La Shoah attraverso il “Corriere d’Informazione”, …...analizziamo giornali diversi per...
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La Shoah attraverso il “Corriere d’Informazione”, “L’Unità” e “Il Giornale di Vicenza”
1945
(Per citare il documento: Daniela Franceschi, http://www.freeebrei.com/anno-vi-numero-1-
gennaio-giugno-2017/daniela-franceschi-la- shoah-attraverso-il-corriere-dinformazione-
lunite-il-giornale-di-vicenza-1945, "Free Ebrei. Rivista online di identità ebraica
contemporanea", VI, 1, gennaio-giugno 2017)
Prima del secondo conflitto, la comunità ebraica italiana contava circa 47.000 persone, che si
ridussero a meno di 30.000 nel secondo dopoguerra. Una perdita così notevole è ascrivibile a svariate
cause, tra le quali le abiure, le emigrazioni e le persecuzioni. Tra i sei milioni di ebrei vittime della
Shoah, vi furono anche 6746 ebrei italiani1.
Il cammino che gli ebrei italiani dovettero intraprendere, dopo la fine della seconda guerra
mondiale, per una reintegrazione civile, sociale e economica fu impervio e difficile.
Dal punto di vista prettamente giuridico, la rottura con la precedente legislazione razziale
italiana fu risoluta; malgrado qualche resistenza iniziale del primo Governo Badoglio, e nonostante
le riluttanze espresse dalla Santa Sede che nell’estate del 1943 segnalava all’Esecutivo l’esistenza
nella Normativa antiebraica di elementi “meritevoli di conferma”2, il processo di abrogazione delle
Leggi razziali, imposto dagli alleati con l’articolo n. 31 dell’armistizio lungo, firmato a Malta il 29
settembre del 1943, portò entro il 1947 al superamento delle norme razziste e alla restituzione dei
pieni diritti civili e politici agli ex perseguitati. La storiografia più recente ha fornito un’ampia
documentazione sul difficile reintegro degli ebrei italiani nel legittimo possesso dei beni e del lavoro
1 L. Picciotto Fargion, La liberazione dai campi di concentramento e il rintraccio degli ebrei italiani dispersi, in M.
Sarfatti (a cura di), Il ritorno alla vita: vicende e diritti degli ebrei in Italia dopo la seconda guerra mondiale, Giuntina,
Firenze 1998. 2 La citazione è tratta dalla relazione del 29 agosto 1943 di Padre Tacchi Venturi al Cardinale Maglione, Segretario di
Stato Vaticano, in Actes et documents du Saint Siège relatifs à la Seconde Guerre Mondiale, vol. IX, Le Saint Siège et
le victimes de la guerre, Città del Vaticano 1975, p. 459.
che la Legislazione antisemita gli aveva tolto, inoltre, ha anche delineato il contesto sociale che
accompagnava questo ritorno: indifferenza; insofferenza; alcune volte aperta ostilità.
Ancora più complesso si rivelò ritornare alla vita all’interno di una comunità nazionale in
cui, come nota Guri Schwarz, “l’antisemitismo fascista non aveva riguardato la sola minoranza
perseguitata e i rapaci avvoltoi che avevano profittato della sua fragilità, ma aveva coinvolto la
riscrittura dei codici della cittadinanza e la formulazione- anche tramite la raffigurazione di un
controtipo negativo- di una diversa concezione dell’identità nazionale, che acquisiva carattere
prescrittivo”3.
Fino agli anni Sessanta, lo sterminio degli ebrei non fu oggetto di un’analisi approfondita in
nessuna parte d’Europa; nell’Europa orientale, soprattutto in Polonia, centro nevralgico del disegno
di annientamento del popolo ebraico, dopo il 1947, fu negata la natura specificatamente razziale e
antisemitica della persecuzione, inserendo gli ebrei sterminati nel calcolo dei cittadini uccisi dalla
guerra nazista, occultandone l’identità attraverso un generico anonimato.
In Occidente, non vi fu questo processo di occultamento della specificità dell’Olocausto,
tuttavia, non vi fu quell’attenzione e quella presa di coscienza collettiva che il genocidio ebraico
avrebbe meritato.
L’elaborazione di tematiche quali le leggi razziali, la persecuzione e lo sterminio fu per gli
ebrei italiani un processo privato, che non coinvolse la collettività; infatti, fin dalla caduta della
dittatura fascista, si andò progressivamente affermando un’interpretazione della politica antiebraica
da cui era espunta ogni responsabilità italiana, ritenendo, erroneamente, la legislazione antisemita
un’imposizione della Germania nazista, inoltre, si esaltava l’inesistenza dell’antisemitismo in Italia e
l’impossibilità che il popolo italiano avesse potuto collaborare con degli spietati assassini.
La glorificazione del rifiuto della normativa antisemita da parte del popolo italiano alludeva,
direttamente, alla distanza che separava gli italiani dalla dittatura fascista, non facente parte della
3 G. Schwarz, Ritrovare se stessi. Gli ebrei nell’Italia post fascista, Laterza, Bari-Roma 2004, p. 8.
storia italiana essendo una parentesi, dalla Repubblica Sociale, eterodiretta dai criminali nazisti, dagli
orrori della guerra e dallo sterminio. La classe dirigente, politica e intellettuale, decise di fondare la
nuova identità nazionale sul mito della Resistenza: il periodo fascista, e con esso le Leggi razziali,
l’alleanza con la Germania hitleriana e le persecuzioni razziali e politiche divennero un incidente
nella storia e nello spirito nazionale, meglio rappresentati dalla Resistenza, stabilendo, di
conseguenza, un antagonismo irriducibile tra il popolo italiano e il regime fascista. Questo
atteggiamento autoassolutorio non rispondeva solamente ad esigenze di politica internazionale,
separare le sorti dell’Italia da quelle dell’ingombrante ex alleato tedesco per evitare una pace punitiva
da parte dei vincitori, ma anche ai bisogni di natura psicologica di un Paese che, dovendo iniziare una
difficile opera di ricostruzione, intendeva farlo senza il peso di uno scomodo passato, caratterizzato
da lacerazioni e da molte pagine oscure.
Molti studi hanno evidenziato la necessità per i Partiti antifascisti di una legittimazione
politica; questi, consapevoli dell’adesione popolare al regime, del carattere minoritario della
Resistenza e delle sue caratteristiche anche di guerra civile, avrebbero evitato di chiamare l’Italia ad
una drastica redde rationem con il passato per non dissestare la società e minare il loro consenso
elettorale, rivendicando, invece, l’idea di una generale ostilità degli italiani al fascismo e
presentandosi come rappresentanti di un popolo privo di colpe, protagonista di una vittoriosa guerra
di liberazione nazionale sotto la leadership antifascista. La promozione di questa narrazione del
passato fascista, e della Resistenza come mito fondante della Repubblica unita all’altro mito fondante,
il fascismo come parentesi nella storia italiana, non ha riguardato soltanto le forze politiche di sinistra
desiderose di ottenere una autolegittimazione politica4, ma anche le forze moderate interessate a
cancellare il coinvolgimento del popolo italiano, soprattutto quello delle sue élite politiche ed
economiche, con il regime, addebitando tutte le colpe su Mussolini e i suoi più stretti accoliti, per
favorire una transizione politica non traumatica, garantita da un blando processo di epurazione5.
4 Cfr. P. G. Zunino, La Repubblica e il suo passato. Il fascismo dopo il fascismo, il comunismo, la democrazia: le
origini dell’Italia contemporanea, Il Mulino, Bologna 2003, p. 215 e pp. 283 sgg. 5 Cfr. G. Oliva, L’alibi della resistenza, Mondadori, Milano 2003, pp. 67-81.
La stampa rappresenta un ambito di ricerca prezioso, poiché, riflettendo le dinamiche
politiche e culturali della società contemporanea ed anche le rappresentazioni collettive dell’identità
nazionale, offre la possibilità di analizzare come, nell’immediato dopoguerra, si formasse la memoria
della deportazione e la sclerotizzazione di stereotipi e mitologie. Gli storici che si sono occupati
dell’atteggiamento dell’opinione pubblica nell’immediato dopoguerra sono concordi nel registrare il
silenzio della stampa nazionale sul coinvolgimento degli italiani nella deportazione e nello sterminio
degli ebrei. Tuttavia, questa rimozione assume caratteristiche e sfumature dissimili, soprattutto se
analizziamo giornali diversi per impostazione, storia e pubblico di riferimento, come il “Corriere della
Sera”, rinato come il “Corriere d’Informazione”, “L’Unità” e “Il Giornale di Vicenza”, organo del
Comitato di Liberazione Nazionale.
È interessante iniziare questo studio proprio dall’ultima testata menzionata, “Il Giornale di
Vicenza”, poiché in due articoli furono trattati argomenti solitamente elusi dalla stampa nazionale,
quali la politica antisemita del regime fascista e la Risiera di San Sabba.
Il primo articolo fu pubblicato nella spalla della prima pagina nell’agosto del 19456, a firma
di Attilio Graziani, in occasione del settimo anniversario della pubblicazione su “Il Giornale d’Italia”
del Manifesto Razzista redatto da Giovanni Preziosi. Le considerazioni di Graziani prendevano le
mosse da prima della promulgazione delle Leggi razziali, quando Mussolini aveva garantito ai capi
delle comunità israelitiche l’inesistenza della questione ebraica: “L’uomo che in tutta la sua vita solo
una volta mantenne fede alla promessa, quando dichiarò che sarebbe stata fatta tabula rasa della vita
civile, ricevendo a Palazzo Venezia i capi delle Comunità Israelitiche italiane aveva dato loro atto del
perfetto lealismo degli ebrei connazionali e nei suoi colloqui con Emil Ludwig aveva ribadito che tra
noi e loro non esiste una questione ebraica”.
Ma “nell’estate del 1938, il vecchio ciurmatore, mutando, come sempre, gabbana con la faccia
tosta di un giocoliere da piazza, si piega agli ordini di Berlino e bandisce la campagna antisemita.
6 Attilio Graziani, Sette anni di razzismo, “Il Giornale di Vicenza”, 14 agosto 1945.
Sotto l’assurdo pretesto della cosiddetta difesa della razza, colui che fra le più clamorose amanti aveva
avuto un’ebrea, si fa assertore delle criminose dottrine che, falsando la storia e la biologia, richiamano
il più fosco medioevo e ricalcano Norimberga. Vicenda indegna di un popolo civile”. Dalle parole
del giornalista emergeva chiaramente la condanna della politica razziale del regime, indegna di un
popolo civile che, tuttavia, era considerata un’imposizione dell’alleato tedesco, quindi,
intrinsecamente estranea al popolo italiano. La storiografia più recente ha evidenziato come, tra il
1935 e il 1936, la “questione antiebraica” avesse assunto un’importanza notevole per la politica
interna e Mussolini decidesse, senza alcuna imposizione e agendo allo steso tempo da stimolo e da
mediatore all’interno del gruppo dirigente del Partito, di risolverla dando al Paese una moderna
politica antisemita.
Ben prima della Legislazione razziale contro gli ebrei del 1938, il regime fascista aveva
attuato provvedimenti razzisti e segregazionisti verso le popolazioni delle colonie considerate
inferiori7, quindi, le diatribe pubbliche di Mussolini contro il razzismo tedesco devono essere
correttamente riferite al fatto che “questo era contro tutti e tutto e al suo mancare di senso di
equilibrio”8, non certo al suo considerare ineluttabile una ferrea gerarchia fra le razze. Inoltre, in Italia
sussistevano radici culturali su cui impiantare una politica di discriminazione antisemita9, tra le quali
il tradizionale antigiudaismo cattolico10, i filoni di antisemitismo all’interno delle scienze biologiche
e antropologiche nazionali che furono a fianco del regime nell’avvallare la svolta razzista11. La
dittatura fascista vide la possibilità che queste radici potessero fornirgli quella propulsione totalitaria
che il nazismo sembrava aver trovato nell’ideologia razzista della Volksgemeinschaft12.
7 Cfr. D. Franceschi, La politica della razza nelle colonie italiane negli anni del fascismo,
http://www.storico.org/italia_fascista/politica_razzacolonie.html, gennaio 2012. 8 Cfr. Benito Mussolini, Teutonica, “Il popolo d’Italia”, 26 maggio 1934. 9 Cfr. M. Sarfatti, Gli ebrei nell’Italia fascista. Vicende, identità, persecuzione, Einaudi, Torino 2000. 10 Cfr. G. Rigano, Storia, memoria e bibliografia delle leggi razziste in Italia, in Leggi del 1938 e cultura del razzismo.
Storia, memoria, rimozione, a cura di M. Beer, A. Foa, I. Iannuzzi, Viella, Roma 2010, pp. 205-208. 11 G. Israel, P. Nastasi, Scienza e razza nell’Italia fascista, Il Mulino, Bologna 1998;
G. Israel, Il fascismo e la razza. La scienza italiana e le politiche razziali del regime, Il Mulino, Bologna 2010;
R. Maiocchi, Scienza italiana e razzismo fascista, La Nuova Italia, Firenze 1999;
F. Cassata, Molti, sani e forti: l’eugenetica in Italia, Bollati Boringhieri, Torino 2006. 12 Cfr. M. -A. Matard-Bonucci, L’Italia fascista e la persecuzione degli ebrei, Il Mulino, Bologna 2007.
L’articolista continuava soffermandosi sul Manifesto degli scienziati razzisti, definito
Manifesto razzista che aveva profuso intorno agli ebrei “i germi del rancore e dell’odio”, trasmettendo
un messaggio per cui ci si doveva guardare da loro, “che sono una razza e un popolo di parassiti tra i
popoli che li ospitano, accentratori e monopolizzatori delle ricchezze accumulate con fatica altrui,
disgregatori e dissolvitori, nemici della società e della famiglia”. Un messaggio che “annulla il
patrimonio e il contributo di scienza, patriottismo e di operosità che gli ebrei hanno dato alla patria e
al suo progredire”. La stampa fu investita dalla “vergognosa crociata”, attraverso “coriferi sparsi nelle
redazioni dei giornali dall’entusiasmo comandato”. Graziani continuava affermando, dopo aver fatto
riferimento al susseguirsi dei provvedimenti legislativi emanati nel 1938, che fu il “razzismo
codificato che elimina gli ebrei dalla vita nazionale, li segna e li sospinge verso il loro doloroso
destino. (…)”. “La trafila delle restrizioni e degli inasprimenti” continuò per altri cinque anni, fino al
1943. Poi, il “30 novembre 1943, quando tutti gli ebrei o considerati tali, discriminati o no, in seguito
al pronunciamento del congresso di Verona, che li qualifica stranieri e appartenenti a nazionalità
nemica, sono assegnati ai campi di concentramento e spogliati dei beni che loro rimangono”. Il
giornalista si riferiva al Manifesto di Verona, redatto dall’assemblea del Partito Fascista
Repubblicano il 14 novembre, che al punto 7 considerava gli ebrei stranieri e quindi nemici; poi
all’ordinanza del successivo 30 novembre, che stabiliva la confisca di tutti i loro beni e il loro
internamento in campi di concentramento da costituirsi13. Guri Schwarz ha affermato che, in questo
modo, “venendo privati della loro cittadinanza gli ebrei italiani persero l’unica, esile, garanzia legale
che ne tutelava l’incolumità”. Secondo l’articolista, il motivo alla base dell’ordinanza era il desiderio
da parte del governo repubblichino di appropriarsi dei beni degli ebrei, “un vero assassinio a scopo
13 Il 30 novembre il Ministro dell’interno dispose con “l’ordine di polizia” N°5: a) l’arresto di tutti gli ebrei […] a
qualunque nazionalità appartengano e il loro internamento in campi di concentramento provinciali in attesa di essere
riuniti in campi di concentramento speciali appositamente attrezzati; b) il sequestro (misura avente carattere
provvisorio) di tutti i loro beni, mobili ed immobili, in quali sarebbero stati successivamente confiscati (misura
definitiva) e destinati a beneficio degli indigenti sinistrati dalle incursioni nemiche; c) l’adozione di una speciale
vigilanza di polizia nei confronti di quei figli di matrimonio misto che nel quinquennio precedente erano stati
classificati di razza ariana. Archivio Centrale dello Stato, Ministero dell’Interno, Direzione Generale per la demografia
e la razza, Divisione affari generali e riservati, Massime (parte non riordinata), R. 9, b. 80, fasc.19, ministro dell’interno
a capi delle province, 30 novembre 1943.
di rapina”, a cui parteciparono non solo le SS tedesche, ma anche quelle italiane: “Le SS tedesche
non rispettano neppure le pochissime eccezioni consentite dal Governo di Salò: durante il dominio
dei teutoni e delle brigate nere gli ebrei patiscono tutte le vessazioni: dai campi di concentramento
vengono deportati in Germania e in Polonia, trucidati a centinaia di migliaia con quella bestialità che
rimarrà il marchio della maledetta razza tedesca per molte generazioni e forse per secoli. Gli altri,
quelli miracolosamente sfuggiti alla cattura e mimetizzati nella campagna, attraverso rastrellamenti e
rappresaglie vivono nel continuo terrore della morte sopra il loro capo”. Dal dicembre del 1943,
allorquando furono allestiti i primi campi di concentramento italiani, si entrò nella fase di totale
responsabilità italiana nella persecuzione fisica degli ebrei; “[…] gli arresti, gli internamenti, i
sequestri dei beni rispondevano ad un preciso orientamento del governo fascista ed erano messi in
atto dalla varie questure”14. In conclusione, l’articolista affermava che “il 28 aprile 1945 è per i
superstiti la fine di sette anni di inenarrabili tormenti fisici e morali. La liberazione dal giogo tedesco
e dalla tirannia fascista ridà agli ebrei i diritti civili e con essi il loro posto nel consorzio civile,
riconoscendo ch’essi, primi tra tutti i perseguitati, hanno bene meritato la riscossa. Niente di nuovo,
in quanto abbiamo voluto rievocare. Ma crediamo che ricordare si dovesse, nel settennale che ricorre.
Ché, se si potesse dire di più, altro non resterebbe che a ciascuno e a chi scrive che narrare il proprio
romanzo”. Il tema della Legislazione razziale del 1938 non apparve di frequente nella stampa italiana
dell’epoca, tuttavia, è possibile notare come l’articolo riflettesse pienamente il contesto culturale e
politico del tempo, che considerava le leggi razziali del 1938 come un’imposizione di Hitler, subita
passivamente da Mussolini e dal suo entourage. È interessante notare come le responsabilità
evidenziate dal contributo ricadessero su Mussolini e sulla “maledetta razza tedesca”.
L’articolo sulla Risiera di San Sabba fu pubblicato in occasione del ritrovamento di resti
umani all’interno dell’edificio: “ingenti quantitativi di ossa umane calcinate sono venuti alla luce ieri,
nell’ex pilatura di San Sabba durante la rimozione delle macerie della ciminiera fatta saltare dai
14 L. Picciotto Fargion, voce Deportazione degli ebrei dall’Italia, in W. Laqueur, A, Cavaglion (a cura di), Dizionario
dell’Olocausto, Einaudi, Torino 2004, p. 207.
tedeschi al momento della fuga”15. Il contributo proseguiva fornendo una breve descrizione del
campo: “La pilatura del riso era stata adibita dalle SS durante i mesi dell’occupazione tedesca a luogo
di raduno dei deportandi e a prigione politica ed era noto fin dai tempi dell’occupazione che vi si
eliminavano e cremavano sistematicamente ebrei e partigiani”. La descrizione, seppur breve, riusciva
a fornire un quadro abbastanza esauriente della polifunzionalità della Risiera che fungeva da prigione
e luogo di tortura per gli oppositori politici, campo di sterminio nel quadro della Soluzione Finale e
campo di transito verso i lager tedeschi.
L’articolo proseguiva descrivendo il ritrovamento dei resti: “Durante i lavori di sgombero
anzidetti sono state rinvenute numerose ossa umane (scatole craniche, costole, tibie, ecc.) e nel canale
sottostante il forno una massa di sostanza grassa che si ritiene residuo della cremazione. Accanto ai
resti sono stati rinvenuti numerosi capi di vestiario, in parte lordi di sangue, che si ritiene aver
appartenuto alle vittime. È stato trovato pure un sacco di cellulosa di quelli che si usavano
comunemente per il trasporto di ossa umane. Testimoni oculari affermano che molti di tali sacchi
sono stati visti uscire dalla “risiera della morte” sulle spalle dei militi delle SS che si recavano alla
mattina presto o la sera all’imbrunire a vuotarli in mare dal moletto di San Sabba”. L’articolo non
forniva ulteriori informazioni sul lager, che fu dimenticato per più di vent’anni, come ricorda Tullia
Catalan: “all’epoca il Governo Militare Alleato fece quanto era in suo potere per rendere vani i
tentativi di inchiesta sui crimini perpetrati in Risiera, spinto in ciò anche dall’atmosfera di
contrapposizione politica e nazionale che caratterizzò la città in quegli anni. Con il ritorno all’Italia
di Trieste, la Risiera di San Sabba continuò ad essere rimossa per circa un decennio dalla memoria
collettiva della città: le uniche occasioni nella quali veniva riscattata dall’oblio erano le visite di
esponenti dello stato e le celebrazioni di festività della Repubblica, quando vi affluivano da tutta Italia
membri di associazioni di ex deportati e di partigiani. L’evento che mise fine a questa situazione ebbe
15 Anonimo, Atrocità naziste. La risiera della morte. Nella pilatura di riso di san sabba, a Trieste, le SS eliminavano
ebrei e partigiani e ne cremavano le salme nel forno, “Il Giornale di Vicenza”, data non reperibile per cattivo stato di
conservazione della copia.
luogo il 15 aprile 1965, con la promulgazione di un decreto presidenziale che conferiva all’ex lager
la dignità di un monumento nazionale”16.
Le altre notizie sulla Shoah riportate dal quotidiano erano estrapolate da corrispondenze di
agenzie di stampa estere e da corrispondenze dai processi contro i criminali di guerra nazisti17. È
interessante prendere in esame un articolo, tra quelli dedicati al processo di Norimberga, che
concerneva specificatamente la persecuzione degli ebrei, Milioni di ebrei furono uccisi ma Himmler
non era soddisfatto18, ripreso anche da “La Nuova Stampa” lo stesso giorno, il 15 dicembre.
L’articolo verteva esclusivamente sulla sorte degli ebrei dell’Europa orientale: nella prima parte si
parlava di un piano tedesco per farli morire di fame: “[L’accusatore Wallace] ha ripreso la sua
esposizione sulla campagna antisemita condotta dai nazisti. Egli ha prodotto una nuova serie di
documenti tedeschi che rivelano l’esistenza di un piano per far morire di fame milioni di ebrei, non
fornendo loro rifornimenti di viveri e proibendo loro di dedicarsi ai lavori agricoli, da cui avrebbero
potuto trarre sostentamento. Fra questi documenti risulta un diario di Hans Frank. Dopo la
promulgazione della nuova legge sull’alimentazione, nell’agosto del 1944, Frank scriveva: “abbiamo
condannato a morire di fame un milione e 200.000 ebrei. Naturalmente anche se essi riusciranno in
parte a sopravvivere a questo piano mirante ad affamarli, questa campagna fiancheggerà
efficacemente altri provvedimenti contro di loro”. Nella seconda parte, si trattava dei “furgoni della
morte” e si nominavano i lager di Auschwitz e di Treblinka; “nel campo di concentramento di
Auschwitz venivano uccisi in media 12.000 ebrei ungheresi al giorno: i forni crematori non erano
sufficienti ad eliminare i cadaveri. Alcuni documenti si riferiscono alle atrocità commesse da Hans
16 T. Catalan, voce Risiera di San Sabba, in Dizionario dell’Olocausto, op.cit., pp. 639-642. 17 Cfr. Anonimo, I campi di concentramento progettati da Goering, “Il Giornale di Vicenza”, 27 giugno 1945;
Anonimo, Le reliquie dei martiri del campo di Maidanek in un museo di Varsavia, “Il Giornale di Vicenza”, 31 luglio
1945;
Anonimo, I reduci di Buchenwald affermano la responsabilità di Pétain, “Il Giornale di Vicenza”, 1 agosto 1945;
Anonimo, I carnefici di Belsen furono giustiziati, “Il Giornale di Vicenza”, 15 dicembre 1945;
Anonimo, Chiamata in causa di Horty nel processo di Budapest, “Il Giornale di Vicenza”, 21 dicembre 1945. 18 Anonimo, Milioni di ebrei furono uccisi ma Himmler non era soddisfatto, “Il Giornale di Vicenza”, 15 dicembre
1945.
Frank nel campo della morte di Treblinka in cui venivano massacrati centinaia di migliaia di ebrei,
fra donne e ragazzi.”
In conclusione, si fornivano anche delle cifre sullo sterminio: “da una esposizione sugli ebrei
polacchi si deduce che furono soppressi nel solo periodo tra il 1942 e il 1944, oltre sei milioni di
ebrei. Himmler non era soddisfatto di questa cifra, poiché, secondo lui, il numero sarebbe dovuto
essere più alto”. Per quanto concerne quest’ultimo dato, è importante notare che, nell’immediato
dopoguerra, esisteva una notevole confusione informativa, anche per ciò che riguardava il computo
dei morti, che solitamente appare, in tutte le testate esaminate, inesatto e esagerato.
“Il Giornale di Vicenza” trattò apertamente della deportazione e dello sterminio degli ebrei,
collegandoli sia alla politica razziale del fascismo sia al disegno del nazionalsocialismo, in base alle
udienze del processo di Norimberga, dedicandogli, tuttavia, poco spazio. Questa linea editoriale può
essere stata determinata anche dalle ridotte dimensioni della testata giornalistica, che imponevano
una minore possibilità di scelta.
Di ben altre dimensioni e autorevolezza era depositario il “Corriere della Sera”, il più
importante organo di informazione nel panorama del giornalismo italiano dell’epoca, tornato nelle
edicole nella primavera del 1945 come “Corriere d’Informazione”19, sotto la direzione di Mario
Borsa20.
Per una maggiore comprensione della linea editoriale del “Corriere”, è interessante
soffermarsi su due articoli di fondo di Mario Borsa. Il primo articolo21 invocava un coraggioso atto
di sincerità da parte del popolo italiano nell’assumersi le proprie responsabilità per l’instaurarsi e il
permanere della dittatura fascista, rendendo, altresì, omaggio alla lotta degli antifascisti, “nobili
minoranze”, a lungo inascoltate dal popolo che aveva mostrato “supina acquiescenza al regime”. Due
mesi dopo, in occasione dell’inizio della Conferenza di Postdam (17 luglio- 2 agosto 1945), il
19 Cfr. G. Licata, Storia del Corriere della Sera, Rizzoli, Milano 1976, pp. 396-419. 20 Per la figura di Mario Borsa si rinvia al profilo tracciato da Luigi Lotti, Mario Borsa, in Dizionario biografico degli
italiani, vol. XIII, Istituto dell’Enciclopedia Italiana, Roma 1971, p. 109. 21 Cfr. Mario Borsa, Sincerità, “Corriere d’Informazione”, 22 maggio 1945.
direttore cambiava opinione, sostenendo la richiesta del Governo Parri di un riconoscimento per
l’Italia dello status di alleata a fianco delle Nazioni Unite22, dato che l’Italia era degna di “tale posto
per varie ragioni. Anzitutto sarà bene ricordare che il fascismo non è mai stato la sincera espressione
della volontà del nostro popolo. Tutti coloro, e furono centinaia di migliaia, che nei venti anni della
parentesi mussoliniana, hanno sofferto e in galera, e nelle isole, e nei campi di concentramento ed in
esilio, sfidando le persecuzioni, la fame e la morte, stanno ad attestare che l’Italia liberale e
democratica non era mai morta e che se non han potuto insorgere per risorgere fu solo perché una
forza bruta la teneva sotto i piedi. Quando il 25 luglio 1943 questa forza bruta venne meno, vi fu una
tale esplosione di esultanza che deve aver detto ai popoli d’Inghilterra, d’America e di Russia quale
era stato ed era sempre stato il vero spirito intimo del nostro Paese”.
Secondo Mario Borsa, le “nobili minoranze” erano diventate schiere di “centinaia di migliaia”
di antifascisti, espressione di “un’Italia liberale e democratica”, mai soggiogata dalla “forza bruta”
della tirannide fascista.
Dal punto di vista politico, dopo la Conferenza di Postdam, durante le trattative sulla pace
italiana, non ci fu un allontanamento da questa interpretazione, che assunse il carattere di posizione
ufficiale condivisa, non solo dalle forze politiche di tutti gli schieramenti, ma anche da quelle
culturali.
Dato il tenore del secondo editoriale non stupisce che il “Corriere d’Informazione” abbia dato,
nel periodo esaminato, un notevole rilievo alle testimonianze degli ex deportati politici dei lager23,
tralasciando, si ritiene volutamente, ogni riferimento alla normativa antisemita fascista ed alle
responsabilità dei funzionari e dei cittadini italiani nella Shoah. È difficile trovare nel “Corriere” dei
riferimenti specifici allo sterminio degli ebrei, infatti, si può osservare come i pochi riferimenti
fossero inseriti in articoli che concernevano altri argomenti e in notizie brevi, riprese da scarne
22 Cfr. Mario Borsa, Postdam e l’Italia, “Corriere d’Informazione”, 17 luglio 1945. 23 Cfr. Anonimo, Uno di Mauthausen: il regime di inumano lavoro, di fame, di brutalità cui erano sottoposti 2000
internati italiani, “Corriere d’Informazione”, 29 maggio 1945:
Anonimo, Dai campi della morte. A colloquio con Padre Giannantonio, “Corriere d’Informazione”, 1 giugno 1945;
Anonimo, Mauthausen nei ricordi di un medico, “Corriere d’Informazione”, 3 giugno 1945.
agenzie di stampa estere24. Anna Rossi-Doria osserva come nell’opinione pubblica del tempo
sussistesse un’importante differenza tra i deportati politici e gli ebrei, poiché “i deportati politici
furono considerati e si considerano fin dall’inizio i più simili ai partigiani, non solo perché molti di
loro lo erano stati, ma anche perché comunque pagavano nel lager il prezzo, in qualche modo messo
in conto, di una consapevole scelta antifascista compiuta in precedenza. Quest’ultima li differenziava
sia dagli ebrei, che entravano nel campo di sterminio per ciò che erano, non per ciò che facevano, sia
dagli internati militari, che erano prigionieri di guerra, anche se, come vedremo, privi dei diritti di
questi. (…) Il deportato politico era stato un resistente, un protagonista attivo della lotta di liberazione,
non una vittima: poteva quindi legittimamente rappresentare la deportazione. Non a caso il simbolo
di quest’ultima fu per tutto il primo periodo Buchenwald, non Auschwitz”25.
Prima che il giornalista Enrico Caprile seguisse come corrispondente il processo di
Norimberga, il “Corriere” assimilava gli ebrei a tutti gli altri prigionieri dei lager, privando il
genocidio ebraico della propria specificità26.
Al processo di Lüneburg furono dedicati quattro articoli, ripresi dalle corrispondenze di
giornalisti stranieri, focalizzando, quindi, l’attenzione sulle udienze più rilevanti27. È significativo il
ricorrere di termini come massacratori, aguzzini, carnefici e belve nella descrizione degli imputati, e
dei tedeschi in genere. A questo proposito, risulta di particolare interesse prendere in esame un
articolo di Mario Borsa, in cui affermava che “preso individualmente il tedesco è persona assai
24 Cfr. Anonimo, Milano intorno ai martiri di Fossoli, “Corriere d’Informazione”, 25 maggio 1945;
Anonimo, Himmler si è ucciso, “Corriere d’Informazione”, 25 maggio 1945;
Anonimo, Gli ebrei tedeschi non vogliono tornare in Germania, “Corriere d’Informazione”, 19 giugno 1945;
Anonimo, Carneficina di ebrei olandesi compiuta da criminali tedeschi, “Corriere d’Informazione”, 27 giugno 1945;
Anonimo, Quisling accusato dai reduci dei campi tedeschi della morte, “Corriere d’Informazione”, 24 agosto 1945;
Anonimo, Il carnefice Meisinger arrestato in Giappone, “Corriere d’Informazione”, 7 settembre 1945;
Anonimo, I massacratori di Belsen davanti al tribunale, “Corriere d’Informazione”, 18 settembre 1945. 25 A. Rossi-Doria, Memoria e storia: il caso della deportazione, Rubbettino, Catanzaro 1998, p. 38. 26 Cfr. Anonimo, La punizione dei criminali nazisti. Una commissione internazionale presidierà all’opera di giustizia,
“Corriere d’Informazione”, 29 maggio 1945;
Anonimo, 5 milioni di polacchi periti nel campo di Oswieciem, “Corriere d’Informazione”, 5 giugno 1945;
Anonimo, Gli aguzzini di Belsen, 18 novembre 1945. 27 Cfr. Anonimo, I massacratori di Belsen davanti al tribunale, “Corriere d’Informazione”, 18 settembre 1945;
Anonimo, Gli aguzzini di Belsen, 18 novembre 1945;
Anonimo, Il carnefice Meisinger arrestato in Giappone, “Corriere d’Informazione”, 7 settembre 1945;
Anonimo, La belva di Buchenwald catturata in Baviera, “Corriere d’Informazione”, 30 giugno 1945.
rispettabile. […] Quando, infatti, il tedesco si immedesima nella sua ordinata organizzazione statale,
l’individuo scompare: si livella, si uniformizza, si automatizza e diventa un maniaco a freddo che
soffre di una malattia nazionale, secolare e, malgrado tante esperienze, apparentemente incurabile”28.
Nella stampa italiana dell’epoca i tedeschi, soldati dell’esercito o membri delle SS, avevano sempre
un’immagine ferina, priva di ogni caratteristica umana, tale raffigurazione ha rappresentato un’eredità
della guerra colma di rancore e disprezzo.
Nei quattro articoli dedicati al processo alle guardie di Bergen Belsen non si riscontrano
riferimenti alla Shoah, né nei titoli né nei contenuti, infatti, anche se la descrizione delle condizioni
di vita e di morte dei lager risulta particolareggiata, rimane assente un’analisi complessiva.
Quando nel dicembre del 1945 le udienze del processo di Norimberga iniziarono a
concentrarsi sulle persecuzioni antiebraiche, Enrico Caprile ne parlò in due diverse corrispondenze.
L’articolo del 14 dicembre, pubblicato in prima pagina, fu il primo che trattò apertamente della
persecuzione, della deportazione e dello sterminio degli ebrei29. Nella prima parte del contributo, il
corrispondente scriveva che “il processo di Norimberga entra nel vivo delle atrocità antisemitiche
[…]. Il giudice Dodd riprende l’esposizione delle atrocità naziste passando a parlare di quelle che
hanno avuto carattere più orrendo e che sono costituite dai procedimenti di sterminio adottati nei
campi di concentramento di ebrei e prigionieri”. Riportando gli stralci dell’udienza, Caprile tracciava
alcuni quadri di quella che definiva “la terribile macchina della morte”, riconoscendo alla Shoah non
più solo la status di “carneficina”, bensì di macchinazione strutturata. Caprile continuava descrivendo
la sorte degli ebrei ungheresi: “Dodd ha una precisa documentazione sul numero degli ebrei deportati
nei paesi occupati dalla Germania. Egli riferisce che dalla sola Ungheria a tutto il giugno 1944 furono
deportati ben 475.000 ebrei. La quasi totalità di essi venne fatta passare attraverso le camera a gas
sotto il diretto controllo di un alto gerarca della polizia di sicurezza nazista di nome Eichmann”. Il
giornalista aggiungeva, inoltre, che “secondo precise risultanze rivelate dal giudice Dodd, l’Eichmann
28 Cfr. Mario Borsa, Ad redde rationem, “Corriere d’Informazione”, 30 maggio 1945. 29 Cfr. Enrico Caprile, Il metodo Kugel per lo sterminio dei prigionieri, “Corriere d’Informazione”, 14 dicembre 1945.
nella primavera del 1942 partecipò ad una conferenza a Berlino, nella quale fu deciso l’annientamento
totale della popolazione ebraica dei territori occupati. L’ordine era rigoroso e tassativo”. La
conferenza cui si riferiva il giornalista era la conferenza di Wansee, nella quale era stata ratificata e
pianificata la soluzione finale.
Il giornale iniziava, quindi, a rendere pubblici i passaggi fondamentali dell’attuazione della
Shoah. Il giornalista si soffermava poi sull’eliminazione delle prove, su ordine di Himmler, quando
era chiaro che la guerra era persa: “la terribile macchina della morte funzionò spietatamente per tutto
il periodo iniziale della guerra. Soltanto verso la fine Himmler cominciò ad avere paura della
punizione degli Alleati che avevano lentamente rovesciato la posizione militare, e non volle più
continuare nei procedimenti sommari. Anzi, fece di tutto per far sparire le tracce di ciò che aveva
commesso e ordinò che le camere a gas e i forni crematori fossero fatti saltare in aria con della buona
dinamite e che tutte le prove sparissero. Ma per fortuna della giustizia alleata l’ordine di Himmler fu
eseguito solo per metà, per cui Eichmann e Kaltenbrunner continuarono i loro massacri e altre
migliaia e migliaia di ebrei, deportati politici e prigionieri di guerra passarono attraverso gli orribili
sistemi escogitati dalla perfida mente criminale dei nazisti”.
Caprile concludeva la corrispondenza con la descrizione di alcuni episodi raccapriccianti
avvenuti nel lager: “il giudice americano cita anche fatti di una particolare repellente brutalità che il
pubblico ascolta con il cuore sospeso. Nel Natale del 1944 a Flossenburg i detenuti di quel campo di
concentramento furono costretti a assistere ad una scena macabra e rivoltante poiché il sentimento
umano e quello religioso venivano offesi. Accanto alle forche dove penzolavano i cadaveri dei
prigionieri condannati a morte erano posti grandi alberi di natale ornati con le tradizionali candeline.
La luce di queste illuminava la scena tremenda nel baluginio dell’alba. 14 aviatori inglesi e americani
salirono sulla forca, accusati di essere scesi con il paracadute all’interno della Germania per compiere
atti di sabotaggio. Ma non ci si arresta soltanto a questo. Il giudice Dodd ha mostrato in udienza alcuni
esemplari di pelle umana conciata a regola d’arte e che doveva servire per vari usi. La scoperta è stata
fatta nei campi di Dachau e Belsen, ma non è impossibile che anche negli altri campi sia stato fatto
lo stesso. Anche una testa rinsecchita di ebreo decapitato viene mostrata nell’aula. È una cosa
talmente disgustosa che un brivido di gelo percorre la sala”.
La seconda corrispondenza di Enrico Caprile era incentrata sulla distruzione del ghetto di
Varsavia30. Degna di nota la parte inziale dell’articolo, in cui il giornalista affermava che “continua
alla corte suprema l’esposizione delle persecuzioni naziste contro gli ebrei. È un argomento che è
noto in tutti i principali suoi particolari al mondo civile. Ma l’accusa ha avuto il merito di recare
nuove interessanti testimonianze per lumeggiarlo come si conveniva e per precisarne le storiche
responsabilità”. Il giornalista concentrava la sua attenzione più che sul reale avvenimento della
distruzione del ghetto, sul racconto di questo evento nelle pagine del diario di un generale delle SS,
un certo Struth. Caprile poneva l’accento sulla malvagità delle SS tedesche: “nessuna considerazione
umana e nessun sentimento di pietà trovarono posto nell’animo di quei carnefici in uniforme militare.
Essi si accanirono contro uomini e donne ebree con tale odio che non è possibile comprendere e
riferire. La scienza veniva posta al servizio della barbarie (…) uomini di questa fatta non potranno
più essere rieducati. Essi impesteranno del loro male tutto il popolo tedesco e tutta l’Europa”.
Nel processo di Norimberga “fu non solo posta tutta l’enfasi sulle sole colpe tedesche- anzi,
sulle colpe di un pugno di gerarchi nazisti- oscurando le responsabilità di altri regimi e altri popoli,
ma fu anche distorta la percezione della natura storica peculiare delle politiche antisemite che
maturarono in Europa ben prima dell’inizio del conflitto”31. In pratica, il processo fu parte di un
meccanismo dell’oblio funzionale alla costruzione di una nuova identità europea. Tutto ciò era di
aiuto all’Italia, sia dal punto di vista delle relazioni internazionali, sia da quello psicologico di un
Paese che asseriva, a gran voce, la sua incolpevolezza, la sua purezza e la sua naturale vocazione
antifascista.
Per completare questa analisi, è opportuno soffermarsi anche sull’organo di stampa ufficiale
del Partito Comunista Italiano, “L’Unità”. Come è stato spesso notato, in questo periodo storico il
30 Cfr. Enrico Caprile, Come venne spianato il ghetto di Varsavia, “Corriere d’Informazione”, 15 dicembre 1945. 31 Cfr. G. Schwarz, Ritrovare se stessi, op. cit., p. 127.
genocidio degli ebrei fu in qualche modo assimilato non solo alla tragedia della deportazione degli
oppositori politici e dei militari, ma alla più generale morte del senso dell’umanità e del ritorno della
barbarie generata dal conflitto. Il quotidiano comunista, come la stampa antifascista in genere, si
soffermò sulla sofferenza patita dai propri militanti nei campi d’internamento, senza riguardo per
l’appartenenza religiosa o nazionale. Per l’antifascismo, il simbolo delle barbarie naziste non era
Auschwitz, bensì Mauthausen e Buchenwald, i campi della deportazione politica.
L’attenzione del giornale fu rivolta, quindi, quasi esclusivamente verso i reduci dai campi di
concentramento di Buchenwald32, di Dachau33 e soprattutto di Mauthausen34, dove erano stati
internati, per la maggior parte, i prigionieri politici italiani, omettendo ogni riferimento al genocidio
ebraico.
La sorte dei prigionieri italiani era un argomento che destava il profondo interesse del
giornale, come dimostra l’editoriale di Velio Spano, pubblicato in prima pagina35 poco prima della
fine delle ostilità. Il direttore affermava che il problema dei prigionieri italiani in Germania, con
l’approssimarsi della fine della guerra, sarebbe divenuto uno dei più pressanti, ponendo importanti
interrogativi non soltanto nei confronti degli Alleati ma anche verso gli stessi italiani. È interessante
notare come Spano tratti preliminarmente dei soldati italiani catturati; infatti, affermava che era
giunto il momento “in cui noi abbiamo il diritto e il dovere di domandare se ci sia oramai più ragione
che i nostri prigionieri restino ancora in cattività. I prigionieri sono, è vero, dei soldati che hanno
combattuto al servizio di Hitler e di Mussolini contro le Nazioni Unite; ma essi non sono in ciò
32 Cfr. Anonimo, Gli orrori di Buchenwald, “L’Unità”, 19 giugno 1945;
Anonimo, Gli orrori di Buchenwald descritti da un reduce di Modena, “L’Unità”, 7 ottobre 1945. 33 Cfr. Anonimo, Tornano in Italia 2500 internati di Dachau. I nostri fratelli devono ricevere una degna accoglienza,
“L’Unità”, 1 giugno 1945;
Anonimo, 2500 internati di Dachau in viaggio verso l’Italia, “L’Unità”, 2 giugno 1945;
Anonimo, Dall’inferno di Dachau un reduce racconta, “L’Unità”, 4 giugno 1945;
Anonimo, L’odissea degli italiani prigionieri dei tedeschi, “L’Unità”, 21 giugno 1945. 34 Cfr. Anonimo, Siamo stati a Mauthausen, “L’Unità”, 26 maggio 1945;
Anonimo, Uno di Mauthausen: il regime di inumano lavoro, di fame e di brutalità cui erano sottoposti 2000 internati
italiani, “L’Unità”, 29 maggio 1945;
Anonimo, IL penoso viaggio dei primi reduci da Mauthausen, “L’Unità”, 12 giugno 1945;
Anonimo, I comunisti italiani di Mauthausen salutano il capo del P.C.I, “L’Unità”, 17 giugno 1945;
Anonimo, Compagni nell’inferno di Mauthausen, “L’Unità”, 23 giugno 1945. 35 Velio Spano, E i prigionieri?, “L’Unità”, 20 aprile 1945.
differenti da tanti di quei soldati appartenenti alle divisioni italiane che si battono a fianco degli alleati
e si battono secondo lo stesso insospettabile giudizio dei più autorevoli capi inglesi e americani,
ammirevolmente”. L’articolo continuava parlando dell’accoglienza dei reduci, molto spesso ricevuti
freddamente o con scherno; un simile comportamento era deplorato dal giornalista, che affermava
l’esigenza di una maggiore vicinanza, poiché “un milione di nostri ragazzi preziosi per l’avvenire del
Paese hanno sofferto in questi anni l’inferno in condizioni di vita assolutamente artificiali e quindi
assai più penose di quelle che gli altri italiani hanno dovuto sopportare. Bisogna capire questa tragica
verità. Bisogna quindi aprire le braccia a quelli dei quali invochiamo il ritorno e riprendere con essi
il cammino in un’atmosfera di collaborazione fraterna senza la quale l’Italia non potrebbe trovare la
propria unità e non potrebbe tracciare il proprio avvenire”. Anche un successivo articolo di fondo36,
pubblicato in prima pagina ma non firmato, ricalcava quello del direttore Spano.
È interessante soffermarsi su un articolo riguardante i reduci da Mauthausen, dal tono
apertamente celebrativo, al cui interno era inserita un’intervista a Giuliano Pajetta, futuro deputato
del Partito Comunista Italiano, ritornato dal campo di concentramento; “è tornato da noi Camen,
Giuliano Pajetta, un vecchio garibaldino di Spagna e galeotto di Pétain e abbiamo voluto chiedergli
ancora di Mauthausen. Ancora racconti di strage e di bieca ferocia, ma anche un raggio di vita. Là
dove gli uomini hanno sofferto e son morti, la fede non è stata spenta del tutto, nessun aguzzino ha
potuto impedire ai nostri fratelli di sentirsi degli uomini, dei compagni”37. Nonostante le torture
inflitte, tra le quali a Mauthausen erano famosi i “193 gradini del supplizio”, “in questi campi da
inferno è esistita un’organizzazione politica, si è lavorato, si è discusso, si sono reclutati nel nostro
partito i migliori di quelli che tenevano duro”. Giuliano Pajetta descriveva, dunque, l’origine della
sezione del Partito all’interno del lager; i primi a tesserne le trame furono i prigionieri cecoslovacchi,
seguiti poi dalle altre nazionalità, fino a formare una sorta di Internazionale Comunista nel lager, poi
allargatasi per accogliere anche internati di altra convinzione politica, come socialisti, cattolici e
36 Cfr. Anonimo, Quelli che tornano, “L’Unità”, 17 maggio 1945. 37 Cfr. Anonimo, A Mauthausen la ferocia non ha spento nei compagni la fede, “L’Unità”, 30 maggio 1945.
monarchici. Questo comitato allargato si occupava prima di tutto dell’assistenza agli internati, poiché
“bisognava vivere e salvare delle vite. Sottrarre ai magazzini e distribuire, fare che i pacchi venissero
distribuiti e nessuno ne fosse privo. Giunsero una sola volta dalla Croce Rossa e il comando decretò
che ai russi non toccasse niente. Allora, affrontando la morte, si passò di baracca in baracca e da
ognuno degli altri affamati si raccolse del cibo, perché i russi, i più affamati del campo, avessero la
loro parte di cibo e di solidarietà”. Poi, il lavoro politico all’interno del lager, “il campo di Mauthausen
ebbe le sue Gap e le sue Sap”.
Gli uomini della baracca venti non furono degli “spettri rassegnati”. “Che le vittime del terrore
hitleriano non fossero degli spettri rassegnati lo dice la tragica storia degli uomini della baracca venti.
Era un centro di eliminazione, lì si doveva morire, il trattamento infernale del campo sarebbe stato
per quelli della baracca una liberazione. Erano ufficiali superiori e commissari russi, paracadutisti
slovacchi, ufficiali tedeschi e francesi. Dovevano morire ma vollero combattere. Attaccarono il corpo
di guardia a scarpate, che non avevano altro mezzo, accecarono le sentinelle con gli estintori degli
incendi, poi passarono un muro di tre metri con una barriera elettrificata, uccisero ancora altre guardie.
Cinquecento uomini fuori, liberi. Liberi fino a quando le mute delle SS si scagliarono
all’inseguimento. Allora 400 furono catturati e trucidati. I superstiti disarmarono ancora una batteria
antiaerea e si sparsero per il paese a piccoli gruppi. I partigiani più temerari fra quanti che in Europa
si batterono per la libertà”. Essi rappresentavano, dunque, la prova che “la vicenda del lager non è
solo di angoscia disperata, ma anche di fede in un mondo migliore, che ha dato agli uomini,
nell’inferno, la forza di resistere e di combattere, che ce li ha restituiti minati nel fisico ma col
desiderio di lottare ancora. È la fede che ha sostenuto i martiri di Mauthausen nelle segrete e nelle
camere a gas. È una fede che nella vittoria e nella pace non possiamo tradire”.
Le uniche informazioni sulla Shoah furono fornite in modo scarno durante i processi di
Lüneburg38 e di Norimberga39. I titoli e i temi scelti dal giornale per descrivere le inaudite violenze
38 Cfr. Anonimo, Nel campo di Belsen c’erano mucchi di cadaveri, “L’Unità”, 20 settembre 1945. 39 Cfr. Anonimo, Sei milioni di ebrei morti ma Himmler non era soddisfatto, “L’Unità”, 15 dicembre 1945.
perpetrate ai danni degli ebrei e degli altri perseguitati sembravano avere la funzione di impressionare,
più che informare il lettore.
La tendenza della stampa antifascista, e della stampa in generale, ad equiparare le vittime
della persecuzione razziale a quelle della persecuzione politica portò in secondo piano la specificità
dell’Olocausto. È importante evidenziare che tale fenomeno fu molto articolato, infatti, deve essere
contestualizzato all’interno della più generale tendenza delle opinioni pubbliche europee a rimuovere
la memoria di quella vicenda, e soprattutto, il consenso o la complicità di ampi settori delle società
nazionali alle politiche di persecuzione e sterminio degli ebrei40.
I primi tentativi di riflessione sulla Shoah si svilupparono all’interno e in coerenza con il
cosiddetto “paradigma antifascista”, ossia con quella più generale rappresentazione, addolcita e
rassicurante, dell’esperienza vissuta dagli italiani durante il fascismo e la guerra41. Gli stessi ebrei
italiani, desiderosi di essere nuovamente accettati nella collettività, finirono spesso per accettare gli
stereotipi proposti dalla retorica antifascista42.
40 Cfr. E. Collotti, Il razzismo negato, in Id. (a cura di), Fascismo e antifascismo. Rimozioni, negazioni, revisioni,
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F. Focardi, Alle origini di una grande rimozione. La questione dell’antisemitismo fascista nell’Italia dell’immediato
dopoguerra, in “Horizonte”, IV, 1999, pp. 135-170. 41 Cfr. F. Focardi, La guerra della memoria. La resistenza nel dibattito pubblico italiano dal 1945 ad oggi, Laterza,
Roma-Bari, 2005, pp. 4 ss. 42 Cfr. G. Schwarz, Identità ebraica e identità italiana nel ricordo dell’antisemitismo fascista, in La memoria della
Legislazione e della persecuzione antiebraica nella storia dell’Italia repubblicana, Franco Angeli, Milano 1999, pp.
29-43;
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