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LA SICILIA GRANAIO DI ROMA ROMA CONQUISTA LA SICILIA LA SICILIA DIVENTA “IL GRANAIO DI ROMA”. QUATTRO CATEGORIE DI CITTÀ LA DECIMA. TRASPORTO DEL GRANO DALLE ZONE DI PRODUZIONE AI PORTI I PORTI D’IMBARCO I NAVICULARII I TONNELLAGGI DELLE NAVI ROMANE LE NAVI COMMERCIALI DA TRASPORTO COME VENIVANO STIVATE LE ANFORE ED IL RESTO DEL CARICO? I PORTI DI ROMA: OSTIA E POZZUOLI. LE OPERAZIONI DI SBARCO CONCLUSIONE

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LA SICILIA GRANAIO DI ROMA

ROMA CONQUISTA LA SICILIA

LA SICILIA DIVENTA “IL GRANAIO DI ROMA”.

QUATTRO CATEGORIE DI CITTÀ

LA DECIMA.

TRASPORTO DEL GRANO DALLE ZONE DI

PRODUZIONE AI PORTI

I PORTI D’IMBARCO

I NAVICULARII

I TONNELLAGGI DELLE NAVI ROMANE

LE NAVI COMMERCIALI DA TRASPORTO

COME VENIVANO STIVATE LE ANFORE ED IL

RESTO DEL CARICO?

I PORTI DI ROMA: OSTIA E POZZUOLI.

LE OPERAZIONI DI SBARCO

CONCLUSIONE

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ROMA CONQUISTA LA SICILIA.

La Sicilia, prima della conquista romana, era uno dei posti più ricchi e attivi della

storia di quei tempi. Essendo al centro del Mediterraneo, tutto il traffico

commerciale faceva capo ad essa. Merci di tutti i tipi vi arrivavano e merci di tutti i

tipi, prodotte localmente, vi partivano. I Greci e i Cartaginesi, oltre le popolazioni

autoctone, ne avevano fatto, coinvolgendola dei loro affari, un'isola libera, ricca, ed

importante nelle lettere, nelle arti, nelle scienze e nella cultura. A seguito della prima

guerra punica (264-241 a.C.) Roma conquistò buona parte della Sicilia, che divenne la

sua prima provincia, lasciando però ampia autonomia agli alleati siracusani. Durante la

seconda guerra punica, nel 210 a.C. tutta la Sicilia, compreso il regno di Siracusa, fu in

mano ai Romani. L’economia dell’isola era basata sull’estensione del latifondo

(appannaggio delle aristocrazie cittadine) dove, grazie anche all’impiego

di un’abbondante mano d’opera servile, si producevano notevolissime quantità di grano,

fondamentali per approvvigionare l’Urbe.

TORNA

LA SICILIA DIVENTA “IL GRANAIO DI ROMA”.

Diodoro Siculo definì il periodo

compreso fra la fine della seconda

guerra punica (210 a.C.) e la prima

rivolta degli schiavi (139 a.C.),

come “il sessantennio felice”. Ma in

effetti questa “pseudo felicità”

era dovuta soltanto al fatto che in

Sicilia non ci furono guerre; per il

resto le cose andarono assai male.

Dopo la distruzione di Cartagine, la

Sicilia cessò di essere il centro

nevralgico del mediterraneo e

pertanto l'interesse di Roma per

l'isola cominciò a scemare. L'isola

subì una lenta decadenza e rimase

aperta all'ingordigia di pretori, di

avventurieri e di speculatori di

ogni specie che si impadronirono dell'Ager publicus, determinando la scomparsa della

piccola proprietà ed il sorgere dei latifondi, posseduti da poche famiglie. Alcune città

si spopolarono, nelle campagne il lavoro libero si contrasse, gli schiavi, divenuti

numerosi dopo la conquista dell'oriente, sostituirono gli agricoltori, l'agricoltura a

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poco a poco cedette il posto alla pastorizia e alla monocoltura del grano, che rese la

Sicilia “il granaio del popolo romano”. Celebre è il detto di Catone il Censore (234-

139 a.C.), secondo cui la Sicilia era "il granaio della repubblica, la nutrice al cui

seno il popolo romano si è nutrito”. Contemporaneamente consistenti appezzamenti

di terre furono abbandonati o resi inutilizzati, rimanendo esposti all'erosione e

preclusi ad un uso sociale con gravi ripercussioni sulle popolazioni autoctone a cui

vennero sottratti i benefici delle attività agricole. Come se ciò non bastasse il bisogno

crescente di legname utile per la costruzione di abitazioni, suppellettili e navi, provocò

quel lento processo di disboscamento, cominciato con i Greci, che finì per modificare

radicalmente l'aspetto dell'altipiano ibleo, rendendolo un brullo tavolato di steppa.

Il disboscamento incontrollato dette impulso all'industria navale e al commercio,

soprattutto con Gallia, Spagna e Africa.

TORNA

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QUATTRO CATEGORIE DI CITTÀ

Fu nel 227 a.C. che alle comunità siciliane venne imposto un tributo annuo in grano, che

dipese dalla condotta che, ogni singola città, aveva tenuto durante le guerre puniche

nei confronti di Roma. Furono così costituite quattro categorie di città:

Città federate (civitates foederatae), vi rientravano le città che erano

rimaste fedeli ed alleate a Roma durante il corso delle guerre puniche. Uno

speciale trattato bilaterale consentiva loro di conservare le proprietà dei loro

terreni, e l’autogoverno, erano esentate dal pagamento di tributi. Città alleate

furono: Messina, Taormina, Noto.

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Città immuni e libere (civitates sine foedere immunes atque liberae),

godevano degli stessi privilegi delle città federate, ma godevano di un trattato

unilaterale, cioè era Roma che dettava loro diritti e doveri e che

unilateralmente accordava loro dei privilegi. Esse erano immuni dal pagamento

della decuma e libere perché potevano amministrarsi liberamente al loro

interno. Queste città furono cinque: Segesta, Alesa, Alecia, Centuripe,

Palermo.

Città decumane (civitates decumanae), erano la maggior parte, e vi rientravano le

città che dovevano pagare a Roma un'imposta, chiamata decima, che veniva

regolamentata dalla "Lex Ieronica", la quale stabiliva la cifra da tassare su ogni

raccolto del territorio. Queste città, 38 in tutto, siccome erano state

conquistate dopo aver fatto della resistenza, non godevano dei diritti delle due

precedenti categorie. In queste città i governatori potevano intromettersi nei

loro affari interni. Queste città furono: Acesta, Agira, Agrigento, Alunto,

Amestrato, Apollonia, Assoro, Calatte, Capizzi, Catania, Cefalù, Cetara, Eloro,

Enguio, Enna, Entella, Eraclea, Erbita, Etna, Gela, Hybla, Ieta, Imacara, Ina,

Lentini, Lipari, Mene, Mityca, Morganzia, Panormo, Petra, Phintias, Schera,

Segesta, Solunto, Terme, Tindari, Tissa.

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Città censorie (civitates censoriae), erano quelle conquistate con le armi e

subirono la confisca del territorio, che diventò demanio statale (ager publicus).

Queste città furono 26, ricordiamo: Acre, Adrano, Agatirno, Bidis, Caciro,

Kamarina, Echetla, Erbessa, Ergezio, Erice, Hiccai, Hippana, Galaria, Lilibeo,

Macella, Megara, Mile, Mitistrato, Noe, Paropo, Selinunte, Semelitani, Siracusa,

Tiracia, Trapani (Drepana),Triocala. Non godevano né di diritti, né di privilegi. Il

loro suolo veniva dato ai romani come ager publicus, cioè non apparteneva più ai

cittadini, ma ai romani conquistatori della città. Dal punto di vista tributario, la

sola differenza tra città censorie e decumane stava nel fatto che questi

abitanti potevano riscattare le loro terre in cambio del pagamento di

un'ulteriore rendita fondiaria.

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TORNA

LA DECIMA.

Era il tributo principale che i Siciliani dovevano pagare a Roma ed era applicata solo al

grano e all’orzo. Questo tributo in natura si pagava, inizialmente, una volta all’anno in

base al raccolto ed era regolato con delle leggi. Chiaramente c’erano anche altri

tributi.

NOMINA DEGLI APPALTATORI

Roma non riscuoteva direttamente i tributi, ma li appaltava a privati (detti publicani).

In ogni civitas la decima veniva venduta all’asta localmente ogni anno e i potenziali

appaltatori avevano a disposizione una lista, preparata dalla collettività, dei

proprietari di terre e di quelli che la lavoravano (perché quando la terra era data in

affitto il tributo ricadeva sugli affittuari e non sui proprietari). Inizialmente, cioè

dal III e fino all’inizio del II sec. a.C. questi appalti furono riservati ad uomini

d’affari siciliani per favorire lo sviluppo interno. Quando però le compagnie dei

pubblicani romani acquisirono importanza, strapparono delle concessioni. Gli

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appaltatori che si aggiudicavano le aste, in genere erano società finanziarie

specializzate possedute o gestite da cittadini appartenenti alla classe dei

cavalieri, che avevano l’esclusiva per gli affari finanziari. Dei censori, nominati a

livello comunale, provvedevano a determinare l'importo che ogni cittadino doveva

pagare.

QUALI MERCI ERANO DESTINATE ALLA DECIMA.

Erano sottoposti a decima i raccolti di grano (decuma tritici) ed orzo (decuma hordei);

sul vino, olio, frutta, verdura e legumi la decima consisteva in un pagamento in

contanti. La raccolta delle decime di vino, olio e legumi veniva appaltata a Roma.

A partire dal 75 a.C. la raccolta delle decime sul grano e sull'orzo fu appaltata in

Sicilia mediante aste pubbliche a livello comunale. La decima sul grano fu valutata a

circa 3.000.000 di modii (più di 250.000 hl) all’anno. L’amministrazione locale, come

la tassazione locale, fu lasciata in generale ai siciliani, perché Roma non aveva né

il personale, né il desiderio di assumersi questo onere.

COME VENIVA CALCOLATO L'IMPORTO DELLA DECIMA

La decima era calcolata sul raccolto. La percentuale base era il 10%, cui andava

aggiunto il 6% come compenso previsto dalla legge a favore dell'appaltatore. Per

ottenere l'appalto il decimator doveva pagare un extra allo Stato. Questa somma

veniva aggiunta all'imposta che doveva essere pagata dal contribuente. Il contribuente

poteva fare ricorso contro le richieste esagerate del decimator. In tal caso veniva

avviato un procedimento giudiziario.

COME AVVENIVA LA RISCOSSIONE DELLA DECIMA.

La decima veniva riscossa dagli esattori sull’aia dopo il raccolto e le controversie

venivano risolte seguendo una determinata procedura giudiziaria.

LA SECONDA DECIMA Nel I secolo a.C. il numero degli abitanti di Roma crebbe notevolmente.

L'approvvigionamento di grano era uno dei principali problemi dei politici romani. La

soluzione venne trovata incrementando le importazioni dalla Sicilia. L'incarico di

provvedere Roma con quantitativi adeguati di grano divenne il compito più importante

del governatore della Sicilia. Quando la decima si rivelò insufficiente a coprire il

fabbisogno della popolazione di Roma si ricorse ad acquisti forzati di grano

(frumentum empium) ad un prezzo stabilito unilateralmente dal senato. Questa

seconda decima fu prelevata nel 190 a.C. per rifornire un esercito romano che

combatteva in Grecia, poi di nuovo l’anno seguente e nel 171 a.C. per l’esercito in

Macedonia. Con una legge del 73 a.C. questa imposta da “una tantum” diventò un

regolare tributo annuale.

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RIFORNIMENTO DI GRANO PER IL GOVERNATORE

I produttori erano anche obbligati a rifornire di grano il governatore ed il suo seguito

(frumentum in cellam) a prezzo di Stato. Normalmente il governatore si faceva pagare

la differenza tra il prezzo di mercato e il prezzo di Stato per poter andare ad

approvvigiornarsi dove voleva. Anche se si stabilivano prezzi equi di mercato,

queste prelievi forzosi si prestavano ad imbrogli. Il grano che rimaneva poteva

essere esportato solo in Italia, a meno che il senato romano non avesse concesso

una licenza speciale, come fece nel 169 a.C. su richiesta di un’ambasceria di

Rodi.

COME AVVENIVANO GLI ACQUISTI DEL GRANO.

Per effettuare gli acquisti in ogni comune vennero assegnati degli impiegati addetti ai

pagamenti. Questi impiegati trattenevano parte dell'importo pagato dallo Stato

(deductiones); una trattenuta per il bollo (cerarium); una per il controllo delle monete

(spectatio); una per il cambio delle monete (collybus); una trattenuta del 4% (binae

quinguagesimae) era destinata agli scrivani. Il governatore fissava un prezzo equo, ma

le trattenute operate dall'apparato burocratico rischiavano di decurtare di parecchio

il corrispettivo dovuto al venditore.

La prosperità o la povertà della Sicilia dipendevano in gran parte dal governatore. Il

complesso delle leggi che contemperavano i diversi interessi, del venditore e dello

Stato, poteva essere stravolto da un governatore di scarsa onestà.

IMPOSTE SUL PASCOLO E SUI TRASPORTI Società di publicani ottenevano a Roma l'appalto per la riscossione delle imposte

sul pascolo (scriptura) e sui trasporti marittimi (portorium); a partire dal 75 a.C.

anche il vino, l’olio d’oliva ed altri prodotti. L'imposta sulle merci in entrata o in

uscita dai porti siciliani era del 5%, ne erano esentate solamente le decime ed beni

personali trasportati dai viaggiatori.

CONCUSSIONE E CORRUZIONE

Il governatore solitamente aveva dovuto sostenere molte spese per fare carriera in

politica e avrebbe dovuto spendere ancora molto per continuare ad avere il consenso

degli elettori e dei sostenitori. Il periodo di governatorato in una provincia costituiva

una occasione per recuperare le somme spese. Il controllo dei procedimenti giudiziari

era il mezzo più facile attraverso cui arricchirsi. Il Senato romano, conscio del

pericolo costituito dai governatori disonesti, aveva emanato severe leggi per

reprimere la concussione e la corruzione.

VERIFICA DEL GRANO (PROBATIO)

Il governatore aveva il compito di controllare la qualità del grano consegnato dal

venditore. Nel caso di improbatio, ossia di grano respinto per scarsa qualità, il

venditore doveva pagare al governatore la differenza tra il prezzo di mercato e il

prezzo fissato dallo Stato, qualora questo fosse stato più basso. In tal modo il

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governatore poteva andare a comprare sul mercato libero il quantitativo di grano che

era stato respinto.

BANCHIERI (NEGOTIATORES)

Il giro di denaro generato dalla compravendita di grano e delle altre derrate era

gestito dai negotiatores, ossia dai banchieri, che erano pronti a prestare denaro ai

comuni e ai contribuenti che non riuscivano a pagare le imposte richieste dai publicani.

TORNA

TRASPORTO DEL GRANO DALLE ZONE DI PRODUZIONE AI PORTI

D’IMBARCO.

Per trasportare il grano dalle zone produttive ai porti d’imbarco non c’erano molte

scelte, si utilizzava la forza degli animali e se le vie lo permettevano anche l’uso dei

carri.

ANIMALI.

Gli animali domestici utilizzati per trasportare il grano verso i porti d’imbarco erano

principalmente gli asini, che venivano utilizzati anche per il trasporto di legumi, olio,

frutta, sale, vino e anche pane. L’asino era meno esigente in fatto di alimentazione e

anche se nutrito in modo mediocre era più resistente del mulo; inoltre era molto

adatto ad inerpicarsi per

i sentieri, spesso

tortuosi e talvolta anche

ripidi.

I muli potevano, invece,

in condizioni ottimali di

alimentazione,

sopportare un peso

maggiore rispetto agli

asini e ai cavalli.

Non è infine da

escludere che venissero

utilizzati per il trasporto

degli alimenti anche

cavalli (considerati però animali nobili, utilizzati soprattutto in battaglia) e buoi,

quest’ultimi capaci di trasportare carichi molto pesanti.

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VIE.

Per quanto riguarda il trasporto via terra

dai centri di produzione alle città

portuali, poiché i romani ebbero uno

scarso interesse a costruire strade

nell’isola, si presume che si facesse uso di

mulattiere, e delle cosiddette “trazzere”

per lo più risalenti all’epoca greca anche

se non è da escludere che qualcuna sia

stata creata dai Romani appositamente

per questo scopo; un esempio fu la via consolare Valeria che congiungeva Messina con

Marsala, in uso fino al XIX secolo. Fu la spina dorsale del versante ionico della Sicilia.

CARRI.

Se le vie di comunicazioni da percorrere erano sufficientemente ampie allora il

trasporto delle derrate alimentari e quindi anche del grano avveniva tramite carri

tirati da buoi, asini e muli.

Esistevano diversi tipi di carri:

Il “plaustrum”, carri a due ruote.

Era il tipico carro utilizzato per il

trasporto delle merci non troppo

pesanti, specialmente per i

prodotti che ogni giorno venivano

trasportati dalle campagne vicine

per sfamare la popolazione delle

città. Le ruote erano composte da

massicci dischi di legno ed era

trainato da buoi e da asini.

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Il “serracum”, carro simile al “plaustrum” ma con ruote piene più basse, adatti al

trasporto di carchi

molto pesanti, come

botti di vino e delle

piramidi di grano.

I “carrus”, carri a quattro

ruote radiate. Questi mezzi di

trasporto erano sicuramente

più vantaggiosi nel caso di

carichi ingombranti e pesanti, ma

presentavano maggiori problemi di circolazione

rispetto alle sole bestie da soma. TORNA

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I PORTI D’IMBARCO.

Il trasporto per via d’acqua permise durante tutta l’epoca antica di far viaggiare

prodotti voluminosi e pesanti su lunghe distanze, senza un aumento proibitivo dei

costi. Qualsiasi fossero gli inconvenienti della navigazione, i viaggi per mare

presentavano, nonostante tutto, dei vantaggi rispetto ai trasporti terrestri, lenti, non

confortevoli e pericolosi. Senza parlare della capacità di carico: qualche centinaia di

chili per un carro, centinaia di tonnellate per un’imbarcazione.

Molte delle località costiere elencate da Cicerone nel “De frumento” saranno state

sicuramente scelte come punti d’imbarco per il grano delle decime che dalla Sicilia

doveva giungere a Roma. “ut ….. omnes decumas ad aquam deportatas haberent”.

Il termine “ad aquam” può essere inteso come “via mare”, ma non esclude la

possibilità dell’utilizzo dei corsi d’acqua siciliani, alcuni dei quali allora certamente

navigabili: si pensi ad esempio al Simeto e al Terias, l’odierno San Leonardo.

Se con il termine “ad aquam” si vuole intendere solo il trasporto “via mare”, allora

le attività di trasporto per grandi carichi dovevano fare capo solo ad alcuni porti

privilegiati quali: Siracusa, (La più importante città siciliana, era la sede del pretore e

del questore reggente l’amministrazione tributaria della Sicilia orientale) e Lilibeum

(sede del questore reggente l’amministrazione tributaria della Sicilia occidentale).

Per il trasporto del grano il governo romano richiedeva imbarcazioni di capacità

superiore a 70 tonnellate, più utili ai fini dell’approvvigionamento, e visto che le navi

impiegate in età imperiale avevano una capacità variabile tra i 10.000 e i 50.000

“modii” (rispettivamente 68 e 340 tonnellate circa), si presume che anche in epoca

repubblicana le navi con 70 tonnellate di stazza potessero con facilità salpare ed

approdare da diversi porti siciliani, quali: Catina, Messana, Tyndaris, Lipara,

Halaesa, Thermae, Panhormus e Drepanum.

Se invece il termine “ad aquam” stava a significare anche il trasporto del grano

da un porto più piccolo ad uno più grande, e da questo poi verso Roma; oppure il

punto d’imbarco (fluviale o costiero) più vicino alla regione produttrice, allora il

numero dei porti aumentava considerevolmente e l’elenco delle città, fornito da

Cicerone è da ritenere incompleto. In questi casi però il grano non veniva spedito

direttamente ad Ostia, ma faceva prima scalo nei porti siculi più grandi e da questi poi

salpava alla volta di Roma.

È inoltre possibile che i punti d’imbarco del grano, almeno di quello proveniente da

alcuni territori, non siano stati sempre gli stessi, ma che variassero in base a

particolari esigenze (data, luogo e oneri di trasporto). TORNA

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I NAVICULARII

In entrambi i casi (trasporto diretto o trasporto da scali più piccoli a quelli più grandi)

i costi del viaggio via mare fino a Roma erano interamente a carico del governo

romano, che non

disponendo di

imbarcazioni

commerciali o di una

flotta di trasporto,

faceva ricorso ai

“Navicularii”, cioè agli

armatori titolari di

compagnie di

navigazione , che dietro

compenso effettuavano

il trasporto per suo

conto. Roma si affidava

anche ai “Pubblicani “, cioè intermediari che per conto dello Stato stipulavano i

contratti di aggiudicazione degli appalti con gli armatori (che poi erano quelli che

effettivamente avrebbero operato la spedizione delle derrate). Questi armatori,

riuniti in società, si affidavano ad un magister che curava i loro interessi. I “corpora

naviculariorum” erano ammessi dal diritto romano: nessuna autorizzazione era

necessaria per la loro costituzione e godevano di veri e propri privilegi. Per esempio

per agevolare i trasporti degli armatori lo Stato si addossava generalmente i rischi

della traversata e accordava loro agevolazioni e privilegi, come l’esenzione del

prestare servizio militare durante le guerre per tutto il tempo del trasporto. TORNA

I TONNELLAGGI DELLE NAVI COMMERCIALI ROMANE.

Per rispondere alle

diverse esigenze del

commercio, i tonnellaggi

erano molto variabili.

Secondo le fonti scritte,

le navi con una capacità

di 10.000 modii di grano,

cioè circa 70 t.,

costituivano il limite

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inferiore delle imbarcazioni il cui tonnellaggio era giudicato sufficiente per essere

messo al servizio dell’approvvigionamento di Roma e quindi di godere dei vantaggi

concessi. Si trattava delle più piccole tra le navi di tonnellaggio medio.

La maggioranza delle imbarcazioni impiegate per il commercio, come ci testimoniano i

numerosi rinvenimenti sottomarini, avevano un tonnellaggio che oscillava da 100 t.

(per 2.000 anfore), fino a 150 t. (per 3.000 anfore).

Potevano esistere, però, anche navi

con tonnellaggi più elevati, da 300

t. (per 6.000 anfore); da 500 t.

(in grado di trasportare 10.000

anfore,dette “myrioforoi) ed anche

da 1.200 t (in grado di trasportare

oltre 180.000 moggi di grano), come

l’Isis (vedi sopra e accanto). L’Isis

era una nave granaria romana che

oltre a essere eccezionalmente

grande aveva forse un’attrezzatura

velica più efficiente, era lunga 53

metri, larga 14 e alta circa 13 metri

dalla chiglia al ponte. TORNA

LE NAVI COMMERCIALI O DA TRASPORTO.

Le navi commerciali romane in latino “naves onerariae “ (da carico), possedevano una

sezione capace con una

carena tondeggiante; la

loro lunghezza

corrispondeva a circa tre

volte la loro larghezza,

che era a sua volta il

doppio del pescaggio (nella

media una nave era lunga

19 metri, aveva una

larghezza di circa 6 e un

pescaggio leggermente

inferiore ai 3 metri). Le

differenti imbarcazioni

commerciali spesso possedevano anche nomi diversi, corbita, gaulus, ponto, cladivata,

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etc., che variavano a seconda della loro origine geografica e della forma dello scafo. La

forma dello scafo, per esempio, poteva essere simmetrica o asimmetrica. Nel primo

caso, la poppa e la prua erano identiche mentre nel secondo la prua si trovava ad

un’altezza inferiore. La ruota di poppa, spesso, terminava in una testa di cigno rivolta

all’indietro ed era contornata da una galleria a sbalzo. La prua talvolta era concava per

la presenza di un tagliamare, non un rostro ma un dispositivo destinato a migliorare le

qualità nautiche dell’imbarcazione. Le murate erano protette da cinte e presentavano

una cassa laterale, l’ala, per difendere il sistema di governo. La cabina, di solito, era

collocata a poppa e sul suo tetto prendeva posto il timoniere. Il sistema di governo era

costituito da remi-timoni laterali, situati a poppa. Essi potevano essere regolati con un

sistema di cavi e funzionavano per semplice rotazione attorno al loro asse. Il comando

della manovra avveniva attraverso l’intermediario di una barra perpendicolare al fusto,

il clavus. Infine, la maggior parte delle navi da carico erano velieri munite di uno, due o

tre alberi. Le vele erano quadre ed erano regolate da un complesso sistema di

manovre. Esisteva, poi, su alcune navi una piccola vela triangolare, il supparum,

collocata al di sopra del pennone.

COSA TRASPORTAVANO?

La maggior parte delle navi onerarie trasportava merci di varia natura. I generi

alimentari, soprattutto i liquidi come vino, olio, o semiliquidi come le conserve di pesce,

di frutta ecc… erano contenuti in anfore impilate nelle stive a formare diversi piani.

Il vasellame da cucina e da mensa costituiva spesso il carico supplementare di queste

spedizioni, di cui spesso facevano parte anche suppellettili pregiate ed opere d’arte.

Le opere d’arte, come le statue e la suppellettile di lusso, erano trasportate

probabilmente entro imballaggi di paglia e avvolti da tessuti pesanti per attutire i

colpi ed evitare danneggiamenti nel corso della navigazione.

C’ERANO ANCHE NAVI SPECIALIZZATE.

Il commercio marittimo romano conobbe anche navi specializzate per particolari merci

quali le naves lapidariae, per i marmi lavorati e semilavorati; le frumentariae come

quelle della flotta granaria che riforniva periodicamente Roma di grano egiziano.

C’erano poi speciali navi vinariae per il trasporto del vino dentro grandi vasi di

terracotta detti dolia, capaci di contenere fino a 2.550 – 3.000 litri di vino ciascuno.

Le bestiariae, erano le navi che provvedevano al trasporto degli animali per i giochi del

circo, come si vede nei mosaici della Villa del Casale di Piazza Armerina.

Da ricordare le navi per i trasporti eccezionali, come quelle che trasportarono a Roma

gli obelischi. E’ interessante osservare che, fra tutte le specializzazioni, non è dato di

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conoscere navi esclusivamente dedicate al trasporto passeggeri, come si intendono

oggi.

QUALI VELOCITÀ POTEVANO RAGGIUNGERE?

Per quanto riguarda la navigazione, con vento favorevole, si può stimare che la

distanza percorsa in una giornata diurna di navigazione equivalesse a 700 stadi per una

velocità media dell’ordine di 4 e 5 nodi. In caso di traversate particolarmente rapide,

si potevano raggiungere anche i 6 nodi.

Plinio ci fornisce alcuni esempi: due giorni per andare da Ostia in Africa (capo Bon),

sei giorni per raggiungere Alessandria attraverso lo Stretto di Sicilia, sette giorni

per attraversare tutto il Mediterraneo occidentale da Cadice a Ostia.

Ma i viaggi potevano

essere molto più lunghi:

Strabone ci racconta di

una traversata Spagna-

Italia durata tre mesi!

Le navi da guerra, per

la loro forma, vengono

genericamente chiamate

“naves longae”. Il nome di queste navi dipendeva dal numero dei rematori (vedi trireme

sopra). TORNA

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COME VENIVANO STIVATE LE ANFORE ED IL RESTO DEL CARICO?

Una volta arrivato nei porti di destinazione il grano veniva caricato in appositi vasi che

venivano sistemati nella stiva con una particolare tecnica per garantire la stabilità non

solo dell’imbarcazione, ma

anche delle merci trasportate .

Schema della sovrapposizione dei vari livelli di

anfore nel carico di una nave oneraria

Le anfore erano disposte nella

stiva della nave a scacchiera

su più livelli, quelle del livello

inferiore erano fissate con il

puntale in uno strato di

sabbia o ghiaia, le anfore

degli strati superiori venivano

incastrate con quelle dello

strato inferiore e lo spazio

fra le anfore colmato con

l’inserimento di paglia, giunchi o piccoli rami che ammortizzavano eventuali urti.

Oltre alle anfore, le imbarcazioni, potevano trasportare grossi recipienti di forma

sferica detti dolii con una capacità di carico di circa 1.500 – 2.000 litri, adibiti

prevalentemente al trasporto del vino. I dolii erano di solito sistemati nella parte

centrale dell’imbarcazione. A prua era sistemata la ceramica che a quei tempi

andava più di moda: patere, vasi e coppe.

Lo stivaggio risultava così elastico, non sensibile al rollio né al beccheggio; le anfore

viaggiavano senza urtarsi o rompersi, perché - con la sabbia - creavano un insieme

assai compatto. Come zavorra oltre alla sabia, venivano utilizzate anche pietrame di

varia pezzatura e, in qualche caso, anche i legumi, come le 800 tonnellate di lenticchie

che furono utilizzate come zavorra per la nave che trasportò l’obelisco per il Circo di

Caligola (Plinio, N.H. 16, 201).

Le anfore ricolme venivano chiuse con un tappo di sughero o di legno, o anche di

terracotta, ben aderente, munito nel centro di una sporgenza prensile ad ombelico.

Per ottenere una chiusura ermetica, era sufficiente versare all'esterno del tappo, che

penetrava molto al di sotto del collo dell'anfora, la pece fusa.

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Le anfore erano di diverso tipo, ve n'erano di panciute con collo breve e tozzo e manici

piccoli, e di snelle dal lungo collo e dalle belle anse, di tipo italico. Venivano costruite

da chi si intendeva bene dello stivaggio per la navigazione, con tanto di marchio di

fabbrica "SAB". Le anfore venivano in genere prodotte nei luoghi di provenienza delle

merci e la costruzione era, per così dire, a “produzione di massa”. Si suppone che lo

scaricatore di allora afferrasse questi contenitori per le anse e per il piede e le

caricasse in spalla, oppure l’anfora veniva legata a un palo e trasportata da due

persone. Lo Stato controllava e bollava alcuni di questi contenitori come oggi vengono

bollati i litri o mezzi litri da mescita, garantendo così la loro capacità di misura.

Talvolta le navi onerarie, cioè da trasporto (dal latino onus, oneris, peso), nonostante

una navigazione tranquilla, venivano liberate dal carico, perché deteriorato, oppure in

altri circostanze un cattivo stivaggio causava la rottura di molte anfore che pertanto

finivano in mare. Anno dopo anno, secolo dopo secolo, il Mediterraneo si è sempre più

arricchito di questi contenitori e conserva nei suoi abissi relitti di antiche navi

affondate con i loro carichi: anfore in primo luogo, vasellame, bronzi, marmi, pani di

metallo. TORNA

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I PORTI DI ROMA: OSTIA E POZZUOLI

I carichi di grano avevano come destinazione: Ostia o Pozzuoli considerati i principali

porti annonari dell’Urbe. Pozzuoli offriva un approdo a navi di grandi dimensioni e a

quelle imbarcazioni cariche del grano alessandrino e in genere a quelle proveniente dal

Mediterraneo orientale; mentre Ostia a quelle navi provenienti dal mediterraneo

occidentale e meridionale ed in particolare dall’Africa e dalla Sicilia.

IL PORTO DI OSTIA. Il porto d'Ostia, iniziato da Claudio nel 42 d.C. e terminato da Nerone nel 54 d.C., non

fu al riparo da disastri naturali come quello del 62 a.C. quando una tempesta distrusse

circa 200 navi alla

fonda. Sotto

l’imperatore

Traiano fra gli

anni 100 e 106

d.C., fu costruito

un bacino più

interno ed un

canale che

collegava il nuovo

porto alla foce del

Tevere.

Attorno al nuovo porto fu costruita una nuova città: Portus.

Così già dalla fine del II secolo

d.C. navi provenienti da

Alessandria erano in grado di

approdare anche nel porto di

Ostia.

Fino al 410 d.C. (sacco di

Alarico) 200.000 “accipientis”

(plebei poveri, incapaci di

procurarsi il necessario per

vivere) maschi, adulti, sotto la

supervisione del “praefectus

urbis” e del “praefectus annonae” usufruivano di una razione di pane (circa Kg 1,5 al

giorno). Era una razione abbondante sufficiente per una famiglia formata da quattro

persone delle quali due adulte. L’imperatore Aureliano nel 270/275 d.C. aveva aggiunto

alla razione di pane anche olio ispanico ed africano distribuito nelle “mensae olearie”

(circa 2.300) ed anche vino a prezzo ridotto e soltanto per i mesi invernali circa 7/8

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Kg di carne di maiale. Tutte queste merci dovevano confluire con continuità e non

potendo sopperire al bisogno solamente con i trasporti statali ci si appoggiava al

contributo dei privati. Inoltre per integrare la dieta quotidiana si commercializzavano

anche verdure e legumi. Per

questi prodotti si ricorreva

al commercio non

monopolizzato

dall’intervento statale ed i

prezzi, determinati dal

libero mercato, servivano a

calmierare il costo dei viveri

annonari.

A tutte le navi che

trasportavano derrate

alimentari, bisognava

aggiungere quelle che

trasportavano il vino, i

derivati del pesce, le naves

lapidariae, specializzate nel

trasporto dei blocchi di

marmo e pietra, quelle che

trasportavano le bestie per

il circo, senza contare quelle

adibite al

commercio locale. Le navi

commerciali, se

superavano le

3.000 anfore

(circa 150 t.) non

potevano risalire il

fiume. Dovevano

ancorarsi al largo

ed essere

scaricate da

imbarcazioni più

piccole che

facevano la spola

con le banchine

del porto fluviale

di Ostia. Si

trattava di una grande flottiglia, circa novanta imbarcazioni soltanto per il grano.

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Queste operazioni erano molto lunghe e pericolose: la costa, infatti, era inospitale,

bassa e sabbiosa.

POZZUOLI

L'occupazione romana della Campania, avvenuta nel 338 a.C., segnò la romanizzazione

della città greco-sannitica. Il suo nuovo nome latino di Puteoli che significa piccoli

pozzi, forse a causa delle

numerose sorgenti di acque

termo-minerali che vi si

trovano, ne è la prova. Roma,

che durante la seconda guerra

punica (218-201 a.C.) aveva

sperimentato l'importanza

strategica del porto di Puteoli,

nel 195 a.C. vi fondò una

colonia marittima, che pian

pianino divenne il maggior

porto d’Italia. La fortuna di

Puteoli cominciò a declinare

lentamente dopo la creazione

del porto di Ostia. Il suo porto

comunque rappresentò fino al

tempo di Antonino Pio (138-161 d.C. che nel 139 d.C. ne riparò il molo dissestato da una

mareggiata), lo scalo

principale della

Campania. Il porto

di Pozzuoli non ebbe

presso i romani

soltanto una

importanza

strategica ma

soprattutto

commerciale. I moli

puteolani videro

mercanti di ogni paese, navi siriane, tirie, cipriote, ebraiche, egiziane. Il tragitto

Pozzuoli-Ostia era compiuto in due giorni. TORNA

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LE OPERAZIONI DI SBARCO

Una volta giunte alla foce del Tevere, le navi cariche di frumento venivano alleggerite

in tutto o in parte del loro carico dai battellieri di apposite imbarcazioni dirette al

porto di Ostia dove i cereali venivano momentaneamente immagazzinati negli “Horrea”

cittadini.

GLI HORREA.

Gli horrea di Roma e del suo

porto (Ostia antica) avevano

generalmente uno o due piani, con

il piano superiore raggiungibile da

rampe, piuttosto che con scale.

Gli ambienti (tabernae) si

articolavano intorno ad un cortile

interno, che in alcuni casi (Ostia

antica) venne sacrificato nelle

realizzazioni più recenti per

realizzarvi altre file di ambienti disposte schiena contro schiena. Molti horrea

servivano anche da piccoli centri commerciali, raggruppando file di negozi negli

ambienti disposti intorno a dei cortili (tabernae).

Allee operazioni di carico e

scarico si assommavano altri

tre giorni per risalire il

Tevere. Il traino, dalla riva

destra del fiume, era

effettuato da animali da

soma oppure da schiavi.

(Imbarcazione che serviva da rimorchiatore).

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A questo proposito, esisteva una particolare categoria di imbarcazioni che erano

impiegate per il trasporto fluviale delle merci trasbordate dalle navi commerciali fino

all’Urbe che rimontavano la corrente per alaggio (traino di una imbarcazione da una

postazione su terraferma, allo scopo di imprimere il moto o controllare la direzione

del natante). Chiaramente questo tragitto, i cui costi dovevano essere rilevanti,

considerate le operazioni di trasbordo del carico dalle imbarcazioni marine a quelle

fluviali, era anch’esso a carco dello stato. TORNA

CONCLUSIONE.

In conclusione la Sicilia, pur essendo lontana da Roma, rappresentava per la plebe

dell’urbe la principale risorsa di grano. Roma dipendeva quasi del tutto da essa per il

proprio approvvigionamento.

Il ruolo di “granaio di

Roma”, fu assunto

dall’Egitto (che Ottaviano

si assicurò dopo la

vittoria di Anzio

conseguita nel 31 a.C.

contro Antonio e

Cleopatra) e in seguito.

Ma in età tardoantica si

verificò un notevole passo

avanti: la Sicilia

divenne, nell’ambito del

riassetto dell’Impero

attuato da Diocleziano, una delle province dell’Italia suburbicaria e conobbe una nuova

crescita anche l’economia latifondista, con ricchissimi proprietari di grandi tenute che

risiedevano in ville di notevole ampiezza (o forse sarebbe meglio dire palazzi) quasi

sostituendosi all’autorità del potere centrale. L’isola recuperò, a questo punto, anche

un ruolo di primo piano nell’approvvigionamento dell’Urbe. TORNA