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LA STORIA DI TRIESTE Trieste è una città di oltre 208.000 abitanti e si trova in Friuli Venezia Giulia, di cui è il capoluogo regionale. Posta sulla costa friulana, nel cuore del Golfo di Trieste, la città sorge al confine con la Slovenia. Ricostruzione storica a cura di Giorgio Weiss Alcuni storici, molto semplicisticamente, attribuiscono al nome di Tergeste il significato romano di “costruita tre volte”. Secondo altri queste sono solamente delle “dicerie” in quanto il termine non è romano, bensì molto più antico. Esso deriverebbe da terg, termine tratto da un antica lingua indoeuropea, o forse dialetto, che aveva il significato di mercato e dal suffisso este, tratto dal linguaggio dei Veneti, che voleva dire città. Sarebbe prova di questo suffisso il nome di alcune città, quali Ateste e Segeste, fondate dagli antichi Veneti tanti secoli prima. Per quantificare l‟epoca bisogna pensare che ciò avvenne prima che i Romani, scendendo dai loro colli, si espandessero nella pianura sottostante dove, dopo aver bonificato le paludi, eressero quella che è oggi chiamata la “città eterna”. Secondo questa interpretazione il nome della città di Tergeste significherebbe luogo di mercato o meglio ancora città-mercato. Sono riuscito ad identificare ancora una versione, che io ritengo leggendaria e poco probabile, in cui il nome di Tergeste deriverebbe dal nome di un guerriero, tale Tergesto o Tergesteo, che seguendo Antenore o Diomede e il popolo dei Veneti, una volta caduta Troia, si fosse fermato in questi luoghi da lui ritenuti splendidi, fondando una città a cui sarebbe stato dato il suo nome. Io sono propenso che la seconda versione, quella di città-mercato, sia la più realistica, però mi assale il dubbio che, se anche la terza versione sembri leggendaria, potrebbe avere qualche fondamento di verità. Bisogna pensare

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LA STORIA DI TRIESTE

Trieste è una città di oltre 208.000 abitanti e si trova in Friuli Venezia Giulia, di

cui è il capoluogo regionale. Posta sulla costa

friulana, nel cuore del Golfo di Trieste, la città

sorge al confine con la Slovenia.

Ricostruzione storica a cura di Giorgio Weiss

Alcuni storici, molto semplicisticamente,

attribuiscono al nome di Tergeste il significato

romano di “costruita tre volte”. Secondo altri

queste sono solamente delle “dicerie” in quanto il

termine non è romano, bensì molto più antico.

Esso deriverebbe da terg, termine tratto da un

antica lingua indoeuropea, o forse dialetto, che

aveva il significato di mercato e dal suffisso este,

tratto dal linguaggio dei Veneti, che voleva dire città.

Sarebbe prova di questo suffisso il nome di alcune città,

quali Ateste e Segeste, fondate dagli antichi Veneti tanti secoli

prima. Per quantificare l‟epoca bisogna pensare che ciò avvenne prima che i

Romani, scendendo dai loro colli, si espandessero nella pianura sottostante

dove, dopo aver bonificato le paludi, eressero quella che è oggi chiamata la

“città eterna”.

Secondo questa interpretazione il nome della città di Tergeste significherebbe

luogo di mercato o meglio ancora città-mercato.

Sono riuscito ad identificare ancora una versione, che io ritengo leggendaria e

poco probabile, in cui il nome di Tergeste deriverebbe dal nome di un

guerriero, tale Tergesto o Tergesteo, che seguendo Antenore o Diomede e il

popolo dei Veneti, una volta caduta Troia, si fosse fermato in questi luoghi da

lui ritenuti splendidi, fondando una città a cui sarebbe stato dato il suo nome.

Io sono propenso che la seconda versione, quella di città-mercato, sia la più

realistica, però mi assale il dubbio che, se anche la terza versione sembri

leggendaria, potrebbe avere qualche fondamento di verità. Bisogna pensare

che ad un certo momento, le popolazioni indoeuropee cominciarono ad

espandersi e dilagare, diffondendosi in tutta l‟Europa, ma soprattutto nel

bacino del Mediterraneo. Uno di questi gruppi, sicuramente, giunse in queste

regioni. Chi li guidava non sarà stato il leggendario Tergeste o, comunque, un

altrettanto aitante condottiero, con spalle robuste, alto e biondo che era a capo

di questa tribù di Veneti?? E qui la storia vera si mescola con la leggenda,

tanto da disorientare un poco. Proseguiamo nell‟ analisi tenendo in sospeso

questa decisione sulle origini del nome di Trieste.

Siamo agli inizi dell‟età del ferro, circa mille anni prima della nascita di Cristo.

Da questo momento cominciamo ad avere i primi dati certi dell‟insediamento

umano nei nostri territori. I gruppi di persone, le tribù dei popoli che

confluirono nella nostra zona, si attestarono sulla cima delle colline che

circondano il golfo, costruendo villaggi e recintandoli con dei grossi e poderosi

muri in pietra, a secco, cioè appoggiando e adattando le pietre una sull‟altra

senza l‟uso della malta. Nacquero così quelle costruzioni che noi oggi

chiamiamo castellieri. Il più ben conservato e grande castelliere che è stato

ritrovato nella nostra regione è quello di Slivia, altri vennero portati alla luce in

diverse zone del Carso. Sicuramente altri castellieri furono eretti anche sui colli

più vicini alla costa ed essendo questi più prossimi al livello del mare erano

pertanto climaticamente più confortevoli.

Dati i successivi e più recenti insediamenti, gran parte di questi castellieri

scomparve. Comunque furono ritrovate rare, ma sicure testimonianze sul colle

di San Vito ed esse fanno pensare che anche i colli di San Giusto, Servola, San

Pantaleone, Scorcola, ecc. abbiano avuto il loro castelliere. Il colle di San

Giusto, in modo particolare, essendo il più vicino al mare, è il più probabile

insediamento di qualche gruppo indoeuropeo. Resti in zona non ne sono stati

trovati ma ciò, sicuramente, è dovuto al fatto che già all‟epoca romana la cima

del colle fu livellata per permettere la costruzione di templi e basiliche

eliminando ogni traccia precedente. L‟attuale via San Michele, quasi

sicuramente, si snoda su di una strada aperta dalle genti preistoriche, che la

usavano per scendere dai villaggi e raggiungere il mare, dove avrebbero

trovato dei navigli provenienti dall‟ Oriente o dal Mediterraneo per poter

barattare le loro mercanzie con i prodotti locali. E‟ probabile pure che, dalle

zone baltiche, giungessero delle carovane di mercanti al punto di mare più

vicino dove poter vendere l‟ambra, prodotta in gran quantità nelle loro regioni,

ai mercanti dell‟Oriente che ne facevano grande richiesta.

Tutte queste sono congetture, supposizioni,

ipotesi, teorie e non certezze documentate;

infatti i primi scritti che provino l‟esistenza di

Tergeste risalgono al primo secolo avanti

Cristo.Risulta infatti che Roma, avendo

consolidato il suo potere e dominio sulla

penisola e in gran parte del Mediterraneo,

decise di espandersi verso nord onde

rafforzare le difese per arginare le calate dei

barbari che, periodicamente, valicando le

Alpi, cercavano sbocchi in territori più fertili

e temperati. Partendo dal presupposto, come

detto, che qui, esistesse un piccolo villaggio

veneto, più ad est nella penisola istriana, certamente, erano insediati gli Istri

che erano degli abilissimi marinai e quindi pirati, nonché dei formidabili

guerrieri.

Ad ovest, poco distante dalle nostre terre, sorse Aquileia fondata, si presume,

nel 183 avanti Cristo, che fu una città e un porto di grossa importanza per i

Romani. Come dicevamo, essendo gli Istri dediti anche alla pirateria,

continuamente attaccavano le navi romane, che andavano e venivano dal porto

di Aquileia. I traffici erano in costante aumento e specialmente da questo porto

partivano navi cariche, tra l‟altro, di anfore vinarie contenenti il famosissimo

vino “Pucinum”, i cui vigneti si estendevano sul fianco del ciglione carsico che

va da Sistiana a Prosecco. Fu considerato un vino terapeutico e tanto caro, poi,

all‟imperatrice Livia, moglie dell‟imperatore Augusto. Al contrario, provenienti

da Roma, giungevano merci di tutti i generi, necessarie ai legionari che ivi

risiedevano.

Fu in quel periodo che, via terra, i Romani si spinsero

e si insediarono, cacciando i Veneti, in queste nostre

terre e precisamente dal colle di San Giusto fino al

mare. Tra il 178 e il 177 avanti Cristo, tale Console Manlio Vulsone partì da

Aquileia con le sue legioni per portare guerra e distruzione in Istria e punire

così gli Istri per le loro azioni di pirateria e dissuaderli da future incursioni. La

spedizione punitiva si stava per trasformare in una disfatta, sta di fatto che la

prima battaglia contro gli Istri fu quasi perduta.

Dove si svolse la prima battaglia non è del tutto stabilito, ma sembrerebbe che

le località più probabili fossero Sistiana o la piana di Bagnoli o forse anche

quella di Zaule; alcuni studiosi identificano la zona nella gola Cattinara-

Montebello, ma ciò, strategicamente, è poco probabile. Qualche notizia su

questa battaglia si può trovare in uno scritto dello storico romano Tito Livio, il

quale narra che l‟esercito romano, comandato appunto da Manlio Vulsone, era

formato da due legioni, una coorte di Piacentini e più di tremila Carni. Lungo la

costa era affiancata da una non meglio definita flotta che trasportava i viveri,

le probabili armi e macchine belliche. La flotta si ancorò, quasi sicuramente o

al largo della vallata di Zaule o nel golfo di Muggia ed è perciò che il luogo più

probabile dell‟accampamento fosse la piana di Zaule. Anche qui solo congetture

in quanto reperti archeologici non furono mai stati ritrovati. Da quanto è stato

modo di capire dagli scritti di Tito Livio, si presume che da quell‟accampamento

una legione si fosse allontanata per far provvista di legna, probabilmente di

acqua e fieno per i cavalli. La coorte si accampò in una zona intermedia tra la

flotta ed il campo base. I Romani non potevano sapere che un numeroso

esercito di Istri fosse nelle vicinanze e, probabilmente nascosto in qualche

castelliere, aspettava il momento migliore per attaccare.

Gi Istri, al comando di un certo re Epulo,

piombarono a sorpresa

sull'accampamento, devastandolo, nel

momento in cui i legionari meno se

l‟aspettavano. I legionari romani, colti di

sorpresa, fuggirono disordinatamente per

raggiungere le navi e mettersi in salvo. A

sua volta le navi, vista la mala parata,

salparono le ancore per allontanarsi dal pericolo. Sembrava tutto finito, ma il

genio bellico romano e l‟inesperienza degli Istri volsero le sorti di quella che

sembrava una battaglia persa. Infatti gli Istri non inseguirono i Romani in fuga

e si diedero, al contrario, ad azioni di saccheggio dell'accampamento

abbandonandosi a laute libagioni con il pregevole vino dei Romani e

rimpinzandosi di cibi trovati in abbondanza. Il Console Manlio Vulsone riuscì a

rincuorare i suoi soldati e riunirli alla legione, che ignara dell‟ accaduto, stava

ritornando con la legna, il fieno e l‟acqua.

Chiamò in rinforzo i tremila Carni che erano accampati a cinquemila passi di

distanza corrispondenti a circa sette chilometri e mezzo.

Gli Istri, convinti di aver messo in fuga i Romani, dopo aver mangiato e bevuto

a sazietà, si addormentarono all‟interno dell‟accampamento conquistato.

L‟attacco romano fu portato tanto di sorpresa che colse gli Istri impreparati e,

sembra che oltre ottomila di essi rimasero uccisi. Gli altri si dispersero

fuggendo nel territorio. La stagione era avanzata e, dopo questa vittoria, il

Console stabilì di rientrare per svernare ad Aquileia. Decise, comunque, di

lasciare un presidio nella zona formata da una o due coorti e probabilmente i

tremila Carni più abituati al rigore dell‟inverno. Potrebbe essere che questo

presidio si fosse installato proprio sul colle di San Giusto facendo nascere così

la Tergeste romana, o comunque su di un colle, ma vicino al mare, dove,

eventualmente, le navi romane avrebbero potuto portare aiuto

e, lontano dai colli carsici dove, nei castellieri, potevano annidarsi dei gruppi di

Istri.

L‟anno dopo, passato l‟inverno, il Console Vulsone ritornò in forze ed invase

l‟Istria intera distruggendo tutti i castellieri che si opponevano alla sua

avanzata fino a giungere a quell‟enorme

castelliere che era la roccaforte di re

Epulo. Il castelliere sorgeva a Nasezio,

una località in prossimità dell‟attuale

Pola. Esso fu cinto d‟assedio dai Romani,

che fecero di tutto per conquistarlo

deviando, persino, il corso del fiume che

lo approvvigionava d‟acqua fresca. Visto

che era vano resistere, gli Istri prima

uccisero le loro donne e i loro bambini,

poi in molti, re Epulo compreso, si

tolsero la vita per non cadere prigionieri

dei Romani. Finì così la potenza degli

Istri, pirati, predoni e grandi guerrieri.

A questo, seguì un periodo alquanto

movimentato per la piccola colonia romana. Il grosso delle truppe se ne ritornò

ad Aquileia, mentre nel 166 a.C. i Carni si ribellarono e così pure nel 129 a.C. i

Giapidi, abitanti della zona del Monte Nevoso. Il confine stava diventando poco

tranquillo ed è per questo che, quasi sicuramente, Tergeste si trasformò in una

colonia militare romana. Nel 53 a.C. i Giapidi scesero nuovamente su Tergeste

e la saccheggiarono. Fu allora che Giulio Cesare inviò in questa zona le sue

legioni per fermare le invasioni. Fu necessario arrivare al 34 a.C. perché

Ottaviano Augusto debellasse definitivamente i Carni, i Giapidi ed altre

popolazioni montane, portando la pace in questa zona di frontiera.

Nel 30 a.C. Tergeste divenne territorio di Roma, che una volta finiva al

Rubicone ed ora arrivava al Formione, l‟attuale Risano, ed infine al fiume Arsa.

Fu così che l‟Istria intera, Tergeste insieme a Venezia ed Aquileia, formarono la

decima regione di quello che era l‟ordinamento dello stato romano. Tergeste

assurse a sempre maggiori onori in seno all‟ordinamento romano in quanto era

sede di un municipio romano retto da due alti magistrati, ebbe due senatori ed

il consiglio dei decurioni, che era un gruppo di cento cittadini scelto con voto

popolare. I cittadini, obbligati al servizio militare vennero assegnati alla XV

legione detta Apollinare.

Il municipio di Tergeste estendeva la sua influenza ed il suo potere ai Carni ed

ai Catali. La città si espanse talmente che fu necessario abbattere le mura

esistenti, tant‟è che la zona era ormai pacifica. Si pensa che, pur mantenendo

la forma “a scacchiera” tipica degli insediamenti romani, la città si estendesse

giù per il colle fino al mare. Delle mura romane abbattute, attualmente rimane

solamente un piccolissimo accenno nelle vicinanze dell‟Arco di Riccardo. La

parola “Arco di Riccardo”, nome coniato dal popolino, farebbe pensare ad un

arco di trionfo, come tanti ce ne sono a Roma, invece altro non è che una porta

della città lasciata lì per abbellire la zona. La prova che trattasi di una porta e

non di un arco è data appunto dagli scavi eseguiti, tempo fa, dagli archeologi

che trovarono sotto di essa la parte del muro di cinta rimasto. Tergeste, tanto

si era espansa ed aveva assunto un ruolo importante nell‟ordinamento romano,

che si sentì la necessità di approvvigionare direttamente d‟acqua la città, ed è

così che fu costruita quell‟ opera grandiosa che era l‟acquedotto. Esso partiva

dalla Val Rosandra, dove ancora oggi ci sono ben

visibili i resti, per giungere, attraversando la piana di Zaule, fino alla città.

Dobbiamo arrivare agli inizi del primo secolo dopo Cristo per avere altre

testimonianze romane in Tergeste. Bisogna pensare che, in quell‟epoca, la vita

era breve ed il tempo passava monotono e che per creare cose imponenti ci

volevano parecchi

decenni se non

proprio secoli.

Il cuore e la vita

dell‟insediamento

romano era il colle di

San Giusto dove

abbiamo le maggiori

testimonianze.

L‟attuale Cattedrale

fu eretta sopra i resti

del tempio capitolino.

Si stima che il tempio fosse lungo oltre venti metri e largo quasi diciotto. Due

avancorpi laterali formavano i pronai sorretti rispettivamente da quattro

colonne ciascuno. Ne è testimonianza più certa la nicchia scavata sotto la torre

campanaria dove si possono notare i fusti anneriti delle colonne. Ad esso, che

era il maggior tempio della città, si accedeva dall‟attuale via della Cattedrale

che è di sicura epoca romana. Si pensa che il tempio fosse dedicato alla triade

capitolina, cioè Giove, Minerva e Giunone.

Bisogna arrivare agli inizi del secondo secolo dopo Cristo per vedere un‟altra

imponente opera e cioè la basilica forense che fu eretta sullo spiazzo di San

Giusto. Di essa rimangono parte delle colonne che formavano l‟edificio,

anch‟esse ricostruite dalla Sovraintendenza, dove la parte in pietra è originale

dell‟epoca, mentre i mattoni sono stati aggiunti per ridare la rotondità ed il

diametro delle colonne stesse. Bisogna tener presente che a differenza del

“tempio” capitolino, che era un luogo di culto, la “basilica” forense era un luogo

pubblico dove veniva amministrata la giustizia e serviva a tenere riunioni,

anche pubbliche. La basilica era molto grande infatti, guardando i resti, si può

calcolare che essa avesse almeno una lunghezza di ottantotto metri ed una

larghezza di ventiquattro. Si può notare la scala d‟accesso alla basilica e la

“vasca” il cui contorno è visibilissimo a terra e

dove, probabilmente, sedevano i giudici. Sul perimetro si può notare un

canale, il quale certamente raccoglieva l‟acqua piovana, che veniva scaricata

dalle gronde della basilica e poi convogliata in un grande pozzo, ora non

visibile perché coperto dal manto stradale.

Da questa imponente opera si presume che in quell‟epoca la città di Tergeste

avesse assunto un importante ruolo nell‟amministrazione romana. Infatti fu un

grosso nodo di comunicazione, anche perché l‟importantissima città di Aquileia

commerciava intensamente con l‟Europa centrale ed orientale. Dato che il

nome di Quintus Baienus Blassianus è stato rilevato

su parecchie lapidi rinvenute tra i resti della basilica,

si ipotizza che lo stesso fosse o il costruttore o un

cittadino benemerito o più semplicemente una

persona che avesse ricoperto importanti cariche civili

o militari e quindi degno di essere ricordato ai

posteri. Altra testimonianza, datata tra il primo e il

secondo secolo dopo Cristo, è il bellissimo teatro

romano, probabilmente fatto erigere dal famoso ed

insigne cittadino di Tergeste, che fu Quinto Petronio

Modesto, e del quale teatro oggi è ben conservata la

parte interna, manca infatti la facciata, che era adorna di numerosissime

statue, come dimostrano i numerosi frammenti architettonici e i gruppi di

statue che furono rinvenuti. Il teatro romano sarebbe stato il più bel

monumento romano che avremmo potuto avere se, nel Medioevo, come è

successo un po‟ dappertutto, ma specialmente a Roma, i signorotti ed i prelati

di allora non avessero saccheggiato le parti migliori dei templi pagani per

erigere chiese, palazzi e castelli. Più che un teatro esso era considerato

un‟Arena, anche se non aveva la classica forma ellittica, in quanto venivano

proposti anche spettacoli con i gladiatori. Del resto il nome del rione oggi

conosciuto come “Rena Vecia” deriva appunto da Arena Vecchia o vecchio

teatro che vogliasi dire.

Era il periodo “aureo” della Tergeste di allora, lo dimostrano i numerosi

tempietti, che furono eretti. Ad esempio quello dedicato alla dea delle messi,

Cibele, i cui pochi resti sono stati rinvenuti presso l‟arco di Riccardo; quello in

onore di Bona Dea ritrovato scavando le fondazioni della Riunione Adriatica di

Sicurtà sul lato della via S.Caterina oppure quello dedicato al dio Beleno nei

pressi della via Bramante. Data l‟importanza che aveva assunto Tergeste,

anch‟essa avrà avuto il suo Foro, situato probabilmente sempre sul colle di San

Giusto, ma non avendone ritrovati i resti, nemmeno sotto la Cattedrale, si

presume che potesse trovarsi, da qualche parte, sotto l‟attuale castello. Fu

ritrovata solamente una grande base sulla quale era eretta una statua equestre

in bronzo aureo del più insigne dei Tergestini,

Fabio Severo. Probabilmente, la statua fu predata

dai barbari che la credevano d‟oro o per essere

fusa onde poter forgiare nuove armi. Sul

basamento rinvenuto c‟è inciso il più antico

documento tergestino che magnifica i meriti di

questo personaggio. Egli fu dapprima un

magistrato a Tergete e poi senatore a Roma

durante l‟impero di Antonino Pio. In seguito si

adoperò sempre per rendere grande Roma

capitale e la sua città natale. I nobili, i ricchi

mercanti, nonché i notabili della città fecero

costruire delle splendide ville con pavimenti in

mosaico, fontane e giardini a Barcola a Sistiana e

Santa Croce, mentre sui colli soprastanti sorsero ville agricole e molte fattorie.

I commerci nel porto fiorivano tanto che si pensa a parecchi piccoli porticcioli

disseminati lungo la costa: uno lungo la riva Grumula, uno a Barcola – il cui

nome latino era Vallicula che significa appunto porticciolo, e quello principale

alle spalle dell‟attuale piazza dell‟Unità d‟Italia. Ciò a dimostrare appunto che il

teatro romano si affacciava sul mare. La romana Tergeste doveva essere,

certamente, una gran bella, ricca e fiorente città e visse a lungo un periodo

felice di pace, serenità e prosperità. Purtroppo le cose belle sono destinate a

finire, infatti Trieste dovette subire, ad ondate successive, invasioni di barbari

di ogni genere finché nel 568 i Longobardi la rasero completamente al suolo e

tutti gli abitanti, che non riuscirono a mettersi in salvo, vennero trucidati. Nel

571, i Triestini superstiti, portando con sé, gelosamente, le reliquie dei santi e

le poche e povere cose che erano riusciti a salvare, faticosamente,

ricostruirono le loro case cinte con nuove mura di difesa. Ma la pace era finita e

per molti secoli i Triestini dovettero solamente combattere.

Nel periodo romano anche a Tergeste, come nel resto dell‟impero, sorsero le

prime comunità cristiane e pertanto anche qui ci furono le persecuzioni ed i

martiri. Una delle più significative testimonianze fu casualmente scoperta nel

1963 durante l‟esecuzione dei lavori in una scuola e scavando il manto stradale

davanti ad essa, in via Madonna del Mare. Nel sottosuolo viene conservata

l‟antica basilica della Madonna del Mare, che non

ha niente a che vedere con la moderna chiesa

in piazzale Rosmini. Si trova in uno spazio

angusto, anche perché per ripristinare la

strada soprastante si è dovuto fare una copertura

in cemento armato poggiante su grosse

travature portanti. Questa basilica aveva una

pianta a forma di croce. Per quanto è dato sapere,

potrebbe essere la prima chiesa di Trieste. Poter

stabilire l‟epoca della prima costruzione è

quasi impossibile. Si può notare un mosaico ricco di

motivi ornamentali, decorativi e ricchi di colori,

che però sovrasta uno più modesto,

formato da tessere bianche e nere. E‟ quasi certo che, per abbellire la chiesa,

fu posto sopra l‟originale pavimento uno più ricco e decorativo e che si può far

risalire al quinto o sesto secolo. Si può supporre che il pavimento sottostante

sia stato costruito per erigere un tempio in conseguenza della liberalizzazione

del culto cristiano decretato da Costantino nel 313. Potrebbe, ma non se ne è

sicuri, che la prima chiesa sia stata eretta sopra, allargandolo, un sacello

cristiano, magari risalente al duecento, dove erano sepolti i martiri cristiani. Di

martiri cristiani Tergeste ne ha avuti molti. Di quelli di cui si hanno notizie, i

primi risalgono all‟epoca dell‟imperatore Antonino Pio, tra gli anni 140 e 150 e

sono Giacinto, Marco, Galliano e Giasone seguiti, pochi anni dopo, da Lazzaro e

Apollinare. Il secolo seguente, sotto l‟imperatore Valeriano, furono martirizzati

Zenone e Giustina ed alla fine del secolo abbiamo i santi più famosi, che sono

San Servolo, San Sergio ed infine San Giusto, giustiziato nel 303. Tanti altri,

meno noti, furono sepolti in questo sacello. La vicina via Santi Martiri è la

testimonianza del ritrovamento dei resti di questi santi nella basilica

paleocristiana della Madonna del Mare.

Chiusa questa parentesi, eravamo rimasti all‟anno 568 e all‟invasione dei

Longobardi ed all‟inizio del periodo più buio e più difficile da capire per la città

di Trieste. Mancano notizie riferenti a questo periodo e non ci sono

testimonianze scritte dirette anche a causa dei saccheggi e delle distruzioni che

avvenivano ad ogni passata barbarica. Si sa che i Bizantini liberarono questa

regione annettendola al loro impero, però successive invasioni barbariche tra le

quali, per la prima volta, quella di torme di Slavi agli inizi del settimo secolo,

fecero ripiombare la regione in uno stato di prostrazione. I Bizantini, nel

frattempo, avevano fondato l‟esarcato di Ravenna, che avrebbe avuto la

giurisdizione sulla regione veneta e sull‟Istria, che divennero “province militari”

create sulla falsariga delle “province di frontiera” dei Romani. Ogni uomo di

Trieste e del territorio doveva essere pronto a difendere e vigilare le frontiere

orientali, lungo le Alpi Giulie, dai Germani e dagli Slavi e lungo l‟Isonzo dai

Longobardi, che avevano Cividale come capitale. Con questo consolidamento,

per centocinquanta anni, Trieste non subì invasioni di sorta e poté, grazie al

porto, sviluppare traffici con l‟oriente smerciando il sale, prodotto nelle

numerose saline, e i suoi pregiati vini. Nel 752 i Longobardi, oramai civilizzati,

rovesciarono l‟esarcato bizantino di Ravenna, impadronendosi pure dell‟Istria.

Ai Bizantini rimase solamente la costa veneta con l‟isola di Grado. Nel

frattempo i Carolingi stavano sviluppando il Regno d‟Italia e, liberando il

Veneto dai Longobardi, lo annessero al regno della Chiesa. Fu il periodo delle

guerre religiose tra Sacro Romano Impero e quello orientale dei Bizantini e con

alterne vicende i territori passarono da un blocco all‟altro finché non nacque

quella grande potenza, che fu Venezia e che dominò per quasi mille anni.

Trieste, al di fuori di queste vicende, rimase

un feudo carolingio di stampo tedesco, agli

ordini del duca Giovanni, che impose nuove

tasse, servizi obbligatori, la leva militare ed

infine chiamò in Istria gruppi di Slavi ai

quali donò terre e pascoli appartenenti agli

Istriani. Quest‟ultimo episodio ricorda

fatti, a noi, più recenti e tristemente noti.

Nell‟ottocentoquattro gli Istriani si appellarono all‟imperatore Carlo Magno, che

nella piana del Risano convocò un‟assemblea cui parteciparono tutti i comuni

istriani e così pure Trieste, nella quale fu deciso che il duca Giovanni ridesse i

privilegi tolti ai comuni. Ecco che, pur facendo parte del regno dei Carolingi, i

comuni e così pure Trieste, si amministrarono da soli. La flotta del Ducato di

Venezia, in Adriatico, arginò le scorrerie di Saraceni e Slavi delineando così la

sua potenza sul mare riconosciuta anche dai comuni istriani che vissero una

sorta di vassallaggio relativamente ai traffici marittimi. Le cose si stavano

mettendo male, perché il Regno d‟Italia non aveva più né la capacità né la

forza di difendere i confini. Trieste e le città istriane furono praticamente

abbandonate e dovettero difendersi da sole quando, tra la fine dell‟800 e gli

inizi del 900, ci furono le invasioni di Ungari e Slavi. Con l‟aiuto dei vescovi,

che nel frattempo avevano ottenuto maggiori poteri, resistettero a quella

bufera. Trieste non fu mai vassalla a nessuno, però dovette versare i tributi e

le tasse non più al re, ma al Vescovo Giovanni e ai suoi successori, in quanto lo

stesso re aveva ceduto tutti i suoi diritti sulla città. Un balzello annuo doveva

infine essere versato pure a Venezia per riconoscere la sua supremazia sul

mare. In realtà Trieste, pur essendo un libero comune e governandosi con i

suoi magistrati, doveva pagare tasse a Venezia ed al Vescovo riconoscendo

così l‟autorità del

Sacro Romano Impero.

Siamo arrivati appena

intorno all‟anno mille e

già quante cose sono

successe in questa

nostra terra. Ho

dovuto rintracciare

notizie su vari libri,

testi, volumi e

manuali, talvolta

discordanti tra loro per

le personali

interpretazione date dagli autori. Anch‟io, evidentemente, ho dovuto scegliere,

ragionare e dare quella interpretazioni che ho ritenuto più possibile aderente

alla realtà. Adesso passiamo al millennio seguente, altri libri, altre notizie da

vagliare, altre fatiche. Non avrei mai pensato che queste “fatiche” potessero

essere così piacevoli, perché scopro notizie e nozioni che, per uno storico

possono sembrare ovvie, ma per me sono cose nuove e inaspettate....e

pensare che a scuola la “storia” la digerivo male. Praticamente passiamo al

“medioevo” che letteralmente significa l‟età di mezzo, tra quella antica e quella

moderna. Il termine “medioevo” fu usato per la prima volta dal tedesco

Cristoforo Keller nella sua “Historia medii aevi” dai tempi di Costantino alla

caduta di Costantinopoli del 1453. Convenzionalmente però, la fine del

medioevo e l‟inizio dell‟era moderna si fa coincidere con la scoperta

dell‟America, nel 1492. La valutazione, comunque, di questo periodo è del tutto

simbolico in quanto è stato variamente modificato dagli studiosi, secondo che,

da un lato la decadenza, dall‟altro il rinnovamento, siano stati valutati da un

punto di vista artistico, culturale, religioso, politico, economico, sociale, ecc.

Ma ritorniamo alla nostra Trieste e riprendiamo lo studio da dove l‟avevamo

lasciato. Come punto fisso prendiamo il 948, anno in cui il debole re Lotario,

erede ormai di un regno d‟Italia sempre più allo sfacelo e in balia dei feudatari,

consegnò la città di Trieste ed il suo territorio, che si estendeva per un raggio

di tre miglia oltre le mura, al vescovo Giovanni concedendo la completa

immunità a lui ed ai suoi successori. La parola immunità, all‟epoca, e nel

particolare periodo storico-politico in cui fu concessa, aveva un significato

particolare e cioè che tutte la cariche pubbliche e l‟amministrazione della città

passavano, in pratica, dalle mani dei funzionari governativi a quelle del

vescovo. Trieste, pertanto, divenne una città autonoma, non più legata al resto

del territorio formato dall‟ Istria da una parte e dal Friuli dall‟altra, e governata

dal suo vescovo. La città, all‟epoca, non era densamente popolate, il Caprin,

nelle sue ricerche stima che Trieste avesse forse seimila abitanti ma,

probabilmente, anche meno.

Fu un periodo “buio” per tutta la regione. Il Friuli, a causa delle invasione dei

Magiari, non aveva quasi più abitanti, sembrava di essere ritornati alla

preistoria, la gente viveva in tuguri fatti di paglia impastata col fango, si

vestivano con le pelli e si nutrivano con quel poco che riuscivano a cacciare o

coltivare in miseri e piccoli orti. Anche a Trieste la situazione non era

certamente migliore.

A questo punto ho dovuto alzare gli occhi dai libri, dagli elaborati, dallo

schermo del mio computer e fare una riflessione e farmi una domanda: - Ma gli

sfarzi che Roma aveva portato in questi lidi dov‟ erano andati a finire? Cenere,

polvere, oblio, letargo, oscurità, periodo “buio” infatti. Invece di progredire la

vita, la civiltà, gli usi, i costumi regredivano in modo tale, come detto, che

sembrava di riessere alla preistoria.

C‟era tutto un fermento di eventi, il Regno Italico passò in mano ai re

germanici, infatti Ottone I° aggregò parte dell‟Italia settentrionale al ducato di

Carinzia. Ma anche questa situazione era

destinata a durare poco tempo in quanto,

essendo in piena epoca feudale, il re

abbandonò i territori nelle mani di conti,

marchesi e nobili in genere che erano e

diventavano suoi feudatari, che reggevano

ed amministravano città, castelli ed interi

territori restando del tutto autonomi e

dovendo al re solamente portare aiuto e

armati nelle guerre tra regnanti. E‟ per

questo che a Trieste, dopo il mille,

cominciammo ad avere vescovi con nomi

teutonici, mentre in Istria e nel Friuli

avemmo i nobili di origine germanica. Ne è

esempio che ad Aquileia il patriarca

Popone ricostituì la sua diocesi

ricostruendo pure la grande basilica poi consacrata nel 1301. E‟ così che

Aquileia divenne sempre più grande fino a diventare una vera e propria

potenza sia economica che militare. I vescovi di allora avevano ben altro ruolo

di quelli dei giorni nostri, erano difatti dei veri e propri guerrieri e, tra l‟altro,

fedeli vassalli del re. Non solo non erano degli ecclesiastici e non dicevano

messa, ma il più delle volte erano anche analfabeti. Questi vescovi venivano

nominati dal re e non più, come un tempo, dal popolo e dal clero ed erano

vestiti di armature in ferro anziché di paramenti sacri.

Questo andamento di cose non lasciò insensibili i papi, che cominciarono a

seccarsi di questo caos imperante e dichiararono, per intanto, decaduti tutti i

vescovi di nomina reale o che avevano, magari con l‟oro, comperato la loro

nomina e che erano più dediti a riscuotere tasse e gabelle dai loro vassalli che

curare le anime dei fedeli. Cosa successe nel resto d‟Italia non ci è dato di

sapere, però sappiamo che, per quanto riguarda Trieste, nel 1082 l‟imperatore

Enrico IV°, vista la situazione della città, spogliata e impoverita dalla politica

vescovile, la consegnò al patriarca di Aquileia in modo che avesse un

protettore più sicuro. Anche questa situazione era destinata ad essere

transitoria, infatti nei primi anni dopo il 1100, la città fu di nuovo in mano ai

vescovi estendendo il loro territorio ed esigendo decime e tasse anche da

Umago, Capodistria ed altre cittadine istriane. Essendo il territorio

notevolmente allargato ed ingrandito ci volle un gran numero di “servi fedeli”

che svolgessero i lavori amministrativi ed erariali per conto del vescovo. Ecco

che, in embrione, cominciò a formarsi una sorta di ceto medio, di borghesia

che in seno ai vari agglomerati urbani cominciavano ad avere una certa

importanza e considerazione da parte del popolino. La classe contadina, con

l‟espandersi dell‟agricoltura, cominciò ad avere il suo peso nella società d‟allora

ed appaiono anche le prime forme di attività artigianali autonome.

La difesa delle coste dai pirati del mare era a carico del potere vescovile, che

per far fronte a queste spese, “inventò” e cominciò ad avvalersi delle dogane.

Iniziamo così il dodicesimo secolo, ricco di fermenti, e stiamo avviandoci a

grandi passi al periodo comunale. Dopo centocinquant‟anni che la città fu in

mano dei vescovi, cominciò lentamente a liberarsi e togliersi di dosso questo

giogo, questo dominio che ormai le stava stretto. Capodistria nel 1177 ebbe il

suo vescovado, i vassalli più lontani erano passati ad altri signori, pertanto il

vescovo di Trieste si ritrovò con un territorio ristretto e soffocato da alcune

grandi potenze, quali il patriarcato di Aquileia, la contea di Gorizia, ma

soprattutto da Venezia.

Venezia infatti si stava

sviluppando nell‟Adriatico

estendendo il suo dominio o

perlomeno la sua influenza

su tutta la costa istriana e

dalmata. Tutte le cittadine

costiere di Istria e Dalmazia

dovettero sostenere una

sorta di vassallaggio, in

quanto la flotta veneta

teneva sgombri i mari dai

pirati. Trieste non fu

dammeno versando tributi a Venezia in orne* di vino. Nel 1202, la flotta

veneziana, al comando del doge Enrico Dandolo, e con al seguito migliaia di

soldati a cavallo francesi, prima di recarsi in Oriente per la crociata promossa

da papa Innocente III°, veleggiò sulle nostre coste per rintuzzare eventuali

velleità di protesta. Anche Trieste accolse con grandi fasti il doge con il suo

seguito.

*orna= recipiente a forma di cono nel quale le donne facevano il bucato e

aveva una capacità variante

dai settanta ai cento litri.

In quell‟occasione trecentrentasei Triestini firmarono un patto in cui si

sarebbero rispettati i beni dei Veneziani, che nel territorio triestino essi non

avrebbero mai pagato tasse di alcun genere e che avrebbero aiutato i

Veneziani a combattere la pirateria sul mare ed infine avrebbe “offerto” a

Venezia un tributo annuo di cinquanta orne di vino. La cosa importante di

questo accordo fu che esso fu firmato dai Triestini e non dal vescovo, che era il

signore della città, il che fa supporre che essi godessero di una certa libertà

amministrativa anche se il primo in testa dei firmatari era il gastaldo, sorta di

capo amministrativo nominato dal vescovo e comunque rappresentante del re.

Pochi anni dopo appare, per la prima volta, nominato il podestà. Il vescovado,

oberato di debiti , andò sempre più in miseria, mentre i cittadini ed il comune

videro aumentare

considerevolmente le

proprie ricchezze perché il

porto di Trieste era punto di

partenza e di arrivo per i

pellegrini, che si recavano

in Terra Santa facendovi

accorrere numerosi

mercanti. Nel 1253 per

sanare, almeno in parte, i

propri debiti concesse molti

privilegi, ad esso riservati,

al Comune e contemporaneamente nel 1283 non riconobbe più la sua

appartenenza all‟Impero, ma divenne vassallo diretto del patriarca di Aquileia.

Trieste fu quindi praticamente alle dirette dipendenze di Aquilieia. La città era

formata da cittadini che emergevano dall‟età feudale, con una coscienza

nuova, desiderosi di riscattarsi e governarsi da soli, ma, come oggi del resto, la

città aveva un retroterra ostile ed il mare, suo sfogo naturale, impedito da

Venezia, che nei commerci non ammetteva concorrenza alcuna. Sostenendo

perciò la causa di Aquileia che vantava diritti pure sulle cittadine istriane,

assieme al potente conte di Gorizia, Trieste si trovò coinvolta nel primo grosso

conflitto con Venezia.

Correva l‟anno 1289 e un grosso esercito veneziano venne qui, deciso a

distruggere o almeno a punire in modo esemplare Trieste. I Veneziani

costruirono una cittadella fortificata sul pendio dell‟attuale colle di Romagna e

che arrivava, per intenderci, fino all‟attuale tribunale. Il patriarca di Aquileia ed

il conte di Gorizia guidarono un poderoso esercito per soccorrere Trieste. I

Veneziani, dopo alcune piccole scaramucce, diedero una somma di danaro al

conte di Gorizia perché se ne ritornasse a casa. Il patriarca di Aquileia, visto

l‟esercito dimezzato, se ne ritornò anche lui nei suoi territori.

I Triestini, da soli, resistettero tenacemente alla superiorità di Venezia, tanto

da indurre il patriarca a ricostituire l‟esercito, tornare indietro e mettere in fuga

le truppe veneziane dalla cittadella di Romagna che i Triestini poi distrussero.

Nel 1291 fu firmata la pace tra Venezia e il patriarca di Aquileia e fu così che

Trieste dovette abbattere le mura sul lato mare consegnando le navi a Venezia.

Sembrerebbe che il secolo finisse male per la città invece, al contrario, esso si

chiuse in modo più che positivo. Nel 1295, pagando un grosso debito del

vescovo, Trieste acquistò tutti i diritti civili che esso aveva, facendo terminare

il potere che i vescovi avevano esercitato per quattrocento anni. La città era

finalmente padrona di se stessa terminando, con ciò, il periodo feudale ed

iniziando quello

comunale che vide la

città padrona del

proprio destino.

Quanti intrighi, quanti

grovigli, quante

macchinazioni,

quante complicanze,

tutto vortica nella mia

testa, devo fermarmi

un po‟ per cercare di

mettere a fuoco la

situazione. Non è

facile! Contemporaneamente vedo Istri, Romani, barbari invasori, vescovi,

Veneziani, Longobardi, tutto in una ridda di lampi contrapposti che mi fanno

vacillare, vedo mura, castellieri, fortificazioni, battaglie, distruzioni, saccheggi,

anche un po‟ di pace per fortuna. Credo che sia ora di smettere per un poco,

rileggere tutto, riordinare le idee, metterle in sequenza e capire.

Io che all‟inizio pensavo fosse una cosa da poco, dissi: - Cosa vuoi, Trieste è

piccola non ci sarà tanto da scoprire nella sua storia! Invece mi sono ritrovato

in una cosa più grande di me e delle mia capacità. Ma io sono testardo e non

desisto, per niente non ho un cognome tedesco, adesso mi concedo un attimo

di respiro, una pausa di riflessione e poi via di nuovo alla ricerca di notizie che

mi facciano continuare in questa mia analisi, anche se non è facile capire la

storia né tantomeno leggerla, perché ognuno interpreta un fatto storico, un

episodio, come meglio crede, come a lui conviene capire e credere e,

certamente, io non posso fare eccezione.

Siamo giunti al Trecento e vediamo un quadro generale per farci un‟idea della

situazione.

L‟Europa trecentesca fu colpita da gravi calamità naturali, carestie ed

epidemie ricorrenti vi portarono la fame e ne decimarono la popolazione. Il

secolo XIV° fu anche quello della guerra dei cent‟anni, dell‟avanzata dei Turchi

Ottomani in Asia e in Europa (1354), del papato avignonese, dello scisma

d‟Occidente. Gli ideali universalistici naufragarono col venir meno della forza

delle istituzioni, papato e Impero, che li sostenevano e di cui Dante fu l‟ultimo

assertore, testimone della misera fine di Enrico VII° di Lussemburgo (1313).

Ma alla caduta di quegli ideali, alla luce dei quali s‟era svolta tutta la vita civile

del medioevo, corrispondeva l‟affermazione nella realtà e nel pensiero dell‟idea

di Stato nazionale, maturata nelle grandi monarchie occidentali di Francia, d‟

Inghilterra, di Castiglia, d‟Aragona nel corso di conflitti secolari, mentre

nell‟area imperiale si consolidava la pluralità degli Stati regionali o cittadini di

Germania e d‟Italia (formata da signorie e città-stato del nord e del centro,

repubbliche marinare, domini della Chiesa, regno angioino di Napoli) e, a

Oriente, i regni di Boemia e d‟Ungheria andavano acquistando posizioni

rilevanti. L‟impero bizantino sommerso dalle colonie veneziane, genovesi,

catalane e ridotto a proporzioni sempre più esigue dai Turchi, ormai insediati

nei Balcani, andava perdendo ogni ruolo politico. Da questa visione europea

della situazione, restringiamo il punto focale per tornare alla situazione di casa

nostra. Ricercando nelle biblioteche notizie e nozioni inerenti il trecento

triestino si possono trovare moltissimi libri e pertanto moltissime idee, il più

delle volte in contrasto tra di loro. La vera verità non la sapremo mai! Anche

qui, soggettivamente, bisogna interpretare e analizzare e dare una propria

risultanza.

Prendiamo in considerazione un episodio nostrano, tra tanti, noto come la

congiura dei Ranfi. La prima domanda spontanea che ci si pone è: - Chi erano i

Ranfi? Anche qui proviamo ad inquadrare storicamente la situazione. In questo

periodo, nel trecento, si svilupparono molte signorie che non erano altro che

città o territori guidati da un‟unica famiglia. In molti casi si trattava di veri e

propri feudatari, che non dipendevano più da nessuno. Successe pure che

molte famiglie nobili e molto ricche, che possedevano piccoli castelli e magari

molte terre coltivate, con il danaro conquistarono il potere. In giro c‟erano

molte e maggiori ricchezze, si svilupparono molte attività ed arti. I signori,

infatti, vollero costruirsi case lussuose, palazzi e chiese, e quindi potenziarono

e protessero le arti e gli artisti. Trieste cominciò a svilupparsi anche grazie a

soldi provenienti dalla Toscana, perché in quell‟epoca i grandi usurai, cioè quelli

che prestavano soldi o, come si diceva allora, tenevano banco (termine dal

quale è derivato l‟attuale “banca” e “banchiere”) erano tutti toscani e

principalmente fiorentini. Con la loro politica di astuti commercianti,

sicuramente, contribuirono ad arricchire il Comune. Chiarito un po‟ quello che

era il periodo, la vita, la

situazione di e a Trieste,

ritorniamo appunto ai Ranfi.

Si trattava di una famiglia

di nobili, con molta

probabilità di origine

tedesca, vassalli del

vescovo. Il nome di Marco

Ranfo risulta spesso citato e

scritto in documenti

diplomatici, si desume da

ciò che doveva trattarsi,

senza dubbio, di un

personaggio altamente importante nella vita politica della città. Si sa che

possedeva una casa in Cavana eretta, si presume, su di un fondo che oggi si

configura con il sito di via del Cavazzeni 1 e, molto probabilmente, era sua

anche la torre Tigor, oltre a terre e vigne varie. Sembrerebbe che la famiglia

fosse formata dal padre e da cinque figli, due maschi e tre femmine.

Ci sono vari documenti, tra il 1318 e il 1350, che riportano testi, frasi, nozioni

sulla famiglia dei Ranfi. C‟era il divieto assoluto di costruirsi la casa su terreni

di quella famiglia e, anzi, chiunque incontrasse un Ranfo poteva ucciderlo, anzi

ne avrebbe ricevuto anche un premio. Nessuno poteva sposare una donna dei

Ranfi e uno che avesse ucciso un Ranfo non poteva e non doveva essere

ingiuriato. Queste sono le notizie certe, ma il perché di tanto accanimento

contro la famiglia non è dato di sapere; nessun scritto in merito è stato mai

rinvenuto. Supposizioni, illazioni, pensieri ce ne sono tanti, dati dal fatto che

potrebbero aver creato dei torbidi in città o forse, cosa più grave, aver minato

la sicurezza del Comune. Potrebbero addirittura aver tentato di impadronirsene

per farne una propria signoria oppure, non ultimo, potrebbero essersi

macchiati di un tradimento filoveneziano.

Indipendentemente da fatti

leggendari, romanzati,

storicizzati, frutto di realtà

accaduta o fantasie del

popolo sta di fatto che

nel 1313 il potere della

città fu saldamente in

mano al Comune e che

tra il 1315 e 1318

emanò i primi “statuti”

che furono la prima

codificazione delle leggi

riguardanti la città. Venne

così creato il famoso “sigillo

trecentesco” della città tuttora

riconosciuto. Si tratta di una torre

con ai lati due alabarde e la scritta: “Sistilanu publica

Castilir mare certos dat michi fines” con sotto il nome Tergestum. Il significato

della frase che circonda il nostro sigillo è: “Sistiana, la via pubblica, Castellier e

il mare mi danno confini certi – Tergeste”. Così era praticamente descritto il

territorio del Comune di Trieste che andava, appunto, da Sistiana lungo i monti

della Vena fino alla Val Rosandra e si chiudeva al mare. Un territorio

piccolissimo, come oggi del resto, ma che a Trieste quella volta, bastava,

circondata com‟era da grandi potenze.

Tutto il trecento, per la nostra città, è un continuo barcamenarsi tra le potenze

di terraferma e Venezia che aveva a se tutte le cittadine istriane della costa

che facevano concorrenza a Trieste nei commerci via mare. Unico cuscinetto,

ad est, era la cittadina di Muggia che rimase ancora nelle mani del patriarca di

Aquileia divenendo così la più terribile avversaria di Trieste al punto che erano

impossibili, se non proprio proibiti, i matrimoni tra Triestine e Muggesane e

viceversa. Si arriva al 1553 quando i Triestini andarono a devastare il territorio

di Muggia ma, vennero richiamati all‟ordine da Venezia che ancora aveva

ingerenza nelle nostre faccende, tant‟è che il più dei podestà di Trieste erano

veneziani. Il podestà veniva eletto dal popolo ed essendo quasi sempre lui

veneziano e non friulano o triestino, significava che il partito che prevaleva in

città era un partito che sosteneva ed era sostenuto da Venezia. L‟Austria

cominciava ad espandersi a danno del Patriarcato di Aquileia, prendendone

alcune terre ed insidiando i signorotti ad essa fedeli. Un caso a noi vicino è

quello del conte di Duino.

Quello che Venezia non ammetteva assolutamente era la concorrenza sul mare

avendo il monopolio dei traffici marittimi. Avvenne però che nel 1368 un

vascello veneziano, adibito al pattugliamento del nostro golfo, intercettasse

una barca piena di sale il cui proprietario era un certo Panfili. All‟ intimazione

dell‟alt da parte veneziana, il Panfili girò la prua della sua barca puntando

decisamente sul porto di Trieste. I Veneziani, anch‟essi, entrarono nel porto e

pretesero di poter confiscare la barca contrabbandiera ed arrestare il suo

comandante. Successe, invece, che i Veneziani ricevessero un sacco di botte e

sembrerebbe che il comandante venisse addirittura ucciso. Per la paura di una

ritorsione da parte veneziana, Trieste mandò immediatamente a Venezia una

delegazione per chiedere scusa. Venezia ne approfittò per imporre ai Triestini

di esporre il gonfalone di Venezia per Pasqua e per Natale, cosa che non

avevano mai fatto prima, ma che questa volta, per il quieto vivere,

accettarono. Ma si vede che tutto ciò non fu ritenuto sufficiente, tant‟è vero

che i Veneziani prepararono un grosso esercito per fare la guerra a Trieste. La

flotta veneziana, con l‟ esercito comandato da Domenico Michiel, cominciò

l‟assedio di Trieste. Tutto ciò accadde alla fine del 1368. La città era ben

munita e i Triestini si difesero strenuamente tanto che le truppe veneziane si

trovarono in notevole disagio. L‟assedio però si fece sempre più duro e i

Triestini dovettero chiedere aiuti che furono rifiutati, dapprima dal patriarca di

Aquileia e poi dal conte di Gorizia. I Triestini provarono allora a chiedere

sostegno a Francesco di Carrara ed anche al Visconti, signore di Milano, ma

ottennero uguale rifiuto, anche perché nessun principe italiano voleva aver

beghe, liti e contrasti con la potente Venezia. Quando ormai le armate di

Venezia cominciarono ad aprire le prime brecce nella resistenza della città, i

Triestini si offrirono in sudditanza al duca Leopoldo d‟Austria, che accettò

subito essendo egli già in possesso di gran parte del territorio alle spalle di

Trieste, ma gli mancava lo sbocco al mare. Il duca Leopoldo delegò il conte di

Duino a rappresentarlo per la firma dell‟atto di dedizione da parte dei Triestini,

dove riconoscevano di essere stati, fin dal passato, in signoria ai duchi

d‟Austria.

Ottenuta la firma dell‟atto di dedizione, il duca Leopoldo, inviò un potente

esercito in soccorso di una città oramai stremata, dopo un anno di stretto

assedio, attaccando il potente campo veneziano. In un primo momento, anche

perché i Veneziani furono colti di sorpresa, sembrò che gli Austriaci dovessero

facilmente prevalere, ma con abile mossa i due comandanti veneziani

accerchiarono gli Austriaci facendoli fuggire a precipizio. Per i Triestini, caduta

ogni speranza, non restò altro che arrendersi.

Tutti temettero una vendetta spietata di Venezia, ma così non fu. Venezia

pretese solamente l‟esilio di quelli che erano stati gli avversi e, rispettando la

città, chiesero un atto di dedizione al Doge. Per cautelarsi da ogni evenienza

esterna, Venezia fece costruire a difesa un castello sul colle di San Giusto, che

loro chiamarono Caboro, e il “castello a marina” dove oggi c‟è il palazzo della

Regione, già palazzo del Lloyd.

Trieste fu, era ed è sempre stata una città tormentata, infatti neanche i

Veneziani durarono a lungo. Nel 1378 iniziò quella che fu chiamata la “guerra

di Chioggia” che vide da una parte Venezia e dall‟ altra Genova, il potente re

d‟Ungheria, il patriarca di Grado, il signore di Padova e il duca d‟ Austria. A

quel punto, con tante gatte da pelare, i Veneziani non seppero dove correre

per difendersi.

Genova riuscì ad espugnare Chioggia, mentre gli alleati occuparono tutte le

città istriane che erano suddite di Venezia. Dobbiamo arrivare al 1380 perché il

patriarca di Aquileia, con un grosso esercito, venisse, diceva lui, a liberarla dai

Veneziani saccheggiandola, assieme ai Genovesi. Fu così che Trieste dovette

firmare l‟ennesimo atto di dedizione, questa volta al patriarca aquileiese

consegnandogli, simbolicamente, le chiavi della città. Anche questa

appartenenza fu di breve durata. Il 9 agosto del 1382, Trieste, con l‟aiuto del

conte di Duino che si impossessò della città con la violenza, finì nelle mani del

duca d‟Austria e dovette sottoscrivere quell‟atto che poi fu detto di “dedizione

all‟Austria”.

Le turbolenze cittadine che ne seguirono, fanno capire quanti contrasti ci

fossero in città contro quell‟atto che, però, fece in modo che i Triestini

salvassero tutti i loro liberi statuti e rimanessero liberi di agire nei riguardi dei

potenti vicini.

Se fosse stato meglio

rimanere fedeli a

Venezia piuttosto che

all‟Austria, nessuno

può azzardare una

risposta, sta di fatto

che, ragionando, allora

Venezia non aveva

alcun interesse di

avere una potenziale

concorrente portuale,

mentre l‟Austria

necessitava di uno

sbocco al mare.

Trieste, bisogna dire il

vero, non è mai stata

austriaca perché,

anche se era “dedita”

all‟Austria, serbò

sempre la sua indipendenza interna sia di fronte ai duchi prima, arciduchi poi e

imperatori d‟ Austria che la ressero fino al 1918. Trieste mantenne sempre la

sua libertà che le permise di conservare e sviluppare la sua cultura italiana,

anche nei secoli seguenti. Con questo atto di dedizione all‟Austria finì il

trecento triestino e sancì pure

la fine del Libero Comune che

era stato il sogno di moltissimi

triestini.

A questo punto della storia si

può fare una considerazione

che ritengo profonda: - Trieste

e i Triestini hanno sempre

avuto troppi nemici, troppi

avversari, troppi interessi,

troppi tornaconti, troppe

invidie, troppi rancori che si

sono riversati contro questa

splendida e viva città. Stiamo

parlando della fine del 1300,

oggi siamo nel 2001, siamo

addirittura in un altro millennio,

ma pensandoci bene anche se

senza guerre, distruzioni e saccheggi, le lotte per il potere, sia politico che

economico, continuano, forse più subdole, più in silenzio, chi non sta attento,

forse, non se n‟ accorge nemmeno, ma per la città fanno altrettanto male. In

economia, il porto e il suo punto franco contesi da Fiume, Capodistria,

Monfalcone, Porto Nogaro, Venezia; in politica, pur essendo Trieste il

capoluogo regionale, il Friuli, e Udine in particolare, vuole togliere, se possibile,

molte istituzioni politico-amministrative proprie del capoluogo in modo che

esso diventi Udine. Fatto con metodi moderni, che differenza c‟è tra questo

stato di cose e quello che c‟era dalle origini di Trieste fino alla fine del

trecento?? Non voglio andare oltre, anche perché, credo, che tutto questo sarà

materia di chiusura di questa ricerca, che mi sta appassionando sempre più

man mano che procedo, infatti ci vogliono ancora 700 anni per arrivare ai

giorni nostri. Forza e coraggio!

Gli Austriaci imposero alla città solamente la nomina del capitano, che era

preposto all‟osservanza delle leggi e il controllo dei tributi finanziari. Egli

dovette semplicemente tutelare gli interessi della cittadinanza e far rispettare

gli Statuti, che rimasero sempre in vigore. Praticamente i Triestini

continuarono a governarsi da sé, anche nelle relazioni con i vicini. Il duca

d‟Austria pretese per sé solo la metà delle tasse, ma alcuni anni dopo cedette

alla città anche questo privilegio, per cui potremmo dire che Trieste continuò,

praticamente, ad essere un comune libero, sempre con un territorio limitato,

ma in pace. Nel vicino Friuli, invece, ogni castello era in guerra con il vicino

finché Venezia, stanca, non conquistò tutto il territorio annettendolo a sé. Del

quattrocento ci sono tanti documenti conservati, che lo storico Jacopo Cavalli

poté scrivere un libro sulla vita triestina del 1400. Sappiamo così che i

commerci cominciarono a riprendere fiorenti, specialmente con l‟entroterra e

pure l‟artigianato, per molto tempo da pochi esercitato, riprese vigore e si

sviluppò notevolmente. Il maggior benessere della città fu dato dalla vendita

del sale ricavato dalle numerose saline disseminate lungo la costa; dall‟olio dei

suoi pregiati e numerosi oliveti situati nella valle delle Noghere e nella zona di

San Dorligo e dal buon vino delle sue colline prodotto, come all‟epoca dei

Romani, nella zona che va da Sistiana a Barcola. Sul Carso, al contrario, si

sviluppò e fiorì la pastorizia. Sul Carso, oltre ai già noti villaggi di epoca

romana, distrutti dai barbari e poi ricostruiti, quali Santa Croce, Sistiana,

Aurisina e Slivia, si aggiunsero

dei nuovi, come Opicina,

Trebiciano, Contovello e

Basovizza.

Sempre dagli scritti si può

rilevare che i Triestini già nel

„400, nei giorni festivi, usavano

andare a Opicina in una storica

trattoria dove si mangiava molto

bene e veniva servito un ottimo

vino del Carso. Gli allevatori di

Basovizza e di Trebiciano

affidavano ai “mandrieri”, pastori

di origine slava e croata, le loro

mandrie per essere portate al

pascolo estivo fino al Monte Re.

Sempre su questi scritti si può

leggere che Trieste era punto di

raccolta e di partenza di pellegrini, che si imbarcavano su navi che li portavano

nelle Marche e precisamente al santuario di Loreto per proseguire poi per

Roma. A Trieste si eressero molti ospizi atti ad ospitare questi pellegrini che,

spesso, erano poveri e bisognosi d‟aiuto. Ci furono, in quel periodo, gravi

epidemie di peste che provocarono la morte di molti abitanti. Il Comune, per

alzare il livello e il tenore di vita da tanta miseria, favorì la venuta di

commercianti ed artigiani italiani, per lo più veneti e friulani. In seguito a

questa liberalizzazione all‟immigrazione, giunsero anche i primi Ebrei ai quali si

ricorreva per prestiti in danaro. Contrariamente a quello che sarebbe adito a

pensare, gli Ebrei furono molto meno esosi negli interessi di quello che, nel

secolo precedente, furono i Toscani. Fu così che i Triestini li ben tollerarono,

anche perché disponevano di molta moneta liquida cosa che, in quei tempi,

non era facile trovare. Nacque così la prima comunità ebrea in Trieste.

L‟economia non fu proprio florida al principio del quattrocento, però fu l‟inizio di

una certa agiatezza. Infatti nei primi decenni di questo secolo si costruì la

loggia comunale dove i componenti delle tredici casate si radunavano per

decidere i provvedimenti da

assumere per il buon

andamento della città.

Le tredici casate erano: Leo,

Pellegrini, Bonomo, Belli,

Burlo, Giuliani, Baseggio,

Argento, Cigotti, Toffani,

Stella, Padovino e Petazzi.

Sembra quasi di leggere lo

stradario di Trieste.

Per quanto le tredici famiglie

maggiorenti si dessero da

fare, l‟economia stentava a

decollare anche perché i

Carniolici, che allora erano gli

abitanti dell‟attuale Slovenia,

per i loro traffici e commerci,

preferirono appoggiarsi alle cittadine istriane piuttosto che a Trieste. Fu allora

che i Triestini decisero di acquistare un castello, quello di Castelnuovo (oggi

Podgrad) sulla strada di Fiume, da dove, assieme agli altri due castelli di Moccò

e di San Servolo, poterono bloccare la strada ai Carniolici, che venivano con

lunghe file di asini, deviandoli ed obbligandoli ad andare a Trieste.

Nella città di

Trieste, un po‟

scherzosamente e

un po‟ anche per

dileggio, i Carniolici

furono chiamati

“cici”.

Capodistria e

Muggia

protestarono per

questa situazione,

ma Venezia, aveva

altre gatte da

pelare. Era in corso

una guerra tra il re

d„Ungheria e il re

d‟Austria ed

essendo, in un

certo qual modo,

Venezia alleata

dell‟Austria, non

ebbe tempo per

pensare alle piccole

beghe delle città

istriane con Trieste.

Scoppiarono allora,

tra i signorotti della

regione, che

parteggiavano alcuni per l‟Austria ed altri per l‟Ungheria, delle piccole

guerricciole alle quali partecipò pure la nostra città.

Per porre fine a questa situazione che si era venuta a creare, nel 1443

l‟imperatore d‟Austria Federico III° inviò a Trieste uno dei suoi più capaci

uomini, cioè il toscano Enea Silvio Piccolomini. Essendo anche periodo di grandi

scismi, all‟imperatore d‟Austria venne conferita l‟autorità di nominare alcuni

vescovi. Fu allora che nel 1447 venne nominato vescovo di Trieste Enea Silvio

Piccolomini, persona che si rivelò illuminata. Ma proprio per questa sua

peculiarità, era destinato a rimanere per

poco tempo a Trieste, tant‟è che nel 1450

divenne vescovo di Siena e pochi anni dopo

ancora divenne Papa con il nome di Pio II°.

Gli ingegni, in quell‟epoca, erano rari

pertanto quei pochi che ci furono, riuscirono

ad emergere anche grazie all‟appoggio dei

potenti e degli imperatori. Dove non

arrivava l‟ingegno, arrivava la potenza del

denaro. Federico III° fu un imperatore

particolarmente povero, anche perché

dovette indebitarsi per sostenere tutte le

guerre con il re d‟Ungheria. Decise allora,

per procurarsi denaro fresco, di “affittare” al

comune di Trieste l‟esercizio del capitano e

delle altre cariche governative. In parole povere il Comune di Trieste tornò ad

essere completamente padrone di se stesso perché, pagando, veniva a

mancare anche il Capitano, che era l‟unico rappresentante imperiale.

Tutto farebbe pensare che, finalmente, fosse arrivata un po‟ di pace. Macché!

Venezia, tra una pausa e l‟altra delle sue guerre, pensò bene di sistemare la

“questione triestina” chiedendo la liberazione delle strade del Carso in modo

che tutti quelli, che avessero voluto andare a commerciare, potessero passare.

Chiesero pertanto la cessione del castello di Castelnuovo. Venezia, allora,

deteneva il monopolio del sale, che per i tempi era fonte di grande ricchezza, e

non voleva concorrenza da parte di Trieste che pure possedeva le sue saline e

aveva il suo commercio del sale.

Fu così che nel 1463, per la terza volta, assediarono Trieste costruendo dei

bastioni per metterci le loro bocche da fuoco. I Triestini lavorarono come dei

matti. Di notte ripristinavano le brecce che le bombarde veneziane, durante il

giorno, avevano aperto, opponendo una resistenza che fece meravigliare gli

stessi Veneziani. La strapotenza di Venezia era indiscussa e nessuno,

tantomeno Trieste, avrebbe potuto sconfiggere. Fu Papa Pio II°, che non

dimenticò mai i Triestini, a intercedere e con i suoi uffici, firmò la pace. Trieste

dovette, purtroppo, cedere i suoi tre castelli di Castelnuovo, Moccò e San

Servolo, dovette impegnarsi a non portare per mare il suo sale ne tantomeno

cederlo ai mercanti veneziani però, in cambio, fu salvata dal saccheggio e dalla

distruzione.

Seguì un periodo piuttosto brutto e confuso per la città. La cronaca, e quindi

non la storia, di quel periodo è piuttosto mutilata. Fu infatti scritta e poi

tagliata diverse volte a seconda del colore politico, dell‟appartenenza partitica

dei copisti che, intenzionalmente, vi fecero delle omissioni ed inserirono degli

errori. Nel 1467 una piccola minoranza di nobili, venne cacciata in esilio per

non aver rispettato gli Statuti. Il 31 dicembre dello stesso anno, assieme al

losco figuro che fu il capitano di Duino, tale Nicolò Luogar, rientrarono in città

gridando al tradimento. Il Luogar tentò di annullare gli Statuti e le libere

elezioni, di far firmare al Comune un atto solenne di abdicazione dei diritti a

favore dell‟imperatore. A questo punto, toccati nelle loro libertà, i Triestini si

opposero in armi facendo prigioniero il capitano di Duino. Il Luogar ottenne la

libertà in cambio del rilascio dei prigionieri triestini che si trovavano nelle

carceri di Duino. I Triestini, che a lui si erano rivolti e lo avevano sostenuto,

furono tutti impiccati tra gli archi della loggia municipale. L‟imperatore,

constatata la ribellione della città, decise di punirla esemplarmente ordinando

al capitano Nicolò Luogar di raccogliere un esercito nella Carniola, e facendolo

marciare contro i rivoltosi. Lo scontro avvenne nei paraggi di Ponziana e fu uno

scontro epico nel quale, i Triestini guidati da Cristoforo Cancellieri si batterono

eroicamente fino alla morte. Vinta ogni resistenza, si narra che il vincitore

diede la città ai suoi uomini che la saccheggiarono, la bruciarono e

sembrerebbe che la città fu rasa al suolo. Per tenere doma la città, l‟imperatore

fece costruire il castello di San Giusto.

Trieste, pian piano,

cominciò a riprendersi, ma

certamente il periodo non

era dei più tranquilli. Nel

1469 quelli che furono il

terrore della Cristianità, i

Turchi, fecero la loro

comparsa da queste parti

spingendosi fino a

Castelnuovo. L‟impero turco

stava sviluppandosi verso l‟Europa e lungo i Balcani. Conquistarono la Grecia,

la Macedonia, gli altri stati balcanici e su su fino ad arrivare alle porte di Vienna

che venne stretta d‟assedio. Dalle nostre parti, però quelli che vennero non

erano veri e propri Turchi, ma bande di predoni che comprendevano elementi

di razze diverse, ma tutti avidi di bottino. Passarono come una meteora, infatti

come una furia giunsero, razziarono, bruciarono, uccisero e rapirono donne e

bambini per venderli come schiavi, poi sparirono, scomparvero velocemente

come velocemente erano giunti. Il punto più vicino dove furono viste le truppe

regolari Turche, fu la piana di Zaule. Negli anni seguenti i Turchi, sempre

evitando la città di Trieste, attraverso l‟altipiano carsico, passarono nel Friuli

dove i Veneziani per arginarli eressero la fortezza di Palmanova.

Morto l‟imperatore Federico d‟Austria, amico dei

Veneziani, gli successe Massimiliano che trovò

subito modo di litigare. Ecco che nel 1508

Venezia mosse guerra all‟Austria. Lo scontro

avvenne a Pieve di Cadore dove l‟esercito

veneziano, guidato da Barlotomeo d‟Alviano,

mise in fuga gli Austriaci. Per l‟ ennesima volta

Venezia, con le sue galere, bombardò Trieste,

unica città imperiale sul mare rimasta. Essendo

caduta pure Gorizia, ai Triestini non rimase altro

che arrendersi per evitare un‟altra distruzione.

Trieste passò, nuovamente, sotto il dominio di

Venezia i cui possedimenti giunsero sino alla Alpi

Giulie. I Veneziani dotarono il castello di San

Giusto, che era ancora in costruzione, del bel bastione rotondo dove, oggi, è

ben visibile la lapide con il leone di Venezia. I Triestini, per liberarsi dai

Veneziani, cercarono di convincere la Corte di Vienna quanto fosse per loro

utile avere uno sbocco sul mare Adriatico. La corte asburgica, allora, non capì

tale importanza anche perché aveva altre cose a cui pensare che erano

rappresentate dalle beghe con l‟Ungheria. Venezia non ammetteva concorrenze

sul mare, così che per buona parte del cinquecento fu un periodo molto duro

per Trieste e la sua economia marittima, tanto da arrivare addirittura alla

fame.

Il diciassettesimo secolo fu anche peggiore del precedente. La città, a causa

delle pestilenze, fu ridotta ad avere circa tre mila abitanti, quasi come nel

medio evo e rischiò, quasi, di finire la sua esistenza di città. Trieste fu sfiorata

dalla guerra tra Austria e Venezia che durò dal 1615 al 1618 e si concluse con

la battaglia di Gradisca. In quel periodo gli Austriaci completarono la

costruzione del castello di San Giusto. Si narra che la città fosse in un tale

stato di miseria che quando, nel 1660, giunse a Trieste l‟ imperatore Leopoldo

I°, i reggenti la città non poterono nemmeno offrire una cena a base di pesce

all‟ augusto ospite, e si che Trieste era una città di mare. Si calcola che la

miseria fosse dovuta al fatto che la città non corresse con i tempi e che

rimanesse legata ai frutti ed ai proventi della terra che i vari signorotti

possedevano.

Ci ritroviamo agli inizi del 1700 e Trieste sembrava ancora una città

medioevale, cinta dalle mura e arroccata al colle di San Giusto sul quale

spiccano tuttora il castello e la basilica di san Giusto. Scendendo verso il mare

c‟erano tante piccole case in mezzo alle quali si erigeva la chiesa di Santa

Maria Maggiore, costruita dai Gesuiti nel corso del XVII secolo, ed era la più

grande chiesa di Trieste. In basso, verso il mare con le mura che fino a lì

arrivavano, c‟era la Piazza Grande con il Palazzo comunale e la sua loggia, la

torre del Mandracchio, il Teatro e la chiesa di San Pietro, nonché la Locanda

Grande che era l‟albergo della città. Tutti questi palazzi oggi non ci sono più,

almeno nella loro forma originale. Al di fuori delle mura c‟erano i campi

coltivati, le saline e lo squero dove si riparavano e costruivano le barche. La

città con il circondario poteva contare su di una popolazione di circa cinquemila

abitanti. Ma ecco che, nel „700, sta per capitare l‟evento più importante per la

storia della città e che decise il suo futuro. Il 18 marzo 1719, l‟imperatore

Carlo VI° dichiarò e proclamò lo stato di “porto franco” per la città di Trieste.

In pochi anni, grazie a questa sua

nuova situazione economica, la città si

trovò ad avere oltre trentamila abitanti.

Grati, i Triestini, nel 1728 eressero

una statua all‟imperatore Carlo VI° in

occasione della sua visita alla città,

riconoscenti anche per essere stati

scelti tra altri porti concorrenti che

ambivano a divenire porti franchi,

tra i quali Fiume, Buccari e San Giovanni

di Duino. La statua a Carlo VI°, ancor

oggi, è posizionata sul lato sinistro

in alto della Piazza dell‟Unità d‟Italia.

Pur essendo già tangibile un certo

benessere, la sola dichiarazione di porto

franco non fu sufficiente a far

progredire Trieste. Ci vollero altre

strategie e misure più energiche che solo Maria Teresa d‟ Austria, aiutata dal

figlio, il futuro Giuseppe II°, seppe proporre ed imporre alla città a scapito

dell‟antico municipio patrizio e privilegiato che dovette inchinarsi e cedere al

nuovo corso voluto dal governo centrale di Vienna.

Furono queste misure che fecero mutare il piccolo centro in una città moderna,

fresca, operosa, attiva e laboriosa. Tanto laboriosa da sentire, nel 1751, la

necessità di incaricare l‟architetto bergamasco Mazzoleni di proporre e far

realizzare la “fontana dei continenti”. Il Mazzoleni, avvalendosi di tre

“scalpellini di fino”, quali Giovanni Venturini, Giuseppe Grassi e Giambattista

Pozzo, fece eseguire questa fontana da erigere nella Piazza Grande. Pregò, nel

contempo, l‟abate Gian Domenico Bertoli di Aquileia, di dettare le epigrafi da

apporsi alla base della fontana stessa. In questa fontana, il Mazzoleni, volle

contenere una raffigurazione simbolica del commercio, con le sue statue

rappresentanti le quattro parti del mondo, la quinta allora si ignorava. Vi fu

rappresentata la fama che gridava al mondo l‟Emporio Triestino

rappresentando colli di merci, botti ed altri emblemi del traffico accatastati

sopra una piramide di blocchi di calcare, con ai lati le deità pagane appoggiate

in conchiglie marine, nelle quali sgorgava l‟acqua per poi precipitare nel bacino.

La statua dell‟Africa la si volle in marmo nero, alle altre diedero costumi

caratteristici. La lapide dettata dall‟abate Bertoli fu tutta una celebrazione a

questa città simbolo di un periodo storico, essa recita così: MEDIO HOC

SECULO (alla metà di questo secolo) FRANCISCO I ET MARIA THERESIA

REGNATIBUS (regnando Francesco I e Maria Teresa) CURA RUDOLPHI S.R.I.

COMITIS A CHOTEK (a cura di Rodolfo conte del S.R.I. Chotek) AERARI

PUBLICI REGENDORUMQUE COMMERCIORUM PRAESIDIS (reggente del

pubblico erario e presidente del commercio) SUB PREFECTURA (sotto la

prefettura) COMITIS NICOLAI AB HAMILTON (del conte Nicola de Hamilton)

URBIS TERGESTI INCREMENTA (fu dato incremento alla città di Trieste) AB

IPSIS IN CHOATA SUNT RERUM OMNIUM CLEMENTIS (con gli elementi di tutte

le cose) IGNIS CULTO VICINAE SYLVAE COPIOSIOR (copioso il fuoco della

vicina selva) AER EXPLETIONE SALINARUM PURIOR FACTUS (l‟aria purificata

col prosciugamento delle saline) TERRA FUNDO SANCTORUM MARTHIRYUM

AUCTA ( ampliata la terra col fondo dei S.Martiri) AQUA A SCATURIGINE

MONTIUM AD HUNC FONTEM DUCTA FUIT (l‟acqua adotta a questa fonte dalla

scaturigine dei monti). Sulla lapide posta sull‟altro lato, verso il mare, ha

un‟intenzione altezzosa e recita così: SENATUS TERGESTINUS CIVIUM

ADVENARUMQUE COMMODO HUNC FONTEM PERENNIS AQUAE AUGUSTAE

MUNIFICENTIA DEDUCTAE PUBLICO AERE POSUIT – A.S. MDCCLI. Tradotto ed

interpretato così: - Il Senato Triestino a comodo dei cittadini e dei forestieri

questa fonte, d‟acqua perenne, per augusta munificenza adotta, su area

pubblica fu posta – Anno di nostra salute 1751.

Maria Teresa decretò pure la libertà di culto a Trieste che permise alle varie

comunità religiose, che qui risiedevano, di costruire le proprie chiese. Unica

condizione che Maria Teresa pose fu che tutte le chiese non cattoliche fossero

addossate, almeno su di un lato, ad un edificio civile. Le mura furono

abbattute, interrate le saline, e su

questa bonifica fu costruita una

nuova zona di Trieste che in onore

della sovrana fu chiamata Borgo

Teresiano. La “nuova città” fu

costruita con belle strade dritte e bei

casamenti, dove c‟erano i magazzini,

gli uffici come pure le case dei

commercianti. Due tratti erano stati

scavati in profondità in modo da per

mettere al mare di penetrare.

Furono creati così il Canal Grande e

il Canal Piccolo, dove i navigli

poterono entrare ed essere più

comodi per le operazione di sbarco

ed imbarco dei prodotti e dei

passeggeri.

Ingrandendosi la città, successero

anche fatti di cronaca che, per

l‟epoca, fecero molto scalpore.

Prendendone uno a caso, anche perché uno dei protagonisti ha un nome

ancora noto a Trieste, è quello in cui Giovanni Gioachino Winckelmann, un

prussiano, fondatore dell‟arte moderna e padre dell‟ archeologia, nel 1768, di

passaggio per Trieste, prese alloggio alla già citata Locanda Grande, dove

venne accoltellato e ucciso a scopo di rapina, da tale Arcangeli. L‟assassino

venne preso e giustiziato, mediante “ruotazione” in piazza davanti alla locanda

dove aveva commesso il delitto.

Il corpo del defunto Winckelmann non si sa che fine abbia fatto, pertanto a

ricordo di questo fatto, ma soprattutto per rendere omaggio all‟illustre

personaggio, nel 1833 venne costruito un cenotafio, sarcofago senza cadavere,

ora custodito nell‟Orto lapidario di San Giusto. Nel secolo XVIII, con l‟evolversi

della città e con l‟aumento conseguente dei suoi traffici, vi giungevano sempre

più nuovi immigrati, molti dei quali furono i veri e propri autori dello sviluppo

della città. Essi erano provenienti da parecchi e diversi paesi come per esempio

il greco Ciriaco Catraro, abilissimo negli affari che divenne molto ricco e fu il

primo ad insistere perché a Trieste fosse costruita la Borsa. Possiamo ricordare

il livornese Matteo Giovanni Tommasini, commerciante e finanziere di grosso

spessore che progettò la costruzione di un nuovo teatro, ma che venne ripreso,

più tardi, dal siriano Antonio Pharaon detto Cassìs, altro ricco commerciante,

che ne ultimò la costruzione. In città, data la continua immigrazione in cerca

di fortune o per

sfuggire nei paesi di

origine a persecuzioni

politiche, giunsero

greci, svizzeri,

tedeschi del nord,

spagnoli, francesi e

italiani appartenenti

ai vari Stati ed infine

molti orientali. Con

tutte queste razze,

questi popoli, e di

conseguenza tante

lingue, la città avrebbe potuto divenire una Babilonia. Invece così non fu

perché i nuovi arrivati si uniformarono allo spirito della città e in brevissimo

tempo ne acquisirono sia la cultura, gli usi e costumi, che la parlata italiana.

Agli inizi qualche leggero screzio ed incomprensione ci fu tra le vecchie

famiglie patrizie che abitavano la case della città vecchia e la nuova

aristocrazia commerciale e straniera che abitava la città nuova, dove amava

farsi erigere dei sontuosi palazzi come, ad esempio, il ricco commerciante

greco Demetrio Carciotti che si fece costruire quella meraviglia architettonica

che è appunto il “palazzo Carciotti”. Contrariamente a quanto tutti credono, il

palazzo Carciotti non si limitava a quella che fino all‟anno scorso fu la

Capitaneria di Porto, bensì si estendeva a tutto quell‟edificio già occupato, fino

a poco fa, dall‟A.C.E.G.A.T., per intenderci tutto l‟isolato compreso tra riva Tre

Novembre, via Genova, via Cassa di Risparmio e via Bellini. Altro personaggio

di spicco della Trieste che contava, fu il conte Domenico Rossetti de Scander,

nobile, commerciante, letterato, giurista e storico. Nel 1810 egli fondò la

Società di Minerva che come scopo si prefiggeva di promuovere gli studi sulla

storia di Trieste ed elevare la vita culturale della città. Trieste, in quell‟epoca

sentì la necessità di avere un mezzo di informazione che non fosse il solito

passaparola e il sentito dire. Così nel 1784, un toscano, iniziò a stampare il

primo giornale edito a Trieste. “Osservatore Triestino” fu chiamato ed iniziò

con lo stampare poche copie, ma agli inizi dell‟800 già aveva una tiratura di

tutto rispetto.

Trieste cominciò ad essere “osservata” da parecchie potenze, tant‟è che il 29

aprile del 1797 anche Napoleone Bonaparte, con due generali e cento ussari

entrò in città. Pernottò una sola notte presso il Palazzo Brigido, sulla cui

facciata in via Pozzo del Mare esiste una lapide in ricordo dell‟ avvenimento, si

fece consegnare tre milioni di contributo e se ne andò con la cassa del

Comune.

I Francesi comunque ritornarono e vi rimasero dal 1805 al 1814. La loro

dominazione non fu delle più felici e l‟economia della città ne risentì, tanto da

far rimpiangere gli Austriaci. Furono create, dai Francesi, le famose “Province

Illiriche” nel cui territorio era compresa pure Trieste. Gerolamo Buonaparte,

fratello dell‟imperatore, già re di Westfalia e col titolo di principe di Montfort,

soggiornò a Trieste parecchie volte tanto che acquistò la palazzina, che oggi è

la sede del Presidio militare dove, nel 1822 nacque suo figlio che, vent‟anni

dopo, sposò Clotilde di Savoia. Si narra che, in punto di morte, il marito di

Clotilde raccomandasse la sua città natale a Vittorio Emanuele II. La villa oggi

si chiama “Villa Principe Napoleone” dal nome del figlio

di Gerolamo.

Il 14 maggio 1850, l‟imperatore Francesco Giuseppe I

pose la prima pietra per la costruzione della “ferrovia

meridionale” detta così perché, partendo da Trieste

attraverso Aurisina, che era il meridione dell‟Austria

saliva al settentrione, cioè nella capitale Vienna. La

città aveva raggiunto, ormai, i centocinquantamila

abitanti ed il vecchio Acquedotto Teresiano risultò

insufficiente per gli sviluppi della città tanto che nel

1859 venne costruita la centrale dell‟acquedotto di Aurisina. Nel 1864 fu

introdotta pure l‟illuminazione pubblica alimentata a gas. Trieste fu sede di

numerose compagnie di navigazione e scalo marittimo, si sentì perciò la

necessita che sorgessero le prime compagnie di assicurazione le quali fiorirono

in breve tempo.

Ci sono parecchi documenti che attestano l‟esistenza a Trieste di molte

fabbriche, dalle carte da gioco ai pallini da caccia. Esiste ancora oggi, in via

San Francesco vicino al nuovo palazzo della Regione, la "torre dei pallini” dove

appunto il piombo fuso veniva colato dall‟alto in una vasca d‟acqua gelida dove

solidificavano. A seconda dell‟altezza da cui veniva colato il piombo esso

prendeva la forma e il calibro desiderati.

C‟erano

pure

parecchi

cantieri

navali di

cui il più

famoso di

tutti fu il

“Cantiere

Panfili”,

fondato nel

1780 e

dove nel

1818

venne costruita la prima nave a vapore, varata con il nome di “Carolina”. Nel

1829 presso i Cantieri Panfili si apprestò la prima nave ad elica del mondo su

progetto di Giuseppe Ressel. Nel 1860 venne inaugurato il Cantiere San Marco

che era destinato a divenire uno dei più grandi ed importanti cantieri navali

d‟Italia e del mondo.

Mi fermo un solo momento a pensare che in tutto questo ben di Dio di

iniziative c‟era già, da parecchi anni, anche il mio avo Gaspare che aprì, nel

1799, “pubblica stamperia” in Trieste. Risale al 29 dicembre del 1881

l‟inaugurazione e l‟uscita della prima copia del giornale “Il Piccolo” che fu così

chiamato per il suo ridottissimo formato. Nella zona tra l‟attuale p.zza

Oberdan, foro Ulpiano e via Fabio Severo c‟erano le caserme austriache nelle

quali avevano sede anche le prigioni. Non si trattava di prigioni per detenere

delinquenti comuni, bensì prigioni militari. Infatti stiamo entrando nel periodo

detto dell‟irredentismo e della redenzione. Di quelle costruzioni militari, oggi,

rimane solamente la cella di rigore in cui fu rinchiuso Guglielmo Oberdan e che

è diventata monumento nazionale e sede del museo del Risorgimento.

Guglielmo Oberdan nel 1878 venne chiamato al servizio militare per prendere

parte all‟occupazione della Bosnia– Erzegovina,

ma egli disertò, fuggì in Italia per unirsi ai

patrioti triestini e istriani. Oberdan, perciò, era un

patriota e voleva fermamente che Trieste

venisse annessa all‟Italia. Ma la terza guerra

d‟indipendenza era da poco finita e l‟Italia firmò

un patto d‟alleanza con l‟Austria. Questo patto

a Oberdan e ai suoi amici patrioti proprio non

andava giù e pensò bene che ci volesse un‟

azione dimostrativa per esprimere il malcontento

della città di Trieste e scuotesse così i suoi

cittadini. Nel 1882, in occasione del quinto

centenario della “dedizione” di Trieste all‟Austria ci furono svariati

festeggiamenti tra i quali anche un‟esposizione che avrebbe dovuto essere

inaugurata da Francesco Giuseppe I° in persona. Oberdan pensò bene di

tornare a Trieste per tentare, con una bomba, di uccidere l‟imperatore. Egli

sapeva che l‟impresa fosse quasi impossibile per la protezione che l‟imperatore

avrebbe avuto e la difficoltà, quindi, di avvicinarlo per lanciare la bomba. Così

fu infatti, tanto che egli non giunse nemmeno a Trieste, anche perché tra i

patrioti si era infiltrata una spia austriaca che lo denunciò, facendolo arrestare

in una casa, a Ronchi, dove era in attesa del momento propizio per andare a

Trieste. Trovato in possesso di due bombe, venne tradotto a Trieste e portato

prima alle carceri, che si trovavano presso S.Maria Maggiore e quasi

immediatamente segregato nella caserma, in quella cella buia e senza finestre

che oggi, come detto, è l‟unica testimonianza della caserma austriaca.

Originariamente l‟edificio, costruito per volere di Maria Teresa nel 1769, fu

destinato a ospizio per i poveri e ospedale. Nel 1786 fu convertito in caserma e

carcere da Giuseppe II. Venne apprestata la forca e con ciò gli Austriaci

pensavano di spaventarlo e fare in modo che rivelasse tutti i segreti a sua

conoscenza, sui motti dei patrioti. Ma lui rifiutò perfino di chiedere la grazia

all‟imperatore, perché voleva morire per attirare, col suo sacrificio, l‟attenzione

di tutti gli Italiani sulle tristi condizioni politiche dei Triestini. Per questi motivi,

Oberdan venne ricordato come il primo volontario e il primo martire della

guerra di redenzione. Alle sette del mattino del 20 dicembre 1882, all‟età di 24

anni, venne giustiziato ed il suo corpo non fu mai più ritrovato.

A riunificazione avvenuta tutte le città d‟Italia, il cui stemma è posto sopra la

cella, si tassarono in ragione di un centesimo per abitante in modo da

raccogliere la somma necessaria ad abbattere, nel 1925, la vecchia caserma

austriaca e a costruire, nel 1927, il sacello dedicato a Guglielmo Oberdan,

nonché la casa del Combattente, dove hanno sede, appunto, tutte le

associazioni combattentistiche e pure il Museo del Risorgimento.

Nel vicino museo sono ricordati tanti altri patrioti che si sono distinti, per

ardimento, per unire la città di Trieste all‟Italia. Tra i tanti ricordiamo il

generale Petitti di Roreto, per primo sbarcato a Trieste il 3 novembre 1918. Ma

non dobbiamo dimenticare il capodistriano Gian Rinaldo Carli, che ancora nel

1700 auspicava l‟unione di tutti gli Italiani in uno stato sovrano. Poi tanti nomi,

allora sconosciuti, che nel 1848 si radunavano all‟interno del Caffè Tommaseo,

covo di irredentisti e patrioti che, alimentati dagli articoli del giornale “La

Favilla” svilupparono sempre più la coscienza nazionale. Fu così che tanti

giovani giuliani e dalmati parteciparono alle guerre del nostro Risorgimento tra

le fila dell‟esercito italiano e dei garibaldini. Di quelli sconosciuti che si

radunavano al caffè, spiccano

alcuni nomi che, per le loro

attività, partecipazione armata

o semplice sostegno

all‟irredentismo, divennero

famosi e sono oggi ricordati

quali Giusto Muratti -

bersagliere garibaldino,

Lorenzo Gatteri – pittore che su

tela riproduceva epiche

battaglie, Giuseppe Caprin –

che partecipò nel 1866 alla

battaglia di Bezzecca nel

Trentino, Domenico Lovisato –

nato a Isola d‟istria che seguì

Garibaldi nella III guerra del

Risorgimento, Gabriele

Foschiatti, Leone

Veronese....ecc.

Questo fu il prologo della grande guerra, come venne chiamata la guerra che

l‟Italia combatté contro l‟Austria per annettere a sé le provincie di Trento e di

Trieste, capisaldi austriaci. Il 28 Giugno 1914 scoccò la scintilla che diede il

pretesto per lo scoppio della prima guerra mondiale. Uno studente serbo

attentò ed uccise a Sarajevo, l‟arciduca Francesco Ferdinando d‟Asburgo,

nipote dell‟imperatore Francesco Giuseppe e pretendente al trono di Austria e

Ungheria. Fu così che l‟Italia entrò nel conflitto, il quale iniziò il 24 Maggio

1915 e terminò il 4 novembre 1918, anche se, per la verità Trieste si liberò da

sola insorgendo con ribellione generale il 30 ottobre 1918 e si offerse con

delirio d‟amore all‟Italia chiamando le truppe, ferme a Venezia. Il 3 novembre

1918 esse giunsero con il cacciatorpedinere Audace, il quale attraccò a quel

molo che ancor oggi porta il suo nome e con un reggimento di bersaglieri che

sbarcarono alla stazione marittima. Davanti a tutti, fieri di giungere in una città

che si era liberata da sola, marciarono il generale Petitti di Roreto a fianco del

duca d‟Aosta.

Nel periodo che precedette questo storico evento

è doveroso ricordare i nomi dei Triestini che

presero parte attiva alla guerra e furono

moltissimi. Ne citeremo solo alcuni in

rappresentanza di tutti che eroicamente

combatterono quella guerra e che in parecchi

caddero per l‟ideale di proclamare e difendere

l‟italianità di Trieste: Scipio Slataper, Ruggero

Timeus, Pio Riego Gambini, Giuseppe Vidali, Emo

Tarabocchia, i gemelli Aurelio e Fabio Nordio,

Ruggero Fausto Timeus, Antonio Bergamas,

Gabriele D‟ Annunzio......fino a giungere alle medaglie d‟oro concesse a Ugo

Polonio, Carlo e Giani Stuparich, Giacomo Venezian, Francesco Rismondo,

Nazario Sauro, Guido Brunner, Guido Slataper, Spiro Xidias, Fabio Filzi e Guido

Corsi, nomi che, giustamente, furono ricordati dedicando loro altrettante vie

cittadine.

Concludendo.........

A questo punto posso dire, perché lo penso, che Trieste abbia assunto quella

che è la sua vera identità: essere italiana.

A grosse linee cerchiamo di riassumere la lunga, ma breve storia di Trieste e

dei Triestini. Trieste fu dapprima un castelliere, un piccolo scalo per scambi e/o

baratti con navi provenienti da oriente, poi divenne dominio romano, seguirono

invasioni e distruzioni alle quali seguì il dominio bizantino. Nel medioevo fu un

po‟ ai margini di eventi che sconvolsero, più il Friuli e le Venezie e pur

passando, alternativamente, sotto domini dei Veneziani, degli Austriaci, dei

vari Patriarchi fino all‟ottocento dove giunsero Tedeschi del nord attratti da una

cultura che amavano e che ritenevano superiore; i Greci provenienti da zone

povere spesso oppresse dai Turchi, per non parlare degli Slavi che giungendo,

per lo più, dal contado trovarono a Trieste un ambiente culturalmente molto

evoluto.

Trieste fu

sempre un po‟

autonoma

anche grazie

alla

testardaggine

dei Triestini,

che volevano

essere liberi di

amministrarsi

come meglio

credevano. Anche se, probabilmente, in città agli inizi c‟erano dei partiti politici

filo-austriaci, filo-veneziani e filo- patriarchini, la più grande preoccupazione,

che in ciò li univa, era salvaguardare e difendere la libertà del comune e dei

suoi statuti che davano facoltà alla città di amministrarsi da sola tramite il

Consiglio Maggiore e il Consiglio Minore, che si possono paragonare alle attuali

Camera dei Deputati e del Senato. Nemmeno il dominio di 500 anni da parte

dell‟Austria riuscì ad eliminare tutti questi privilegi. Solamente gli ultimi 150

anni di dominio austriaco furono un po‟ più pesanti anche perché, i Triestini,

decisero di togliersi di dosso il giogo austriaco e ciò comportò una maggiore

pressione e repressione sulla popolazione. Trieste è sempre stata piccola,

chiusa in se stessa a difendere il suo esistere e soprattutto la sua lingua che

nessun dominatore o semplice immigrato, riuscì mai a cancellare, anzi furono

loro che dovettero adattarsi, con vero piacere però, ad imparare non solo la

lingua italiana ma anche costumi, usi e tradizioni esistenti tanto che, dopo

pochi anni di permanenza, come succede tuttora, tutti si sentono e vogliono

essere considerati triestini. Questo è quello che la Storia destinò ai Triestini

cioè di restare italiani attraverso le innumerevoli vicende durante i secoli in

questo estremo lembo orientale della penisola. E‟ storia recente quella in cui i

Triestini dovettero nuovamente essere soggiogati da dominazioni straniere e

cioè dal 1943 al 1945 dai Tedeschi, nel 1945, per soli 40 giorni

fortunatamente, dai partigiani slavi ed infine per ulteriori nove anni, fino al

1954, dall‟amministrazione militare anglo-americana. Avrebbe dovuto essere

creato il Territorio Libero di Trieste,

quale cuscinetto tra oriente e

occidente ma, per fortuna, la

decisione dei quattro “Grandi” rimase

solamente sulla carta e alla fine del

1954 Trieste, con la sua ridottissima

provincia, ritornò all‟amministrazione

italiana. Anche la situazione

economica della città è cambiata. Da

città cantieristica si è passati a città di studi e di cultura. Le grandi industrie

sono emigrate o non sono state create a parte la Grandi Motori Trieste. Le

raffinerie petrolifere hanno cessato la loro attività e la zona è divenuta deposito

di greggio che tramite l‟oleodotto transalpino viene mandato fino nell‟alta

Germania. In cambio Trieste si è dotata di uno dei più importanti centri

mondiali di fisica nucleare, a Miramare, intitolato al premio Nobel Abdul Salam

che, per decenni, lo resse e lo diresse fino a farlo diventare il più ambito punto

di studio e di ricerca, meta dei migliori ricercatori mondiali. L‟Area di Ricerca di

Padriciano, altro complesso scientifico che l‟Europa, se non il mondo, c‟invidia.

Esso doveva sorgere a Vienna, ma fu scelta invece la località carsica per la sua

collocazione geografica e orografica, pur rimanendo a Vienna la direzione

logistica e amministrativa. Ultimo nato in ordine di tempo, ma forse anche

l‟opera più importante è il Protosincrotrone, o come più comunemente viene

detto “anello di luce”. Infatti in esso vengono studiate le risultanze dell‟

accelerazione delle molecole in questo anello. Trieste così è diventata un polo

della scienza, un centro di convegni mondiali e, sembra, si stia studiando la

creazione di un nucleo alberghiero di dimensioni tali da poter diventare sede

mondiale scientifica permanente. A questo proposito, sembra che un gruppo

americano abbia intenzione di rilevare e bonificare dall‟amianto l‟hotel Europa,

lungo la Riviera triestina, e adibirlo, appunto, esclusivamente a insediamento

di studiosi e scienziati di tutto il mondo.

N on è come agli inizi di questa ricerca dove gli scritti, le notizie, i documenti

erano rari e frammentari, ora non è più possibile spaziare a largo raggio, ogni

argomento, ogni

avvenimento, ogni

situazione ha bisogno di un

intero libro per essee

descritto. Tante persone,

molto più qualificate, hanno

già adoperato fiumi

d‟inchiostro per descrivere

un solo palazzo o un solo

castello o un solo museo. Io

posso solamente leggere,

imparare e recepire qualche

cosa perché la mia Trieste,

anche se piccola, ha tante

cose da offrire e da far

vedere a chi volesse

scoprirle. Una città come

Trieste, penso, sia unica al

mondo, sia per la sua

conformazione orografica, per la sua collocazione geografica, per la sua storia,

per la sua cultura, per la sua multietnicità, per il suo spirito, per la sua

mentalità che, alle volte, risulta un po‟ troppo chiusa o poco aperta alle novità,

allo sviluppo, alla modernità. I Triestini si rifugiano nel loro passato, che fu

splendido, ma non vogliono capire che non potrà mai più ritornare se non con

innovazioni sia tecnologiche che culturali, con la mentalità aperta che il nuovo

millennio deve e potrà portare. Solo rimboccandoci le maniche, stringendo i

denti e lavorando intensamente potremo essere nuovamente una grossa e

importante città nel mondo e non certamente cullandoci in nostalgici ricordi

che nulla producono e a nulla servono. In un‟Europa che cerca di unificarsi in

una sola grande nazione, in un‟Europa dove popoli che europei non sono,

vogliono entrare e farne parte a qualunque costo, dove si cerca di creare

un‟economia comune per il bene di tutti, dove perfino la moneta di scambio

sarà unica, a Trieste esistono ancora delle persone ottuse e retrograde. Esse

vorrebbero isolarsi e isolare la città quasi desiderassero ritornare all‟epoca dei

liberi comuni, con le piccole botteghe artigiane, gli usurai toscani o ebrei, con

un‟ economia basata sulla quotidianità senza sviluppo, senza domani, senza

progetti, senza futuro certo o almeno programmato, senza quella

imprenditorialità che, al giorno d‟oggi, necessita per poter guardare con una

certa serenità al futuro nostro ma soprattutto al futuro dei nostri figli e dei figli

dei nostri figli. Trieste svegliati, scuotiti, sii la Trieste che mai si è piegata a

nessuno, ma che sempre ha collaborato e ha accolto tutti in seno a sé per

poter cooperare ed essere accolta nel mondo intero!

Comunque sia, Trieste io t‟amo perché sei Trieste ed io sono fiero di essere

Triestino.

Giorgio Weiss