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DOMENICA 1 AGOSTO 2010 / NUMERO 286 D omenica La di Repubblica spettacoli Addio Suso, signora del cinema NELLO AJELLO, IRENE BIGNARDI e ALIX VAN BUREN l’incontro Glauco Mauri, ottant’anni di teatro RODOLFO DI GIAMMARCO cultura Match point per Caravaggio GIANNI CLERICI i sapori In difesa dell’avocado LICIA GRANELLO e MASSIMO MONTANARI la memoria Strage di Bologna, i sopravvissuti MICHELE SMARGIASSI PAOLO RUMIZ PERUGIA G aribaldi? Rifare l’Italia in camicia rossa? Fossi mat- to. Troppa retorica, celebrazioni, nefasti convegni. La gente ne ha le scatole piene. E poi, che eroe può esistere in un Paese cinico come il mio? Questo mi dicevo, meditando i sentieri possibili di un viaggio nel 2010. Poi è successo che li ho incontrati, i garibaldini; li ho visti sbucare a Pe- rugia, dal fondo dello stradone, là dove l’Umbria si apre sulle colli- ne di Dante, il monte Subasio e il Tupino che discende «dal colle eletto del beato Ubaldo». Li ho visti venire a suon di tamburi, sul cri- nale tra i palazzi trecenteschi; un rosso plotone di belle ragazze, vecchietti e bambini, a darmi una lezione di Risorgimento in mu- sica. E ho cambiato idea. Rivedo la scena. Chiedo loro «da dove venite» mentre riscalda- no gli strumenti accanto alla fontana vescovile, mi rispondono «Mugnano», e sfido chiunque a sapere dov’è questo paese di sei- cento anime a Est del Trasimeno. L’età va dagli ottantadue della grancassa ai dodici di un tamburino, tre generazioni e mezzo in campo. Quello di ottantadue ride: «Son vecchio, ma non rinco- glionito». Vincenzo Gentili ha due figli nella banda; Pieretto Sac- chetti, una figlia e tre nipoti; Giancarlo Panzanelli giù di lì. Allora penso: è questa l’Italia, non quella che compare nelle cronache tv. L’Italia è un’allegra banda garibaldina di cinquanta elementi espressa da un borgo di seicento abitanti, in mezzo all’Appennino della porchetta e della terza rima. Il viaggio comincia, senza che lo sappia, quando una pifferaia mi allaccia al collo un fazzoletto verde, mi ordina «marci con noi» e mi spedisce in prima fila accanto al labaro dei «Cacciatori delle Alpi», sezione Anita Garibaldi di Perugia. Reclutato con le buone o con le cattive, in mezzo a farmacisti, operai, infermieri, studenti, inge- gneri, tassisti e avvocati. Capisco che sto per fare una cosa non su Garibaldi, ma alla garibaldina. Come viene viene, alla baionetta, e non fa niente se dopo il liceo non ho più letto di Risorgimento. Im- parerò per strada. (segue nelle pagine successive) Camicie rosse ILLUSTRAZIONE DI ALTAN Nell’Italia 2010 cosa resta dei Mille? Paolo Rumiz si è messo sulle loro tracce Per scoprire che nonostante tutto un’anima garibaldina resiste ancora Repubblica Nazionale

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DOMENICA 1 AGOSTO 2010 / NUMERO 286

DomenicaLa

di Repubblica

spettacoli

Addio Suso, signora del cinemaNELLO AJELLO, IRENE BIGNARDI e ALIX VAN BUREN

l’incontro

Glauco Mauri, ottant’anni di teatroRODOLFO DI GIAMMARCO

cultura

Match point per CaravaggioGIANNI CLERICI

i sapori

In difesa dell’avocadoLICIA GRANELLO e MASSIMO MONTANARI

la memoria

Strage di Bologna, i sopravvissutiMICHELE SMARGIASSI

PAOLO RUMIZ

PERUGIA

Garibaldi? Rifare l’Italia in camicia rossa? Fossi mat-to. Troppa retorica, celebrazioni, nefasti convegni.La gente ne ha le scatole piene. E poi, che eroe puòesistere in un Paese cinico come il mio? Questo mi

dicevo, meditando i sentieri possibili di un viaggio nel 2010. Poi èsuccesso che li ho incontrati, i garibaldini; li ho visti sbucare a Pe-rugia, dal fondo dello stradone, là dove l’Umbria si apre sulle colli-ne di Dante, il monte Subasio e il Tupino che discende «dal colleeletto del beato Ubaldo». Li ho visti venire a suon di tamburi, sul cri-nale tra i palazzi trecenteschi; un rosso plotone di belle ragazze,vecchietti e bambini, a darmi una lezione di Risorgimento in mu-sica. E ho cambiato idea.

Rivedo la scena. Chiedo loro «da dove venite» mentre riscalda-no gli strumenti accanto alla fontana vescovile, mi rispondono«Mugnano», e sfido chiunque a sapere dov’è questo paese di sei-

cento anime a Est del Trasimeno. L’età va dagli ottantadue dellagrancassa ai dodici di un tamburino, tre generazioni e mezzo incampo. Quello di ottantadue ride: «Son vecchio, ma non rinco-glionito». Vincenzo Gentili ha due figli nella banda; Pieretto Sac-chetti, una figlia e tre nipoti; Giancarlo Panzanelli giù di lì. Allorapenso: è questa l’Italia, non quella che compare nelle cronache tv.L’Italia è un’allegra banda garibaldina di cinquanta elementiespressa da un borgo di seicento abitanti, in mezzo all’Appenninodella porchetta e della terza rima.

Il viaggio comincia, senza che lo sappia, quando una pifferaia miallaccia al collo un fazzoletto verde, mi ordina «marci con noi» e mispedisce in prima fila accanto al labaro dei «Cacciatori delle Alpi»,sezione Anita Garibaldi di Perugia. Reclutato con le buone o con lecattive, in mezzo a farmacisti, operai, infermieri, studenti, inge-gneri, tassisti e avvocati. Capisco che sto per fare una cosa non suGaribaldi, ma alla garibaldina. Come viene viene, alla baionetta, enon fa niente se dopo il liceo non ho più letto di Risorgimento. Im-parerò per strada.

(segue nelle pagine successive)

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Nell’Italia 2010 cosa resta dei Mille?Paolo Rumiz si è messo sulle loro tracce

Per scoprire che nonostante tuttoun’anima garibaldina resiste ancora

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la copertinaCamicie rosse

Farmacisti, operai e studenti. Uomini e donne. Ottantennie ragazzini. Grancasse e tamburini. Marciano giùda Mugnano, a Est del Trasimeno, cantando e suonando“La bela Gigugin”. Inizia qui, in musica, il nuovo viaggiodi Paolo Rumiz. Una lunga spedizione in cerca di un’Italiache centocinquant’anni fa era ancora giovane e bella

28 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 1 AGOSTO 2010

(segue dalla copertina)

Riattaccano i tamburi e si va, con Labela Gigugin e ciò che fino a ieri mi èsembrata polverosa anticaglia si di-svela un tripudio di gioventù. Sco-pro una forza vitale inconcepibileall’Italia di oggi. Perché non sapevo

tutto questo? Cosa mi hanno insegnato a scuola? «Se per la patria mia parto domani / piangere non

vedrò la mia piccina / lei stessa metterà tra le miemani / un fiore rosso ed una carabina». È l’Italia can-tabile dell’endecasillabo, non c’è ancora il lugubretapum della Grande Guerra, la rancida tristezzadella trincea, l’impotenza del soldato nel nulla del-la steppa. Si crede ancora che l’individuo possacambiare il mondo, e i garibaldini lo cambiano, for-se per ultimi. Il Risorgimento è fatto da giovani: Ma-meli muore a vent’anni combattendo per la Re-pubblica Romana. Nievo, lo scrittore, uno dei Mil-le, sparisce in mare a ventinove, e se fosse vissutosarebbe stato meglio di Manzoni. Mazzini nellaGiovine Italia rifiuta iscritti sopra i trent’anni.

Ora si marcia di soli tamburi, tra due ali di folla.Perché non ci dicono che l’Unità si fece in musicaprima che con le armi? Quando nel gennaio 1949Giuseppe Verdi diresse al teatro Argentina di Ro-ma, città ancora papalina, la sua nuova opera Labattaglia di Legnano, e dopo il coro possente «Vi-va Italia! Sacro un patto / Tutti stringe i figli suoi»,l’eroe che aveva ucciso Barbarossa in combatti-mento morì baciando il tricolore, l’entusiasmodella folla fu tale che un soldato buttò sul palco-scenico la spada, la giacca e le spalline, insiemecon tutte le sedie del palco, e il Maestro venne chia-mato venti volte alla ribalta.

«Addio mia bella addio / l’armata se ne va / e senon partissi anch’io / sarebbe una viltà». Le cami-cie scarlatte attaccano la più gentile delle canzonidi guerra dell’Ottocento, strofe che fecero maleagli austriaci più di una battaglia perduta. A queltempo non si mostravano bicipiti e mascelle. Ba-stava cantare, anche se si era in mille contro cen-tomila, come quei matti che salparono da Quartonel maggio del 1860. Pensate se Garibaldi avessedovuto decidere l’impresa sulla base di sondaggi;non sarebbe partito mai e non avrebbe fatto la sto-ria. Gli italiani di allora sapevano combattere an-che per la libertà degli altri, andavano a morire inUngheria, Serbia, Francia, Polonia, Grecia. Lo fe-cero, con spirito garibaldino, fino alla guerra diSpagna. Oggi non combattiamo più nemmeno pernoi stessi.

Antonio mi marcia accanto. È umbro, figlio diuna terra anticlericale e antifascista, capitanod’industria, e ha capito cosa sto cercando. Sussur-ra amaro: «C’è una guerra in atto in Italia, e non ètra Nord e Sud e nemmeno tra destra e sinistra. Èuno scontro tra... gli evasori e gli onesti. Tutto il re-sto è teatro». Sento che gli trema la voce: «Siamo al-la resa dei conti. I furbi per vincere sono disposti a

tutto. Anche a spaccare il Paese». Quando entria-mo nel cortile d’onore della prefettura, prende daun leggio gli spartiti delle canzoni già eseguite, meli porge. Vuol dire: impara le parole della religionecivile costruita dai nostri padri. E tradita dai farisei.

Tra le autorità c’è un ragazzone di novant’anni,occhi da falchetto e fazzoletto al collo. È il genera-le Virgilio Ricceri, ex lagunare, ex partigiano, deca-no dei garibaldini d’Italia. Racconta il suo ingres-so a Trieste il 26 ottobre del 1954, in un oceano difolla in delirio. Dice a bassa voce: «Abbiamo anco-ra bisogno di lui». Lui chi? Ricceri mi si para davantie sorride: «Lui, Garibaldi. E chi altro sennò?». La

banda attacca La Vergine degli angeli, dalla Forzadel destino di Verdi. Di nuovo, crampi di nostalgiaper l’energia vitale di un mondo perduto.

Andiamo a pranzo sul Trasimeno in un ranchpieno di gente allegra. Focacce, salsiccia, fritturadi lago, vino rosso Greghetto, fumo di grigliate.Vincenzo Gentili, tamburo maggiore: «Nel 1990eravamo moribondi. La banda perdeva pezzi e cisiamo chiesti che fare. Avevamo una sola risorsa, inostri bambini. Ne avevamo avuto una bella infor-nata, e così abbiamo pensato di reclutarli per sal-varci, ma anche per salvare loro, che non finisseroallo sbando. La famiglia è stata la nostra forza».

Marilena Menicucci, presidente onorario: «Siamogente allegra. Quando andammo a suonare a Ca-prera, sul traghetto per la Sardegna facemmo bal-lare tutti sul ponte».

Per la notte sono ostaggio della confraternita,ho un divano letto a Mugnano, in una casa accan-to al chiostro benedettino. Una notte umida, pie-na di lucciole, scende su questa terra di foreste do-ve si canta Bella ciao e Mira il tuo popolo senza av-vertire conflitti. Marilena se ne va lasciandomi sultavolo una dorata focaccia al formaggio. Trovo unlibro del 1876, titolo I Mille, stampata in Genova,regio stabilimento Lavagnino. Carta giallina, pro-fumo buono, fotografie di tutti i partecipanti al-l’impresa. Belle facce ardenti. Accanto ai nomi, leprovenienze: Genova, Pavia, Bergamo, Ostiglia,Chioggia, Gorgonzola. La spedizione del 1860 fuun’epopea al novanta per cento padana.

Leggo alla luce di un’abat-jour arancione. «Vo-gate! Vogate pure Argonauti della libertà; là sull’e-stremo orizzonte di Ostro splende un astro che nonvi lascerà smarrire la via». E ancora: «Com’eranobelli, Italia, i tuoi Mille! Belli, belli! Coll’abito e ilcappello dello studente, colla veste più modesta delmuratore, del carpentiere, del fabbro...». C’è la po-tenza del sogno che travolge ogni calcolo, ma, die-tro, c’è anche l’amarezza per gli ideali traditi. Ga-ribaldi non è solo quello trionfante, ma quellosconfitto dagli ingrati, quello che soffre per unaplebe di «codardi, prezzolati, prostituti, semprepronti a inginocchiarsi davanti a tutte le tiranni-di».

Il campanile batte mezzanotte, e trovo nel com-puter un altro potente segnale di partenza. Unalettera dall’Argentina, la terra di mio padre. È Al-varo, un parente che non sento da anni. «QueridoPaolo, è tempo che ti penso. Ho letto che state de-molendo Garibaldi. Lo chiamate ladro, terrorista,Bin Laden. Dite che noi della Pampa gli abbiamotagliato un orecchio perché rubava cavalli, e cheper nascondere quell’amputazione si è fatto cre-scere i capelli. Sono allibito che possiate credere aballe del genere. E poi non capite che demolire uneroe significa demolire la nazione?».

Continua: «Para mi familia Garibaldi era muchomàs que un patriota italiano o un guerriero ro-mantico: era un procer de la libertad. Nella mia in-fanzia non c’era famiglia che non cantasse in ita-liano la canzone Se è vero che è morto Garibaldi,pum! Garibaldi, pum! Garibaldi, pum!. E poi ricor-do mis caminatas de la mano de mi abuelo gallegohasta la plaza Italia de Buenos Aires, dove c’era l’e-norme monumento all’eroe. Pensa: per costruirlasi fece una colletta e si raccolse il doppio del ne-cessario. All’inaugurazione nel 1904 suonaronocinquanta bande musicali. Era uno dei padri dellapatria».

«Ma voi italiani sapete che quando andò a Lon-dra, ad aspettarlo erano in cinquecentomila e lacarrozza fu schiacciata dalla folla? Sapete che inRussia c’è chi mette Garibaldi accanto all’icona diSan Nicola?». Fuori il vento agita i cipressi, Alvarocontinua: «Sai, ti ho scritto dopo i Mondiali di cal-

PAOLO RUMIZ

‘‘Il pirataIo fui chiamato per 14 anni pirata

nell’America meridionaledai giornali dell’Impero del Brasilee dai giornali di Rosas; e non valse

a farlo credere alle moltitudini;posso dunque calpestare

l’indecente calunnia e proseguirecolla fronte alta sulla via tracciata

GIUSEPPE GARIBALDI“MEMORIE”

REDAZIONE DEL 1872

‘‘La lapide“A ricordare/ il grande ideale/

di Giuseppe Garibaldi/sognanteun’Italia/libera forte cosciente/

che dalle fonti purissime del lavoro/traesse ragioni di floridezza/

e d’orgoglio/ popolo e comune/di questa Terni/ culla di animi liberi/

questa lapide/ vollero/ il 4 luglio 1907

TERNILAPIDE PROGETTATA

PER LA SALA DEL CONSIGLIO COMUNALE

L’allegra banda garibaldina

Repubblica Nazionale

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LA DOMENICA DI REPUBBLICA 29DOMENICA 1 AGOSTO 2010

IL VIAGGIO

Comincia oggi sulla Domenica di Repubblica, e proseguirà per tutto il mesedi agosto nelle pagine di R2, il viaggio di Paolo Rumiz nell’Italia garibaldina

«Per vedere come reagisce al simbolo l’Italia di oggi» in ogni tappa indosserà la camicia rossache fu di Domenico Cariolato, classe 1835, luogotenente di Garibaldi. Quindi fuggirà celebrazioni,

convegni e retoriche istituzionali per ripercorrere, da nord a sud, da est a ovestdella penisola, le tracce dell’eroe che combatté per l’unità del suo Paese

cio perché la vostra uscita dal torneo mi ha fatto ri-flettere. Credo che il difetto di allenamento nonc’entri. Di competitività ne avete anche troppa.Quello che è mancata è l’anima. Così ho pensatoche esisteva un nesso tra questa crisi e gli schizzi diveleno contro Garibaldi. Forse siete solo un Paeseche ha smesso di combattere».

Notte piena di stelle, Vega risplende sopra i bo-schi. Penso che non è normale un Paese che de-molisce il vincitore di tante battaglie e non i gene-rali che persero ignomigniosamente a Custoza.Garibaldi e non Cadorna, cui dobbiamo Caporet-to; e non D’Annunzio che di Cadorna cantò il sadi-smo mistico e le decimazioni dei fanti in trincea.

Garibaldi, e non i generali che persero ad Adua inuna sciagurata avventura coloniale.

Guardo l’ora, in Argentina è ancora giorno,scrivo ad Alvaro della mia voglia di fare un viaggiopartigiano in questa Italia che propone Mussoli-ni tra i temi della maturità e va alla restaurazionepeggio dell’Austria dopo Napoleone. Sono sicu-ro che esiste un Paese che resiste, migliore diquello che appare. Risposta: «Vai, companero,per la libertad y la victoria. Lascia perdere Calata-fimi e il Volturno, vai nell’Italia di oggi. Metti unacamicia rossa e cerca cosa è rimasto del mito. Hovisto un filmato sul capanno di Garibaldi a Ra-venna, quello dove nel 1849 egli fu salvato dalla

polizia austriaca. È un luogo forte, pieno di pre-senze. Ti lascio di lui quello che scrisse JoséMartì... me lo recitava sempre zia Enriqueta. Uncorazon existe in Europa basto y ardiente, heroi-co, generoso... De una patria como de una madrenacen los hombres... La libertad patria humanatuvo un hijo, y fuè Garibaldi!».

È fatta. Già l’indomani prendo il treno per ilNord, da Foligno a Ravenna senza cambi. Lascioche il viaggio si faccia da sé e comincerò dalla mor-te di Anita. Sedute accanto a me, due donne in car-riera che sparano parole taglienti come rasoiate.Telefonate di lavoro, computer in canna, non uncedimento all’incanto del paesaggio che scorre al

finestrino. Ripenso alle parole di Alvaro. Sì, siamocompetitivi, ma abbiamo perso i Mondiali. Cercodi capire che lavoro fanno le due in tailleur, manon riesco, il linguaggio è troppo astratto. For-mule, messaggi trasversali, cura maniacale del-l’apparenza, paura del silenzio, paura del pensie-ro disteso che nasce dall’onda delle colline.

Sento che il mio sarà un viaggio in bilico fra in-canto e disillusione, un’avventura piena di spine.Canticchio Mia bella addio a bassa voce, con un li-bro in mano. Le due mi guardano con fastidio. Chis-sà cosa accadrà quando metterò la camicia rossa.

1. continua

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la memoriaDestini incrociati

Era un sabato. Alle 10.25 una bomba esplode nella sala d’aspettodella stazione. Ottantacinque morti, duecento feritiDopo trent’anni, alcuni hanno accettato di raccontarsi e farsifotografare insieme agli oggetti legati al giorno in cui il terrorecieco sconvolse la loro vita. Il risultato è una mostraMa anche l’unico vero monumento che ricorda quella strage

30 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 1 AGOSTO 2010

BOLOGNA

Un gelato per rinfrescarsi,un panino per quel lan-guore allo stomaco. Unapasseggiatina nervosa

lungo il binario del treno in ritardo. Unascappata al gabinetto. Un salto a con-trollare il tabellone degli orari. Quant’ègrande la chance che ti concede il desti-no? Quanto è largo il confine tra la vita ela morte? Nessuno lo può sapere: è ciecocome il caso. Eppure da trent’anni, e do-mani alle 10.25 saranno trenta tondi, de-cine di uomini e donne continuano afarsi quella stessa tormentosa domandache non ha risposta, la domanda del so-pravvissuto, la domanda che nutre fero-cemente il suo inevitabile, ingiusto, in-superabile senso di colpa: perché non io?

La bomba del 2 agosto 1980 nella salad’aspetto della stazione ferroviaria diBologna fece ottantacinque morti. Mafece anche duecento feriti. I sopravvis-suti sono loro e solo loro: quelli che sta-vano né troppo vicino né troppo lonta-no dal fornello dell’esplosione. Gli altri,gli incolumi, sono semmai i testimoni: èdura anche per loro fare i conti con iltrauma del ricordo, ma quei metri, o mi-nuti, cambiano tutto. Il sito di Repubbli-

ca Bolognada settimane è sommerso dirievocazioni private di chi ricorda quelgiorno, piene di pietà civile ma anchedell’inconfessato sollievo di un «potevoesserci anch’io». Ma quei duecento c’e-rano davvero, lì, nella zona grigia di pol-vere tra condanna e salvezza, entrambeinsensate, entrambe irrazionali. ComePaolo Sacrati che andava in vacanza nel-le Marche con mamma e nonna: leschegge hanno ucciso le due donne, e luino. Inutile chiedersi il perché, impossi-bile non chiederselo.

Per questo Martino Lombezzi, il foto-grafo, ha faticato tanto a convincere al-cuni, solo alcuni, dei feriti di quel giornoa raccontarsi e a mostrarsi, e non soloperché il tempo è passato e la schiera si èridotta. Molti, anche tra quelli riunitidall’Associazione familiari delle vitti-me, non sono mai riusciti a farlo, nep-

che scendeva dall’Appennino dopo unavacanza dai nonni, con quello del poli-ziotto Tonino Braccia della Mobile diBologna che aveva un congedo di soletrentasei ore per il matrimonio della cu-gina a Roma, con quello del ferroviereRoberto Castaldo che non andava danessuna parte ma faceva andare gli altried era sul primo binario col fischietto inbocca e il braccio alzato per far partirel’Adrian Express. Il caso, di nuovo: esse-re stati lì in quel preciso momento è l’u-nica cosa che unisce i destini dei soprav-vissuti. Dopo tutte le tragedie collettive,bombardamenti, catastrofi, terremoti,è sempre in agguato la KZ Syndrome, ilcomplesso di colpa del superstite, dia-gnosticata in massa ai reduci dai lagernazisti. Però le vittime della Shoah era-no un popolo anche prima dei forni. Enegli occhi dei superstiti di Stazzema,fotografati uno per uno qualche anno fada Oliviero Toscani, brilla ancora la fle-bile fiamma di una continuità di affetti,di un ricordo di comunità a cui aggrap-pare la propria angoscia. Così pure era-no una comunità gli abitanti del Vajontprima del crollo della diga, i cittadini del-l’Aquila prima del terremoto, gli abitan-ti di Hiroshima prima della bomba.

I superstiti delle stragi terroristiche,invece, non hanno neppure quell’esilis-simo filo di continuità a cui aggrapparsiper dare un senso al loro essere stati lì.No, non è neppure il caso che accomu-na davvero i sopravvissuti del 2 agosto: èpeggio. È la volontà cieca di un progettoomicida senza vittime designate. Perfi-no i bombardamenti a tappeto prende-vano di mira un “nemico”, fosse pureinerme e civile. Ecco invece cosa hannoin comune le vittime del terrore puro: unassassino indifferente. Solo questo. Unafredda volontà di annientamento senzabersaglio è ancora più terrificante di unprogetto genocida: chi lascia che sia lasorte (un panino, un gelato...) a sceglie-

re tra sommersi e salvati non vuole am-mazzare nessuno in particolare, mavuole uccidere tutti in generale, vuolesterminare tutta quanta l’umanità. So-pravvivere a un genocidio è già tremen-do: ma sopravvivere ad Armageddon èintollerabile, perché è inconcepibile.

Forse per questo la strage della stazio-ne di Bologna non è riuscita ancora adavere un vero e proprio memoriale. C’èla breccia davanti alla conca dell’esplo-sione nella sala d’aspetto, sotto l’orolo-gio fermo da allora, ma fatica ad essereun simbolo, resta un luogo, il luogo. Cisono anche pochissimi oggetti per co-struirne uno: il taxi giallo accartocciatoche i tassisti Cotabo custodiscono reli-giosamente, l’autobus n. 37 che servì daambulanza, conservato dall’Atc, manon bastano. Il Dc9 di Ustica riposa in ungrande hangar progettato da ChristianBoltanski: le sue spoglie, e gli oggetti per-sonali dei passeggeri (non ci furono su-perstiti, lì) furono recuperati per neces-sità di indagine: non per caso quel Mu-seo della memoria ha scelto uno zocco-lo contorto come simbolo. Ma la stragedella Stazione è rimasta pericolosa-mente priva di oggetti transizionali, di“scarico a terra” del lutto, di uscite di si-curezza dall’angoscia.

Non c’è niente da fare: i veri e soli mo-numenti di quel massacro sono i corpidei sopravvissuti. I loro corpi fisici, con-creti, mortali, passati attraverso l’orda-lia della polvere e del fuoco. Sembranorendersene confusamente conto, nellepose impacciate davanti all’obiettivo,goffe eppure statuarie loro malgrado. Iosono testimonianza, mai titolo fu più ri-velatore. Anche ai sopravvissuti diGround Zero è toccato offrire i propricorpi impolverati alle fotocamere comesostituto simbolico dei cadaveri chenessuno osò mostrare. Ma è un pesotroppo grande per un essere umano. Losi può sopportare solo per poco, il tem-po di una mostra commemorativa, diuno sguardo. Poi un’altra cosa dovreb-be prendersene carico. Ma l’Italia è ilpaese dove la memoria non riesce mai adiventare Storia. Le manca quel requisi-to che si chiama coscienza condivisa.

Bologna 2 agosto1980

sopravvissutii

Corpi e voci per un massacro

LA MOSTRA

Si intitola Io sono testimonianzala mostra che apre a Bologna

dal 2 al 7 agosto (dalle 9 alle 20)in Sala Borsa

Sono esposte le immaginidi Martino Lombezzidi otto persone ferite

dallo scoppio della bombail 2 agosto 1980

La mostra è promossadall’Istituto per la resistenza

“Luciano Bergonzini”, con l’Associazione

familiari vittime della stragee Coop Ansaloni

Sopra, quel che resta di un taxirimasto sotto le macerie

e l’autobus 37 che trasportòi cadaveri all’obitorio

‘‘Sonia Zanotti, 41 anniPer venticinque anni

non ho portato nulla di mein piazza. Ho fatto

un percorso psicologicoper riuscire a non subireil 2 agosto, a non darela colpa di tutto quello

che mi capitava al 2 agostoHo capito che devo

affrontarlo

‘‘Giuseppe Soldano, 44 anniHo un rimpianto. Con mio

padre che mi tirò fuoridalle macerie non abbiamo

mai più parlatodi quel giorno. Ora

che non c’è più mi accorgoche le cose che so,

le ho lette sui giornaliOra mi piacerebbe che me

le avesse raccontate lui

‘‘Tonino Braccia, 49 anniNon accetterò mai il discorso

del tempo che passaEro un ragazzo e di colpomi sono ritrovato vecchio:non potevo fare più quelloche sognavo, volevo fare

il poliziotto e non ho potutoMi sono rassegnato

a essere vecchioa diciannove anni

MICHELE SMARGIASSI

pure con i propri familiari. Molti hannocominciato a farlo solo dopo anni di te-rapia. Alcuni hanno accettato solo ades-so, con sofferenza. Otto di loro appari-ranno in immagine sui pannelli dellamostra del trentennale, Io sono testimo-

nianza, ciascuno in forma di dittico: ilproprio ritratto e, accanto, la fotografiadi un oggetto legato al giorno che gli stra-volse la vita. Giuseppe Soldano ad esem-pio ha scelto lo skateboard di cui era unquattordicenne fanatico e che avevacon sé anche mentre andava a Meranoper un corso di canoa. «Vado a prendereun panino, resta qui con le valigie», glidisse papà. Li ritrovò entrambi, figlio eskateboard, uno accanto all’altro, pochiistanti dopo, scavando con le mani sot-to le macerie. Per Giuseppe il 3 agostonon è mai esistito: si svegliò il 4 in ospe-dale, con due costole rotte. Oggi è unrocciatore professionista. È rimasto al diqua della nebbia grigia. Eliseo Pucher, ilcuoco friulano che tornava ai fornelli diun ristorante a Salsomaggiore, ha volu-to il borsello che portava quel giorno,andavano forte i borselli in quei primis-simi anni Ottanta. Malconcio, la cernie-ra aperta, una reliquia. Per altri bastanole fotografie del subito-prima o del subi-to-dopo, come se fosse necessario esibi-re le prove della vita che c’era e che è con-tinuata. Marina Gamberini invece haposto come condizione di non essere dasola in mostra: al suo fianco i ritratti del-le sei colleghe della Cigar, il buffet dellastazione, rimaste tutte sotto le macerie,tutte tranne lei.

È un castello dei destini incrociati,questa mostra. Tutti quanti, ogni gior-no, incrociamo altri destini di cui nonsappiamo nulla, di cui non ci accorgia-mo. Ma il boato delle 10.25 li legò tutti, inun istante, con un nodo gordiano. Legòil destino di Ruggero Sarcina, che anda-va a fare il capostazione a Suzzara, conquello dell’undicenne Sonia Zanotti

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TONINO BRACCIAPoliziotto, andava a Roma in congedo. Accanto, le foto durante la convalescenza

MARINA GAMBERINILavorava nel ristorante della stazione. Accanto, i ritratti delle sei colleghe rimaste uccise

PAOLO SACRATIPartiva con la madre e la nonna. Accanto, il fascicolo sulle due donne uccise dalla bomba

GIUSEPPE SOLDANOAndava a Merano per un corso di canoa. Accanto, lo skateboard che aveva con sé

LA DOMENICA DI REPUBBLICA 31DOMENICA 1 AGOSTO 2010

ROBERTO CASTALDOFerroviere, al momento dello scoppio era sul primo binario. Accanto, il suo cappello

ELISEO PUCHERCuoco, aspettava il treno per Salsomaggiore. Accanto, il borsello che portava quel giorno

RUGGERO SARCINACapostazione di Suzzara, tornava al lavoro. Accanto, una foto che lo ritrae in servizio

SONIA ZANOTTITornava a casa a Bolzano dopo le vacanze. Accanto, in ospedale con i familiari

Repubblica Nazionale

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Roma, Via della Pallacorda, 28 maggio 1606Michelangelo Merisi sfida RanuccioTomassoni. La partita, per un dissidio

di gioco, finisce nel sangue. Per il grande artista iniziala fuga. La cronaca, documenti alla mano, di quel match fatalefatta da un cultore di uno sport tra i più antichi

CULTURA*

Ero, l’altra sera, a cena con un amicocolto e tennista, uno di quelli che an-ni addietro venivano definiti “ama-teur”. L’amico, che chiamerò Pier,possiede una notevole collezione ditele che, secondo i detrattori rappre-

sentano una sorta di investimento, secondo altri— quorum ego — una ammirevole mania. Poichéavevo perduti i giornali senza leggerli, ne cavò duedal suo zainetto, sventolandomeli sotto il naso, eaffermando, piuttosto infastidito: «Non se ne puòpiù». «Della P3, del petrolio della BP, o di Pomi-

gliano?». «Saranno argomenti noiosi ma doverosi»rispose Pier. «Quello che non reggo più è il fumet-to sul Caravaggio». «Cos’hai contro Michelange-lo?». «Io niente. L’ho sempre ammirato, credo diconoscerlo non come il Professor Longhi, o il tuoamico Bassani che ne era affascinato, ma insom-ma benino. Quello che non riesco a sopportare è iltrattamento da tabloid, la capacità di tanti giorna-listi, o peggio telegiornalisti, di tramutare una vitain un fumetto. Pare una storia alla Polanski, delquale parlano tutti quelli che non avevano mai vi-sto un suo film, ma sapevano tutto sullo stupro».«Mica vorrai paragonarli», protestai un po’ infasti-dito. «Cosa sarebbe, secondo te, il fumetto a pro-posito del Caravaggio?».

«Le circostanze della fuga da Roma, dopo unomicidio. Si sapeva benissimo che era un caratte-raccio, e che a quei tempi ci mettevano niente a ti-rar fuori la spada. E pare che tutto sia avvenuto piùo meno come raccontano, che già ci fosse rugginetra lui e il tipo con cui venne a duello».

«Ranuccio Tomassoni» interruppi. «Allora —disse Pier con un sorriso — avrai anche letto che ilduello sarebbe iniziato per una lite relativa a unpunto mal giudicato su un campo da tennis, a Ro-ma, mentre stavano giocando in quattro controquattro. Nel 1606: anzi — precisò — questo artico-lo si spinge addirittura a specificare la data, il 28

maggio. Lo avranno chiesto al polipo Paul, maogni epoca ha il Nostradamus che si merita». Ri-masi un istante perplesso. Incerto se comunicarea Pier che l’autore del lungo articolo sul Caravag-gio era informatissimo, e non aveva sbagliatoniente. Poi, sulla mia naturale cortesia, prevalse ildesiderio di verità. «Non ti infastidisci se ti dico chemi pare un bell’articolo» affermai, scorrendo qual-che capoverso. Vidi Pier più incredulo che contra-riato, e decisi di continuare. «Caro Pier — dissi —sai benissimo che ho speso una parte della mia vi-ta a occuparmi di tennis, tanto da essere ritenutoaddirittura un esperto. E forse non meno tempo afrequentare musei ed esposizioni, senza peraltroavventurarmi nel professionismo. Posso conti-nuare?».

Peraltro sorpreso, l’amico accennò di sì. «Il tut-to iniziò a Londra, alla fine degli anni Cinquanta,quando avevo il ruolo di vice del vice corrispon-

dente del Giorno, che mi aveva sorprendente-mente assunto. La redazione apriva nel pomerig-gio, e io passavo le mie mattinate al British Mu-seum, nel tentativo di migliorare il mio pidgin en-glish, la lingua degli emigranti. Da ex tennista, eamico del tennista editore Giorgio Mondadori, gliavevo proposto con totale incoscienza ed egualeignoranza di assemblare un libro sulle origini delgioco. Che, secondo le informazioni, risaliva albrevetto di un certo Maggiore Wingfield, nel 1874,mentre il torneo di Wimbledon, che anch’io avevogiocato, iniziava tre anni dopo, nel 1877. Racco-glievo dunque nella Northern Library, quella deiveri ricercatori, le notizie utili, sinché una mattina,alla richiesta di un testo, mi sentii rispondere inbuon italiano. “È lei che si interessa al tennis, Si-gnore?”.

Scoprii che il Bibliotecario, Dennis Rhodes, co-nosceva non solo l’italiano, il latino, il greco, maera un raffinato rinascimentalista. Non passò in-fatti un giorno che mi sentii chiedere: “Ma comemai lei si interessa soltanto del diciannovesimo se-colo?”. Risposi che volevo trovare testimonianzesulle origini, per vedere Mister Rodhes sorridere, eallontanarsi per ritornare dopo un paio di minutitenendo religiosamente tra le mani una cinque-centina rilegata in pergamena. “Legga il titolo” misuggerì con un sorriso. “Trattato del Giuoco della

32 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 1 AGOSTO 2010

GIANNI CLERICI

Misterioso omicidiosu un campo da tennis

DOPPIA RACCHETTAForse si tratta di un maestro, di certo è la primaimmagine esistente di un tennista bimaneSi trova nel libro Emblemata, 1576,di Ioannes SambucusAl centro della pagina il celebre ritrattodi Caravaggio, eseguito intorno al 1621da Ottavio Leoni

“...sfidaronsi, e venutiall’arme, caduto a terraRanuccio, Michelangelogli tirò d’una punta...”

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Palla” lessi incredulo. “Edito da Gabriel Giolito deFerrari in Vinegia, 1555”. “E l’autore?”. “AntonioScaino da Salò”. “Vada al suo scranno — suggerì al-lora Mr. Dennis — e ricordi che ha tra le mani unadelle dodici copie esistenti al mondo del primo li-bro sul Tennis, che allora si chiamava Giuoco diRachetta, più tardi Pallacorda, in Francia Jeux dePaume”. Andai, lessi, ritornai la mattina seguente,e altre ancora. E appresi notizie che mi avrebberoconsentito di comporre, in soli tre anni, quello chedoveva divenire il volume sul tennis più conosciu-to e tradotto nel mondo, 500 Anni di Tennis».

Pier, che aveva ascoltato con pazienza superio-re alle attese si decise a interrompermi. «Bella sto-ria. Ma cosa c’entra col Caravaggio?». «Per comin-ciare, il libro è dedicato al Duca Alfonso Secondod’Este, e la causa della sua redazione riguarda undisaccordo causato da un’interpretazione delleregole. Nel caso del Duca e di Scaino, che era nonsolo un suo compagno di gioco ma il consulenteTomista, la divergenza non poteva certo trascen-dere in lite. Ma si capisce che potesse avvenire, condi mezzo un tipo sanguigno come il Caravaggio.Posso continuare, Pier?».

All’assenso dell’amico, ripresi: «A parte le rac-chette, che già erano di legno, e cordate con cordedi budello “col garbo della citera”, le regole eranosimili a quelle odierne, il punteggio seguiva i mul-tipli di quindici. La principale differenza consiste-va nella “cacce”, il luogo in cui l’impatto di una pal-la non raggiunta da uno dei due avversari — osquadra — consentiva di segnare il punto. Termi-nato quello che oggi chiamiamo “game”, gli av-versari cambiavano infatti campo e, per non per-dere il game, si vedevano costretti ad ottenere al-trettanti punti migliorando i piazzamenti, e cioè iluoghi dei precedenti impatti avversi. Detto ciò, inmodo rozzo, basta aggiungere che gli avversari po-

LA DOMENICA DI REPUBBLICA 33DOMENICA 1 AGOSTO 2010

tevano formare squadre di due, tre, quattro com-ponenti. Disposti, per solito, due a rete e due a fon-do. Nel caso del Caravaggio, un documento ritro-vato quarant’anni dopo l’informazione del mio li-bro contenuta nel codice Barberiniano Latino6339, ci informa che “Pratticavano anch’essi in sua(del Caravaggio) compagnia huomini anch’essiper natura brigosi, ultimamente affrontatosi conRanuccio Tomassoni, per certa differenza di giuo-co di palla e corda, sfidaronsi, e venuti all’arme, ca-duto a terra Ranuccio, Michelangelo gli tirò d’unapunta, e nel pesce della coscia feritolo gli causò lamorte. Fuggirono tutti da Roma, e Michelagnoloandossene a Pellestrina, ove dipinse una s. MariaMaddalena. E d’indi a Napoli, e quivi operò moltecose. Poscia andossene a Malta…”». E mi fermo conil documento di Giovanni Baglione, pittore con-temporaneo del Caravaggio. Contentandomi diaggiungere che, secondo altri documenti, rinve-nuti soprattutto dal maggior ricercatore del ten-nis cinquesecentesco, Egizio Trombetta da Ro-ma, le ragioni della lite, al di là del dissenso di gio-co, si sarebbero potute rinvenire nella gelosia peruna cortigiana, Fillide Melandroni, forse amantedi entrambi, seducente tanto da essere immorta-lata nel poema Fillide Civettina dal Bracciolini, ein un quadro di Caravaggio, del 1600, distruttosventuratamente a Berlino nel 1945 da un bom-bardamento aereo. Sempre grazie al Trombetta,che ha identificato le piante dei campi da tennisesistenti in Vaticano, e vari Papi accaniti tennistiquali Giulio Secondo, Marcello Secondo, PaoloQuarto, il luogo della tenzone appare trovarsi neiluoghi dell’antica Via della Pallacorda, presso Pa-lazzo Firenze.

Dopo simile lunga, e, lo ammetto, noiosa elen-cazione, mi rivolsi interrogativo a Pier, che si af-frettò a domandarmi. «Piuttosto sorprendente,per un non addetto. Ma quando hanno comincia-to? Scaino scrive nel 1555, Caravaggio uccide il 28maggio del 1606. Esiste un inizio, come quello in-glese del Lawn Tennis, il 1874?».

«Sarò costretto a citare il vecchio Scriba», affer-mai, con tutta la mia falsa modestia. «Il più anticodocumento sinora rinvenuto, nella Cattedrale diBarcellona, è un bassorilievo ligneo inciso sul ro-vescio dei sedili ribaltabili del Coro. Vi si vedonodue monaci volanti, intenti a rimandarsi una pal-la con racchette di legno, prive di corde. L’opera èfirmata da tale Pere Salgada, e vi appare anche ladata, tra il 1393 e il 1399. Quel che tuttavia mi parenon meno affascinante, sono due pugnali che imonaci impugnano nella sinistra. Secondo gliesperti, simboli delle scommesse, che erano im-plicite nel gioco. Ma chissà. Dopo la vicenda delCaravaggio si può ritenere che il tennis potesse sìrappresentare un duello simbolico, ma non solo».«Pensi si possa giocare domani, senza troppi ri-schi?» credette di concludere l’amico. Sorrisi, e al-zai il bicchiere al povero Tomassoni.

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LA PRIMA VOLTAQui soprala primaimmaginedi tennisesistenteal mondoIl bassorilievoligneo si trovanella cattedraledi Barcellona,ed è datatatra il 1393e il 1399Raffigura duemonaci intentia rimandarsiuna pallacon racchettedi legno, mentrenella manosinistraimpugnanodue pugnaliIn altol’immaginedi un “singolo”,insolitamenteall’aperto,sul campodi TubingenEra lecito inviarela palla (in cartadura o cuoio)lungo il tettuccioche si vedesopra la “galleria”degli spettatori

MAPPAUna pianta della città di Roma risalenteal 1600 (Scala Archives). Nell’altra pagina,cerchiata a sinistra, l’area intornoa Via della Pallacorda, presso Palazzo Firenze,dove si presume sia avvenuta la partitatra Caravaggio e Tomassoni

“Fuggirono tutti da Roma,e Michelagnolo andossenea Pellestrina,ove dipinseuna S. Maria MaddalenaE d’indi a Napoli”

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Più di cento film da “Ladri di biciclette” a “I soliti ignoti”a “Il gattopardo”. Per registi da Visconti ad Antonioni a MonicelliCon autori da Flaiano a Zavattini a Brancati.Suso Cecchi d’Amicoè morta ieri mattina a Roma. Sapeva combattere, come fece durantela Resistenza, ed era una donna sempre allegra. Diceva: “La vita

non ha senso se non si ride almeno una volta al giorno”

SPETTACOLI

34 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 1 AGOSTO 2010

Di Suso ce n’era una sola. Tanto chequando anni fa si era trattato di ce-lebrarla a New York con una serataspeciale al Moma il titolo scelto perl’evento era stato molto semplice:“Happy Birthday Suso”. Si diceva

Suso, nel mondo del cinema, e si sapeva che si par-lava di lei, nata Giovanna e subito diventata Suso.La grande sceneggiatrice. La figlia di Emilio Cecchi,il critico letterario, e la moglie di Fedele, il criticomusicale. La madre di tre figli tutti diversamentema egualmente legati al mondo del cinema, di Sil-via, produttrice, di Caterina, ex amministratore de-legato di Raicinema, di Masolino, anglista eccel-lente e sceneggiatore. L’epicentro di un comples-so e ricco sistema familiare e culturale.

Si diceva Suso e si parlava di una grande signoradi stupenda semplicità, sempre pronta ad ascolta-re e a raccontare, senza un attimo di presunzione

— che nel suo caso sarebbe stata giustificata—,sempre con il gusto della curiosità e del racconto,capace dell’ironia che ha dispiegato in film come Isoliti ignoti o della sapienza drammatica e lettera-ria messa in campo nella sua collaborazione conLuchino Visconti. Suso, o la storia del cinema ita-liano visto attraverso la semplicissima grande da-me che ha lavorato per Visconti e De Sica, per Zam-pa e per Blasetti, per Antonioni e per Comencini,per Rosi e per Monicelli. Che per sessant’anni haaccompagnato il cinema italiano, ma non solo, conla sua simpatia, la sua intelligenza, la sua capacitàdi lavorare per passione, in gruppo, divertendosi,con Flaiano e con Zavattini, con Age e con Scarpel-li, in un gioco di creatività che si arricchiva del pia-cere di inventare cinema insieme.

Suso Cecchi era nata nel 1914, a Roma e nel fer-vido ambiente di casa Cecchi, da papà Emilio e damamma Leonetta Pieraccini, pittrice. Dopo gli stu-di allo Chateaubriand e una breve e non esaltanteesperienza ministeriale, con papà Emilio aveva

tradotto una piccola biblioteca di classici, da Tho-mas Hardy a Shakespeare. Poi, corollario naturaledell’humus familiare, era arrivato il cinema, a par-tire dalla prima sceneggiatura, mai realizzata, Ava-tar, da un racconto di Théophile Gautier, per pro-seguire con Vivere in pace e L’onorevole Angelinaper Luigi Zampa, che segnò l’inizio di una grandeamicizia con Anna Magnani. Seguirono la sceneg-giatura di Roma città libera di Pagliero, con EnnioFlaiano, quella di Ladri di biciclette e di Miracolo aMilano con Zavattini, quella di Fabiola e di Bellis-sima, con Visconti, quella di Peccato che sia una ca-naglia e di Senso. Del 1958 è il fortunatissimo ex-ploit di I soliti ignoti, scritto con Monicelli, Age eScarpelli. Del 1960, proseguendo nell’amicizia enella collaborazione con Visconti, quella di Rocco ei suoi fratelli. Poi nel 1963, quella de Il gattopardo,e via via, di Ludwig, nel 1973, di Gruppo di famigliain un interno (1974), di L’innocente, (1976). Dal1952 Suso aveva collaborato anche con Michelan-gelo Antonioni, per I vinti, La signora senza came-

IRENE BIGNARDI

ALIX VAN BUREN

Suso era fatta così: ti fissava sorri-dente dritto negli occhi, e ti af-ferrava il cuore. Ieri Suso Cecchi

d’Amico se n’è andata, alle prime lucidell’alba. Era ricoverata da un mesenella Clinica di Santa Maria del Rosa-rio. Aveva appena compiuto novanta-sei anni. I funerali saranno celebratilunedì alle undici del mattino a Roma,nella Chiesa di Santa Maria del Popo-lo. Nel suo attico a due piani affaccia-to su Villa Borghese, tutto è in ordinecome se lei dovesse tornare. Nellostudio subito all’ingresso, attorno alpianoforte Steinway dove suonavaNino Rota, le pareti tappezzate di cas-settiere in legno racchiudono una vitadi sceneggiature. Come quella deL’inchiesta: un faldone di carte mano-scritte su cui Suso ha scritto le proprieiniziali assieme a quelle di EnnioFlaiano (il risultato di «centinaia diriunioni», lei raccontava). È uno deidocumenti privati che pubblichiamoin esclusiva in queste pagine. Nel cassettone della camera da lettoci sono decenni di suoi diari, compi-lati fin quasi all’ultimo giorno, con lasua calligrafia minuta, rotonda, ordi-nata. C’è anche il taccuino del 1945:lei è agitata dalle esecuzioni somma-rie al nord, gli scontri con il Cln, e ilsuo «perenne ritardo» nel concluderela scrittura. Di fianco ai divani a pic-colo punto dove Suso scriveva con lavecchia Olivetti sulle ginocchia, i ri-tratti di famiglia scattati da FilibertoScarpelli (alcuni in queste pagine), fi-glio di Furio, maestro con Age dellacommedia all’italiana. Suso ride conJasha, uno dei suoi amatissimi cani, ilvolpino russo recuperato da un circodurante la lavorazione di Oci Ciornie,con Nikita Michalkov. Nell’altro an-golo, è con Luchino Visconti e FrancoZeffirelli a Ischia nel ’52. Tutti e tre“giovani e belli”. Sembra di sentirla,mentre lo ripeteva compiaciuta.

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Giovanna, per tutti “Suso”la grande sceneggiatrice

I DOCUMENTIA sinistra, la sceneggiaturade L’inchiesta: in alto, vi sonoriportate le iniziali di Susoinsieme a quelle di Ennio FlaianoNella pagina accanto,le pagine del diario del 1945

Repubblica Nazionale

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LA DOMENICA DI REPUBBLICA 35DOMENICA 1 AGOSTO 2010

Èmorto un personaggio, fra i piùnitidi della cultura militante

del Novecento. Ma è scomparsa, conSuso Cecchi d’Amico, qualcosa di più.

Lei era l’interprete di una “casata”straordinariamente diramata e autorevo-

le, come nell’alta borghesia del nostropaese se ne trovano poche (e non a caso fi-

niscono legate fra loro da fili di sapiente con-sanguineità). Lo dimostra un volume uscito

di recente e firmato, per la Gar-zanti, da Tullio Kezich e Alessan-dra Levantesi. Sotto il titolo Unadinastia italiana, vi si racconta lastoria dell’“arcipelago Cecchi-d’Amico tra cultura, politica e so-cietà».

Sono proprio questi ultimi i tresettori della vita nazionale neiquali Suso ha esercitato, quasisenza volere, il proprio influsso.Una donna allegra e arguta, mobi-le e inquieta, fragile — come appa-riva a incontrarla negli ultimi anni— e tuttavia imprevedibile nei ri-cordi e nei giudizi. Una persona-lità dotata d’una rara e coltivatis-sima capacità di osservazione.Non si attraversa interamente lospettacolo di un secolo — e nel di-re “spettacolo” mi riferisco a un“set” assai più ampio di quella Ci-

necittà che pure ne mise a frutto, per un tempo infini-to, l’intelligenza — senza diventarne un emblema. Ilpadre era Emilio Cecchi, grande e temibile critico let-terario, scettico per eccesso di acume. Fu suo suoceroSilvio d’Amico, critico e maestro di teatro. Ebbe comemarito Fedele d’Amico, detto Lele, figlio di Silvio, uo-mo d’impetuoso ingegno oltre che musicologo insi-gne: e parliamo soltanto della cerchia più stretta deisuoi familiari. In un ambiente dominato da figure diqualità così spiccate, è facile lasciarsene schiacciare:circostanza che, per quanto riguarda Suso, appareesclusa.

Può apparire appunto un mistero il fatto che la dina-stia di provenienza non le gravasse sulle spalle; ma a ri-fletterci, proprio per questo lei ne era il ritratto più na-turale. È come se, investendo il proprio talento nel se-colo in cui le è toccato di vivere, ne abbia scrutato — edirei quasi scortato — gli uomini e gli eventi con sorri-dente saggezza, ricavando di ognuno di loro un’imma-gine limpida, precisa. Quando all’amatissimo suo ma-rito Lele — siamo fra la caduta del fascismo e gli alboridella Resistenza — venne affidato, come prosatore pro-vetto, la stesura del programma ideologico dei comu-nisti cristiani (il cattocomunismo l’avrebbero poi chia-mato) fu Suso a batterne a macchina il testo. Quel do-cumento non l’ho mai letto, forse non è facile trovarlo,ma mi figuro quanto gioverebbe a un politico d’oggi po-ter dettare una dichiarazione d’intenti a una personacosì reattiva ed esperta del mondo nei suoi angoli piùriposti, qual è stata Suso.

Il frutto perfetto della dinastia Cecchi-d’Amico ci halasciato, ed è come se ci si invitasse a percorrere con ilpensiero un repertorio umano e civile del secolo scor-so: non solo nel mondo del cinema, che allora era tan-ta parte del costume nazionale. Di tutto questo Suso cirimane nel pensiero come un promemoria vivente.

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lie, Le amiche. Con Monicelli e la banda dei colla-boratori di sempre scriverà nel 1986 un film “epo-cale” come Speriamo che sia femmina, e vent’annipiù tardi Le rose del deserto.

Si prova una sorta di sindrome di Stendhal cine-matografica a scorrere l’elenco dei film scritti dallagrande signora. Più di cento, alti e bassi, sofisticatie popolari, nazionalpopolari e letterari, originali eclassici, fortunatissimi e meno. E resta il rimpiantodi non poter commentare questo stupefacentecorpus di cinema con una testimone del calibro edella semplicità espositiva di lei, Suso Cecchi, sem-pre disponibile ad analisi di concreta intelligenza,sempre pronta a rievocare con un punto di vistaoriginale i suoi compagni di lavoro e di vita. Resta ilrimpianto di non poter ancora una volta ripercor-rere con lei le strade che ha conosciuto attraversola professione e gli affetti, di non sentirla ricordarei grandi amici perduti, dalla Magnani a Visconti al-la Mangano, la quasi sorella che le aveva regalatoun famoso divano ricamato a piccolo punto diven-

tato negli anni il suo rifugio preferito.Il ricordo della sua simpatica voce con una sfu-

matura toscana esce dalle Storie di cinema (e d’al-tro)scritte a quattro mani (la buona abitudine al la-voro di gruppo non l’aveva persa mai) con la nipo-te Margherita d’Amico. «Il rapporto che ho avutocon loro nel passato», diceva a proposito delle per-sone scomparse, «continua inalterato, tranquillo,né faccio nulla per trovare una risposta a questomistero che mi è proposto, e dal quale traggo laconfortante persuasione che tutto ciò che è esisti-to esiste». È la serena visione del mistero di unadonna che ha avuto una vita bellissima e ricchissi-ma di cose e di affetti, eppure non sempre facile ecerto faticosa. Una «persona fondamentalmenteallegra», nella sua propria definizione, convintache la vita non ha senso se non si ride almeno unavolta al giorno. Che ci ha fatto molto ridere e moltosorridere. Che ci ha commosso. E che ci ha regala-to, con semplicità, molti momenti di felicità.

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Una dinastiatalento e nobiltà

NELLO AJELLO

RITRATTIAl centro,Suso Cecchi d’Amiconella sua casaa Romanel febbraio 1959Nelle altre foto,dall’alto, un ritrattodi lei ragazza;a Ischia nel 1952con Luchino Viscontie Franco Zeffirelli;a Cinecittà nel 1974con Burt Lancaster;insieme al cane Porto(in alto a destra):entrambicon il collare, leiper lo schiacciamentodi una vertebra,lui per non strapparsii punti dopoun interventoall’anca;infine con l’amatissimoJasha, il volpino russorecuperato durantela lavorazionedi Oci Ciornie

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i saporiGrasso è bello

Il nome deriva dall’azteco e la sua traduzioneè una chiara allusione ai suoi poteri afrodisiaciDa quando è arrivato dal Nuovo mondo nessunoha saputo rinunciare alle sue proprietà nutritivee alla sua versatilità nell’accompagnare cibi dolcio salati. D’estate, ma non solo

36 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 1 AGOSTO 2010

Il frutto più impudico, setoso,carnale. Ma anche il meno dolce,tanto da farlo sembrare una ver-dura, con libero accesso all’inte-ra declinazione del menù, dal-l’antipasto al dessert. Conside-

rando la forma e il modo in cui sta appe-so alla pianta di Persea americana, nonè difficile intuire perché gli Aztechi loavessero battezzato ahuacatl, ovverotesticoli, attribuendogli — in nomeomen — proprietà afrodisiache. Daahuacatl al castigliano aguacate, il pas-so è stato breve e lunghissimo: termineassonante, ma totalmente depurato delsuo significato originario. Una scelta dibon ton puritano che dalla cattolicissi-ma Spagna si è trasmessa a Francia(avocat), Italia e Inghilterra (avocado).

Al di là del nome censurato, la sen-sualità del frutto è rimasta immutata, al-meno quanto la fama di tentatore die-tologicamente scorretto. L’avocado, in-fatti, conta più del triplo delle caloriedella già ridondante banana. Eppure,non c’è nutrizionista che rinunci a cuorleggero al gran contributo di nutrientivirtuosi garantiti in pochi bocconi. A co-minciare dai grassi, che abbondano (fi-no al venti per cento) — all’inverso deicarboidrati (otto per cento) — renden-do l’avocado davvero unico nel panora-ma vegetale. Perché c’è grasso e grasso.In questo caso, l’alta percentuale di mo-noinsaturi — e una discreta quota di po-linsaturi (Omega 6) — lo rende in tuttosimile all’olio d’oliva. Il buon apporto divitamine (B, E) e potassio ne fanno unpiccolo gioiello anti-caldo, mentre ca-rotenoidi, tocoferolo, beta-sitosterolo,glutatione combattono il colesterolo eproteggono il cuore.

Se la benedizione della scienza è arri-vata in tempi recenti, l’uso alimentare èvecchio di secoli. A differenza di patatee pomodori, accolti con diffidenza inEuropa, l’inclusione dell’avocado è av-venuta senza traumi. Sui galeoni che lotrasportavano, infatti, era invalsa l’abi-tudine di spalmarlo sulle gallette (da cuiil nome di burro del marinaio). Un uti-lizzo temporaneo, che finiva al mo-mento dello sbarco, quando l’avocadotornava a essere cibo esotico e quindiprezioso. I suoi pregi gastronomici, co-munque, vanno ben al di là del suo sta-tus di burro vegetale. In più, essendocoltivato in tutte le aree subtropicali delpianeta, non è vincolato ai paletti dellastagionalità: da gennaio a dicembre, vialibera a insalate dolci e salate, salse, cre-me e gelati.

Le uniche precauzioni sono legate al-

FuerteArriva dal Messico,dove fu individuatoun secolo fa, unica varietà a sopravviveredurante il terribileinverno del 1913(da questo viene il nome) Le foglieprofumanodi anice,il frutto ha formaallungata,buccia sottile

HassLa sua scopertasi deve a un postinodi Los Angeles,Rudolf Hass,prontoa brevettarlaa metà degli anni TrentaOriginariodel Guatemala,ha bucciaruvida,che maturandopassa dal verdeal bruno

NabalGrande,rotondeggiante,morbido,appartiene alla famiglia degli avocadoguatemaltechiHa buccia spessa,verde scuro con sfumatureverde brillante,gusto delicatoLa polpaintornoal nocciolo è gialla

LICIA GRANELLO

EttingerArriva da Messico e Guatemala la varietàpiù coltivatain IsraeleHa maturazioneprecoce, bucciaverde e sottile,difficile da separaredalla polpa, che ha coloreverde delicatoIl nocciolo è grande, la consistenzasetosa

la conservazione. In quanto frutto cli-materico — ovvero capace di maturareanche dopo la raccolta — basta lasciarloqualche giorno fuori dal frigo (che odia)per portarlo alla consistenza ideale. Sene avete bisogno rapidamente, chiude-telo in un sacchetto di carta insieme amele, pomodori o banane, potenti pro-duttori di etilene, l’ormone della matu-razione. Una volta aperto, per evitarel’annerimento, provocato dall’enzimapolifenolossidasi, basta qualche gocciadi lime o limone, oppure una pellicolaalimentare a sigillare la superficie. Conun poco di peperoncino, una ciotola ditostaditos e un bicchere di Margarita, ar-rivare in Messico sarà questione di un at-timo.

Avocado‘‘Italo CalvinoLa pingue morbidezzadell’aguacate - diffuso sottoil nome storpiatodi avocado - accompagnatadall’asciuttezza angolosadella tortilla può averea sua volta tanti saporifacendo fintadi non averne nessuno

DA “SOTTO IL SOLE DEL GIAGUARO”

Le seduzioni proibitedel frutto-verdura

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LA DOMENICA DI REPUBBLICA 37DOMENICA 1 AGOSTO 2010

itinerariNunzio Spagnuoloè lo chef dell’AnticaTrattoria 1930,ristorante storiconel cuoredi SorrentoTra i piatti estivi

spicca la palamita scottataal sesamo, melanzanamarinata con soiae zenzero, cipolle di Tropeae avocado

Nella cittadina che vanta due super ristoranticome “Uliassi” e “Madonnina del Pescatore”,in questi giorni impazza il Summer Jamboree,dedicato alla musica americana anniQuaranta e Cinquanta. Imperdibile il tacosensaladero, con gamberi e avocado

DOVE DORMIRETERRAZZA MARCONI (con cucina)Lungomare Marconi 37Tel. 071-7927988Camera doppia da 125 euro, con colazione

DOVE MANGIARECAJUN-TEX MEX DINER Giardini RoccaTacos y guacamole da 8 euro

DOVE COMPRAREMERCATO DEL FORO ANNONARIOVia dei Portici Ercolani

La cucina di Josean Martinez Alija,chef del ristorante del Guggenheim,ormai gareggia in notorietà con le operedel museo, grazie a frutta e verdura,a partire dall’avocado, trasformate in golosecreazioni d’arte gastronomica

DOVE DORMIREHOTEL ABANDOColon de Larreàtegui 9Tel. (0034) 944-236200Camera doppia da 75 euro, con colazione

DOVE MANGIAREGUGGENHEIM RESTAURANTEAbandoibarra Etorbidea 2Tel. (0034) 944-239333Chiuso dom., lun. e mart. sera, menù da 60 euro

DOVE COMPRAREMERCADO DE LA RIBERACalle de la Ribera 20Tel. (0034) 944-157086

Agrumi e avocado nella campagna intorno alla cittadina appoggiata su una terrazza naturale a una manciata di chilometri da Catania, dove prosperano le prime coltivazione italiane biologiche dell’aguacate

DOVE DORMIREPALAZZO LEONARDICorso Savoia 241Tel. 095-891501Camera doppia da 75 euro, con colazione

DOVE MANGIAREGIARDINO DI BACCOVia Piave 3, Località San Giovanni La Punta Tel. 095-7512727Aperto la sera, chiuso lunedì, menù da 35 euro

DOVE COMPRAREOP AGRINOVA BIO 2000 Via Anzalone 12 bis/ETel. 095-877811

Senigallia Acireale Bilbao

Esotismo di massae ritorno alle origini

MASSIMO MONTANARI

Diciamo la verità: ormai non ci fa quasinessun effetto. Il frutto esotico (l’avoca-do, come tanti altri) non ci sorprende

più molto quando lo scorgiamo in mezzo aun’insalata, a guarnire una carne o un pesce, odove mai la fantasia del cuoco abbia voluto in-serirlo. A questo genere di contaminazioni, aquesti incontri fra prodotti di ogni parte delmondo che si danno appuntamento nel nostropiatto, ci siamo abituati al limite dell’ovvietà. Aquesto punto, conta solo se ci piace o no.

Quella dell’esotismo culinario è una storiaantica e illustre, ma a questo punto decisa-mente in declino, che a poco a poco ha vistovuotarsi di senso (e di emozioni) esperienzeche per secoli erano servite appunto a dare sen-so — letteralmente: significato — e a suscitareemozioni. Quando il principe rinascimentalefaceva portare in tavola cibi mai visti, che rac-contavano di paesi lontani e stupivano gli ospi-ti per l’insolito gusto, i colori e le forme strane,le inedite consistenze, il senso era stupire, cele-brando il rito del potere e della diversità: questanon è una tavola come tutte, è una tavola spe-ciale. Io sono speciale, e voi mi dovete gratitu-dine per avervi invitati qui a godere cose chefuori dalle mura di questo palazzo nessuno co-nosce, o almeno, nessuno assaggia. Così fun-zionava nel Medioevo il gusto delle spezie, ric-che di un profumo esotico che richiamava l’O-riente misterioso. Così funzionava, in età ro-mana, l’incessante ricerca dei Trimalcioni cheai loro cuochi chiedevano carni di animali in-

trovabili, condite con erbe rarissime. Così fun-zionò per secoli la cultura dell’esotismo, che fe-ce la fortuna di mercanti e navigatori. Essa col-piva il gusto, ma soprattutto l’immaginario. Ilpiacere non era tanto nelle papille gustativequanto nei sogni, nei capricci, nelle fantasieche quei cibi alimentavano. Suscitare emozio-ni, comunicare suggestioni, trasmettere valori— sia pure effimeri, dettati dalla moda o dallatracotanza del potere.

Tutto questo è venuto meno nell’epoca incui procurarsi cibi da paesi lontani è diventatoun fenomeno di massa: il mercato globale hareso accessibile a tutti ciò che un tempo eraesclusivo e raro. Di conseguenza, ciò che untempo si chiamava esotismo ha perso signifi-cato sul piano simbolico e immaginativo. Unavocado, ormai, non si nega a nessuno. L’eso-tismo — qualcosa che stupisce perché insolito,eccezionale — oggi ha cambiato maglia e sem-bra aver traslocato nel campo semantico op-posto: insolito non è procurarsi erbe, frutti, car-ni di luoghi lontani, ma semmai cercarli vicinoa casa, là dove la natura e il lavoro degli uominili fanno nascere. Riscoprire il legame fra i sapo-ri e i luoghi è la nuova frontiera dell’esotismo,che, paradossalmente, può coinvolgere anchei cibi un tempo esotici: mangiare l’avocado neiluoghi di origine (quanti di noi saprebbero pre-cisarli?) significherebbe godere non di un sem-plice sapore, ma della cultura che lo ha prodot-to e che ne ha accompagnato la storia.

GuacamolePolpa pestata nel mortaio con succo di lime e sale, mescolatacon pico de gallo, mix goloso di pomodori, peperoncino, cipolla e coriandolo. Si gusta con tortillachips – triangoli croccanti di mais –e panna acida

GamberiAbbinamento intrigante tra un fruttopochissimo zuccherino – tagliato a tocchetti o listarelle – e un crostaceo di sensualedolcezza (code sgusciate intere o a metà). Per condire, emulsionedi olio, limone, pepe e sale

InsalataMetà frutto e metà verdura, quindifacile da integrare con ananas,mango, mele verdi da una parte,pomodori, insalata, zucchinedall’altra. E poi frutta secca –mandorle, noci – carni bianche e pesce, da combinare a piacere

RipienoTagliato a metà, incidendolo per lungo, e privato del nocciolo – si fa penetrare un poco il coltello e poi si ruota – ecco a disposizionedue barchette da farcire, dopo averle spruzzate di lime per evitare l’abbrunimento

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le tendenzeMillenarie

Sandali e tuniche, ma anche pepli e triclini. E ancora: lunghibracciali, orecchini preziosi come reperti oppure collaneche sembrano catene. Tra donne-schiave e uomini-gladiatoriil gioco dell’estate 2010 è presto fatto: l’ennesimo ritornoagli splendori lascivi della Caput mundi

38 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 1 AGOSTO 2010

IRENE MARIA SCALISE

Pepli, tuniche e sandali per un rapido salto nell’an-tica Roma. Il guardaroba dell’estate vira decisa-mente sul neoclassico e contagia anche design egioielli. Un déjà vu che piace alle donne e conqui-sta gli uomini. Almeno per una stagione addio agliordinari, quanto pratici, tailleur. È il momento di

avvolgersi in lunghi veli trasparenti. Chiffon, sete e mussolevengono distribuiti a metri neanche fossero tendaggi. E senon sono proprio rapidi da indossare non conta. In fondo lamoda è bella perché è un gioco. Un esercito di Afroditi e Dia-ne si riversa su spiagge e città accaldate. In casa, invece, vuoimettere la gioia di sedersi su un triclinio... Ma se il peplo, oqualche suo discendente, sembrano troppo impegnativi ilcreativo universo del fashion offre alternative più sottili. Laprimissima è rappresentata dai sandali. Meglio noti come“sandali gladiatori”. In tempi di social network è nata persi-no una pagina di Facebook per inneggiare al mito dei prezio-si calzari. Oltre alle adesioni di numerosi feticisti del genereriporta la testimonianza di una storica della moda, AnneHollander, che della nuova mania fornisce una spiegazione:«Un laccio alla caviglia presenta il piede come una bellaschiava. La gamba stringata porta alla mente atmosfere soa-

vemente bondage evocando dolci torture, ma anche femmi-nilità di donne schiave e romantiche e in qualche modo guer-riere». I modelli più arditi (come quelli proposti da Ape Paz-za o Janet & Janet) si arrotolano come serpenti sui polpacci earrivano a sfiorare le ginocchia. Quelli più innocui avvolgonole estremità in un groviglio di cuoio, lacci e griglie sino alle ca-viglie (Nicole Brundage, Keys, Geox). Anche questi ultimi as-sicurano un’andatura sexy.

Ma c’è dell’altro nel guardaroba mutuato dall’Olimpo: cin-ture rigide come busti, bracciali spessi che ornano le bracciaoltre il gomito (John Richmond, Cavalli) e, per chi ha la fortu-na di avere i capelli della lunghezza giusta, acconciature arro-tolate sulla cima della testa. Non manca niente per sentirsi au-tentiche regine. Per le serate più fresche può tornare utile lastola, nota ai tempi antichi come sùpparum, che rivista in ver-sione contemporanea diventa più smilza. Infine i gioielli van-no completamente aggiornati: simili ad antichi reperti, me-daglie, monete antiche, le spesse collane di oro o bronzo (Ro-sato, Rebecca), regalano una luminosità tutta nuova attornoal viso. Meglio approfittare della fascinosa tendenza perchél’autunno, con i suoi ordinari paltò e stivali, è in agguato.

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GUERRIERAGladiatorein pelle darkper Janet & JanetIndicato ancheper la città

VENEREDa Cavalli bracciale

spesso e impreziositoda una pietra centrale

grande e altre più piccole

CLASSICOPer una casa che si ispira all’antico

il capitello di GuframIn realtà una morbida poltrona

PANNEGGIOMorbido abito

a stratida Les

Copains,con tunicae leggings

velatiPer renderlo

attualesi abbina

alle zeppe

Quando la moda ha voglia d’impero

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LA DOMENICA DI REPUBBLICA 39DOMENICA 1 AGOSTO 2010

DIANAAbito colore del cielo per PinkoMorbido e drappeggiato disegnale forme più femminili

CATENECollana

a forma di catenada Giovanni Raspini

Per gli abitipiù scollati

TRICLINIOUna seduta da Colombo Stile:

il triclinio in morbidovelluto e decorazioni in oro

RUSSEL CROWEUn classico dell’estate

il sandalo gladiatorecome quello proposto

da Liu Jo in pellemarrone intrecciata

ESTREMOMa anche molto sexyil sandalo di Ape Pazzache sfiora il polpaccioIn cuoio naturaleperfetto con tuniche

BRONZODecisamentechic l’abitodalle millepiegolinein pregiata setacolor bronzoe scollaturaall’americanafirmatoMax Mara

STATUASpacco

mozzafiatoper Tommy

HilfigerAbito indicato

per chi possiedeun corpostatuario

e una superabbronzatura

VINTAGEOrecchinidi Rebecca,illuminanoil visocon un toccoantico

ULTRAPIATTOSandalo da schiava

di vari colori ma rigorosamenteflat per Nero Giardini

Da Cinecittà a Hollywoodl’inesauribile guardaroba dei kolossal

MARIA PIA FUSCO

«Isandali alla schiava? Niente di nuovo,il rapporto tra moda e cinema c’èsempre stato. Le calzature all’antica

Roma si sono diffuse alla fine degli anni Qua-ranta dopo il successo del kolossal di Blaset-ti, Fabiola, con Michèle Morgan. È una mo-da che tramonta e risorge a cicli, ora ritornagrazie a film come Il gladiatore, L’ultima le-gione o Agorà», dice Lucia Mirisola, sceno-grafa e costumista, che in Scipione detto an-che l’Africano di Luigi Magni, ha inventatosandali e calzari per Mastroianni, Gassman,Isa Miranda e un’infinità di comparse. Conun piccolo problema: «Marcello aveva ilcomplesso delle gambe troppo magre, ho di-segnato i calzari come stivaletti e li ho ornatidi pelliccia per un’apparenza più robusta».

Per gli italiani l’ispirazione è facile: musei,statue, affreschi, soprattutto Pompei, offro-no un’infinità di immagini dell’abbiglia-mento di Roma antica. Ma la filologia non èmai stato un principio intoccabile. VenieroColasanti, un maestro, raccontava che perFabiola, primo kolossal del dopoguerra, ave-va ricevuto «la richiesta specifica di attualiz-zare l’antica Roma secondo la moda di ViaVeneto. Gli abiti della Morgan erano Romaimperiale ma anche vestiti da sera. Poi co-stumi, calzari e arredi furono acquistati daHollywood diventando il prototipo. Veden-do Quo vadis?ho riconosciuto i bicchieri cheavevo fatto fare a Murano per Fabiola».

La reinvenzione, dice la Mirisola, «è la stes-sa che ho fatto con Scipione e che c’è in tuttoil cinema del genere. Il Gladiatore è belloproprio perché i costumi rispettano un’ideache è più nell’immaginario che nella realtàstorica. Oggi sono tornati di moda anche i

“caligola”, o meglio i “calighi” che Caligolaindossava e da cui hanno preso il nome. So-no sandali di cuoio con strisce dello stessomateriale intrecciate in fondo alla gamba. Sene vedono in giro parecchie variazioni suipiedi maschili».

Il problema è chi li indossa. Dice EnricoLucherini, spietato osservatore del costume,che «donne e uomini si massacrano con legambe impigliate in strisce di cuoio intrec-ciate fino al ginocchio e il piede nudo. Non c’èarmonia. Meno male che la moda orrendadelle scarpe a punta è durata solo sei mesi. Erispetto al passato c’è una differenza. Oggi lamoda è imposta da veline e sciampiste, untempo erano star come Grace Kelly. Ricordoche per anni imperavano i capelli alla Lollo-brigida. Forse solo Madonna ha imposto unmodello. Ma dov’è la classe di Audrey Hep-burn nella semplicità delle sue pianelle?».

Di questi tempi l’Italia non si può permet-tere i costi di un film sull’antichità, anche se«la creatività italiana è capace di tutto», dicePaola Bonucci vicepresidente dell’associa-zione dei costumisti. Però c’è la pubblicità elei ha fatto spot sulle arance. «L’ambiente eraRoma antica, ho reinventato le immaginistoriche, la fantasia è parte del lavoro. I san-dali migliori per il cinema sono quelli fatti amano in Grecia, il materiale è sempre il cuoio,magari più raffinato che in passato. Il coloresi può contaminare con il bronzo o l’argento,in uso anche all’epoca. Il piede è un elemen-to di seduzione. Oggi l’unica star che lo esal-ta è Sharon Stone: sandali alla schiava di stu-diata semplicità. Una lezione per chi si ab-bandona agli eccessi».

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Repubblica Nazionale

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l’incontro

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Buoni

Racconto favole tuttele sere e aiuto gli altria essere più ricchiSentirsi dire “bravo”non è un complimentoSentirsi dire, invece,“Stasera mi ha smossoquella corda lì”, eccoqui c’è motivo di gioia

La sua passione era la musica, ma dopoaver capito che sul palcoscenicoperdeva pudori e complessi ha sceltoil teatro. Ora che si appresta

a compiere ottant’anni,ha finalmente una casae una famiglia (adottiva)E confessa: “Non homai conosciutol’infelicità profonda,ma i dispiaceri

non me li sono fatti mancareLa mia specialità è tenere tutto dentroPiango senza versare lacrime”

ROMA

«Glauco, per fortu-na sei sempre al-legro, mi dicetanta gente, per-

ché do l’idea di non avere preoccupazio-ni, ho un sorriso piuttosto naturale, ed’abitudine una buona parola perchiunque. Ed è vero che non ho mai co-nosciuto a fondo l’infelicità, che mi sonosempre ribellato a un primo cenno di de-pressione. Ma le cose difficili, quelle nonme le sono mai fatte mancare, e neanchei dispiaceri. Che poi fortificano, i dispia-ceri. Una mia specialità consiste nell’ar-rovellarmi dentro. Ho finito per saperebenissimo come fare i conti con un do-lore freddo che non ti fa piangere. Quan-do è morta mia madre sono stato maledentro di me per tre mesi, e poi, solo do-po, m’è venuto fuori un misto infinito ditristezza, malinconia, tormento».

A Glauco Mauri la mamma è mancatanel 1967. Ha svolto un ruolo di figura es-senziale e accentratrice degli affetti del-la sua vita, essendo morto il padre quan-do lui aveva soltanto nove mesi. «Hoavuto due fratelli maggiori, uno piùgrande di me di dieci anni, e un altro cheora non c’è più. Mia madre li aveva so-prannominati il “bello” e l’“intelligen-te”, e a me m’aveva ribattezzato il “buo-no”». La bontà, sinonimo anche di uma-nità, delicatezza e coscienziosa disposi-zione per gli altri e per il lavoro, in effettisarebbe poi stata sempre il tratto distin-tivo dell’animo di Mauri, che il primo ot-tobre compirà ottant’anni, avendo nelfrattempo accumulato decenni di mis-sione (più che solo di esibizione, di per-fezionata pratica) nel mondo del teatro.Ha dato sempre così importanza al met-tere le radici su una scena, che fino a die-ci anni fa ha esclusivamente abitato in al-

berghi. «A Roma, dove mi trattenevo dipiù, col passare del tempo poggiavo sta-bilmente armi e bagagli in un hotel tralargo Chigi e piazza San Silvestro, poi mistabilii in un albergo dalle parti del teatroQuirino, e in ultimo scelsi come domici-lio fisso l’Hotel Imperiale in Via Veneto.Solo nel 2000 mi sono trasferito in un’a-bitazione mia, in un ex convento delquartiere Monti dove al piano alto c’è lafamiglia di Roberto Sturno con cui daquasi trent’anni faccio compagnia as-sieme, e i figli suoi e di Stefania Micheli(anche lei attrice, ndr), Riccardo Vania ditredici anni e Tommaso Mirò di undicianni, sono a tutti gli effetti miei nipoti».

Prima di circondarsi di una famigliad’arte, Mauri ha avuto gelosamente consé solo casse di libri. «E dato che ho co-minciato a girare dai primi anni Cin-quanta, accumulavo così tanto che allafine mi sono anche trovato tre edizionidel Decameron, due volumi di Sotto ilvulcano, e via dicendo. Da quando sonoin questa casa mi sono riappropriato diopere che leggevo da ragazzo. E ho co-minciato a rileggere Thonio Kröger diMann, La rivoluzione teatrale di Mejer-chol’d e altri libri che m’hanno appas-sionato anche per le sottolineature e leorecchiette che facevo». Il salotto in cuiparliamo è però lineare, solido, senzascaffalature incombenti da collezioni-sta di cimeli editoriali. Mi accompagnaa vedere una stanza che è invece tutta fo-derata di pubblicazioni. Prima della cul-tura, spiega che per lui ragazzo ci furonoproblemi di sopravvivenza durante laguerra, con disagi che segnarono la for-mazione non meno della pagina stam-pata.

«A Pesaro lo sfollamento fu obbliga-torio, e ci sistemammo in ricoveri e tun-nel: con mamma s’andava a cercare unpugnetto di riso nei negozi con le saraci-nesche rotte, o ci s’arrangiava col paneinzuppato nel vino. Poi ci rifugiammo inuna casetta in un lotto popolare. Avevoper amici falegnami e scaricatori di por-to. Mia madre, che faceva l’infermiera,curava Riccardo Zandonai e mi portavacon lei, e a dodici anni io gli feci sentireun’Ave Maria composta da me. Il mioprimo sentimento è stato per la musica.Riuscivo anche ad andare a vedere la li-rica, dal loggione, e prendevo lezionigratuite di solfeggio. Più tardi mi sonoconvinto che la musica aiuta molto a re-citare». Cita quella di Beethoven, di Mo-zart, di Bach, e anche quella da cameradi Schubert.

«Dopo aver fatto da ragazzo il suggeri-tore, dopo aver debuttato a quindici an-ni, nel gennaio 1946, come protagonistade La notte del vagabondo nella filo-drammatica del Teatrino di San Nicolò

nella parrocchia di Pesaro, e aver capitoche in scena perdevo pudori e comples-si, ed essere venuto a Roma nel 1949 perfrequentare l’Accademia ai tempi di Co-sta, Tofano e della Capodaglio, il diretto-re Silvio d’Amico mi mise di fronte a unaut aut che m’avrebbe cambiato la vita.S’erano accorti che avevo una buona vo-ce da tenore, e d’Amico mi disse di sce-gliere tra una borsa di studio per la musi-ca e un futuro da teatrante. Non ci dor-mii una notte, mi sedetti sulla scalinatadi San Pietro, arrivarono le guardie e michiesero se stavo male, e il giorno dopodecisi: fare l’attore».

Il seguito fu un intreccio di occasioni.«Facevo Smerdjakov nei Fratelli Kara-mazov, e ottenni un appuntamento conla Brignone. Andai all’Excelsior di Na-poli, e a lei e a Santuccio dissi Il raccontodelle lucertole di Pirandello. M’accolse-ro con un “Sarai con noi”, aggiungendopreoccupati: “Ma hai soldi?” e mi dette-ro il corrispettivo di quaranta-cinquan-ta euro con cui mi feci subito una spa-ghettata». L’ascesa fu veloce. Ricevettefiducia anche da Memo Benassi, EnricoMaria Salerno, Renzo Ricci, Anna Pro-clemer («Capì tante cose della mia vi-

ta»), Franco Enriquez («Mi dette moltocoraggio»), Aldo Trionfo, Giorgio Streh-ler. E poi ci fu per lui lo straordinario so-dalizio con la Compagnia dei Quattro(«Lì io e Valeria Moriconi eravamo dueveri pazzi. E ogni settimana alternava-mo un repertorio di quattro testi»). Poinel 1981 nacque la più solida e la più du-ratura delle unioni artistiche, quella conRoberto Sturno. «Attraverso un legamedi stima e d’intesa che via via è stato tramaestro e ragazzo, padre e figlio, fratel-lo e fratello, e ora a dirla tutta è lui mio pa-dre. Non siamo affatto uguali, sia chia-ro. Discutiamo sempre, anche pesante-mente. All’origine io sono tenero pertemperamento, e lui nasce chiuso e ra-zionale, ma adesso è maturato un pun-to d’incontro».

Già, l’indole. Cosa potrà mai scalfirela flemma gentile e civile che è la costan-te dell’atteggiamento di Mauri verso ilprossimo? «La cosa che mi fa più incaz-zare è la cattiveria calcolata, la volgaritàmista a mediocrità. Peggio ancora se lacattiveria è messa in atto da chi calpestaun debole, commettendo un peccatoetico e sociale. E per volgarità intendoquella dei sentimenti, e di una certa sot-tocultura o incultura, qualcosa che ha ache fare col Grande fratello, con la spaz-zatura fondata su cose becere e insul-tanti. M’indigno anche per la banalità:meglio una cosa fatta o detta male, anzi-ché una cosa di livello irrimediabilmen-te banale. Mi disturba anche l’arte perl’arte: io ritengo necessaria un’arte perla vita». E se gli si chiede com’è che met-te in pratica questo principio, ribadisceun concetto d’impegno. «Io raccontofavole tutte le sere, e cerco d’aiutare glialtri a essere più ricchi. Dire o sentirsi di-re “bravo” non è un complimento, perun attore. Dire o sentirsi dire invece “Miha ricordato questo fatto, questo valo-re” oppure “Lei stasera mi ha smossoquella corda lì”, ecco, qui c’è un motivodi gioia».

Farlo parlare dei nostri giorni è por-tarlo su una riflessione che incrina la suabella ed energica voce. «La cultura è pur-troppo degenerata per responsabilitàdella classe politica che domina. C’è po-co rispetto per l’intelligenza della gente.E questo fa sì che anche gli intelligentiperdano man mano la sensibilità del-l’intelligenza. Una catastrofe». Rimedi?«Incontrare le persone è ancora e sem-pre una fonte di arricchimento indi-struttibile». Quanto vantaggio c’è nel sa-per coltivare la memoria, i ricordi? «Lasorprenderò, forse. Io non amo i ricordi.Quelli belli generano malinconia. Non èdetto che non li abbia dentro, non li “re-spiri”, ma non li coltivo ad alta voce». Ela palestra migliore, per il suo fisico? «Fa-

re camminate. Però dove non c’è moltafolla. E andare al mare o in piscina coimiei nipotini. Quanto a rughe e cicatri-ci, basta non fare in scena le stesse cosetutte le sere». Dove legge meglio? «In ca-merino, piuttosto che su una poltrona acasa».

Oltre a essere autore di adattamentida classici, lei scrive? «Da giovane scri-vevo poesie brevi per me. Quando smet-terò di fare l’attore riprenderò a crearequalcosa per iscritto. Un’idea ce l’ho:vorrei mettere assieme gli aneddoti del-la mia vita, e ogni episodio si potrebbeprestare a essere letto come una storiaulteriore». Il più bel complimento?«Louis Aragon mi s’accosta col bastone,a Parigi, dopo l’Orestea di Ronconi, e midice: “Volevo conoscerla perché final-mente sento un attore che ‘parla’ la tra-gedia”». L’emozione più grande? «Quel-la avuta per mia madre quando venneper la prima volta a Roma, a vedermi al-l’Eliseo nei Fratelli Karamazov, e in salavolò un “bravo”». L’emozione più brut-ta? «Quando da ragazzo vidi a Pesaro ungiovane partigiano portato via dai tede-schi per essere fucilato». L’emozionepiù indelebile come spettatore? «Quan-do ho visto La classe morta di Kantor».Un’emozione spirituale? «Le cito Ber-nanos. Per chi crede nessuna spiegazio-ne è necessaria. Per chi non crede nes-suna spiegazione è possibile». L’emo-zione che le trasmette l’idea della mor-te? «Non ho alcuna paura. L’unico pro-blema è l’eventuale vuoto che io possolasciare negli altri».

Per non smentire la fama di “buono”,Mauri ha in serbo anche una filastroccamaterna che spiega l’imprinting dellasua mitezza, della sua amabilità. «Miamadre mi diceva che avevo mangiato legambe a Santa Rita, la testa a San Giu-seppe, e un braccio a Sant’Antonio, e cheperciò dovevo proprio essere buono».

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RODOLFO DI GIAMMARCO

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Glauco Mauri

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