, può significare che quelli,

estremamente poveri, diventarono per questo avidi, oppure che ostentavano una presunta povertà

per avarizia. È però molto più probabile che Carlo si riferisca qui al fratello Roberto, la cui indole è

ben lontana da quella generosa e liberale del padre.3

III, XIX, 130: Vedrassi l’avarizia e la viltate – l’aquila, leggendo nel libro del giudizio divino,

elenca le male azioni di alcuni principi cristiani del tempo di Dante. Nel passo in questione essa

nomina Federico II d’Aragona, re di Sicilia famoso per la sua sete di ricchezze.

Le uniche due occorrenze del lemma presenti nel Paradiso si riferiscono esplicitamente al peccato

d’avarizia, una delle principali cause della corruzione del mondo.4

                                                            1 Si veda la spiegazione del passo precedente. 2 In sintesi, significato proprio: 100%; significato altro: 0%. 3 Orazio diceva: “semper avarus eget” («l’avaro si considera sempre povero»). Gli storici moderni hanno smentito l’avarizia di Roberto, ma di questa ne parlano cronisti e commentatori antichi (cfr. G. Villani, Cronica, XII, 10: “se non che poi che cominciò a invecchiare l’avarizia il guastava”). 4 In sintesi: significato proprio: 100%; significato altro: 0%.

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2.4.4 Conclusioni

La Commedia presenta complessivamente sedici occorrenze di avarizia nelle forme di sostantivo e

aggettivo; ricorrono con più alta frequenza nella seconda cantica e tutte sono riconducibili all’area

semantica di tale vizio capitale.

2.5 Gola

“La gola è un vizio detestabile perché il primo uomo cadde per il peccato di gola. Infatti anche se il primo peccato fu, come molti dicono, un peccato di superbia, se Adamo non vi avesse aggiunto il peccato di gola, non sarebbe stato condannato, e con lui l’intero genere umano”.1

Per estensione, il termine è tradizionalmente utilizzato come sinonimo di “ingordigia, golosità”, uno

dei sette peccati capitali secondo l’etica cristiana. Essa si manifesta quando l’uomo, spinto

dall’appetito concupiscibile, eccede la giusta misura nel dedicarsi ai piaceri del cibo e delle

bevande: tale vizio contamina la vita spirituale dell’uomo e se giunge al punto di distoglierlo dal

suo fine ultimo (la salvezza dell’anima e Dio), diventa peccato mortale.2 Alla Gola si contrappone

la virtù della Temperanza, che è regola e freno de la nostra gulositate,3 nell’accezione morale di

“smodato desiderio di cibo”.

Analizziamo ora le singole occorrenze nel poema.

2.5.1 Inferno

I, VI, 14: con tre gole caninamente latra – nel terzo cerchio, dove vengono puniti appunto i golosi,

Dante descrive Cerbero, orribile mostro dalle tre facce con mani d’uomo e corpo d’animale. Questi

latra con le tre gole canine, graffia e scuoia i dannati che urlano a loro volta come cani. In tale passo

“gola” designa letteralmente la sede degli organi vocali ma, dato il contesto, non si esclude un

velato riferimento al peccato scontato nel detto cerchio.

La stessa occorrenza si incontra in I, XXIII, 88 con il medesimo significato: «Costui par vivo a

l’atto de la gola; cioè “al movimento della gola” prodotto dall’atto di respirare.

                                                            1 Cfr. Tommaso di Chobham, Summa de commendatione virtutum, V, 209. 2 Secondo San Tommaso: “Vitium gulae […] convenienter ponitur inter vitia capitalia […] pertinet ad gulam, quod aliquis, propter concupiscentiam cibi delectabilis, scienter excedat mensuram in edendo […] Si ergo inordinatio concupiscentiae accipiatur in gula secundum aversionem a fine ultimo, sic gula erit peccatum moertale” (cfr. Summa Theologiae, II, II, 148, 5). Per un approfondimento si veda L. ONDER, gola, “voce” dell’Enciclopedia Dantesca cit., vol. III, p. 247; V. RUSSO, La colpa della gola, ibid., pp. 247-249 e bibliografia ivi citata. 3 Cfr. Convivio, IV, XVII, 4.

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I, VI, 53: per la dannosa colpa della gola, Ciacco, uno dei golosi, confessa in modo esplicito il

motivo del suo trovarsi tra i dannati del terzo cerchio. Il sostantivo è qui utilizzato per estensione

come sinonimo di “ingordigia”, nel suo significato proprio di peccato capitale.

I, XII, 116: sovr’una gente che ‘nfino a la gola – in riferimento agli omicidi, i quali sono puniti

meno gravemente dei tiranni che hanno fatto violenza ai propri sudditi: questi, infatti, sono immersi

nel Flegetonte solo fino alla gola. Risulta evidente allora, che in tale luogo gola sia da intendere nel

suo senso letterale di “parte anteriore del collo”.

Nella medesima accezione il termine ricorre in I, XXVIII, 64: Un altro, che forata avea la gola – la

perifrasi identifica Pier da Medicina il quale, con la gola squarciata, rivolge la parola a Dante.

I, XXIV, 123: poco tempo è, in questa gola fiera. È Vanni Fucci a parlare, il quale dichiara di

trovarsi nella settima bolgia dell’ottavo cerchio da poco tempo. In tale luogo gola indica per

analogia la parte più profonda e buia di un fosso, di una voragine (in questo caso, quella infernale).

In I, XXVI, 40 invece, indica il fondo, la parte più stretta della bolgia, ossia l’ottava dell’ottavo

cerchio: tal si move ciascuna per la gola.

L’Inferno presenta sette occorrenze di gola ma, come si evince dalla rapida analisi sopra riportata,

solo una di queste designa in maniera esclusiva il peccato capitale.1

2.5.2 Purgatorio

II, V, 98: arriva’ io forato ne la gola, è lo spirito di Bonconte da Montefeltro a parlare, il quale

narra a Dante l’episodio della contesa tra l’angelo e il demonio per il possesso della sua anima. In

tale luogo il sostantivo indica propriamente “la parte anteriore del collo”.

Lo stesso vale per II, XXXI, 94: Tratto m’avea nel fiume infin la gola, con riferimento

all’immersione di Dante nel fiume Leté.

II, XXI, 31: Ond’io fui tratto fuori de l’ampia gola – in questa sede ampia gola / d’inferno indica

per analogia la voragine infernale. Nello specifico, la perifrasi allude al Limbo, in quanto costituisce

il primo e più ampio dei cerchi infernali.

II, XXIII, 65: per seguitar la gola oltra misura, Forese spiega a Dante la ragione della pena dei

golosi, i quali si trovano appunto nella sesta cornice del Purgatorio per espiare questo peccato.

                                                            1 In sintesi, significato proprio: 14,3%; significato altro: 85,7%.

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Il medesimo esplicito riferimento al vizio della golosità si ritrova in II, XXIV, 128: passammo,

udendo colpe de la gola – la stessa voce che ha ammonito i poeti a non appressarsi all’albero, ora

ricorda esempi di golosità punita su cui meditare.

Nella seconda cantica si trovano cinque occorrenze di gola, di cui due designano il peccato capitale

purgato nella sesta cornice, mentre tre appartengono ad aree semantiche diverse.1

2.5.3 Paradiso

III, III, 92: e d’un altro rimane ancor la gola, In tale luogo il sostantivo è usato metaforicamente nel

senso di “desiderio”, riferito alla brama di sapere di Dante. I vv. 91-93 saranno allora da intendere:

“così come avviene, se si ha sufficienza di un cibo e resta la voglia di un altro, che si chiede di

questo e si ringrazia di quello …”. La similitudine indica lo stato d’animo del poeta che, soddisfatto

della risposta ringrazia, ma non si accontenta e ora vuole sapere il motivo per cui Piccarda non

portò a termine il voto.

Nella stesso senso figurato di “avida brama, desiderio”, il termine ritorna in III, X, 111: là giù ne

gola di saper novella: il verbo all’indicativo presente (dalla voce “golare”), ha qui valore di

“desiderare ardentemente” e costituisce un hapax nella Commedia, con esplicito riferimento alle

accese discussioni dei teologi.

Come abbiamo avuto modo di dimostrare, le uniche due occorrenze presenti nel Paradiso sono

usate in senso metaforico e non hanno nulla a che vedere col vizio di Gola.2

2.5.4 Conclusioni

Delle quattordici occorrenze complessive di gola rintracciabili nella Commedia, solo tre sono

impiegate per estensione come sinonimo di “ingordigia, golosità” e, non a caso, sono situate proprio

nei canti dedicati a questo peccato (Inf., VI; Purg., XXIII; XXIV).3

                                                            1 In sintesi, significato proprio: 40%; significato altro: 60%. 2 In sintesi, significato proprio: 0%; significato altro: 100%. 3 In sintesi, significato proprio: 21,4%; significato altro: 78,6%.

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2.6 Lussuria

Intesi ch’a così fatto tormento enno dannati i peccator carnali,

che la ragion sommettono al talento.

(Inf., V, 37-39)

Così Dante definisce la Lussuria, al pari di qualsiasi altra forma d’incontinenza, come la vittoria

degli istinti e degli appetiti sulla costanzia de la ragione.1

Nel pensiero cristiano è la forma di intemperanza più riprovevole, in quanto la sua violenza occupa

del tutto l’animo e più di ogni altro vizio ottenebra la ragione e indebolisce la volontà;2 essa

produce inoltre un interesse esclusivo per i beni terreni, con conseguente fastidio e disprezzo per

quelli spirituali.3

Per quanto concerne la tradizione medievale, la Lussuria resta saldamente iscritta nello spazio

corporeo in cui i padri fondatori del settenario l’avevano collocata, ma il corpo non si limita ad

offrire il supporto fisico per le manifestazioni di questo vizio, ne subisce bensì anche le

conseguenze: “dalla lussuria derivano cecità mentale, sconsideratezza, incertezza della vista e

corruzione di tutto il corpo”.4

Vediamo ora, nel dettaglio, le occorrenze del lemma nelle tre cantiche della Commedia, il quale

ricorre innanzitutto in specifici luoghi, come verrà presto dimostrato.

2.6.1 Inferno

A proposito dei lussuriosi puniti nel secondo cerchio, il termine si incontra in I, V, 55: A vizio di

lussuria fu sì rotta, riferito alla leggendaria regina degli Assiri Semiramide, da sempre considerata

nel Medioevo come esempio di corruzione e di sfrenata libidine; e, poco più avanti, in forma di

aggettivo in I, V, 63: poi è Cleopatràs lussuriosa. questa volta con riferimento alla regina d’Egitto.

                                                            1 Cfr. Vita Nuova, XXXIX, 2; Convivio, III, X, 2: “l’anima, più [è] passionata, più si unisce a la parte concupiscibile e più abbandona la ragione”. 2 Cfr. Paolo, Epistula beati Pauli Apostoli ad Romanos, 1, 24-26; Ephes., 4, 19; Tommaso, Summa theologiae, II, II, 53, 6c: “Delectatio, quae est in venereis, quae totam animam absorbet”. 3 Per un approfondimento sulla problematica, si veda G. SANTARELLI, Lussuria, “voce” dell’Enciclopedia Dantesca, cit., vol. III, pp. 744-748 e bibliografia ivi citata. 4 Cfr. Burcardo di Worms, Decretum, XIX, col. 977. Per la trattazione sistematica del vizio ivi analizzato si rimanda a C. Casagrande, S. Vecchio, I sette vizi capitali … cit., pp. 149-180.

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Queste sono le uniche due occorrenze che si incontrano nella prima cantica, entrambi designanti lo

specifico peccato capitale.

2.6.2 Purgatorio

II, VII, 102: barbuto, cui lussuria e ozio pasce. In tale luogo il sostantivo appare nella valutazione

morale di Venceslao IV, re di Boemia, uomo inetto e oltremodo vizioso, il quale sarà ancora bollato

da Dante in Par., XIX, 124-126.

II, XXVI, 42: perché ‘l torello a sua lussuria corra». In riferimento al secondo esempio di lussuria

punita, tratto dal mito di Pasife, il sostantivo va a connotare proprio la viziosa regina che,

innamoratasi di un toro, per soddisfare la sua turpe libidine si fece costruire una vacca di legno in

cui entrò per potersi congiungere all’animale.

Anche per quanto riguarda la seconda cantica, in entrambe le occorrenze il sostantivo designa la

Lussuria nel suo significato etico – morale.

2.6.3 Paradiso

III, XIX, 124: Vedrassi la lussuria e ‘l viver molle – il sostantivo ricorre nelle parole dell’aquila

che, narrando i dispregi dei sedici principi cristiani, denuncia la sfrenata lussuria di Ferdinando IV

di Castiglia e del già citato Venceslao IV.

Nella sua unica occorrenza per quanto concerne il Paradiso, lussuria si presenta ancora nel suo

significato letterale di peccato capitale.1

2.6.4 Conclusioni

La Commedia presenta allora solamente cinque occorrenze del lemma lussuria, ma tutte in senso

proprio.2 Come abbiamo anticipato, ricorrono in particolari luoghi: nei passi relativi ai dannati del

secondo cerchio dell’Inferno, negli esempi di lussuria punita, gridati dalle anime che espiano tale

disposizione peccaminosa nell’ultima cornice del Purgatorio e nelle parole di reprensione

dell’aquila.

                                                            1 In sintesi, significato proprio: 100%; significato altro: 0%. 2 Si veda la nota precedente.

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§ 3. La superbia nel settenario capitale: vizi a confronto nelle occorrenze della

Commedia.

Nel corso dei precedenti capitoli è stato dimostrato che il tema della Superbia occupa un posto

peculiare nella vita e nella meditazione di Dante. L’importanza e l’assoluta serietà che il poeta

attribuisce ad essa si riflette, ovviamente, nella sua opera e la rigorosa trattazione del problema

concorre a creare una complessa rete semantica.

In apertura del secondo capitolo è stato detto che il lemma superbia ricorre con una “certa

frequenza” nella Commedia e per dimostrare le veridicità (o meno) di questa tesi, è stato necessario

costruire un termine di paragone attraverso la sistematica analisi di tutte le occorrenze degli altri

termini appartenenti al settenario dei vizi capitali.

Ecco quanto emerge dalla suddetta analisi:

1. Superbia: su venticinque occorrenze totali, diciotto hanno significato proprio (72%); due

significato doppio (8%); cinque significato altro (20%).

2. Invidia: su quindici occorrenze totali, quattordici hanno significato proprio (93,3%); una ha

significato altro (6,7%).

3. Ira: su ventisette occorrenze totali, sedici hanno significato proprio (59,3%); undici

significato altro (40,7%).

4. Accidia: un’unica occorrenza con significato proprio; nella Commedia sono però

rintracciabili altre cinquantotto occorrenze di termini riconducibili a tale area semantica

(quali tristizia, tristo), tutte con significato altro o, per lo meno, non univoco. In una

prospettiva onnicomprensiva si può affermare che su cinquantanove occorrenze totali, una

ha significato proprio (1,7%); cinquantotto significato altro (98,3%).

5. Avarizia: su sedici occorrenze totali, tutte hanno significato proprio (100%).

6. Gola: su quattordici occorrenze totali, tre hanno significato proprio (21,4%); undici

significato altro (78,6%).

7. Lussuria: su cinque occorrenze totali, cinque hanno significato proprio (100%).

A partire da questi dati è possibile trarre le dovute conclusioni.

Il lemma ira presenta in assoluto il numero più elevato di occorrenze, seguito subito dopo da

superbia. Come abbiamo avuto modo di osservare precedentemente, però, il contesto è ben più

importante dei meri valori numerici.

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Se è vero che ira conta ventisette occorrenze contro le venticinque di superbia, è anche vero che di

queste ventisette, solo sedici designano propriamente il peccato d’ira, mentre le occorrenze con

senso proprio di superbia sono diciotto (a cui si possono ulteriormente aggiungere le due con

significato doppio e gli altri termini riconducibili alla medesima area semantica, utilizzati da Dante

come sinonimi del vizio di superbia, quali orgoglio, presunzione, arroganza, vanagloria).

In ordine decrescente del numero di occorrenze si succedono, poi, avarizia, invidia, gola, lussuria e

accidia. Risulta chiaro che anche il lemma avarizia ricorre con una buona frequenza nel poema e, in

aggiunta, sempre con senso proprio designante lo specifico peccato capitale. Ciò, come è già stato

messo in evidenza,1 è motivato dal fatto che nella concezione dantesca l’avarizia è, al pari della

superbia, un vizio antisociale che figura tra le cause principali della corruzione dell’umanità.

In ogni caso, ritengo che il miglior termine di paragone con cui collazionare il “peso” del motivo

della superbia nella Commedia, sia offerto proprio dal lemma ira, peccato, tra l’altro, non del tutto

estraneo alla personalità dantesca (la cui consistente presenza sul piano lessicale del poema è indice

e prova della partecipazione emotiva del poeta e del suo interesse al problema), al contrario

dell’avarizia che, nonostante le sue evidenti tracce nell’opera, non trova posto nella vita del poeta.

A conclusione della presente indagine appare lecito affermare che Dante abbia creato una ricca

quanto complessa rete semantica intorno alla problematica della superbia, una rete che si dimostra

assolutamente adeguata all’attenta e puntuale meditazione dell’Alighieri, la quale assume quasi la

forma (si potrebbe azzardare), di un’analisi “scientifica” incentrata su un argomento che tanta parte

ebbe nella sua vita e, di conseguenza, nella sua opera maggiore.2

                                                            1 Si veda il § 2.4, pp. 149-150. 2 I risultati dell’indagine fin qui condotta dimostrano palesemente la veridicità della tesi iniziale. Sono state scelte, come parametro di collazione, tutte le occorrenze dei termini relativi al settenario dei vizi capitali in quanto, solo in tal modo, risulta possibile calcolare il peso specifico di uno di essi. I valori numerici parlano chiaro: la superbia è tra tutti i vizi quello che conta la presenza maggiore nella Commedia, sia sul piano lessicale che a livello contenutistico. Come abbiamo avuto modo di appurare, infatti, la riflessione dantesca sul tema è attenta e rigorosa, articolata nei tre canti del Purgatorio analizzati nel primo capitolo, ma velatamente presente in tutto il poema; si consideri il fatto che il lemma superbia è l’unico, all’interno del settenario, a presentare un sostanzioso numero di occorrenze in tutte e tre le cantiche ma, soprattutto, a presentarle nel significato proprio di vizio capitale più grave. Inoltre, si tratta dell’unico vizio per cui Dante abbia creato una tanto ricca rete semantica che, comprendendo altri termini sempre riconducibili ad esso (si veda quanto detto sopra), ben si presta alla presentazione della superbia e alla sua precisa definizione in tutte le molteplici tipologie e sfumature: dal primo peccato di Lucifero, inteso come ribellione diretta a Dio, all’arroganza aristocratica; dallo smodato desiderio di fama e onori artistico – intellettuali, alla presunzione politica. Un male, insomma, che tanta parte ha nel mondo fin dalle origini e che richiede un particolare metodo di trattazione. Ritengo che il grande sforzo effettuato da Dante per analizzare e descrivere in modo così puntiglioso e accurato il problema, riveli in pieno tutto il suo intento didascalico e la sua ferma volontà di trovare la retta via per redimere se stesso e gli altri uomini.

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CONCLUSIONI

§ 1. Purgatorio XI: il canto di Dante.

Alla luce di quanto è emerso nel corso della presente indagine, ritengo sia ben fondato affermare

che questo è propriamente il canto di Dante e tale tesi verrà confermata attraverso l’analisi di alcuni

motivi che lo percorrono, i quali risulteranno più chiari e troveranno piena giustificazione nella

trattazione dantesca.

Abbiamo notato e sottolineato quanto la superbia sia un peccato pericoloso. Una realtà viziosa

senza la quale l’uomo non avrebbe mai scoperto la sua autonomia che, se non tenuta a freno dalla

ragione, si rivela in tutta la sua rovina. Superbo fu infatti Adamo, il primo uomo, nel momento del

suo sciagurato trapassar del segno (cfr. Par., XXVI, 117), strumento utilizzato dal demonio, il

primo superbo appunto (Par., XIX, 46), per infiltrare nel mondo quel male che fu la causa della sua

caduta e che tante vittime mieterà nel corso della storia

Superbi sono poi Nembrot e la sua gente nel progettare quell’ovra inconsummabile costituita dalla

torre di Babele (cfr. Par., XXVI, 125) e Ulisse il quale, a mio avviso, si caratterizza più per il

“trapassar del segno” nel voler scoprire il mondo sconosciuto oltreoceano, che per i suoi consigli

fraudolenti. Superbo è, alla fine, lo stesso Dante, l’uomo figlio di Adamo, fatto di carne ed ossa alla

stessa guisa di Nembrot e Ulisse: Purgatorio XI è in assoluto il canto più esplicitamente

autobiografico, canto in cui egli si sente più prossimo al suo destino post mortem e si riconosce

apertamente colpevole di superbia (cfr. v. 119), come egli stesso ribadirà più avanti nella

confessione all’invidiosa Sapia.

Ha notato a riguardo la Chiavacci Leonardi che

“Dei sette gironi della montagna, questo è quello che egli riconosce come suo, e suo è in realtà questo canto dove la sua vicenda umana traspare nella trama del racconto fino a venire allo scoperto dal tu dei profetici versi finali”.1

È della stessa opinione il Vallone, che chiude la sua lettura del canto affermando che

“[…] dalla preghiera introduttiva alla profezia finale c’è tutto il mondo di Dante uomo, come dalla pienezza suadente di quella all’allusività di questa c’è tutto il mondo espressivo del Poeta”.2

                                                            1 Cfr. Introduzione al Canto XI, in D. Alighieri, La Divina Commedia. Purgatorio, con il commento di A. M. Chiavacci Leonardi, Milano, Mondadori, 1994. 2 Cfr. A. Vallone, Il Canto XI del Purgatorio, in Lectura Dantis Romana, Torino, S.E.I, 1961, p. 29.

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~ 160 ~ 

 

Fra i tre dedicati alla superbia, attraverso cui Dante elabora concettualmente la differenza tra

superbia e umiltà, questo è il canto centrale, tutto incentrato sul suo incontro con le anime purganti

e sui loro, seppur lontani, ricordi terreni e come tale è dei tre “il più potente e vivo”, anche perché

“legato alla storia personale di Dante, sia pubblica che privata”.1

Si apre solennemente con una preghiera universale, si articola nelle tre grandi figure che

interagiscono col viator e termina con una chiusa storico – autobiografica.

Per non entrare nel merito di un’analisi integrale del canto che, si spera, è già stata esposta

dettagliatamente nel corso del primo capitolo, mi sembra degno di interesse soffermarmi, seppur

brevemente, sull’episodio di Oderisi da Gubbio, ossia su quella che abbiamo osservato essere la

parte più rilevata del canto, la più intimamente autobiografica.

Il moto di interna mortificazione effettuato spontaneamente da Dante, quel ascoltando chinai in giù

la faccia del v. 73, chiude il colloquio con Omberto e apre il successivo. Ha notato il Bertelli che

tale atteggiamento “sfuma con un tono di raccolta pensosità e di compartecipe commozione la storia

di Omberto e introduce, nella maniera più spontanea, l’occasione al fidato colloquio con Oderisi”.2

Seguono tre versi di passaggio che rappresentano qualcosa di più di un mero collegamento tra i vari

episodi: costituiscono una sorta di presentazione in anticipo del personaggio che sta per essere

introdotto, come hanno ben notato gli antichi interpreti;3 e due battute di dialogo, ansiosa e carica di

affetto e simpatia quella di Dante, umile e distaccata quella di Oderisi (che nonostante tutto preserva

una velata sfumatura di affetto in quel frate).

Colui che un tempo poteva vantarsi di essere l’onor d’Agobbio ora non può far altro che ammettere

che la fama terrena di cui godeva si è ridotta a piccola cosa ed è destinata a diminuire sempre più,

fino ad annullarsi nella vacuità che inevitabilmente travolge gli onori mondani.

Attraverso le parole del miniatore, Dante definisce questo peculiare tipo di superbia, il gran disio de

l’eccellenza, di cui nella prima cornice del Purgatorio si paga appunto il fio: questa smodata sete di

gloria in ambito artistico – intellettuale è ben diversa dall’arroganza che aveva contraddistinto il

primo personaggio e più grave, ma non meno vana di quella. Non è un caso, infatti, che Oderisi

inveisca proprio contro la vana gloria degli uomini.

                                                            1 Cfr. A. M. Chiavacci Leonardi, Introduzione … cit. 2 Cfr. I. Bertelli, Il Canto XI del «Purgatorio», in Lectura Dantis Scaligera, Firenze, Le Monnier, 1964, p. 34. 3 Valga per tutti il commento dell’Ottimo, cit. Si tratta di Oderisi: “qui, esemplificando [Dante] mostra la detta superbia non solamente procedere nelli mortali per radice di antichità di sangue e d’opera d’arme, e di costumi leggiadri; ma eziandio per eccellenza d’arte manuale” e di Benvenuto, cit., nell’espressione non questi Dante “quasi dicat: non magnus et magni ficus sicut comes Humbertus, sed quidam spiritus parvus et plebeius […]”. Ha notato il Vallone che indubbiamente “i tre personaggi, peraltro indicati con le espressioni pronominali un di loro, non questi e poi colui (v. 109) sono rappresentativi di una stessa situazione che […] caratterizza l’universa vita degli uomini” (cfr. A. Vallone, Il Canto XI … cit., p. 22).

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L’episodio si apre all’insegna della serenità, con quello spontaneo e stupito moto d’affetto di Dante

nei confronti del riconosciuto amico a cui, però, risponde una voce pacata, si direbbe piuttosto

malinconica, anche se parimenti affettuosa.

Sebbene – e questo è fuori discussione – da tale risposta emerga tutta l’umiltà e la tendenza alla

fraternità propria di ogni anima espiante, è possibile ravvisare in essa anche un vivo senso

dell’amicizia, un’amicizia fondata (si badi bene) sulla solidarietà artistica.

L’intima parentesi costituita dall’episodio di Oderisi va intesa in tale direzione: Dante fu filosofo e

teologo, uomo politico e religioso, ma fu innanzitutto artista appassionato e passionale1 e l’incontro

con l’amico – artista getta, per un attimo, luce su quel mondo da cui Dante non sapeva né voleva

prescindere, nonostante la ferma consapevolezza del suo valore effimero.

L’entusiasmo, però, viene subito frenato e l’esaltazione del fatto artistico si spegne nella mesta

riflessione sul gran disio che ne scaturisce, desiderio lecito e auspicabile se indirizzato al

perfezionamento della propria arte, peccato di vanagloria se si trasforma in disordinata sete di onori

mondani. I vv. 91-108 spingono in questa direzione e, attraverso esempi e meditazioni, dimostrano

e condannano l’assoluta vanità della fama terrena.2

La gloria passa, insomma, e i nomi risultano ancora utili solamente a titolo esemplificativo di un

concetto altrimenti troppo astratto.

In conclusione, è necessario sottolineare che, per quanto spinosa possa apparire la questione circa la

“corretta” interpretazione dei vv. 98-99,3 il vero problema del Canto XI è costituito dal contrasto

che si viene a creare con il famoso passo dell’Inferno in cui risuona, alto e solenne, l’elogio della

gloria umana;4 passo che, almeno a prima vista, sembra in diretta opposizione con quanto abbiamo

appena appreso dalla lettura del presente canto.

                                                            1 Si veda, a riguardo, la sincera ammirazione del viator di fronte agli esempi di umiltà, la quale rischiava di superare in intensità quella stessa riflessione morale che doveva essere la prima e più immediata reazione. 2 Sul tema della vanagloria mi sembra molto interessante quanto ha notato il Bertelli: “Gli interpreti moderni […] sono stati troppo corrivi a sfumare in frasi indefinite e imprecise un’espressione tecnicamente rigorosa come «vanagloria». È […] arbitrario il quasi insensibile trapasso esegetico per cui la «vanagloria», che è «uno disordinato muvimento d’animo, per lo quale alcuno, per sua propria eccellenza, vuole essere onorato sopra gli altri» (Anonimo), si è sciolta nell’ambigua espressione, affine ma non identica, di «vanità della gloria»”. (Cfr. I. Bertelli, Il Canto XI del «Purgatorio», cit., p. 42). Gli antichi, invece, avevano visto più giustamente nella vanagloria la “figliuola della superbia”, l’inanis gloria dei teologi (si veda ad esempio l’Ottimo, Pietro Alighieri, Benvenuto, Francesco da Buti e lo stesso Anonimo). 3 Si veda il capitolo I, § 2. 4 Cfr. Inf., XXIV, 46-57: «Omai convien che tu così ti spoltre» / disse ‘l maestro; «chè, seggendo in piuma, / in fama non si vien, né sotto coltre: / sanza la qual chi sua vita consuma, / cotal vestigio in terra di sé lascia, / qual fummo in aere ed in acqua la schiuma. / E però leva su: vinci l’ambascia / con l’animo che vince ogni battaglia, / se col suo grave corpo non s’accascia. / Più lunga scala convien che si saglia; / non basta da costoro esser partito: / se tu m’intendi, or fa sì che ti vaglia». In queste terzine il Maier ha visto la “profonda umanità dell’autore, del suo impegno totale, dell’ansia etica […] e religiosa che mai l’abbandona e che si manifesta nel grave e solenne monito di Virgilio […]”. (Cfr. B. Maier, Il Canto XXIV dell’Inferno, in Lectura

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Il passo in questione è relativo alla descrizione che Dante fa della sua uscita dalla bolgia degli

ipocriti e del passaggio, attraverso le rovine del ponte franato dopo la morte di Cristo, nella settima

bolgia, dove sono puniti i ladri fraudolenti. La strada è accidentata e faticosa; il pellegrino giunge a

destinazione col fiato corto e si siede sopra un sasso, ma subito Virgilio, con un solenne monito, lo

incoraggia a riprendere il cammino (cfr. vv. 46-57). Le parole del Maestro sono famose per il rigore

e l’importanza del significato che veicolano, ma è stato giustamente notato che risuonano un po’

troppo “forti” se lette nel contesto di tale situazione. Commenta il Maier:

“[…] come dimenticare che un siffatto cammino, al di là e al di sopra del suo significato letterale, ne ha costantemente uno simbolico - allegorico, alludendo alla progressiva conquista del perfezionamento morale, attraverso la visione del male e l’esperienza diretta del peccato?”1

È esattamente questa la chiave di lettura per la giusta interpretazione della sentenza di Virgilio e

della successiva esortazione; solo in questo modo si spiega l’intima ragione di tutto il passo, che va

ben oltre la spiccia contingenza di un Dante che, esausto, si siede a riprendere fiato.

Che si tratti di un inno alla fama umana risulta veramente innegabile; e che ciò sia in contraddizione

con la riflessione sulla vanagloria degli uomini elaborata da Oderisi – Dante è, per lo meno,

ammissibile sul piano teorico. In proposito, c’è chi ha cercato inutilmente di sanare questa reale o

presunta contraddizione attraverso l’argomento cronologico (tra l’altro assolutamente incerto).

Più interessante quanto afferma il Bertelli:

“[…] la verità è che noi non abbiamo un Dante mondano che, in progresso di tempo, diventa ascetico, ma un Dante in cui sempre, nel ritmo alterno e vario del suo svolgimento spirituale, coesistono, in dialettica tensione, l’ardore della fama e il riconoscimento della sua caducità. Non un contrasto, ma un rapporto”.2

E c’è chi, nella grave ammonizione virgiliana, ha visto manifestato il profondo senso etico della

vita, intesa come “dovere” e “missione”, proprio di Dante, non privo di una sfumatura “umanistica”

proprio in virtù della presenza dell’elogio alla gloria.3

                                                                                                                                                                                                     Dantis Scaligera, Firenze, Le Monnier, 1962, p. 6). 1 Ibid., p. 7. Continua il critico: “sentenza ed esortazione […] possono apparire sproporzionate alla realtà della situazione […] ma risultano pertinenti qualora si rammentino i valori ideali e spirituali del viaggio ultraterreno di Dante […] simbolo dello stesso faticoso cammino dell’uomo nel mondo”. 2 Cfr. I. Bertelli, Il Canto XI … cit., pp. 48-49. Estremamente acute sono anche alcune riflessioni del Getto circa il “tono quasi sacro” del desiderio di fama di Inf., XXIV, che sarebbe “il riflesso storico e come la sociale consacrazione dell’attività eroica dell’intelligenza, e in quanto tale ha qualcosa di religioso e provvidenziale […]”. (Cfr. G. Getto, Aspetti della poesia di Dante, Firenze, 1947, pp. 80 e ss.). 3 Cfr. B. Maier, Il Canto XXIV … cit., p. 36. Si tratta della famosa questione circa l’ “umanesimo cristiano” di Dante. In questo solenne esempio del sentenziare dantesco si vengono a fondere, infatti, suggestioni bibliche (cfr. Liber Sapientiae, V, 15), eco oraziane (cfr. Ars poetica, 412-413) e virgiliane (cfr. Aeneis, V, 740). Per un approfondimento, si rinvia al classico volume di A. Renaudet, Dante humaniste, Parigi, Les

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Ma torniamo sul motivo del presunto contrasto. Un rapido excursus attraverso l’Inferno

sembrerebbe dimostrare la fondatezza dell’opinione di chi sostiene la teoria dei due tempi di

composizione del poema. Nella prima cantica si può individuare un processo evolutivo del pensiero

dantesco, descrivente un arco che va da un primo momento di convinta esaltazione dell’onrata

nominanza (cfr. Inf., IV, 76 e ss.), cui segue una pausa di riflessione sulle alterne vicende della

fortuna (Inf., VII, 61-96) e alcuni altri accenni di inflessione mondana, ad un ultimo tempo in cui si

vede riaccesa con veemenza la confidenza sull’importanza e la legittimità della gloria mondana,

attraverso il fiero inno alla fama umana proferito da Virgilio nel passo sopra riferito.

Una fama che è giusto e onorevole conquistare, massimo obiettivo da raggiungere per l’uomo

superiore (magnanimo o comunque virtuoso), somma aspirazione a cui si deve tendere con tutte le

forze dell’animo – in contrapposizione al grave corpo (cfr. Inf., XXIV, 54).

Nel Purgatorio, invece, si trovano parecchi cenni alla limitatezza e caducità delle cose umane, ma a

questi si potrebbe comunque contrapporre almeno la definizione del nome “poeta”, che profuma di

alto elogio.1 Esaltazioni di questo tipo della fama umana e del potere della poesia si incontrano

anche nel Paradiso (ad esempio in Par., XVIII, 82-87) ma non mancano, ovviamente, momenti di

ripiegamento interiore e riflessioni moraleggianti.2

Come ho affermato in precedenza, l’ipotesi della contraddizione nel pensiero dantesco circa la

valutazione della fama mondana, è ammissibile ad una prima lettura, almeno sul piano teorico.

Non ritengo, infatti, che questa linea interpretativa sia errata in assoluto; piuttosto mi sembra sia

errato il presupposto di partenza, ossia quel cercare in tutti i modi di inquadrare il Dante uomo e

intellettuale in una rigida e immutabile posizione da considerare come definitiva.

Ha giustamente fatto notare il Bertelli che “i passi di esaltazione della fama implicano sempre, in

qualche modo, il riconoscimento della sua caducità” e che, a loro volta, “gli spunti ascetici non

escludono mai del tutto l’amore per la terra”.3

Concordo pienamente con l’opinione del critico. Per una corretta interpretazione della riflessione –

e di conseguenza dell’opera dantesca – è ben più opportuno accogliere la teoria della critica più

recente, che ha visto nella Commedia un’opera in progress e nell’Alighieri una personalità

complessa e spesso combattuta al suo interno.

                                                                                                                                                                                                     Belles Lettres, 1952. 1 Cfr. Purg., XXI, 85: poeta sarebbe, per Dante, il nome che più dura e più onora. 2 Cfr. Par., XVI, 73-87; sintomatico passo sulla vanità di ogni contingenza, rappresentata dalle schiatte che si disfanno, dalle vostre cose che tutte hanno lor morte e soprattutto dalla fama che alla fin fine viene nel tempo nascosa. 3 Cfr. I. Bertelli, Il Canto XI … cit., p. 50.

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Solo giustapponendo le varie sfumature dell’atteggiamento e del pensiero dantesco è possibile

scorgere dalla miglior prospettiva possibile il senso che egli attribuì alla vita anche, e soprattutto,

attraverso le difficoltà e gl’intimi contrasti che sorgono spontaneamente nell’animo di un uomo che

matura, si informa, soffre e gioisce e che, in una parola, cambia nel corso del tempo, grazie e a

causa di quanto gli succede intorno.

Magistrale e solenne la sentenza del solito Bertelli, che vede lo sguardo di Dante scorgere

“le cose dall’alto e accoglie[re] nel suo animo il senso della vita nelle sue lotte e nei suoi contrasti, rischiarati nella prospettiva dell’eterno. C’è un appassionato scrutinio dell’anima umana, interrogata in ogni sua tendenza e vocazione, con l’occhio impassibile di Dio”.1

Nel canto XI del Purgatorio probabilmente la riflessione dantesca è stata scatenata dal particolare

contesto della situazione e, in misura maggiore, dalla drammatica tensione tra superbia e umiltà che

fa da denominatore comune a tutto lo svolgimento della trattazione.

Il canto oscilla costantemente tra il sentimento del tempo e dell’eterno: Dante giunge qui ad elevati

livelli di trascendenza e ascetismo, ma questi si fondano pur sempre su un radicato senso della

dimensione terrena.

Egli riconosce e accetta con somma commozione e partecipazione i limiti delle umane posse, ma

non per questo riesce ad astenersi dall’ammirarle, pur nella consapevolezza del loro essere destinate

a non durare. Un’ombra di pessimismo sembra dunque velare questa mesta accettazione, la quale

però non è mai rassegnata e passiva: il peculiare “pessimismo” dantesco può essere inteso come una

forza interiore che spinge ad agire, piuttosto che una condizione di quiete che si riduce a mera

contemplazione di dati di fatto.2

Secondo il Croce, il discorso di Oderisi sarebbe da intendere alla stregua di una

“lirica tra malinconica e rassegnata”, in cui il “senso della vanità non diventa pessimismo disperato e cinico […] perché l’immagine dell’Eterno, che tutto fa dileguare, è pur l’immagine di un Eterno divino, e reintroduce il dovere e la gioia del ben fare, e, abbattendo la vanagloria, restaura la gloria”.3

La sublime sentenza che suggella il discorso del miniatore (cfr. vv. 115-117) contribuisce a creare

un’atmosfera di ardente commozione morale, che gonfia il cuore del pellegrino e lo spinge a

ringraziare l’amico per la lezione che lo ha salvato.                                                             1 Ibid. 2 Il Bertelli (cit., pp. 50-51) ha notato che due sono i poli d’ispirazione del canto: cielo e terra. “La mira di Dante è salire al cielo, ma restando ancorato alla terra; […] l’ansia del cielo favorisce una più equilibrata presa di coscienza, un più articolato e concreto rispecchiamento del reale”, come si può ben notare dalla concretezza dei riferimenti alle cose effimere (si veda a riguardo verde, cima, carne, color d’erba, terra e simili). 3 Cfr. Croce, La poesia di Dante, Bari, 1966, pp. 115-116.

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E io a lui: «Tuo vero dir m’incora bona umiltà, e gran tumor m’appiani:

(vv. 118-119)

Ringraziamento, questo, che cela un’esplicita ammissione di colpa: quella tumefazione generata

dalla superbia che aveva finora contaminato il nobile animo del poeta si sgonfia e cede il passo ad

un prorompente sentimento di sincera umiltà che gli permetterà, di lì a poco, di redimersi da un

peccato tanto abietto, specie per un uomo della sua levatura morale.

Non è un caso, infatti, che l’ultima parte del canto sia tutta dominata dalla vicenda di Provenzano, il

superbo che, come Dante, diventò magnanimo proprio in virtù dell’acquisita umiltà.

Le ultime terzine del canto narrano l’iter di un’anima1 che nel momento della sua maggior gloria –

e superbia – terrena, per una coraggiosa scelta dettata dal libero arbitrio, trova la forza di domare il

proprio orgoglio, di vincere e mortificare se stesso in nome di un fine superiore: un nuovo e forte

sentimento di umiltà interiore gli fa superare ogni sentore di esteriore vergogna mondana e lo

spinge a condursi a tremar per ogni vena.

                                                            1 Mi sembra interessante riportare il commento di K. Stierle: “Provenzan Salvani esempio di umiliazione di se stesso oppure di umiltà? […] Invece di una progressione dell’umiltà abbiamo nei tre esempi del canto XI una progressione completamente diversa: la superbia di Omberto è fondata soltanto sulla vanagloria del nome […]; la superbia di Oderisi, ora sparita, era fondata sull’eccellenza della sua arte; la superbia di Provenzan Salvani è superbia dialettica, che fa anche dell’umiliazione motivo di trionfo. Esporsi al disprezzo vuol dire disprezzare questo stesso disprezzo. Umiliandosi Provenzan perfeziona la sua superbia o, per dirla con una parola dantesca, la sua virtù. Superbia e umiltà in Provenzan coincidono”. A proposito della profezia, il critico nota che “Oderisi prevede per Dante un’umiliazione paragonabile a quella di Provenzan […]” ma che “si tratterà comunque di un’umiliazione di tutt’altro tipo. Mentre Provenzan umiliando se stesso accresce la propria gloria, Dante sarà umiliato prima dai suoi concittadini e poi dalla miseria dell’esilio. […] Dante umiliato è anche un superbo. In una situazione di umiliazione personale nasce l’artista superbo che si dedica a un progetto inaudito. Forse è questa tensione estrema che crea in Dante il senso di affinità profonda con Provenzan Salvani. Salvani è l’eroe che rende l’umiltà parte della superbia. Dante è umiliato come uomo politico esiliato, ma è superbo come poeta. […] Dante poeta non aspira ad essere superbo per un momento, ma per l’eternità. Con il progetto della sua opera, Dante segue la lezione di Brunetto Latini, che gli ha insegnato «come l’uom s’etterna»”. (Cfr. K. Stierle, Il Canto XI, in Lectura Dantis Turicensis, Purgatorio, a cura di G. Güntert e M. Picone, Firenze, Franco Cesati Editore, 2001, pp. 165-167). Ho ritenuto opportuno citare questo passo, in quanto costituisce una posizione a sé nella critica moderna e tocca la questione se la concezione dantesca dell’arte e quella di Oderisi (che abbiamo finora detto essere il suo alter ego) coincidano. Se la maggior parte dei moderni interpreti vede un’unità tra i tre esempi, Stierle insiste sulla “specificità dei tre esempi di umiliazione” che rivela la percezione dantesca “dell’individualità di ogni uomo” (ibid.); ma soprattutto è interessante sottolineare che secondo il critico “Dante […] non segue Oderisi nella sua malinconica riflessione sull’umiliazione del tempo all’opera d’arte” (ibid., p. 169). Tutto ciò contrasta con l’opinione del Bertelli, per cui l’evocazione del Salvani “rientra perfettamente col suo valore di exemplum a conferma della sentenza di Oderisi, nella coerenza tonale e compositiva del canto” (cit., p. 58); e della Chiavacci Leonardi, che giunge a identificare la concezione dantesca della gloria con quella di Oderisi: “Il togliere quello di Dante da questa cerchia di nomi, toglie tutta la forza del passo, che vale non genericamente, ma proprio in quanto è riferito soprattutto a lui” (cit., commento al v. 98). Per un approfondimento sulla tesi di Stierle si rimanda a ID., Il Canto XI,cit., pp. 165-172.

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Proprio così conclude il poeta, utilizzando delle parole cariche di pathos.

“Un verso, quest’ultimo, così intimo e pungente, che scava in profondo nella vita di quest’anima. E scava in profondo nell’anima di Dante. Il ritratto diventa autoritratto. Nel tremare di Provenzano si prefigura il tremito dell’esilio, il tremito delle sofferenze e umiliazioni che anche Dante sarà costretto a provare”.1

La grave e oscura profezia con cui si chiude il canto, suggellata da questo passionale verso,

costituisce un’ulteriore prova a conferma della mia tesi iniziale: se tutto il canto è percorso da

sotterranei motivi personali, una siffatta chiusa biografica rende esplicitamente conto del fatto che

Purgatorio XI è davvero il canto di Dante.2

                                                            1 Cfr. I. Bertelli, Il Canto XI … cit., p. 57. 2 Conferma di ciò mi viene offerta ancora una volta dalla Chiavacci Leonardi, secondo cui è proprio Dante il protagonista di questo canto: “Il girone dei superbi è il suo, la gloria de la lingua era sua, suo il gran disio de l’eccellenza, e la sua conseguente meditazione sulla brevità e vanità della fama. Infine la chiusa del canto confermerà questa fin qui taciuta presenza”. (Cfr. Introduzione … cit.).

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RINGRAZIAMENTI

Un ringraziamento particolare a mamma, papà e Caterina, per avermi sempre

tacitamente appoggiata e, soprattutto, sopportata in questo momento particolarmente …

intenso.

Grazie agli amici, quelli veri, che ti regalano attimi di serenità (e serate di divertimento)

anche quando gli impegni sembrano non lasciare posto ad altro.

A Martino, senza l’affetto del quale la vita sarebbe molto più triste.

All’Egregio Professor Aldo Maria Costantini, per quanto di meglio si possa pretendere

da un relatore. Un ringraziamento particolare per la pazienza e la disponibilità

dimostrate durante tutto il periodo di collaborazione.

Ai parenti e amici tutti.

Un ringraziamento finale anche all’Onnipotente, che mi ha donato i mezzi e la forza per

raggiungere questo tanto agognato traguardo.

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INDICE GENERALE

INTRODUZIONE ………………………………………………

§ 1. Ritratto di Dante Alighieri: l’uomo, l’intellettuale ...... 1.1 La formazione culturale ……………………………. 1.2 La “biblioteca” di Dante …………………………… § 2. I commentatori antichi ………………………………. 2.1 Dante superbo o magnanimo? ……………………... 2.2 La superbia nella mentalità medievale …………….. 2.3 La magnanimità nel pensiero medievale …………... 2.4 Il culto di Dante ……………………………………. § 3. I commentatori moderni …………………………….. 3.1 L’impegno politico ………………………………… 3.2 L’uomo e il poeta …………………………………... § 4. Dante nella cultura moderna …………………………

Capitolo I. LA SUPERBIA IN DANTE ………………………. § 1. Il canto X del Purgatorio ……………………………. § 2. Il canto XI del Purgatorio …………………………... § 3. Il canto XII del Purgatorio ………………………….. § 4. Dante e il suo Purgatorio …………………………… 4.1 Gli incontri …………………………………………. § 5. Considerazioni finali …………………………………

Capitolo II. OCCORRENZE DI SUPERBIA …………………... § 1. Inferno ……………………………………………….

1.1 Considerazioni ……………………………………... § 2. Purgatorio …………………………………………... 2.1 Considerazioni ……………………………………... § 3. Paradiso ……………………………………………... 3.1 Considerazioni ……………………………………... § 4. Conclusioni …………………………………………..

Capitolo III. GLI ALTRI VIZI DEL SETTENARIO ………….. § 1. Premessa: vizi e virtù ………………………………... § 2. Occorrenze degli altri vizi …………………………... 2.1 Invidia ……………………………………………… 2.2 Ira …………………………………………………... 2.3 Accidia ……………………………………………... 2.4 Avarizia ……………………………………………. 2.5 Gola ………………………………………………... 2.6 Lussuria ……………………………………………. § 3. La superbia nel settenario capitale …………………..

CONCLUSIONI ………………………………………………... § 1. Purgatorio XI: il canto di Dante ……………………..

BIBLIOGRAFIA……………………………………………….RINGRAZIAMENTI …………………………………………...

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